FESTIVALI di Rossella Gaudenzi SOL7 SOL SOLE di Romina Ciuffa IL DRAMMA DEL TONNO di Flavio Fabbri Periodico di informazione, attualità e cultura musicale a cura del Saint Louis College of Music jazz ce l’ha nelle corde da sempre. Susanna Stivali, cantante, songwriter, compositrice, ha deciso di perfezionarsi presso il Berklee College of Music di Boston per respirare l’aria di puro jazz ed entrare in contatto con le personalità complesse, articolate che per questa musica e con questa musica hanno deciso di vivere. Tanto. Oltre a prender parte ai maggiori festival del settore, nazionali e non, e ad imprimere la propria personalità ai progetti che portano il suo nome, A secret Place e Piani diversi, impreziositi dalla collaborazione di artisti quali Lee Konitz e Ramberto Ciammarughi. (...) al nome s’intuisce che la natura degli Atome Primitif è sincretica all’origine. Si ispirano ad un monaco francese, in inglese cantano i testi, a Roma hanno iniziato a muovere i primi passi in musica ma vogliono l’Europa. Azzurra Giorgi (voce), Giacomo Ferrera (basso), Claudio Cicchetti (batteria) e Clelia Patrono (chitarra) hanno pubblicato il loro primo album ufficiale per l’etichetta indipendente Urban49, Three years, three days. Il titolo è un duplice riferimento alla fase della gestazione e ai tempi record di registrazione in studio: tre anni trovano sintesi in tre giorni. Il dramma di un tonno è il primo estratto, con un video che merita l’oceano. Mentre una grata arrugginita lo divide dal mare. Gli Atome Primitif hanno pinne per un’acqua europea, e non per una zuppa di tonno nostrana. (...) ro sul mio aereo ieri, sorvolavo la montagna. La nevicata del 17 dicembre, volevo vedere se è vero che i fiocchi hanno ali d’aliante e che ci sono delle città, dopo la neve, che si costruiscono sulle nuvole. C’è turbolenza, correnti ascensionali che mi sbattono su, giù, una danza con questa montagna di stucco che mi cuce addosso una samba. E mi prende, mi afferra con garbo, ha nelle mani i miei fianchi, nei rami le ali. Mi avvolge questo Monte Formaggio che ora sorvolo, e mi fa ballare. Un dono, la samba, farmi credere che c’è amore mentre è solo turbolenza, e più c’è samba più menzogna. (...) ¢ CONTINUA NELLA PAGINA JAZZ&BLUES ¢ CONTINUA NELLA PAGINA BEYOND ¢ CONTINUA NELLA PAGINA BEDTIME D Il E photocredit Ignazio Raso NUMERO 16 > Inverno 2011 PERIODICO DI INFORMAZIONE, ATTUALITÀ E CULTURA MUSICALE BED TIME SPECIALE FEED back DANILO REA CLASSICA MENTE ELEONORA PATERNITI Direttore ROMINA CIUFFA Direttore Responsabile SALVATORE MASTRUZZI Caporedattore Rossella GAUDENZI Redazione Flavio FABBRI [email protected] Rossella GAUDENZI [email protected] Valentina GIOSA [email protected] Roberta MASTRUZZI [email protected] Contributi Adriano Mazzoletti, Rita Barbaresi, Lorenzo Bertini Nicola Cirillo, Lorenzo Fiorillo, Alessia Panunzi Eugenio Vicedomini, Livia Zanichelli Music In Video Videointerviste Reportages Romina CIUFFA www.youtube.com/musicinchannel www.myspace.com/musicinmagazine Redazione Via Urbana, 49/a 00184 Roma Tel. 06.4544.3086 Fax 06.4544.3184 [email protected] Progetto grafico e fotografia Romina CIUFFA Stampa Ferpenta Editore srl Roma Anno IV n. 16 Inverno 2011 Reg. Tribunale di Roma n. 349 del 20/7/2007 STEFANO MASTRUZZI EDITORE ROCKOFF REM ALTNATIVE ER ZOLA JESUS SPUTANDO IL ROSPO bbiamo assistito impotenti all’applauso dirompente e certamente inconsapevole che deputati e senatori hanno riservato all’esibizione di Andrea Bocelli, gesto che, purtroppo, a pieno titolo rappresenta la capacità discernitiva musicale dell’italiano. Una voce, quella di Bocelli, che in un contesto operistico possiede lo spessore e la possenza di un ottavino, senza microfoni facilmente sovrastato da un tutti di flauti e clarinetti. Nel magico mondo della musica popolare, dove conta il contenitore più del contenuto (allitterazione ricercata), la voce bocelliana è un capolavoro del fuori contesto, ricordando un dilettante che mostra gratuitamente i muscoli in una competizione canora della periferia di Monopoli. Gratuitamente, perché non c’è alcun motivo sano per cantare con un approccio pseudo-lirico Tu scendi dalle stelle, A con un risultato tra il goffo e il grottesco che, quindi, in Parlamento merita l’applauso. Ma, in un contesto culturale come appunto quello parlamentare, è d’obbligo spellarsi le mani, un po’ perché lo fanno tutti, un po’ perché è politicamente corretto, molto perché «tanto non ci capisco nulla». Con tutti gli artisti che il mondo ci invidia, Camera e Senato dovevano invitare, in una sala che ci dovrebbe rappresentare tutti, proprio quei personaggi che al resto del mondo cederemmo volentieri? L’anno scorso la scelta di un pianista con i capelli dritti e la faccia disadattata ci costò diverse sedute di analisi; per le prossime edizioni sono in corso trattative riservate con i Righeira. Senza facilmente citare musicisti di grido sulla bocca di tutti, perché non pensare ai pianisti Pietro De Maria, Roberto Carnevale, Gianluca Cascioli, Roberto Prasseda? Perché quello stesso deputato che si commuove per il fraseggio di un pianista di terzo anno non li conosce affatto. Nessuno in aula ne apprezzerebbe le qualità e non sarebbero nomi spendibili nel telegiornale delle 20. Sputare il rospo, ecco cosa serve. Da trent’anni, cavalcando l'esempio (dis)onorevole di chi governa, il popolo, digerita la lezione sul fascino della mediocrità purché di chiara fama, elegge ex veline, ex calciatori, ex pornostar. Chissà che la maledizione non venga da lontano, dagli insegnamenti di nonni e genitori. Ci hanno sempre raccontato favole, dove la giovane fanciulla di umili possibilità contingenti sognava il principe azzurro. Perché no, sognare va bene. Ma perché un principe danaroso e non un operaio nero di pece o un metalmeccanico con le unghie sporche di grasso? Perché non sognare un minatore che tossisce respirando polvere o un operatore ecologico che si spacca per ripulire le strade? E poi un principe che non sa cantare. Si sogni il rospo, piuttosto. Ma la maledizione è un boomerang. Il principe è destinato a svegliarsi rospo il giorno in cui la musica sarà cambiata. Sarà armonica. Sarà rispettata. E non si potrà più bluffare con hit-parade, show televisivi o fenomeni da circo, un giorno tutti sapranno nuovamente distinguere il concime naturale dalla cioccolata. Perché ci vuole orecchio. Stefano Mastruzzi JAZZ & blues a cura di ROSSELLA GAUDENZI Music In ¢ NUMERO 16 > Inverno 2011 SUSANNA STIVALI Da donne a donna Emily Dickinson, Alda Merini, Patrizia Cavalli, Joni Mitchell, Billie Holiday, Gabriella Ferri, Frida Kahlo e molte altre, in giro per Zagarolo, Palestrina, Frascati, Monterotondo, Castelnuovo di Porto, Ariccia, Genazzano, fino a Roma. Le porta tutte con sé il canto di Susanna Stivali. ¢ CONTINUA DALLA PRIMA PAGINA > FESTIVALI a cura di ROSSELLA GAUDENZI FESTIVALI «P oco tempo fa, forse solo qualche giorno fa, ero una ragazza che camminava in un mondo di colori, di forme chiare e tangibili. Tutto era misterioso e qualcosa si nascondeva; immaginare la sua natura era per me un gioco. Se tu sapessi com'è terribile raggiungere tutta la conoscenza all'improvviso – come se un lampo illuminasse la terra!» (Frida Kahlo) Videoreportage www.youtube.com/musicinchannel usanna Stivali, cantante jazz, compositrice e socia dell’associazione culturale «Muovileidee», così racconta la genesi e la realizzazione di un ambizioso progetto. Un nome non casuale né superficiale, muovere le idee: contiene il concetto dello spostamento, della fatica e non ancora il risultato, quindi l’incompiutezza. La Stivali e un festival, meglio, una rassegna: Da donne a donna, alla sua prima edizione, ha spostato i monti: da Roma a Frascati, da Zagarolo a Castelnuovo di Porto, a Palestrina, a Monterotondo, ad Ariccia per terminare a Genazzano: otto location, altrettanti pregevoli palazzi storici, per quattordici incontri «in bilico» tra musica, poesia, letteratura, giornalismo, fotografia. Mia è la formula iniziale, sono da sempre un’appassionata di poesia e letteratura; la mia socia, Maria Luisa Celani, si dedica a cinema e audiovisivo. Avevamo in cantiere un progetto che fosse un mix di passioni e toccasse più campi dell’arte. Il soggetto è venuto quasi da sé. Viviamo un momento socialmente opaco per l’inquadramento della donna. Cercavamo di dar voce a chi non si rispecchia in ciò che accade e ciò che vede. Inoltre, ho la fortuna di conoscere artiste che hanno molto da dire e la voglia di omaggiare l’arte, in senso ampio. Chi sono queste donne? Inizialmente io e Maria Luisa. A seguire Angelica Caronia ed altre che hanno, per l’appunto contribuito con le proprie idee. In un paio di anni, il progetto ha preso forma. Da donne a donna è un progetto svolto con la collaborazione della Provincia di Roma; l’idea iniziale coinvolgeva le Biblioteche di Roma, per aprire all’arte spazi tradizionalmente votati ad altro. Abbiamo poi vinto un bando della Provincia, che ha finanziato per intero il nostro progetto e ciò è estremamente importante, perché significa poter offrire eventi a ingresso gratuito. Così l’arte e la cultura nella loro interezza, in maniera tale da coinvolgere musica, letteratura, poesia e fotografia, si sono spostate di luogo e sono state inserite in luoghi d’arte della provincia di Roma da riscoprire, una serie di palazzi storici, per il Progetto ABC Arte Bellezza Cultura. Tra queste strutture spiccano Palazzo Rospigliosi a Zagarolo, il Teatro Comunale Gian Lorenzo Bernini di Ariccia, le Scuderie Aldobrandini di Frascati, il Castello Colonna di Genazzano, Palazzo Valentini a Roma ed altri. Si può parlare di una riscoperta di luoghi meno frequentemente battuti dal turismo? Indubbiamente. Il contatto con il territorio ha messo sotto i nostri occhi una quantità di risorse maggiori rispetto a quanto comunemente si creda. Quindi, fatta eccezione per gli spazi specifici, il progetto è interamente nostro, rimanendo in linea con l’idea di accogliere l’arte in luoghi che di solito l’arte non l’accolgono. Stesso format ma spazi continuamente differenti, suggestioni del tutto diverse di volta in volta. È molto peculiare assistere alla reazione che suscita la lettura di un’attrice nella sala di un palazzo storico anziché in un teatro. A quali donne vi rivolgete? Rendiamo omaggio a quattordici artiste dalla personalità spiccata. Si tratta di un festival incentrato sulla comunicazione, innanzitutto, quindi commistione di generi. Muse ispiratrici del presente, eccezion fatta per (...) S GOSPEL È la lieta novella, quella che rassicura su tutto. Emily Dickinson, la scelta di quattordici artiste non è stata semplice. Alcune figure erano ben delineate, due intellettuali scomparse da poco ad esempio: Fernanda Pivano, una figura che ha fatto da «filtro» nel contatto con altre culture, apportatrice di pace e di speranz, e Alda Merini. Sul versante musicale, la scelta è caduta su rappresentanti di mondi distanti tra loro, personaggi che hanno influenzato il modo di fare musica: Billie Holiday e Joni Mitchell in primis, inoltre due figure da rivalutare, legate alla tradizione della musica popolare italiana, Gabriella Ferri e Giovanna Marini. Di estrema importanza è per noi il filone ecologistapacifista, quindi omaggi dovuti a donne come Vandana Shiva e Wangari Maathai. Citerei anche Patrizia Cavalli, poetessa molto amata, ironica, che alleggerisce un po’ il tono degli incontri. Infine, esemplari della cultura internazionale e rivoluzionarie nel sociale, come Anna Politkovskaja e Frida Kahlo. Tutto ciò per rendere omaggio alle donne non viste unicamente con uno sguardo al femminile; volevamo raccontare qualcosa delle donne dal valore artistico universale. La musica ha un ruolo preponderante. Quali musiciste hai deciso di portare con te? In alcuni casi si può parlare di concerti veri e proprio e la musica è l’indiscussa protagonista: talvolta si valorizza l’improvvisazione, talvolta l’interazione tra parola, poesia e note. Ho voluto innanzitutto la presenza di artiste che volessero mettersi in gioco: musica sì protagonista ma che deve mettersi in relazione con altre forme artistiche. In secondo luogo era necessario trovare voci adatte alle protagoniste da omaggiare. La domanda può risultare singolare: perché hai scelto Billie Holiday? Perché non racconta soltanto uno stile, ma come molti musicisti della sua epoca ha vissuto nel jazz un’esperienza di vita, legato alla razza e al sociale, e ancor più, ciò che hanno dovuto pagare la le donne della sua razza. Eccelso il messaggio artistico e fortissimo il messaggio di esperienza di vita. A chi va il tuo personale omaggio? Quale amante della poesia, ad Emily Dickinson e Patrizia Cavalli. La poesia fa lavorare sull’improvvisazione, quindi su un modo moderno di intendere il jazz. Ritieni che ci sia un legame tra l’arte e il dolore? Più che tra arte e dolore, scorgo un forte legame tra arte e coraggio. Coraggio e apertura che molte volte, poi, possono mettere in contatto con il dolore. Come ha risposto il pubblico, sino ad oggi, alla prima edizione della rassegna? Risposta ottima, così come la critica. Molto buona la considerazione da parte del presidente della Provincia Nicola Zingaretti e sorprendente la risposta del pubblico: abbiamo avuto il timore che il messaggio fosse troppo alto. Così non è. La gente è curiosa, ha sete, vuole sapere e fa domande su artisti a cui si avvicina per la prima volta. Noi abbiamo portato le donne tra le donne. ■ MUSE. Emily Dickinson, Billie Holiday, Giovanna Marini, Gabriella Ferri, Fernanda Pivano, Goliarda Sapienza, Oriana Fallaci, Alice Walker, Fatema Mernissi, Nawal Al Sa’Dawi, Simone De Beauvoir, Alda Merini, Anna Politkovskaja, Patrizia Cavalli, Vandana Shiva, Wangari Maathai, Joni Mitchell, Tina Modotti e Frida Kahlo. IN SCENA. Sandra Ceccarelli, Monica Cervini, Susanna Stivali, Elisabetta Antonini, Orsetta De Rossi, Angelica Ponti, Raffaella Misiti, Stefania Tallini, Gabriella Aiello, Sabrina Ramacci. MOSTRA FOTOGRAFICA. Maria Luisa Celani e Loredana Vanini. NOVELL A GOSPEL di Alessia Panunzi G rande classico: l’appuntamento con l’Auditorium Parco della Musica, che accoglie le calde e avvolgenti note del gospel con il festival più atteso dagli appassionati di questa particolare forma di blues, il Roma Festival Gospel. Giunta alla XV edizione, la rassegna propone undici appuntamenti, dal 19 al 30 dicembre 2010, con i migliori interpreti mondiali di Gospel & Spiritual provenienti dagli Stati Uniti e dal continente africano. Si apre quest’anno con la travolgente energia sprigionata dalla musica e dai colori dell’ensemble più acclamata dal momento: il Soweto Gospel Choir. Dall’inglese arcaico, gospel significa «buona novella» e le performance di questa formazione non potrebbero tradurre musicalmente in modo più appropriato gli inni di gioia e di fede che scaturiscono dai canti popolari e meticci di un coro la cui storia s’interseca inevitabilmente con quella travagliata e sofferta del Sud Africa. Esso infatti, sin dal 2002, anno della fondazione sotto la direzione di David Mulovhedzi (recentemente scomparso) e Beverly Bryer, ha preso costantemente parte a molteplici iniziative a sfondo benefico e sociale, il cui eco non ha fatto altro che incrementare il successo ottenuto presso il grande pubblico. L’ensemble vanta infatti numerosi riconoscimenti a livello internazionale, quali due Grammy e illustri collaborazioni con musicisti compositori come Peter Gabriel e Thomas Neumann in occasione della colonna sonora della pellicola animata Wall-E (Pixar, 2008). Il Soweto Gospel Choir si esibisce in 8 lingue sudafricane, portando in scena i migliori talenti vocali formatisi nelle molte chiese di Soweto, grande sobborgo sudafricano di Johannesburg, in un vero e pro- prio viaggio, appassionato e festoso, ma pur sempre profondamente legato alla spiritualità della loro terra e tradizione. Più contaminate e innestate da arrangiamenti contemporanei le altre formazioni proposte quest’anno dal festival, come il South Carolina Gospel Choir, Brent Jones & T.P. Mobb e Bridgette Campbell Gospel Singers, i quali, seppure con repertorio più vicino alle nuove generazioni, si propongono di portare avanti la tradizione afro-americana delle antiche folk churches, sette religiose che fecero proprie le note forme musicali del call-and-response, del clapping e del ring shout, arricchite ora dalle pregevolissime voci a cappella che ben si fondono con le cadenze blues, il ritmo del ragtime e le improvvisazioni jazz attualmente parte integranti della musica gospel. Il gospel, un tempo relegato ai margini della musica ecclesiastica, oggi è divenuto forza profonda della cultura popolare americana. Secondo la rivista statunitense Gospel Today, negli ultimi dieci anni sette major hanno creato al loro interno delle divisioni di gospel music; le etichette indipendenti sono aumentate del 50 per cento e il reddito totale della gospel music, relativo allo scorso decennio, è quasi triplicato. Per alcuni la gospel music è la musica nera. Per altri è semplicemente un termine che comprende vari tipi di musica religiosa-traditional, contemporary christian, urban contemporary southern, hip-hop, soul, R&B o rap; tuttavia, al di là delle facili categorizzazioni, è un genere che va ascoltato, vissuto e sentito, corporalmente e spiritualmente perché, citando un pensiero della stella del gospel, Inez Andrew: «Se non hai mai sentito la necessità di leggere la Bibbia, forse una canzone ti aiuterà a farlo». ■ DA DICEMBRE 2010 www.musicajazz.it il portale del jazz in Italia Interviste, articoli, recensioni, video, live e contenuti esclusivi. JAZZ & blues Music In ¢ NUMERO 16 > Inverno 2011 MY FAVORITE THINGS È stato il sax soprano di John Coltrane a inchiodare questo UMBRIA JAZZ WINTER Avete presente pezzo del 1961 all’immortalità: ripreso, stravolto e impreziosito per divenire pietra milia- quell’odore di caminetto e griglia, vino rosso e ODIO L’ESTATE Qualcuno jazz? finalmente ci spiega perché re del jazz, abbandonando le vie dell’hard bop e imbollando la strada del free jazz. LE MIE COSE FAVORITE ARMATA JAZZ di Rossella Gaudenzi 14 C minuti di jazz puro, la prima registrazione di John Coltrane con la Atlantic Records, reinterpretazione modale di un pezzo di Richard Rodgers e lunghi assoli sulla ripetizione di due accordi, mi maggiore e mi minore. E un grande classico, il film Tutti insieme appassionatamente, per ricordare cosa vuol dire famiglia e storia del jazz. oncentriamoci per un attimo cercando di ricordare la rassicurante voce spiegata di Julie Andrews nella commedia musicale The sound of music, diretta da Robert Wise, in Italia nota come Tutti insieme appassionatamente. Film datato - correva l’anno 1965 - che evoca famiglia, calore, buoni sentimenti, ma anche etichetta e bon ton. Film datato che resta a conti fatti uno dei film più visti di tutti i tempi. Merito della colonna sonora, musica di Richard Rodgers e testi di Oscar Hammerstein II: i motivetti cantati dalla famigliola dai tanti fratelli, orfani di madre, sono rimasti impressi ad almeno tre generazioni di pubblico, e proprio tra questi ci ritroviamo a fischiettare My favorite things - con buona probabilità ricordiamo la versione in italiano cantata da Tina Centi, Le cose che piacciono a me, ancor meglio di quella della brava Julie Andrews forse ancora inconsapevoli del fatto che stiamo fischiettando uno dei brani più famosi della storia del jazz. Dal movie al Natale, poiché questo è stato il passaggio successivo, rendere il brano una popolare canzone natalizia; e poi, ancora, dal Natale al jazz. È stato il sax soprano di John Coltrane a inchiodare My favorite things all’immortalità. Coltrane ha ripreso, stravolto e impreziosito, in un album omonimo del 1961, il brano in una versione in 6/8 della durata di quasi quattordici minuti, innegabilmente una pietra miliare del jazz, disco peraltro che sembra abbandonare le vie dell’hard bop per prendere la strada del free jazz. Formazione d’eccellenza che diverrà poi uno storico quartetto: John Coltrane al sax soprano e tenore, McCoy Tyner al piano, Steve Davis al contrabbasso ed Elvin Jones alla batteria a dar vita a ipnotici e memorabili lunghi assoli di pianoforte e sax, in linea con quella visione «policentrista» di Coltrane che offre ampia libertà espressiva ai suoi «compagni di viaggio». My favorite things continua ad incantare nei decenni e continua ad essere interpretata: dalla celeberrima versione cantata di Al Jarreau a John Zorne a Sarah Vaughan; da Barbra Streisand a Dave Brubeck, Wes Montgomery, Diana Ross, fino al piano solo di Brad Mehldau, in ordine sparso, per citarne solo alcuni. Anche il mondo della cultura più sofisticato non si è lasciato sfuggire questo unicum musicale: la redazione di Fahrenheit, trasmissione di Radio Rai3 ormai più che decennale ideata da Marino Sinibaldi, ne ha fatto il proprio biglietto da visita. My favorite things ne è la sigla e l’anima, proposta in centinaia di differenti versioni e arrangiamenti. Il palinsesto natalizio non ci priva del film Tutti insieme appassionatamente neppure quest’anno, in guardia perché alle prime note di My favorite things si vada istintivamente a cercare il disco di John Coltrane. Poiché, alle nostre orecchie, My favorite things fa ormai rima con jazz. ■ Q uando Paola De Simone si è messa a scrivere un libro dedicato a «Odio l’estate», il celebre brano italiano degli anni 60, non esisteva neanche un testo su Bruno Martino, che ne fu autore e interprete. Eppure il crooner italiano nella sua carriera ha collezionato tanti successi: non è un caso che proprio questo sia diventato il più famoso standard jazz italiano. Non c’è jazzista al mondo che non l’abbia suonato: da Joao Gilberto a Chet Baker, da Michel Petrucciani a Mina. Paola De Simone ha ricostruito la storia del brano attraverso un racconto corale. La vita e la carriera di Bruno Martino rivivono tra le parole della moglie Fiorelisa, di Jimmi Fontana, Renato Sellani, Sergio Cammariere e Fabrizio Bosso, ma soprattutto di Bruno Brighetti, autore del testo (rintracciato nel cuore dell’Africa nel pieno dei suoi 85 anni) e Vinicio Capossela, autore della prefazione. È l’Italia di quegli anni, i night alla moda e le strade polverose di tournée di provincia, un tassello di storia. È l’entusiasmo di una amante del bello e lo stile sobrio di una cronista d’altri tempi. ■ ODIO L’ESTATE di Nicola Cirillo di Rossella Gaudenzi O rvieto, una rupe di tufo assediata dal jazz, i Podestà, i Capitani del Popolo, i Signori Sette, l’opulenza dell’improvvisazione. XVIII edizione, dal 29 dicembre 2010 al 2 gennaio 2011. A partire dal 1993 Umbria Jazz raddoppia, fa spazio alla versione invernale e nasce Umbria Jazz Winter. La città della verde Umbria eletta ad accogliere cinque giorni di concerti - quelli più sacri ma anche quelli più festaioli - è l’elegante e fascinosa Orvieto, con la sua ricchezza storica e artistica. A far da cornice ai concerti le strutture più belle e preziose della città. Prima tappa, il Teatro Mancinelli. Edificio neoclassico, tra i migliori esempi architettonici di teatri ottocenteschi italiani, riaperto al pubblico nel ‘93, ospiterà il concerto di apertura nonché uno dei pezzi forti del festival, Chick Corea & Stefano Bollani duet; Roberto Gatto Quintet, Ray Anderson’s Pocket Brass Band, Brass Bang!. Seconda tappa, nell’opulento e lineare Palazzo del Capitano del Popolo, che si erge nell’omonima piazza, risalente alla seconda metà del XIII sec. Qui risiedettero i vari Capitani del Popolo, i Podestà e la magistratura dei Signori Sette, da qui, in tempo di guerra, uscivano gli armati in difesa della città. Oggi escono, dalla Sala dei 400 e dalla Sala Expo, Danilo Rea, Joe Locke con Dado Moroni e Rosario Giuliani, Quintorigo con Maria Pia De Vito. Armati. Tappa numero tre, Palazzo dei Sette, sede di un centro culturale, eretto alla fine del Duecento e sede dei Sette, i rappresentanti delle Arti, da cui si acce- de alla torre civica, nota come torre del Moro. Sarà il meeting-point ufficiale e sede dei concerti di Renato Sellani e Nick the Nightfly. Quarta tappa: la Sala del Carmine, ex chiesa del 1300 comprendente un convento, accoglie il concerto multimediale One hand Jack, una musica da Dio. La tappa numero cinque si fa a Palazzo Soliano, costituito da due grandi saloni sovrapposti; la sala inferiore è sede del Museo Emilio Greco, che ospita una collezione di sculture e creazioni grafiche e riceve la cantante americana Dee Alexander. La Messa della Pace del pomeriggio di Capodanno riempirà l’edificio più famoso e rappresentativo della località umbra, il Duomo, ideato da Arnolfo di Cambio in stile romanico, ma innovato e reso dal Maitani un esemplare di arte gotica, realizzato fra ‘300 e ‘500. Numerosi gli appuntamenti distribuiti tra il Palazzo del Gusto (orario aperitivo) e il ristorante Al San Francesco (per il cenone del 31 dicembre e gli eventi del Jazz Lunch & Dinner). Ecco tornati al punto di partenza: Umbria Jazz Winter 2010 chiude con il Top Jazz 2010 nel Teatro Mancinelli. Che non si dimentichi l’atmosfera di festa invernale: l’andremo a cercare nei vicoli orvietani più nascosti e magari innevati. Per incappare, forse, in una delle parate che rallegreranno le vie. In Umbria senza musica non c’è vera festa. > nella foto, i Guappecarto in un ristorante umbro nel corso di UmbriaJazz Estate 2010. ■ Stefano Mastruzzi CHITARRA, INFORMAZIONE E FORUM SU www.axemagazine.it Music In ¢ NUMERO 16 > Inverno 2011 a cura di FLAVIO FABBRI WAYWARDBREED L’intervista Sdoppiamento della personalità, racconti di metamorfosi, disperati afflati dell’anima, ossessioni per gli animali. DAVID BOWIE «Il mio cantante preferito è di gran lunga Lucio Battisti». Però. ROCK’N ROLL OF FAME Unica condizione: devono aver effettuato la loro prima incisione 25 anni prima della candidatura DI VALENTINA GIOSA LA PECORA NERA DI ROSSELLA GAUDENZI S ei miti antichi gli dei erano soliti trasformare gli uomini in cani, cavalli o anche alberi e costellazioni. Probabilmente Waywardbreed è la mia parte animale, quella che non ha paura. A differenza di Justin, che invece ne ha spesso. N U n chiaro esempio di sdoppiamento della personalità in un artista, ma in questo caso piacevolmente conturbante, arricchita da racconti di metamorfosi, disperati afflati dell’anima, passioni non corrisposte e singolari ossessioni per gli animali. Originario di Melbourne, Australia, Justin Avery aka Waywardbreed ha da poco pubblicato il disco Rising Vicious, album di debutto del suo primo progetto solista dopo anni di esperienze come bassista nelle band australiane The Dumb Earth, The Mime Set e The Spoils. La sua musica potrebbe essere definita uno sweet-gothic-folk proveniente da una stanza oscura e simile ad un irresistibile richiamo di un volatile nero dalle sinistre intenzioni. I suoi testi sono perle letterarie e tra gli autori a cui si ispira ci mette anche Italo Calvino e Primo Levi. Nel tour europeo, che lo ha portato ad esibirsi in Germania, Francia, Norvegia, Repubblica Ceca, Spagna e Svizzera, Waywardbreed non poteva saltare l’Italia di cui ama il caffè e il vino rosso. Quando è nato «Waywardbreed»? È nato un paio di anni fa, conseguenza di un periodo molto difficile. Mi sentivo incompleto, ciò che facevo con le altre band non riusciva a soddisfarmi, sia a livello musicale che personale. Perciò, un bel giorno, ho deciso di dare vita a Waywardbreed. Una voce interiore inascoltata per anni, ‘un altro me’ che non aveva alcun timore di esprimere finalmente desideri, paure, rabbia, odio e tutti i sentimenti più nascosti. Perché hai scelto questo nome? È un’espressione che mi capitò di leggere in un racconto di cowboys circa 10 anni fa. Mi colpì immediatamente. Quando la gente mi chiede cosa significa Waywardbreed non so mai che rispondere. È solo un nome di fantasia. Scrivere canzoni autobiografiche è poco interessante. Va a finire che tutti i personaggi hanno sempre a che fare con Justin e non si riesce mai a mantenere la giusta distanza. Waywardbreed invece sta ad indicare molte cose. Potrebbe significare, ad esempio, la pecora nera della famiglia. D’altronde a me piacciono molto le associazioni con gli animali. Nei miti antichi gli dei erano soliti trasformare gli uomini in cani, cavalli o anche alberi e costellazioni. Probabilmente Waywardbreed è la mia parte animale, quella che non ha paura. A differenza di Justin, che invece ha ne ha spesso. Quali sono state le tue esperienze musicali prima di Waywardbreed? Ho cominciato a suonare abbastanza tardi. Sono stato per oltre 7 anni un artista diviso tra fotografia e installazioni. Ho anche scritto dei racconti. Poi un giorno, alcuni amici che avevano una band, i The Dumb Earth, mi hanno proposto di suonare il basso. Loro erano sulla scena già da 10 anni e sono stati fondamentali per la mia formazione di musicista. Il leader della band, David Creese, credo sia uno dei migliori cantautori australiani in circolazione. Ho poi suonato con The Mime Set e infine The Spoils, con i quali ancora lavoro e che saranno di nuovo in tour in Europa nel 2011. Definirei la tua musica uno sweet-gothicfolk, cosa ne pensi? Direi che suona bene. In Europa si usa spesso nei miei confronti l’espressione singersongwriter, ma non mi piace molto devo dire. È un termine generico, un vestito troppo largo. Sweet-gothic-folk mi piace invece, almeno è fantasioso. Penso comunque che la mia musica sia in continua evoluzione e le etichette lasciano sempre il tempo che trovano. I testi qui giocano un ruolo molto importante. Come riesci a combinare liriche e musica, come nascono le tue canzoni? Sì, i testi sono sicuramente la cosa più importante. Sono uno che scrive molto, anche se non c’è una regola fissa. Diciamo che parole e musica escono fuori in momenti e in luoghi differenti. Raramente mi è successo di comporre tutto insieme. Musicalmente mi ispiro Leonard Cohen, David Bowie, Will Oldham, Tom Waits, Townes van Zandt, Patti Smith. Ma ci sono anche film e romanzi. C’è un libro in particolare, «Fugitive Pieces» dell’autrice canadese Anne Michaels, a cui penso sempre quando ho bisogno di trovare le parole giuste. Mi piacciono molto anche Raymond Carver, Primo Levi, Italo Calvino e W.G. Sebald. In quanto ai film, la lista sarebbe troppo lunga. Col tuo tour hai attraversato mezza Europa, che cosa pensi dell’Italia? Apprezzi qualche musicista italiano in particolare? Ci sono stato per pochi giorni soltanto e ogni volta non so proprio che aspettarmi. È un Paese che spiazza. Di sicuro si incontra gente diversa, si beve dell’ottimo caffè e del buon vino rosso. Un amico mi ha presentato Tiziano Sgarbi, conosciuto come Bob Corn, non più di un anno fa. Adoro le sue canzoni, degli autentici gioielli. Ho avuto modo di suonare con lui in un concerto a Berlino. È un uomo straordinario, con un grande cuore e un sorriso ineguagliabile. ■ MA GIA NE RA ono veramente sorpreso che le persone ballino sui miei dischi. Ma siamo onesti: il mio rhythm’n’blues è totalmente di plastica. Young Americans, l’album che comprende Fame, è un disco di soul di plastica. Sono i resti schiacciati della musica etnica come sopravvive nell’età del rock da sottofondo, scritta e cantata da un inglese bianco I ngannevoli suggestioni. Accade esattamente questo: basta una ristampa in doppia versione, speciale e deluxe, di un influente album di 34 anni fa e il carisma di un artista che risponde al nome di David Bowie, a riaccendere la speranza -speranza cieca, speranza disperata, speranza ultima a morire- di sentir parlare di un nuovo tour mondiale. 21 settembre 2010: per la EMI esce la ristampa del successo del 1976 del Duca Bianco Station to Station. Sei le tracce che compongono l’inconfutabile capolavoro del cantante britannico (Station to Station, Golden Years, Word of a Wing, TVC15, Stay, Wild is the Wind), registrate negli studi Cherokee di Los Angeles grazie all’apporto dei chitarristi Carlos Alomar ed Earl Slick, del tastierista Roy Bittan, del batterista Dennis Davis, del bassista George Murray e del vocalist Warren Peace. Nonostante l’album sia stato composto in un momento di crisi esistenziale per l’artista, il risultato è un’opera di successo in cui è forte l’influenza dalle band elettroniche tedesche dell’epoca e dall’R&B. Successo indiscutibile sia negli States che nel Regno Unito, nonché lavoro che ha fatto da anticamera allo storico «periodo berlinese». Station to Station come disco magico. Così definito dalla critica e dallo stesso Bowie: più di ogni altra sua opera contiene rimandi alla magia nera, cabala e cabala ebraica (citate le due sephirot Kether e Malkuth). Station to Station come disco cult. Alcuni brani del disco, oltre a Helden, versione tedesca del celebre Heroes, sono nella colonna sonora del film culto Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino (1981), nel quale Bowie appare nell’interpretazione di se stesso. Veniamo infine alle due versioni di questa ristampa. L’operazione è astuta e non poco, da perdercisi. La Collector’s Edition comprende triplo cd: album originale dal master analogico e concerto del ‘76 dal Coliseum di Nassau (Bahamas), più booklet con note a cura di Cameron Crowe e 3 cartoline dell’artista. La Deluxe Edition si compone di ben 5 cd e dvd, tre LP in vinile, più poster, spillette, riproduzioni di biglietti, stampe fotografiche, foto e molto altro, troppo altro forse, proprio da perdercisi. Ogni volta che esce un disco del Duca Bianco è davvero un evento e ora i suoi fan non devono fare altro che sperare in un suo ritorno anche dal vivo. «Il mio cantante preferito è di gran lunga Lucio Battisti»: però. ■ ROCK’N HALL OF FAME N on c’è più il vero rock nella Hall of Fame, ma a noi piacerebbe trovarci metallo, batteria, ritmi inascoltabili la mattina per poter dire che sì, è lei, la piramide della ribellione. DI ROBERTA MASTRUZZI G li ultimi ad entrare nella Rock’n’roll Hall of Fame sono stati i Genesis, gli The Stooges, Jimmy Cliff e The Hollies. Quest’anno potrebbe essere la volta di Tom Waits e Bon Jovi, ma la rosa è ampia e ci sono altri 15 artisti in lizza, tra cui Dr John, i Beastie Boys, Donovan e Neil Diamond. Stiamo parlando della Sala della Gloria e Museo del Rock and Roll di Cleveland, tempio americano della musica rock. Un luogo sacro troppo spesso profanato, verrebbe da pensare, visto alcune nomination che con la musica ribelle poco c’entrano. Ad un esame più attento notiamo, infatti, che tra i nomi di quanti hanno apposto la propria firma sul muro della hall, figurano personaggi più inclini al pop e alla musica commerciale, che non al rock duro e puro. Inserire, com’è successo lo scorso anno con gli ABBA, gruppi o cantanti universalmente riconosciuti come popular è da molti considerata una mossa orientata a favorire un maggiore afflusso di visitatori nella Hall of Fame. Tutti vorrebbero vedere il proprio artista preferito entrare di diritto nell’edificio di culto per rockettari, ma è il mercato ad avere sempre l’ultima parola. Viene infatti da chiedersi cosa c’entri Madonna con il rock e che fine abbiano fatto gruppi storici come i Deep purple e i Kiss, grandi assenti ingiustificati. Forse si tratta solo di aspettare altro tempo, ma è più probabilmente un difetto del sistema di selezione. Anno per anno viene presentata dai direttori del museo, tra cui Jann Wenner, fondatore della rivista Rolling Stones, una rosa di stelle del rock, viventi e non, che hanno lasciato un segno evidente nella storia della musica. Unica condizione: devono aver effettuato la loro prima incisione almeno 25 anni prima della candidatura. Per il resto, la scelta dei nomi viene a dipendere da una giuria di 1.000 critici ed esperti del settore che sceglie ogni volta i 5 prescelti. I nuovi ammessi alla Rock And Roll Hall Of Fame per il 2011 saranno annunciati durante la cerimonia ufficiale in programma al Waldorf Astoria di New York, il prossimo 14 marzo. Tra le nomination di quest’anno ci sono, oltre i nomi sopra elencati: Alice Cooper, LL Cool J, Donna Summer, Laura Nyro, Chuck Willis e molti altri. Noi abbiamo già scelto per chi votare. Ci pare che Bon Jovi e Tom Waits siano due voci che mancano nella hall. Si può non essere d’accordo e possono non piacere, ma certo nessuno può dire che non siano abbastanza rock. ■ Music In ¢ NUMERO 16 > Inverno 2011 THE WHO Tornai da mia madre, dissi: «Mamma R.E.M. Il bagno di mezzanotte, ricordo quella notte mentre arrivava settembre | mi sto struggendo per sono pazzo aiutami!». Lei disse: «So come ci si sente la luna | e cosa succedeva se ce n’erano due | fianco a fianco in orbita | attorno al più onesto sole | quella luminosità, che si diffonde nella notte | non può descrivere il bagno di mezzanotte. (Nightswimming) figliolo, è nella nostra famiglia.» (The Real Me) THEWHOCHI? Quelli del 1965, quelli dei 100 milioni di dischi venduti, quelli di un nuovo album DI FLAVIO FABBRI arlare di un gruppo come The Who significa fare un tuffo nella storia della musica rock britannica e mondiale. Il loro primo album è infatti del 1965 e porta il nome immortale di My Generation. Un’ode alla gioventù londinese, al movimento Mod, al rock&roll, che la rivista americana Rolling Stone decise nel 2004 si inserire all’11esimo posto delle 500 canzoni più importanti della storia della musica. Un riconoscimento tra i tanti ricevuti da Pete Townshend (chitarrista e autore della maggior parte delle canzoni), Roger Daltrey (voce), John Entwistle (basso elettrico) e Keith Moon (batteria), durante una lunga carriera da vere stelle del rock internazionale. Ora, superati i 100 milioni di dischi venduti ed entrati di diritto nella Rock&Roll Hall of Fame, The Who sono tornati in studio sembra per un nuovo eccitante album, il secondo negli ultimi 23 anni. Nel 2006 era infatti uscito Endless Wire (disco d’oro in Gran Bretagna e negli Usa), con le new entry di Zak Starkey e Pino Palladino a dar manforte agli unici superstiti della line up originaria: Townshend e Daltrey. Un nuovo viaggio, quindi, di cui ancora si sa poco e che nasce da un post pubblicato sul sito ufficiale del gruppo a firma di Daltrey. Nella nota si leggeva: «Non posso dire niente di più specifico, ma sappiate che ci sarà un tour in cui abbiamo programmato molto materiale del passato». Poi ha aggiunto: «Pete (Townshend) P a c c e l e ra t e e y e m o v e m e n t DI FLAVIO FABBRI C in questo momento sta scrivendo nuovi pezzi. Nessuno può dire quando avrà finito, ma sono sicuro che prima del tour avremo un nuovo album da pubblicare». Un 2011 che si preannuncia quindi davvero ricco di sorprese, per gli amanti del rock&roll d’autore, con i Rolling Stones che hanno già annunciato un poderoso tour mondiale per festeggiare i loro primi 50 anni di attività. The Who, inoltre, hanno ufficializzato per il prossimo anno anche la ristampa del celebre Live at Leeds del 1970, considerato da certa stampa come l’esibizione dal vivo più entusiasmante della storia del rock, che per l’occasione si chiamerà Live at Leeds: 40th anniversary superdeluxe collector’s edition. Al suo interno, oltre al cd dei brani della leggendaria serata inglese e alcune bonus track, tra cui il singolo inedito Summertime blues’/Heaven & Hell, anche un secondo cd che porta il nome di Live at Hull, ovvero l’esibizione della serata ■ successiva a Leeds. ollassa nell’Adesso. C’è qualcosa che dal sogno, la fase R.E.M., ti riporterà al più profondo te stesso, ora, accelerato, dolorante, e senza più punteggiatura. D opo trent’anni di attività i REM non hanno minimamente voglia di appendere gli strumenti al chiodo e il nuovo album Collapse into Now è previsto in uscita ad aprile del 2011. Si tratta del loro 15esimo disco in studio, senza contare i live e le raccolte, registrato negli studi di New Orleans, Nashville e Berlino. Proprio la città tedesca, una delle più cool d’Europa, sembra aver dato nuova verve alla banda di Athens (Georgia). Altra importante novità, pubblicata direttamente nel sito ufficiale di Michael Stipe, Peter Buck e Mike Mills, è il cambio del nome, dal tradizionale R.E.M, al più fluido e colloquiale REM. Praticamente sono stati eliminati i puntini, che da sempre stavano a ricordare il celebre acronimo che li contraddistingue fin dall’inizio delle loro carriera: Rapid Eye Movement. Una carriera di alti e bassi, coronata però da costanti successi di vendite e di pubblico ai loro tanti concerti che li hanno portati in giro per il mondo. Uno di questi, ad Austin nel 2008, è da poco diventato un dvd, Live From Austin, costola multimediale del tuor mondiale di Accellerate (2008). Un momento intenso per il trio americano che, oltre al nuovo lavoro in studio, sono atti- vissimi anche con altri progetti. Michael Stipe, ad esempio, da sempre sensibile alle tematiche sociali e civili, in casa e fuori, ha supportato in prima persona l’organizzazione «Free The Slaves», per combattere la condizione di schiavitù in cui decine di milioni di persone versano in tutto il pianeta. Dopo aver occupato i primi posti nelle classifiche Usa e del Regno Unito con Accellerate, i REM tentano ora di bissare il successo con questo nuovo disco che, da indiscrezioni del produttore Jacknife Lee (The Hives, U2, Snow Patrol, Weezer, Kasabian), sembra essere orientato su sonorità decisamente rock e su atmosfere tipiche della mitteleuropa. Quel crogiolo multiculturale e multietnico che, dopo il crollo del muro di Berlino, ha ritrovato forza e capacità di attrarre artisti da tutto il mondo. Un set di tracce molto meno sperimentali quindi e caratterizzate da un ritorno agli anni 90 del secolo scorso, quelli di Out of Time, Automatic for the People e Monster, tempi in cui c’era ancora Bill Berry (che poi ha lasciato l’attività nel 1995) e in cui i REM, in pochi anni, vendettero oltre 40 milioni di dischi in ■ tutto il mondo. ALNATIVE TER a cura di VALENTINA GIOSA & Music In ¢ NUMERO 16 > Inverno 2011 PORCELAIN RAFT Mario Remiddi Una tazza di porcellana perché non galleggia nell’acqua, ma in qualsiasi altro luogo si pensi ZOLA JESUS Potenti melodie romantic-dark, colonne portanti di un paesaggio sonoro algido e gotico ornato di synths glaciali e batterie riverberate BANG GOES PORCELAIN RAFT O DIVINECOMEDY a cura di Valentina Giosa riginario di Roma, Mauro Remiddi si trasferisce a Londra 10 anni fa. Dopo l’esperienza con la indie band Sunny Day Sets Fire, decide di dedicarsi a tempo pieno al suo progetto solista che aveva tenuto nascosto nel cassetto sin da bambino. Nasce così Porcelain Raft, una giostra colorata dove musica, parole ed immagini sembrano parlare la stessa lingua della purezza e del sogno. Music In ha incontrto Mauro durante il recente tour con i Blonde Red Head. Come sta andando il tour con i Blonde Red Head? Devo dire che mi sembra un pò un viaggio sulla luna. È tutto così intenso che è impossibile fotografarlo. Tantissime emozioni, colori, momenti bellissimi, ma anche assurdi, inaspettati, come alcune chiacchierate fatte con persone sconosciute sul treno. Sto inoltre imparando molto dai BRH, che sono delle persone stupende con una grande purezza di fondo. E ho visto come loro vivono davvero quello che stanno facendo. È come entrare in un vortice dove tu diventi quello che fai e questa cosa ti stanca molto ma più sei stanco e più sei te stesso, perché non hai neanche la forza di pensare o creare delle barriere. Credo ci vorranno un paio di mesi prima di digerire tutte le cose che sto vedendo e imparando in queste settimane. In fondo, mi sembrano un anno. Come è nata l’idea del tour? È stata una coincidenza perché alcuni dell’etichetta 4AD erano venuti a sentirmi suonare in un concerto a Londra (il mio sesto concerto; in realtà ho cominciato a suonare live con questo progetto da neanche tre mesi) e io non lo ignoravo. Quindi ho ricevuto una loro chiamata nella quale mi comunicavano che i BRH avevano scelto me fra una rosa di artisti proposti dalla 4AD come opening act per il nuovo tour. Quando è iniziato il progetto Porcelain Raft? Quando avevo 10 anni. I miei un giorno portarono un pianoforte a casa e così cominciai a suonarlo. Avevo un piccolo registratore a cassette dove incdevo dei piccoli show. Per esempio vedevo un cartone animato e tentavo di rifarne la musica recitandoci su. Con il tempo non ho più smesso. A1 6 anni ho cominciato a suonare nelle prime band, ma quando tornavo a casa continuavo a fare le mie cose come fossero due universi separati, da una parte la mia stanza e dall’altra il mondo reale, quello nel quale dovevo confrontarti con le persone. Fino a quando un giorno non mi sono arreso e mi sono detto: «E se facessi ascoltare quello che faccio invece di creare un alter ego? Perché non uscire nel mondo?». Con il mio Porcelain Raft faccio esattamente quello che facevo a 10 anni, ma con più strumenti, più esperienza. Ho solo deciso di farlo ascoltare. È la prima volta che espongo quello che faccio nella mia stanza. Perché hai scelto il nome «Porcelain Raft»? È semplicemente un’associazione di parole. Mi piaceva «porcelain» (porcellana) e «raft» (zattera). Ho cominciato ad unirle come facevano i Surrealisti che componevano frasi a caso. E questa combinazione era l’unica che mi suonava bene. Mi hanno fatto notare che una zattera di porcellana non potrebbe galleggiare sull’acqua ed ho pensato: «È il nome perfetto». Perché significa che non sta galleggiando sull’acqua, ma altrove. Oltre PR quali, sono state le altre esperienze musicali? Ho inziato a Roma a scrivere dei brani strumentali per cortometraggi. Poi ho cominciato ad avere delle band dove cantavo. Quando mi sono trasferito a Londra ho voluto espolorare la mia parte più divertente, ironica, cosa che non stavo facendo in Italia, dove era tutto un pò più «dark». Quindi ho creato con la mia amica Onyee i Sunny Day Sets Fire, dove suonavo anche la chitarra. Mi sono reso conto dopo allora che quello che stavo facendo in quella stanza stava diventando sempre più importante. Ho deciso così di abbandonare la band e seguire a tempo pieno questo progetto. Trovo ci sia una componente molto visiva nella tua musica, come se il suono disegnasse paesaggi sognanti animati di giostre e carrilion... Sì, decisamente sono una persona visuale. Anche quello che facevo da bambino con i cartoni era già strettamente legato alle immagini. Devo dire comunque che questo riferimento che fai alla giostra è pazzesco: mi C apaci di riprodurre un raffinato pop degno di artisti del calibro di Elvis Costello e costruirci un carosello di ritratti in stile vittoriano dalle atmosfere demodé con rimandi al genere musical, i Divine Comedy tornano sulla scena con Bang Goes the Knighthood. Il progetto nasceva nel 1989 per volontà di un introverso sognatore innamorato dell’Italia e del film Camera con vista, Neil Hannon, che aveva scelto il nome della band quasi per caso, pizzicando nella libreria dei genitori il titolo dell’epico poema di Dante La Divina Commedia. hai fatto venire in mente una foto di quando ero ragazzino, l’unica cosa che ho portato via dall’Italia. L’immagine ritrae me proprio su una giostra tutta colorata e attorno un paesaggio desolato di una zona periferica con palazzi grigi in costruzione. Ricordo che quando ho ritrovato la foto ho pensato che mi rappresentasse perfettamente. Per cui è assurdo che ora tu dica questo. È per questo, quindi, che anche i video svolgono un ruolo molto importante nella tua musica. È come se ci fosse un filo conduttore, come se video e musica fossero un linguaggio unico dove l’uno non esiste senza l’altro. Certo, alcune canzoni non potrei immaginarle senza video, è come se creassero una sorta di mappa e la canzone diventasse un luogo ben preciso; il video ti dà la foto dell’intero labirinto e ti fa capire il percorso, come si è arrivati fin a quel punto e da dove si è partiti. Sei tu stesso che li realizzi? Sì, tranne quelli per Dragon Fly e Talk to Me. Non ho una grande tecninca, quindi prendo delle immagini che mi piacciono, per esempio su YouTube, e non sapendo come importarle le riprendo con la telecamera sullo schermo e le edito successivamente. Nascono prima le canzoni o i video? Le canzoni. Anche se ultimamente sto cercando di realizzare video e canzone nello stesso giorno come fosse un corpo unico. Che tipo di strumentazione usi? Drum machines, keyboards, chitarra, effetti. Uso il computer solo come macchina per registrare e non a livello compositivo. Tutto il resto sono cose esterne. È tutto suonato. Vorrei portare dal vivo esattamente quello che faccio in quella stanza e non il computer perché non è uno strumento musicale. Quando porti il laptop sul palco è tutto troppo perfetto, suona come un cd, sei sicuro che tutto andrà bene ma questo è proprio quello che non voglio. Ciò che cerco è invece una sorta di pericolo nel suono. Qualcosa che suoni troppo alto o troppo basso per esempio. Ci sono degli artisti a cui ti senti vicino? Sicuramente, come attitudine, artisti come Atlas Sound o Beach House. È come se avvertissi un’emotività comune, la stessa energia silenziosa che non ti viene sbattuta in faccia. Cosa influenza la tua musica? Principalmente i film. Prima del tour ho riguardato molte cose di Tarkowski fra cui Lo Specchio e Stalker, non tanto per la poetica delle immagini ma per il modo in cui il regista racconta la storia, ciò che è esattamente quello che vorrei realizzare nei miei live. Nei suoi film c’è una netta diversità tra la realtàà e le memorie. E questo accade tutti i giorni. Noi stiamo facendo questa intervista ad esempio, ma tu vedi passare una persona con una giacca verde che ti ricorda magari una persona. Perciò tu mi ascolti ma la tua testa può allo stesso tempo viaggiare in una frazione di secondo nelle tue memorie. La storyline non è mai dettata dalla realtà, è come fosse un labirinto di cose che avvengono nello stesso tempo. Nei film di Tarkowski c’è una connessione fortissima fra il sogno e quello che accade veramente, e le due cose spesso non sono connesse. Vorrei arrivare ad avere questo nel mio set live. È ancora un work in progress. Sto tentando di capire come fare. ■ SIRENA JESUS R egina gotica, solitaria sirena dal look chicdark, conturbante incantatrice notturna e invocatrice di affascinanti e pericolose melodie apocalittiche, Zola Jesus non può certo lasciare indifferenti. La giovanissima cantautrice americana, cresciuta nel selvaggio Wisconsin, è certamente un’artista sui generis in bilico fra musica avantgarde, industrial, new wave, musica classica. A colpire al primo ascolto è innanzitutto la sua voce, intensa, glaciale e sensuale, antidoto perfetto per sedare tutte le anime inquiete allo scoccare della mezzanotte. Nika Roza Danilova (il suo nome all’anagrafe) ha ultimato da poco il tour europeo facendo tappa in Italia per una sola data a Milano in occasione dell’uscita del suo ultimo EP Stridulum pubblicato per la newyorkese Sacred Bones, disco sicuramente più «pulito» rispetto ai precedenti The Spoils e New Amsterdam. Qualificata come cantante di opera e ispirata dalla scena musicale sperimentale e underground (Diamanda Galas, Siouxsie Sioux, Cocteau Twins) e i filosofi esistenzialisti (è laureata in Francese e in Filosofia) si è fatta avanti velocemente arrivando a conquistare i riflet- DIVINE COMEDY Il terzo cerchio dantesco, l’avidità della finanza inglese tori grazie a potenti melodie romantic-dark, colonne portanti di un paesaggio sonoro algido e gotico ornato di synths glaciali e batterie riverberate. Le liriche cupe di I can’t stand (uno dei migliori brani di Stridulum, vera e propria «gemma nera» dell’intero lavoro di Zola Jesus), che recita sulle note cavernose del synth «It’s not easy to fall in love / But if you’re lucky / you just might find someone / So don’t let it get you down / Cause in the end, you’re only one» o di Lightsick («Do you wonder / what will we become / when our eyes close / on the starry ends / when we finish our rows / and the folds are dead /when the lights go out on us») rappresentano perfettamente l’approccio provocatorio e anticonformista di un artista che non ha nessuna paura di gridare al mondo la verità. «Per me è importante fare musica che in qualche modo inquieti», dice in un’intervista. «Molti decidono di mettere su un band solo perché adorano i party, la vita mondana e diventare famosi. Io non sono per niente interessata a questo. Non prendo droghe, non bevo. Tutto ciò che voglio è portare qualcosa di nuovo ed emozionante al mondo». ■ di Valentina Giosa NEIL HANNON Con Bang Goes the Knighthood l’irlandese ha voluto osservare con acuto cinismo lo scandalo finanziario e la decadenza sociale che ha travolto l’Inghilterra in questi ultimi anni; i ricchi borghesi e i falsi potenti descritti nel brano The Complete Banker ne sono un esempio lampante. Il disco non è forse il miglior lavoro se pensiamo ai precedenti Absent Friends e Casanova, ma la bravura e l’unicità dell’artista non sono in discussione. DI EUGENIO VICEDOMINI FEED BOOK Music In ¢ NUMERO 16 > Inverno 2011 CORRI AMORE CORRI (chiave di DIALOGHI INCIVILI Perché UNA GOCCIA PURA... basso) e il dolore, lì, vicino al cuore, si dis- la società si interroghi: chi è L’immersione di Jeff Buckley solve come (chiave di violino, 6/8, sol alto) Cristicchi?, e non: Cristicchi chi? nel Mississipi. La nostra in lui CORRI AMORE CORRI - RACCONTI CON MUSICA FEED BOOK Sono racconti (di Maria Inversi) musicati su partitura (di Massimo De Lorenzi). «Non è ampio il fazzoletto di cielo... non può più di tanto e impietrita (ah! sospiro)» è tra le pause. Poi riprende Vivaldi. Chiave di violino. Voce. «Corre e non sente il vento (pausa) corre il cuore batte forte (sono crome) Elena è il suo cuore (pausa) corre deve salvarla (terzine) il grido di Elena risuona ancora ah! ancora (terzina)». Ah! Ancora ah! (ossia croma, terzina, croma, tutti sol). In alto vola un elicottero. I filari di iris tremano, ondeggiano, si placano. Troppa rugiada fa male ai fiori. Chiave di basso, è Brahms a musicare Non voglio più ricordare. Primo ritornello solo violoncello pizzicato: «Mammina cara, è passato tanto tempo lo so... Non voglio più ricordare mamma, non voglio più». Poi Ravel, moderato, violoncello con arco: semibrevi di la, do, si, sol, la, do, si, introducono questo: «...scandiva il tempo, in ore precise del giorno (chiude la musica sfumando)... una piccola chiave lei l’aveva vista in un cassetto del comò», e pizzicato, crome di mi-la (quatta) ripete (il cuore furioso) ripete. Domani forse, violoncello, 4/4, chiave di basso. Lì accartocciato, le membra inarticolate... cosa gli è accaduto? (la musica rimane sotto il monologo, pianissimo sul ponticello). E le nostre canzoni... dimmi una parola, regalami un suono. (crome sol-re, semiminima si). Ti bacio qui e qui... Ti racconto la favola della fiammella. Sì, ti piaceva. Ecco. (semicrome sol-re, semiminima si). Un uomo è un lento da Monument de Saint-Jean. «Ma nessuno si accorse di nulla» (stop musica). La violinista. Veronica, adottata. «Voglio un violino». «No». Per anni. Voglio un violino, un violino, un violino! «La madre abbandonò le cipolle e il coltello che, con rumore sordo, s’adagiò nella zuppiera. Le bambine piccole non suonano il violino». «Io sì». Corpo e volto contro il vetro e lo sguardo dentro il giardino, oltre il giardino. Lontano, lontano da quella casa. «Ma ecco che tra un ramo e l’altro del pioppo intravide e poi vide il violino che, per liberarsi dai rami, scivolava danzando al ritmo di lunghe note affinché nessuna corda si rompesse né graffio si ferisse. Volteggiò alto e lesto nell’aria e poi giù piano piano a posarsi contro il vetro, contro il suo corpo. Allargò le braccia balzò sulla sedia aprì la finestra. Fu sulla spalla, l’archetto tra le dita si dischiuse, l’orecchio sulla mentoniera. Suonò. Non abitava più lì». Chiave di basso, una sola pagina di par«Corri amore corri» titura. Tutte minime, semiminime, di Maria Inversi semibrevi: non c’è fretta per delle Iacobelli Editore crome. «Sempre a quella finestra, non sognare, fa’ qualcosa». Violoncello con 12,00 euro arco. Chiude sfumando. ROMINA CIUFFA PO PCK pop&rock «Un musicista, se la propria musica comunica ed emoziona realmente, non ha nulla da spiegare e null’altro da aggiungere a quello che si ascolta nei suoi lp», diceva Lucio Battisti, motivando la propria ritrosia nei confronti delle interviste e dei giornalisti. Non aveva alcun torto. Sebbene, va ammesso, lui non fosse un paroliere: e così, raccontava le storie degli altri. Con fare (e malessere) universale. Resta ragionevole, tuttavia, la sua idea. Il musicista fa musica, e non è tenuto a spiegare nulla, né della propria vita né, tantomeno, di cosa i suoi pezzi vogliano dire oltre ciò che non arrivi a ciascuno, secondo interpretazioni assolutamente soggettive. Ciononostante uno ruppe l’embargo forzato con la stampa ed entrò nella sua anima latina, è il caso di dire, trascorrendo 5 giorni al Mulino, dove Battisti stava registrando Anima Latina, appunto. «Lui capì subito che io non ero un fan né un aspirante cortigiano. (...) Lucio sembrava quasi fare a gara, anche se inconsapevolmente, a scavalcarmi... a sinistra», scrive. L’intervista uscì su Ciao 2001; quel numero vendette più di 400.000 copie. «Nessuno poteva avvicinari a Lucio», specifica Alberto Radius. E andò così: a Battisti, con la forchettata di bucatini a mezz’aria tra il piatto e la bocca, Mogol chiese: «Ti farebbe piacere se Renato scrivesse un articolo su di te, sul nuovo lp?». «E di che cosa scriveresti?», si rivolse a Marengo. «Di musica, naturalmente!». «Se scrivi veramente solo di musica... perché no? Sento di potermi fidare di te». Mogol non si trattenne e urlò: «Bene! Bravo Lucio! Renato è riuscito a farti uscire dall’isolamento. Bisogna subito brindare». E questa è la storia vera di quell’intervista, non solo la storia di Lucio Battisti, ma anche quella di un grande peone della musica, come si è sempre definito Renato Marengo. Romina Ciuffa DELITTI ROCK ROCKO F F «I hope I die before I get old», cantavano gli Who nel 1965, a nome della loro generazione. Il rock ha sempre bruciato le stelle più luminose del proprio firmamento, coltivando una insana predilezione per il numero 27 (l’età) e la lettera J. Il famigerato club j27 (la trinità Jimi Hendrix, Janis Joplin e Jim Morrison) è una delle tante mitologie, forse la più duratura, a ispirare Delitti Rock, una lunga carrellata suddivisa in sequenza cronologica sulle morti più o meno celebri e più o meno controverse del rock. Membro fondatore del club fu Robert Johnson: se il rock è la musica del diavolo, è giusto partire da quel suo patto inaugurale con Satana siglato al crocicchio tra le Highway 61 e 49. La sua oscura vicenda fu la prima di una lunga «Delitti Rock» di Ezio Guaitamacchi Arcana Editore 16,65 euro serie: disfacimenti da popstar (Elvis, Jackson), sciagure aeree (Buddy Holly, Lynryd Skynyrd), annegamenti (Brian Jones), una lunga lista di overdose, colpi d’arma da fuoco (John Lennon, Curt Cobain), oscure trame paragovernative per eliminare le menti migliori di una generazione incendiaria. Il tutto raccontato col piglio asciutto di un’autopsia a freddo. Con un avviso ai naviganti: se il diavolo dà in cambio fama e denaro, «la miglior mossa di marketing per una rockstar», come recita il paradosso in quarta, «è morire giovani». Lorenzo Bertini ILLUSTRAZIONE: QUINT BUCHOLZ UNA GOCCIA PURA IN UN OCEANO DI RUMORE ROCKO F F Nella notte del 29 maggio 1997, Jeff Buckley si immerge nel Mississippi. Non è mai stato chiaro se il suo intento fosse quello di bagnarsi per l’ultima volta o se quanto gli accadde fu solo uno sfortunato evento. Era vestito, non era drogato, ne ubriaco. Un’onda anomala lo fece affogare e il suo corpo venne ritrovato in un canale 5 giorni dopo. Quella notte morì un giovane artista appena trentenne e vide la luce l’inizio di un mito. Gli venne cucita addosso la scomoda figura di «bello e dannato», come fu fatto con il padre, Tim, che il cupo Jeff quasi non conobbe, ma al quale assomigliava terribilmente. Ma forse Jeff era comunque destinato ad essere icona. Lo era fin da vivo. E lo si poteva intuire già assaporando il suo album Grace: alla pubblicazione, fan ed esperti del settore gridarono al miracolo. Era nata una stella, un’artista vero, completo. Con questo libro il giornalista musicale Jeff Apter, redattore di Rolling Stone, dipinge un ritratto del mito, che non si limita ad essere esaltazione e glorificazione, ma che descrive l’uomo in modo genuino e rispettoso e non solo il figlio d’arte. Non si limita a dissertazioni sull’animo inquieto del giovane e sul suo charme cupo, più il frutto di un’operazione «La vita di Jeff Buckely (...)» di Jeff Apter Arcana Edizioni euro 18,50 commerciale. Nella biografia, il giornalista chiama al banco dei testimoni i collaboratori di Buckley, i musicisti che condivisero con l’artista quegli anni energici e creativi, fatti di studi di registrazione e concerti live. E lo fa allo scopo di evidenziare il Buckley musicista. Confrontando il lato umano dell’arte, con tutti i suoi conflitti, ed il lato tecnico della medesima, fatto di note, spartiti e rime. Di tempi da rispettare e brani da comporre. Poi indaga. Non mancano interviste a chi lo ha conosciuto negli anni dell’esordio. Quando lavorava come lavapiatti nel Sin-é club di New York e si esibiva, nello stesso locale, subito dopo aver finito il turno. Nel libro non si eclissa neanche sui vizi dell’artista, che era incline a rifugiarsi nell’alcol. O sulle fobie e sui tormenti che una vita fatta di concerti ebbe su Jeff Buckley. Si descrive un uomo, un ragazzo. Uno zingaro. Una persona normale dalla personalità eccezionale. Un talento tormentato e quieto nello stesso tempo. Lorenzo Fiorillo DIALOGHI INCIVILI «Dialoghi incivili» di Simone Cristicchi Elèuthera Edizioni 16,00 euro PO PCK pop&rock LUCIO BATTISTI: LA VERA STORIA... «Lucio Battisti: La vera storia dell’intervista esclusiva» di Renato Marengo Coniglo Editore - 14,50 euro a cura di ROMINA CIUFFA È progresso se un cannibale usa la forchetta? Se lo chiedeva il poeta polacco Stanislaw Jerzy Lec. Quale valore e senso ha esprimere pensieri non omologati, critici, a volte scomodi, non funzionali alle logiche della società (in)civile? Questa la premessa. Simone Cristicchi e l’amico Massimo Bocchia («psicopompo», ossia accompagnatore di anime morte nell’oltretomba) partono da qui in questo volume che, oltre al cd Monologhi incivili (racconti di matti e minatori, soldati e migranti), contiene la storia del poliedrico cantautore. Alla fine, un libro di Cristicchi su Cristicchi, cui si aggiunge - come non bastasse - l’alter ego Rufus; a dire il vero uno stile poco comprensibile e la difficoltà di entrare nella lettura tra corsivi e nessuna indicizzazione (ma lo si dice dal principio: persino l’indice è provvisorio). È troppo presto per questo ex tombarolo (non scrittore): far scrivere di sé viene dopo, scrivere di sé ancora più tardi. Prima eventualmente scrivere degli altri, una classica strategia attraverso gli altri parlare di se stessi -. Ma un cantautore canta, si impegna nel sociale, sogna. Troppo pochi per lui i successi e molta la capacità mediatica che lo rende dimentico. Dalla sua ha la facilità della polemica, che lo conduce alla fama. Non basta. Non ha ancora incuriosito quella società incivile che critica perché lei spontaneamente si interroghi: «ma Cristicchi, chi è Cristicchi?». E non «Cristicchi chi?», che è tutt’altra cosa. Romina Ciuffa BRIGANTE SE MORE PO PCK pop&rock «Erano gli anni in cui ci toccava dare una mano per sottrarre all’anonimato quei perdenti che avevano perso due volte, una prima volta per la ragione delle armi e una seconda per le ragioni della politica, anzi, ancor di più, della Storia; e questa seconda sconfitta era l’antefatto dell’umiliante Questione meridionale e riguardava direttamente tutti noi ragazzi del Sud.» Il brigante parla un linguaggio incomprensibile e suscita rifiuto e diffidenza; è relegato al silenzio, mancano le voci dei combattenti meridionali sulla guerra del Risorgimento, la sua è la voce del perdente: «Dall’altra parte della barricata i briganti tacciono: dal fronte dei perdenti non ci giungono voci». Il brigante sta all’uomo come la strega sta alla donna, aleggia intorno ad ambedue luce di leggenda e di maledizione. La ribellione della popolazione meridionale all’invasione piemontese del 1860 è vicenda storica rimasta pressoché sconosciuta fino al sopraggiungere della ballata Brigante se more di Eugenio Bennato e Carlo D’Angiò. Il sodalizio artistico tra i due ha origini lontane. Lontani sono i primi anni Settanta, tempo dei successi dell’anticonvenzionale e felice Nuova Compagnia di Canto Popolare e lontano il giorno in cui, scioltosi il gruppo, nasceva Musicanova, nel 1976. Si ritrovano insieme in entrambe le formazioni ed esperienze, Eugenio e Carlo, e restano forti sostenitori della tradizione folk, alla ricerca delle forme e dei suoni significativi della musica del Sud Italia. «Brigante se more» di Eugenio Bennato Coniglio Editore 14 euro La ballata Brigante se more nasce nel marzo del 1979: è uno dei canti più popolari degli ultimi decenni della musica italiana. Il libro Brigante se more esce nell’autunno 2010 e ci racconta l’intera vicenda di un canto talmente efficace da scatenare nella memoria collettiva la convinzione di essere stato composto più di un secolo prima da un autore anonimo. Narra di come nella realtà la ballata sia stata commissionata nel 1978 da Anton Giulio Majano per lo sceneggiato L’eredità della Priora e di come gli autori siano riusciti a restituire un «canto di guerra»; narra di due versi maldestramente contraffatti con grave danno all’essenza del brano e della profonda ricerca svolta sulla canzone popolare e sul brigantaggio meridionale; narra di come la scelta della canzone popolare contenga in sé anche connotazioni ideologiche di costume e cultura. Rilevante, nell’opera di Bennato, l’attenzione rivolta alle foto e alle vite di briganti quali Ninco Nanco e Michelina De Cesare: uomini contro, come egli stesso li definisce, fatti fuori dal potere, al pari di Pancho Villa, Emiliano Zapata, Ernesto Che Guevara. Rossella Gaudenzi BEYOND &further a cura di ROMINA CIUFFA Music In ¢ NUMERO 16 > Inverno 2011 ATOME PRIMITIF Three years, three days Galileo Galilei aveva puntato il cannoc- EX CENTRALE TERMOEchiale verso i cieli immensi e aveva spiegato limportanza di guardare ciò che è piccolo, LETTRICA MONTEMARcostruendo l’occhialino. Questo gruppo, al microscopio, è più grande di quanto sembri. TINI Delirio onirico? ¢ CONTINUA DALLA PRIMA PAGINA > IL DRAMMA DEL TONNO a cura di FLAVIO FABBRI IL DRAMMA DEL TONNO Per un monaco francese, Georges Lemaître, l’universo ha avuto inizio da un atomo primitivo: lo spazio-tempo inizierebbe ad esistere solo dopo la sua disintegrazione. Il dramma di un tonno: una grata arrugginita lo divide dal mare. Così gli Atome Primitif, che meritano l’acqua europea, non di essere mischiati tra gli spaghetti italiani. Videoreportage w w w. y o u t u b e . c o m / m u s i c i n c h a n n e l (...) H anno certamente sofferto la gavetta dei live club della Capitale, dove nessuno paga e poco è anche il rispetto per chi suona, e conosciuto l’anticamera dei grandi circuiti internazionali, partecipando a Operazione Soundwave, il talent-show di MTV dedicato agli artisti e alle band emergenti. Il direttore del Saint Louis, Stefano Mastruzzi, e il produttore artistico Josè Fiorilli (tastierista per Ligabue, Irene Grandi e Velvet) ne hanno voluto premiare la dedizione, dando alle stampe il cd del debutto. La presentazione ufficiale, quindi l’invito del MEI 2010 ad esibirsi. I pezzi sono ora più rock (e la voce si sporca più volentieri con gli strumenti, come nell’iniziale Indu e in Machine) ora più impalpabili (Jan 7th, Concert in my head), poi una consapevolezza musicale più alta (Silver House). Ma il primo chiaro indizio di quanto può essere luminosa una stella generata dall’atomo primitivo è Tuna drama, singolo dell’album, tragicomica storia di un tonno che finisce condimento per spaghetti. Piccoli atomi crescono, eppure l’album d’esordio è già grande oggi, contiene sonorità mature che riportano ad autori (uno fra tutti, i Portishead) senza nulla copiare, e non si tratta di autodecantazione dell’editore per il suo stesso prodotto: la forza sta nel poter decantare senza «auto», per la sicurezza di aver, con questo gruppo, oggettivamente superato lo standard. Gli Atome Primitif sono una realtà a parte, che merita l’Europa. Il vero e proprio dramma di un tonno che non riesce a raggiungere il mare, causa una grata arrugginita. E il video di Tuna Drama è, indiscutibilmente, poesia di impatto emotivo praticamente intollerabile, come una forchetta a tre denti. Come nascono gli Atome Primitif? Clelia. L’intesa sui generi e il modo di suonare ha convinto me e Claudio a scrivere e fare musica assieme. La prima cosa che ci è venuta in mente è stata di creare un gruppo, e questo è stato possibile con l’arrivo di Azzurra e Giacomo. Abbiamo iniziato con le cover, orientandoci tra Massive Attack e Portishead, poi si è deciso di fare musica per conto nostro. Io iniziavo a realizzare programmazioni, Giacomo passava a casa mia e ci metteva sopra delle linee di basso, la voce di Azzurra si plasmava benissimo sul tutto e il resto è venuto da solo. Quando avete cominciato a scrivere musica? Clelia. All’inizio siamo stati obbligati a suonare come cover band. A Roma, più in generale in Italia, è difficile fare altro se vuoi tentare la strada del musicista. La nostra musica, quella scritta da noi, c’è sempre stata fin dall’inizio, ma per sopravvivere e guadagnare qualcosa abbiamo dovuto riproporre i classici per un po’ di tempo. Almeno fino a quando la qualità delle cose che componevamo in studio non ha cominciato ad emergere con forza e allora si è deciso, assieme, di passare ad altro e di investire il tempo esclusivamente nel suonare pezzi nostri. Quanto paga l’originalità nel mondo della musica? Giacomo. Speriamo che la qualità della nostra musica porti dei risultati anche economic e ci auguriamo che il disco vada bene, ma puntiamo molto all’estero perché cantiamo in inglese e siamo consapevoli del fatto che il genere che proponiamo non trova un gran terreno fertile in Italia. Contiamo di riuscire ad organizzare un tour all’estero nel più breve tempo possibile. Clelia. Certo, i riscontri della critica e del pubblico ci sono necessari. Personalmente però, credo che la conferma più bella è sempre nel renderci conto che stiamo crescendo professionalmente. I compromessi non ci piacciono e la produzione Urban49 ci ha lascito molto spazio sin dall’inizio. Di solito è il contrario, la prima cosa che ti chiedono è di sacrificare spinta emotiva e spontaneità, per far posto al prodotto. Con il Saint Louise e Urban49, invece, è stato diverso. Abbiamo la possibilità di esprimerci liberamente e questo è straordinario. Qual’è la natura degli Atome Primitif? Giacomo. Musicalmente parlando, molte persone ci associano ad una scena nordeuropea, per sonorità tipicamente islandesi o tedesche. Il disco in realtà suona molto più rock, con chitarroni e bassi distorti. C’è anche l’elettronica però e la psichedelica. In noi passa la musica degli ultimi venti anni, ma non è semplice trovare una collocazione precisa. Diciamo che sono più le contaminazioni a cifrare i nostri lavori che una categoria in particolare. Da dove nasce il nome della band? Giacomo. Con Clelia cercavamo un nome per il gruppo. Eravamo indecisi e alla fine, dopo aver letto un articolo su una rivista scientifica, sono stato attratto dalle teorie di un monaco francese relative alla nascita dell’universo, Georges Lemaître. Il fisico sosteneva che l’evoluzione dell’universo avesse avuto inizio da un atomo primitivo, Atome Primitif, da cui poi, attraverso quello che successivamente venne definito big bang, è iniziato un processo di espansione tutt’ora in atto dello spazio. Cosa pensate del vostro primo disco? Clelia. Una grande emozione. Una parte rilevante della mia vita è racchiusa in questo album. Spero solo che gli ascoltatori ne percepiscano energia e forza emotiva. A loro spetta l’ultima parola. Penso che dobbiamo molto a Josè, sia musicalmente, sia umanamente. Ma molto di più a Stefano Mastruzzi, che è stato il mio maestro di chitarra per sei anni. È stato lui che ci ha dato questa incredibile possibilità e che ha fatto in modo che Fiorilli ci aiutasse a crescere come persone e come musicisti. Senza di loro, in definitiva, non avremmo mai raggiunto Three years, three days. ■ POTHOS E LA CALDAIA di Livia Zanichelli A L’ chille sostiene Pentesilea morente davanti ad un motore diesel; il dio Pothos si erge in tutta la sua grazia di fronte alla parete di una caldaia; un alternatore fa da sfondo agli sguardi fieri di Eracle e Diomede. Delirio onirico? Assolutamente no. È Sala Macchine della Centrale Montemartini, perfetta fusione tra archeologia classica e archeologia industriale. ex Centrale Termoelettrica Giovanni Montemartini di Roma riapre le porte alla musica: le due rassegne Musica e Cinema e Unplugged ne animeranno, fino all’8 gennaio 2011, la Sala Macchine, recentemente allestita per ospitare spettacoli dal vivo. Il piacere della buona musica si unisce così alle suggestioni dell’insolito intreccio tra antico e moderno. Achille sostiene Pentesilea morente davanti ad un motore diesel; il dio Pothos si erge in tutta la sua grazia di fronte alla parete di una caldaia; un alternatore fa da sfondo agli sguardi fieri di Eracle e Diomede. Delirio onirico? Assolutamente no. Si tratta dello scenario offerto dalla Sala Macchine della Centrale Montemartini, perfetta fusione tra archeologia classica e archeologia industriale, che fa da sfondo agli eventi musicali in programma fino all’8 gennaio 2011 nella suggestiva location, situata in zona Ostiense. Prima tappa di questo pittoresco percorso trimestrale l’evento Musica e Cinema, un viaggio tra le indimenticabili melodie del cinema italiano. Dopo le note del Tema d’amore composto da Morricone per il film Nuovo cinema Paradiso, eseguite da Paolo Zampini e Primo Oliva, dopo l’omaggio a Nino Rota, dopo il cinema del premio Oscar Nicola Piovani interpretato dal Quintetto Cirano, l’horror di Claudio Simonetti, autore delle oscure e conturbanti colonne sonore dei film di Dario Argento. A dicembre al via la seconda parte del suggestivo itinerario musicale della Centrale Montemartini: la rassegna Unplugged ha come protagonisti importanti artisti indipendenti in acustico. Prima la voce graffiante e il pianoforte di Paul Millns, cantautore inglese che ha preso parte alle più importanti band blues statunitensi; al suo fianco il canadese Butch Coulter, straordinario specialista dell’armonica blues. Ci sono l’americana Elisabeth Cutler, di formazione rock, che si cimenta anche nella musica fusion e nel blues «bianco» accompagnata dal polistrumentista Filippo De Laura; Little Princess, voce solista in numerose colonne sonore prodotte da Mike Moran. Il gruppo italiano Silenzio Assenzio ha proposto ricercate sonorità in cui si intrecciano chill out, acid jazz, new soul, black-music, con impronte jazz-funk. Il gran finale è tutto di Tony Esposito e La banda del Sole, cantautore e percussionista partenopeo alle prese con polistrumentisti internazionali e su strumenti inconsueti come tamburi d’acqua, hang, osi drum e kalimba, per una selezione dei brani che lo hanno reso famoso in tutto il mondo, e le sue composizioni più recenti, caratterizzate da una minuziosa e fine ricerca in ambito percussionistico. Sui ritmi e sulle note di Tony Esposito si chiude questa breve stagione musicale: un percorso dai toni e dai tratti magici e onirici, che accoglie e avvolge il pubblico in una candida nuvola di irrealtà, allietandone i sensi attraverso il poetico contrasto tra antico e moderno, l’alternanza tra melodie a noi care e sonorità sconosciute. ■ BEYOND &further Music In ¢ NUMERO 16 > Inverno 2011 KIDDYCAR Can I have your desert, please? Ma certo, prendilo tutto, e portamelo via di qui. Distruggi le strutture che ho, rendimi del tutto libera di guidare una macchinina da ragazzina 3CHEVEDONOILRE Essere qui / nella baracca di latta / c’è un aereo in pista per me / e decollando il tempo che passa / se mi vuoi insegnare a atterrare voglio scappare da te KIDDYCAR I3CHEVEDONOILRE CHI HA PAURA DEL GATTO NERO? a cura di Romina Ciuffa a cura di Eugenio Vicedomini K la malinconia di Nick Drake, la sensualità di Serge Gainsbourg e le ipnosi elettroniche figlie della migliore tradizione teutonica degli anni Settanta. E un deserto altrui da desiderare. iddycar, Arezzo. Ossia una band indie-rock con una proposta musicale colta e sognante ricca di atmosfere sospese tra la malinconia di Nick Drake, la sensualità di Serge Gainsbourg e le ipnosi elettroniche figlie della migliore tradizione teutonica degli anni Settanta. Due dischi all’attivo (Forget About del 2007 e Sunlit Silente del 2009). Tantissimi riconoscimenti di stima, in Italia come all’estero, tanto che i KiddyCar sono stati presentati dalla BBC inglese come una delle band più interessanti di quest’ultimo periodo. Music In ha avuto il piacere di incontrare Valentina Cidda, voce del gruppo. Come e quando sono nati i Kiddycar? Dichiariamo il 2005, anche se il seme del progetto risale agli anni 90 da un trio composto da Stefano Santoni, Paolo Ferri e Roberto Bianchi, all’epoca Kriminal Bit. Il progetto fu poi abbandonato fino a quando, durante una tranquilla serata tra amici, mi fecero ascoltare alcuni brani, come Human Logic e The Dawn and the Fly. Me ne innamorai immediatamente. Scrissi testi e melodie e dissi: proviamo. Qual è il tuo background musicale? Vengo dal mondo della musica classica, ho studiato pianoforte al conservatorio fino all’ottavo anno e canto lirico. Che dire? Tutte le strutture che gli anni di studio avevano radicato in me mi sono state utilissime per imparare a lottare contro le strutture stesse. Ci ho messo molto a distruggerle ed essere libera. Il rischio di ogni percorso accademico è che esso inchiodi in qualche misura il cuore, lo spirito, il cervello, in direzioni obbligate incompatibili con l’arte. La creatività non si insegna ed ogni tecnica è utile solamente se sei tu a dominarla non, invece, se è lei a dominare te. Sono passati tre anni dal vostro primo disco Forget About. Cos’è cambiato? Siamo cresciuti, professionalmente ed umanamente. Di cose ne sono accadute tante: siamo più seri, organizzati ed uniti, e questo è anche dovuto al fatto che siamo seguiti e guidati da un grande manager, Alessandro Favilli. Siamo soddisfatti del nostro lavoro ma mai abbastanza: la regola d’oro è non assuefarsi mai a se stessi. La vostra musica ha un fortissima legame con l’indie-rock d’oltremanica unito a suggestioni retrò della Parigi Anni 60. Non a caso i testi sono principalmente in inglese. È una scelta dura da fare in Italia? Il problema è che spesso i musicisti italiani si muovono in base a due schemi: importano un certo modello internazionale, confezionandolo in italiano, e si ostinano nel tentativo di esportare un discorso cantautorale prettamente italiano, senza la minima preoccupazione di utilizzare un linguaggio universalmente comprensibile. Entrambe queste vie non portano lontano e si risolvono, nel primo caso, in una copia sbiadita dell’originale, nel secondo, in un prodotto di nicchia. Dovremmo smettere di lamentarci delle difficoltà ed incentivarci. Ed ogni volta che si scrive un brano occorre giudicarlo in modo distaccato ed autocritico per capire se può reggere un confronto a livello internazionale. Quante opportunità per gli artisti e gruppi alternativi vedi derivare dalla rete? La Xtal, etichetta che ha prodotto e stampato il nostro primo album in Giappone, ci ha scoperto e contattato proprio grazie a MySpace. Realtà come questa possono essere veicoli di straordinaria crescita e diffusione di progetti e di idee all’interno della rete. Ma alla fine è sempre la qualità che paga, che fa «accadere», e non sono i «50.000 friends». Per noi Internet è stato, ed è, un mezzo miracoloso. Quali voci femminili ti emozionano? In primis, la sacerdotessa delle tenebre, profonda e inquietante, con le sue atmosfere sepolcrali sospese nel tempo: parlo di Nico. Poi Janis Joplin, Siouxsie, alcune voci del postpunk come le Raincoats. Anche Beth Gibbons. Quale artista contemporaneo ascolti? Sufjan Stevens è stato per me una vera e propria folgorazione Ha creato il sound del 2000. Ho adorato DM Stith, il primo disco di Joanna Newsom e mi è piaciuto molto Heartland di Owen Pallett, disco assolutamente folle. Il consiglio per quelli come te? Nervi saldi, cuore aperto, consapevolezza, grande autocritica, umiltà, umiltà, umiltà e allenamento a sopportare la fame per periodi anche piuttosto lunghi. Hai già delle idee per il nuovo disco? Ovviamente, essendo il prossimo il terzo disco ufficiale (se escludiamo lo split con Christian Rainer) sentiamo un forte desiderio di innovazione e di rottura con quanto abbiamo fatto fino ad oggi. Ascoltiamo, fagocitiamo decine di dischi a settimana, vecchi e nuovissimi, e le contaminazioni sono molte. Il difficile, è riuscire a trovare un orientamento forte, il più possibile personale e nello stesso tempo coerente con ciò che i Kiddycar sono stati fino ad ora. Ce la faremo? ■ «s e fino ad ora ho perso tempo / e avre fatto meglio a fare presto / se ho visto gente crescermi addosso / c’è solo un modo per saperlo: essere qui adesso». Oggi ci sono. Il loro unico obiettivo è quello di scrivere 500 canzoni. Zappis, Carlo Fadini Hyper, MrFalda e Andrea Martellasno, «nati dalle ceneri di un radioso passato metamorfico alla fine del 2003», sono 3chevedonoilrE, romani vintage rock-punk che trasformano la musica popolare di protesta e i Beatles in un concetto fermo, l’estro comunicativo. Non c’è nulla da dire: i loro testi parlano da sé. Potrebbero, ciascuno di essi, costituire un racconto, qualcuno che in una tavolata attira l’attenzione su di sé facendo con la forchetta vibrare il bicchiere, e inizia: «Preso contatti con Heidi e Ramon, mi ospiteranno a Bonn, già un po’ mi sento uno di lì, piazza museo e brasserie». O a casa rompe il silenzio così: «Quel film è stato bello, sì ma troppo lento. E tu che mi evitavi e ci morivo dentro. I boxer che mi hai regalato hanno l’elastico lento. Potremo rifondare ogni tuo atteggiamento, potremo dare vita a un protomovimento». Le parole parlano da sole, dovrebbe essere normale ma non lo è. E qui di questi 3chevedonoilrE (che poi son quattro), il Re sono loro. I musicisti hanno un modo di pensarsi artisti simile a quello dei fotografi dell’era digitale. Ci piace quando ci chiamano «artisti»: fa venire voglia di metterti a fare il minatore. Solo che poi i piedi nudi te li sporchi di fuliggine e sembrano scarpe di gomma. 3chevedonoilrE nasce anche da questo distacco: si tenta di dissociare a favore della sorpresa, piuttosto che associarsi ai sorrisi (vuoti) dei musicisti professionisti. Comunicare in musica ci piaceva di più: cantare ti fa credere di passare delle informazioni. Non «pezzi» di informazione, ma l’integrità di notizie: emotive, ideali, giornalistiche o sussidiarie. Quando componi in questo modo, lo fai con un calcolo che è una cifra poetica, ma in fondo è solo leggera devozione alla parola e al suono. 3chevedonoilrE nasce da quattro storie e non da quelle di un leader, di un dittatore, di un deus ex machina, di un Re. Quattro storie separate e differenti, eroi musicali e letterari separati e differenti, modi di intendere la vita e la socialità separati e differenti. Rimaniamo legati l’un l’altro da un filo robusto, che ci permette di sorridere di tutto ciò che è serio e guardare oltre il profilo delle convenzioni, sghignazzare sulle classiche sonorità rock a favore della sorpresa e proporre una non consueta struttura di un brano apparentemente leggero. Musicalmente il progetto avrebbe dovuto essere differente. Nasceva un gruppo alla fine del 2003 che si prefissava di combinare insieme il gesto estemporaneo primitivo della crea- www.lifegateradio.it zione emotiva (di ispirazione informale) e la razionalità che ne costruiva i contorni. Le canzoni si costruivano sulla base di un’esigenza immediata, poi si lavoravano fino a renderle soddisfacenti. La musica era in parte elettronica e non era mai soddisfacentemente finita. Abbiamo passato mesi su svariati divani a parlare di cosa stessimo facendo, a stilare un nostro statuto. Abbiamo scritto moltissimi libretti ognuno per l’altro per far conoscere il nostro pensiero personale e farlo passare più velocemente che con il passaggio orale. Ci regalavamo libri e dischi da ascoltare per poter arrivare ad una consapevolezza maggiore reciproca. Poi abbiamo capito che, se concettualmente la musica partiva da un gesto primitivo prima di arrivare a forme contemporanee, di cui non avevamo ancora pienamente controllo (come la musica elettronica), era necessario tornare a fare ciò che veniva fatto negli anni 60 e 70, cioè scrivere canzoni (già lo facevamo) e suonarle con ciò che di più «primitivo» avevamo in mano e sapevamo domare: batteria, basso, chitarra e voce. Ma c’era ancora qualcosa che mancava. Qualcosa che all’inizio avevamo individuato nella ballabilità. I Beatles, i Beach Boys, le eccellenze di quel periodo ci hanno dimostrato che l’unico modo per arrivare alle persone che avrebbero ascoltato i nostri pezzi era il coinvolgimento, concetto semplice e vincente. Bisognava solo dire cose maledettamente serie, profondamente tatuate nelle nostre menti, e farle passare come canzonette divertenti. Prima o poi qualcuno si sarebbe soffermato su cosa dicevamo. Qualcosa come ciò che Calvino vedeva in Queneau, quel concetto di POP che Andy Warhol aveva sviluppato in un altro mondo. L’intento è questo: ridare al POP il suo vero valore aggiunto, non arroccandolo su quelle montagne di incomprensibili concetti arginati da idee vetuste e consumismo. L’amore per la forma canzone ha sempre caratterizzato tutto il nostro bisogno di trasmissibilità: i concetti più difficili possono passare in menti che ne sembrano immuni. L’album d’esordio, Nella Baracca Di Latta, è il frutto di tutti questi anni di lavoro e meditazione. Terminato nel 2010, si compone di 12 canzoni più una cover di Giorgio Gaber, L’Illogica Allegria. Abbiamo scelto di attingere indistintamente dalla scena vintage rock-punk, dalla musica popolare di protesta, dalle atmosfere beatlesiane. Ci siamo interessati più alla dissacrazione di certi cliché sonori della scena underground e pop, rinunciando ad apparire falsi eroi musicali. Scoprire e meravigliarci è quello che vogliamo fare di tutto ciò che gira attorno a noi, cogliere la realtà da un punto di vista diverso da quello che ci raccontano. ■ CLASSICA MENTE MENTE aa cura CIUFFA cura di di ROMINA FLAVIO FABBRI Music In ¢ NUMERO 16 > Inverno 2011 ELEONORA PATERNITI Skeggia Davanti a sé due percorsi apparentemente ossimorici: le percussioni e la lirica. I libretti operistici sono state le sue favole, la batteria il ritmo. Oggi è una delle più giovani registe operistiche in Europa, è autrice di «Mettiamoci all’Opera» e non la fermi. AMUSIA Per Che Guevara un tango e una samba erano esattamente la stessa cosa. di ADRI ELEONORA PATERNITI AKA SKEGGIA DI ata il giorno della nascita di Mozart, il 27 gennaio, Eleonora Paterniti soffre di un grave sdoppiamento di personalità. Davanti a sé due percorsi apparentemente ossimorici: le percussioni e la lirica. I libretti operistici sono state le sue favole, la batteria il ritmo. Nasco a Palermo al pianoforte, mi immaginavano avvocato. Sin dall’inizio con un grandissimo sdoppiamento della personalità artistica, metà legata alle percussioni e alla fusion, l’altra metà all’Opera lirica. Eravamo a Milano; i miei genitori avevano la preoccupazione che io non socializzassi e scelsero il pianoforte, ma crescevo percussionista. La prima ravvisaglia la ebbi verso i 4 anni, a casa di una zia, lirica al Massimo di Palermo: mise un disco al grammofono, nella sua villa al mare a Mondello, e si allontanò. Mi trovò riversa su me stessa, ed ebbi difficoltà a quell’età a spiegare che non riuscivo a contenere l’emozione di sentire la compagine strumentale, soprattutto i timpani. Quando sua madre la porta a vedere la Butterfly, lei indica il palco e dice: «Vedi mamma, la mia vita sarà quella». Per me i libretti operistici erano favole e ricordo la visione che di essi avevo da bambina, non del tutto smaliziata ma con la giusta dose di cattiveria e di bontà: oggi, come regista, le ripropongo esattamente con quella visione, che ho perfettamente presente. Dopo 8 anni dice no alla lezione di piano ed esclama: io sono una percussionista. Volevo gli strumenti a casa, mi ero documentata su tutto e iniziai un’opera di persuasione da terrorista. Non nego che i miei studi pianistici mi hanno aiutato: oggi gli allievi pianisti sono meri esecutori, e se ne demolisce l’istintività, la passione, in favore della dipendenza alla lettura e all’insegnante. Nessuno sa suonare se non ha uno spartito. Il metal. Avevo 10 anni quando, a Caserta, mi recai di testa mia da un metallaro, l’unico che conoscevo che in quel momento poteva mettermi a disposizione una batteria. Cominciammo con Led Zeppelin e Green Day, e quando mi mise davanti la grafia per la batteria, io che arrivavo da una lettura pianistica cominciai immediatamente a suonare da esperta. Più avanti mi accorsi di molti limiti in quel percorso, anche gli ascolti più elevati che facevo, le electric band, John Patitucci, Dave Weckl, Vinnie Colaiuta: non ero una metallara. Il Conservatorio. Facevo il liceo scientifico intanto, e decisi per il Conservatorio. Era l’anno del diploma ed ero al limite dell’età per accedere; entrai alla svelta, un solo posto disponibile ed unica donna percussionista, al San Pietro a Majella di Napoli durante la direzione di Alberto di Simone, quindi quella di Vincenzo De Gregorio. Ho condotto un percorso meraviglioso con i miei compagni: eravamo i Percussion Time, gruppo storico nato prima da grandi percussionisti della tradizione italiana, che poi è passato a noi giovani. L’immobilità. Ebbi un grave problema al ginocchio e dovetti interrompere per anni il mio lavoro da percussionista, così perfezionando solo ciò che mi era permesso di fare: lavorando con le mani, avvicinandomi alle percussioni afro-cubane e allo studio dell’Opera e della Lirica, salendo sul palcoscenico di prosa. Ho chiesto di poter entrare nei teatri e guardare, imparando i mestieri del tecnico, del macchinista, della figurante e qualunque cosa che mi avrebbe avvicinato al teatro lirico un domani. All’interno del Conservatorio studiavo Drammaturgia lirica. L’immobilità ROMINA CIUFFA N Videoreportage w w w. y o u t u b e . c o m / m u s i c i n c h a n n e l photocredit Ignazio Raso mi ha portato a legarmi di più alla scrittura e alla lettura. Il ritorno. Ero terrorizzata dal rientrare in Conservatorio o in un teatro; mi sono ritrovata un giorno a suonare di nuovo la batteria senza rendermene conto, davanti a Gennaro Barba e a suo figlio Mariano, presso i quali ho vissuto per più di un anno. Intanto, in una tournée di Jovanotti, «L’albero», ne conobbi i percussionisti e strinsi amicizia con Pier Foschi ed il genio poliedrico Daniele Di Gregorio, che mi diede la forza di proseguire nella musica. Il mio maestro di Conservatorio, Vittorio Buonomo, mi chiese di assisterlo in alcune lezioni in Accademia per bambini dai 3 ai 7 anni, poi mi lasciò la gestione del corso. Li ho seguiti per moltissimi anni, oggi son tutti percussionisti della prima Orchestra giovanile del Teatro dell’Opera di Roma e stanno ultimando il Conservatorio. Con loro ho imparato il mestiere. L’Opera. La mia tesi fu, non a caso, sul Don Giovanni nella storia. Poi varie coincidenze. Intanto andai a vedere una Butterfly e capii di non poterne fare a meno. Poi vidi un manifesto a Caserta, dove ero andata a trovare i miei, su un congresso di Lanza Tommasi, allora sovraintendente del Teatro San Carlo. Quando lo vidi gli misi in mano una busta con poche notizie su di me, avevo solo 20 anni. Lui mi disse subito: «Non posso farla entrare nel coro». Lo tranquillizzai, non era mio interesse. Ma Alexis Bulgari, allora suo braccio destro, mi chiamò a un’audizione per figurante per l’Opera e passai come riserva, utilissimo per me perché avrei potuto guardare tutti gli spettacoli dalla platea senza esser protagonista sulla scena. Così rifeci amicizia con R CHEESECAKE di Romina Ciuffa Re Alfonso XIII di Spagna, Che Guevara, Maurice Ravel: tutti affetti da amusia. E troppo spesso li invidio. RIONE MONTI - Via Madonna dei Monti, 28 06 6990968 - [email protected] e Afonso XIII di Spagna era incapace di riconoscere una canzone da un’altra: per lui una marcia funebre equivaleva a qualunque altro pezzo. A dire il vero accade anche a me, che non riesco a distinguere uno degli ultimi motivi pop da un pianto. Ma non sono affetta, come lui, da amusia. Non so se considerarlo un fortunato: probabilmente oggi lo sarebbe più di ieri. Uno dei primi casi descritti, nel 1878, fu quello di un uomo che parlava del suono di un pianoforte come di «una nota musicale, più un tonfo sordo e rumore di fili metallici». Descriverei in questo modo molti dei pezzi che ascolto. L’amusia è l’incapacità biologica, in assenza di alterazioni della percezione uditiva elementare o di turbe intellettive e linguistiche, di comprendere, eseguire ed apprezzare la musica, patologia neurobiologica acquisibile (per danni cerebrali ad esempio, tanto che i primi studi furono condotti sui cerebrolesi nel 1962) ovvero congenita per l’irregolarità nel funzionamento dell’emisfero destro del cervello, prima invece imputata solo al nervo acustico e alla corteccia uditiva sita nei lobi temporali sopra le orecchie. Le cause non sono psicologiche, ma anatomiche. Un amusico non è uno stonato né riesce ad avvertire le stonature proprie o altrui. Nei casi più gravi è del tutto incapace di sentire la musica, o la avverte come un orribile frastuono. Ne è affetto circa il 4 per cento della popolazione. Tra i quali Che Guevara, che non sapeva distinguere alcun genere musicale tanto che, in un’occasione speciale, ballò un tango appassionato mentre tutti danzavano a ritmo di samba. Il compositore Vissarion Shebalin fu vittima il teatro. Mi portai a casa un tesoro: superai la barriera, imparai moltissimo, strinsi ottimi rapporti con Lina Polito, che mi fece chiamare per lavorare a una commedia insieme in qualità di attrice. Di fatto non ebbe mai una messa in scena, ma ebbi la possibilità di lavorare con una regista operistica, quindi mi spinsi a fare la stagista pur di lavorare a Roma con il maestro Gianluigi Gelmetti per il suo Barbiere di Siviglia e con lui è nata una fortissima collaborazione artistica: ho lavorato, tra l’altro, al suo Tristano e Isotta messo in atto al Teatro Carlo Felice di Genova; abbiamo riaperto, dopo l’incendio, il Teatro dei Rinnovati di Siena con la Traviata; mi occupo del coordinamento artistico dei corsi di Direzione d’Orchestra da lui diretti nell’ambito dell’Accademia Chigiana di Siena. Progetti e TV. Intanto scrivo per il teatro musicale. Ultimamente ho firmato la regia per Anna Bolena al National Theatre di Tirana, quella del Barbiere di Siviglia a Coliseu du Porto, in Portogallo. Sono autrice del programma in prima serata Rai1 «Mettiamoci all’Opera», il primo talent show per giovani promesse della lirica della televisione italiana. Sono consulente della direzione del Tg2 e ho realizzato, nell’ambito dell’edizione Tg2punto.it, lo spazio settimanale dedicato al mondo della lirica, curando la scelta dei brani e la selezione dei musicisti e dei cantanti che si esibiscono in diretta. Così ho conosciuto il paroliere Pasquale Panella e la lirica Daniela Dessì, la stessa che mi fece innamorare dell’Opera da bambina. Per il teatro produrrò verso marzo lo spettacolo «Tommy» al Belli di Roma e al Libero di Milano. Sto lavorando e collaborando con Ivana Noto dell’I.P.C., Iniziative promozioni cinematografiche di Roma, alla diffusione di un paio di progetti che riguardano Anna Bolena e il Barbiere di Siviglia, che si presentano assolutamente innovativi e rivoluzionari; prossimamente sarò anche impegnata in Francia nell’ambito del Festival «Liricamente vôtre» con la Traviata. Perché la Paterniti. Odio la sciatteria, ma so che le opportunità non vengono date facilmente, so di non essere unica. Credo invece di esser stata fortunata, ma anche di aver ragionato e compiuto i miei passi sempre sentendoli dentro, avvicinandomi a persone da cui ho imparato tutto. Ora che faccio regia operistica uso tutto il bagaglio che ho: non riesco a fare una regia se non in partitura, e non amo dare segni innovativi. Riverso nei miei prodotti la visione di quella stessa bambina che per la prima volta leggeva i libretti come favole. E continuo a riversarmi su me stessa quando sono «all’opera», e a vivere la musica con quello stesso sdoppiamento della personalità che mi ha fatto divenire una «Skeggia». Che è il soprannome che mi hanno dato. ■ di un ictus che gli tolse quasi del tutto la capacità di parlare e di capire il linguaggio. Nonostante ciò, continuò a comporre almeno 11 opere maggiori tra sonate, quartetti e arie, e a insegnare ai propri allievi, ascoltandoli e correggendone le composizioni; e Maurice Ravel, via via che la sua malattia al cervello avanzava, si diceva in grado di comporre la musica nella testa ma incapace di fissarla sulla carta. Per il neuroscienziato Steven Pinker la musica, per il cervello, è «poca cosa», è un «auditory cheesecake», solo una ghiottoneria: i soggetti perfettamente stonati vivono una vita normale. Mentre le scimmie non hanno avversione per gli accordi dissonanti o per suoni sgradevoli - le unghie su una lavagna o il metallo sopra un vetro - e preferiscono i ritmi lenti, di più il silenzio. Ghiottoneria, fronzolo, dolcetto per l’orecchio, ma da Darwin a John Blacking (1973, Com’è musicale l’uomo?, per cui la musica è «qualcosa che risiede nel corpo e attende di essere espresso e sviluppato») c’è questo: sono rare (o nessuna) le cose del nostro cervello che appaiono superflue o di mero divertimento, incluso il divertimento stesso. Il cervello risponde alla musica sin dal feto (riposa al ritmo materno), i bambini nascono in qualche modo musicisti (sanno riconoscere note, accordi, scale diverse suonate a distanza di giorni), ed è indiscutibile che un tamburo, la tromba di guerra, il corno o danze tribali abbiano un ruolo comunicativo antico, pre-verbale. Lo stesso messaggio di richiamo, sfida o corteggiamento di molte specie animali (quello luminoso delle lucciole o sonoro del cervo e del lupo) è costruito sul ritmo, sul timbro e sulle note. Negli essere umani il centro di Wernicke, specializzato nella parola, decodifica il segnale musicale in entrambi gli emisferi e lo trasmette senza mediazione al corpo (danza) e al sistema neurovegetativo (ritmo cardiaco, conduttanza cutanea, pressione arteriosa, richiamo sessuale) ed endocrino (ACTH, ossitocina, vasopressina). Per verificare il livello di amusia, si può fare il test elaborato da Isabelle Peretz, dell’Università di Montreal, qui: www.delosis.com/listening. Esso presenta 30 coppie di motivi musicali, esattamente uguali, diverse o leggermente diverse. Otto minuti per capire se le lezioni di canto sono soldi buttati. A meno di non voler emulare Lorence Foster Jenkins, la soprano di Philadelphia che, amusica, divenne celebre in un modo anticonvenzionale: nonostante la sua palese mancanza di abilità, era fermamente convinta della propria grandezza e distribuiva personalmente gli ambiti biglietti; accontentò il folto pubblico (che deridendola l’ammirava) solo quando accettò di esibirsi alla Carnegie Hall il 25 ottobre 1944 (sold out con settimane di anticipo) per morire un mese dopo. Era a malapena in grado di sostenere una nota, e i suoi accompagnatori facevano continui aggiustamenti per compensare le sue variazioni di tempo e i suoi errori ritmici; lei non lo ammise mai e trascorse la vita ad accusare la critica e le colleghe di invidia. «La gente può anche dire che non so cantare, ma nessuno potrà mai dire che non ho cantato». Questa la metterei in bocca al 70 per cento dei cantanti. E il test della Peretz dovrebbero fare: gradiremmo ricevere da ciascuno di essi, in redazione, il punteggio ottenuto, oltre ai loro cd. ■ BALLET Music In ¢ NUMERO 16 > Inverno 2011 CREATTIVA Intervista a Chiara Sergio Il tarantismo ai tempi della spersonalizzazione delle tradizioni UN AMERICANO A PARIGI «Ho sempre avuto una specie di sensibilità istintiva per le combinazioni di suoni, e diversi accordi che suonano così moderni furono buttati giù senza che rivolgessi un’attenzione particolare alle giustificazioni teoriche della loro struttura», George Gershwin a cura di ROSSELLA GAUDENZI A CURA DI ROSSELLA GAUDENZI PIZZICA A MEMORIA D’UOMO LA pizzica e la taranta sono cosa seria. Il tarantismo è un fenomeno che coinvolge discipline di differenti ambiti: dall’antropologia all’etnomusicologia, dalla psichiatria alla religione e alle tradizioni popolari fortemente pagane. È il caso di dire, però, che pizzica e taranta vadano di moda, da un po’ di tempo a questa parte, ben inserendosi in quella trasmissione di conoscenza mordi e fuggi che tanto rispecchia il nostro Paese. Se ne fa un gran parlare, un eccessivo parlare. In ogniddove sorgono scuolette, insegnanti, corsi, prontuari e ci si può sentire ballerini di pizzica dopo due giorni, per l’aver memorizzato due passi. Finché dura. Poi la collettività si volgerà altrove, qualcuno ci avrà guadagnato sopra ben bene e per le strade rimarranno cartacce e spazzatura sollevate dal vento. C’è in giro davvero tanta spazzatura, situazione avvilente per gli esperti di questa danza. Si è scritto e detto tanto, c’è un pullulare di siti e blog, ma è attraverso la storicità che occorre passare per poter parlare con coscienza di pizzica e taranta, attraverso antropologi ed etnomusicologi. La conoscenza deve esser tale. Chiara Sergio, ideatrice e direttrice artistica della brindisina Creattiva-Officina di danza, vive di danza. O meglio, di danze. Parte da una formazione classica ma una buona base tecnica non basta a soddisfarla, è quindi ben presto solleticata dalle danze etniche. Durante gli anni degli studi liceali la sete di conoscenza si alimenta ogni qualvolta legga di danza o assista a una coreografia. Le suggestioni si alimentano. Il giro di boa avviene durante gli anni universitari, lo studio del flamenco, di danze afro, danza del ventre, teatro-danza classico indiano, che rafforza la consapevolezza, la arricchisce, e rimane nel background. L’incontro fortunato risale al 1998. Ho avuto la fortuna di conoscere Giorgio Di Lecce, fondatore dell’associazione Arakne Mediterranea, incontrato per caso. La compagnia ha sede a Martignano, in provincia di Lecce, ed opera da oltre 15 anni sul territorio del Salento, in collaborazione con l’Università leccese. Si compone di artisti, studiosi e ricercatori che si propongono di diffondere, far conoscere e sopravvivere le tradizioni, le danze, gli usi e i costumi delle espressioni popolari salentine e della Puglia. Propone nei suoi spettacoli dal vivo, conferenze e stage, i canti, le danze e i ritmi direttamente attinti alla tradizione orale, da nonne tamburelliste, cantanti, danzatrici e danzatori popolari che ci hanno trasmesso la loro passione per la pizzica e il canto popolare, autentica espressione di una cultura altra. Mi ero recata presso la sede della compagnia per un incontro sul Tarantismo e mi ha vista danzare, ha colto la mia predisposizione e mi ha voluta con sé. O meglio, avrebbe voluto portarmi con sé. All’ epoca dovevo ancora discutere la tesi e la prospettiva di una tournée che arrivasse a toccare il Giappone era al di fuori della mia portata. La mia tournée con gli Arakne Mediterranea è così consistita in una sola tappa, a Genova, per L’arte paga, la musica paga, la danza paga. Prendi gli anni Venti, Parigi, un americano e sfumature impressioniste con echi esistenzialisti. Poi prendi George Gershwin e Raffaele Paganini. E balla. di Valentina Giosa a magia musicale di George Gershwin e il tocco cinematografico di Vincente Minnelli si fondono nella prima versione per balletto in Italia di quella che può esser certamente definita una delle opere musicali più famose al mondo. Dal 25 gennaio al 6 febbraio al Teatro Italia di Roma, Raffaele Paganini sarà in scena con Un Americano a Parigi, rielaborazione dell’opera scritta da Gershwin nel 1928 (divenuta poi uno standard nonostante lo scarso successo iniziale della Carnegie Hall) e ripresa nel 1951 sul grande schermo dal regista Vincente Minnelli, aggiudicandosi ben 6 premi Oscar fra cui quello per il miglior film al Festival di Cannes dello stesso anno. L’elaborazione drammaturgica per balletto, curata da Riccardo Reim, con la coreografia di Luigi Martelletta e l’interpretazione di Raffaele Paganini, non solo attinge in parte all’opera originale, in parte alla sua più celebre rielaborazione cinematografica, ma L ingono questi esser stati morsi da alcuni animali che nascono nel territorio di Taranto (da cui son nominati) ed esser caduti in quell infirmit‡, che li rende come pazzi. Vibrano e sbattono la testa,tremano con le ginocchia, spesso al suono cantano e ballano, agitano le labbra, stridono co denti e fanno azioni da matti. Niente chiedono, ma il compagno guidone notificando per tutto ch egli Ë attarantato, chiede e raccoglie elemosina per loro: oh ingegno, oh arte inaudita per li passati secoli!» R. Frianoro, Il Vagabondo, Viterbo, 1621 «F In Italia e sulle coste del Mediterraneo già intorno al X secolo era conosciuta la tarantola, ragno in grado di creare disturbi all’uomo. Dopo alcuni episodi di cura del morso velenoso con la musica e la danza, la pratica si diffuse in tutto il Meridione d’Italia, come attesta il documento del 1362 «Sertum Papale de venenis». Dal 300 in poi questa danza fu considerata curativa, capace di curare dal veleno, ipotetico o reale, della tarantola: i tarantati erano sollecitati da particolari ritmi di tamburo, suoni Paga e colori. Intorno al 600, queste danze e musiche, originarie della regione di Taranto, presero il nome di «tarantelle» e si manifestarono sotto forma di feste popolari, in cui musicisti e partecipanti provenivano da differenti villaggi e di cui erano principali protagoniste le donne. La Chiesa nei secoli condannò e proibì le manifestazioni con danze sfrenate, ma questi riti, profondamente radicati nella popolazione, continuarono ad essere praticati fino a divenire delle danze popolari durante le feste locali. poi darci appuntamento dopo la fine dei miei studi. Il seguito è una triste storia, poiché il fondatore ci ha lasciati in giovane età; la direzione artistica dell’associazione è oggi in mano alla compagna di vita e d’arte Imma Giannuzzi. Dopo la tesi di laurea in Beni Culturali dal titolo «Rapporti fra arte e danza nel 900», Chiara Sergio soggiorna a Bologna dove inizia il vero percorso di conoscenza della danza e di consapevolezza che la danza possa curare. Si avvicina alla danzaterapia, sperimenta, va a ballare con gli anziani, approfondisce grazie all’apporto di un’amica antropologa, scrive e legge molto. Fino a che non trova una raccolta di articoli sulla danzaterapia della danzaterapeuta, coreografa e counselling Nicoletta S., che le accende il desiderio di conoscerla. Nicoletta insegna a Bologna, ironia della sorte dietro casa di Chiara, ed ironia della sorte si scopre essere lei stessa una cara amica di Giorgio di Lecce. «Giorgio ti ha mandata qui». Due anni di studio e crescita, dopodiché il ritorno in Puglia. Non mi è piaciuto né mi piace quel che vedo qui, nella mia terra. Assistiamo ad un fenomeno folk inteso come commercializzazione della cultura, che riassumo nel concetto di «pizzica da supermercato». Ciò a cui aspiro sarebbe, invece, il riscatto della danza nella sua essenza. La pizzica è una danza dalla storia lunga e articolata, ha schemi aperti in cui è possibile indirizzare la persona che vuole apprendere, ma è altrettanto importante trovare in essa una forte propensione, che è intrinseca nel nostro sangue pugliese. Se si elimina questo, si attua un meccanismo inutile, non si arriva alla conoscenza né all essenza di quest’arte, la pizzica, che è gioia, dolore, catarsi. Quale attenzione è stata rivolta alle danze popolari da parte di altri Paesi? È stupefacente in parte e in parte avvilente rendersi conto del rispetto e dell’attenzione che altre nazioni dimostrano per pizzica e taranta. L’esperienza illuminante in tal senso è stata per me la partecipazione al progetto «La vita è Belga - Associazione di pugliesi in Belgio-Bruxelles», seminario teorico-pratico intensivo sui temi del tarantismo e della danza popolare pugliese. Ebbene, vengo puntualmente richiamata e mi reco a Bruxelles per questi seminari accolti con grande interesse e considerazione. Come si articola il tuo lavoro? Su un doppio binario. Innanzitutto la didattica: le attività laboratoriali tra cui i laboratori didattici di Danza popolare, Creativo-espressivi («Arte in Gioco» e «Il cerchio delle Donne»), di Espressione corporea e Teatrabilità della danza; seminari a tema, seminari intensivi, workshop. L’altro aspetto è rappresentato dagli spettacoli, dalle performance ideate da me: «Tamburo Tao» pone il tamburo al centro di un lavoro che lo intende come cuore pulsante di tutti gli uomini, è dunque uno spettacolo di contaminazione tra danza, musica popolare e musiche etniche, provenienti da Africa, Balcani, India. «Di Me» è un progetto sulla donna. ■ nini ripete aggiunge una sorta di chiave di lettura, il dato biografico rappresentato da elementi della vita stessa di Gershwin. Proprio nel 1928 l’autore, appena trentenne, si era infatti stabilito a Parigi attratto dalla cultura europea, dalla tradizione classica e della musica di Maurice Ravel. Nella capitale francese, Gershwin si era dedicato principalmente agli studi di composizione nonostante numerosi maestri, tra i quali lo stesso Ravel, si fossero rifiutati di offrir lui delle lezioni, temendo che il rigore della classicità potesse reprimere le sue sfumature jazz. Un americano a Parigi diventa così una vera e propria indagine, sul lungo e affascinante processo creativo del compositore statunitense dove convivono armoniosamente musiche di estrazione popolare e quelle di tradizione più nobile. In questa superba versione per balletto, Gershwin sarà pertanto sia autore che protagonista, e da qui la scelta di utilizzare brani non strettamente connessi all’opera stessa: Want’ Em You Can’t Get’Em, Rialto Ripples, Rhapsody in Blue, The Man I Love e Summertime sono alcuni dei titoli a fare da colonna sonora all’interpretazione di Paganini. Notevole anche il lavoro scenografico, denso di citazioni pittoriche che perfettamente ricreano l’atmosfera unica della Parigi di fine anni Venti, una città romantica e vibrante in bilico fra sfumature impressioniste ed echi esistenzialisti. ■ SOUND tracking a cura di ROBERTA MASTRUZZI Music In ¢ NUMERO 16 > Inverno 2011 NOWHERE BOY John Lennon prima di John Lennon Non ci vuole Freud per capire che chi aspira alla pace universale è probabilmente qualcuno che è passato attraverso una guerra NOWHERE BOY D di Roberta Mastruzzi ietro John Lennon la severa zia, una madre gioviale, un paio di amici e la sorella che ne scrive l’intima biografia. Immaginatelo così, senza pace. «I magine all the people living life in peace». Non ci vuole Freud per capire che chi aspira alla pace universale è molto probabilmente qualcuno che è passato attraverso una guerra. E non necessariamente militare: esistono guerre altrettanto terribili, che si introducono nel nostro spirito e rimangono lì incastrate per anni, a volte una vita intera. Chi ha cantato queste parole immaginando un mondo senza guerre, religioni, divisioni, proprietà era qualcuno che per tutta la vita ha dovuto combattere contro una grande lacerazione interna. Capire l’opera di un artista è anche comprendere il suo lato più vulnerabile e le motivazioni profonde che l’hanno spinto al successo. Dietro l’urgenza di dare voce al proprio inconscio e di metterlo sotto i riflettori del mondo c’è spesso la necessità di recuperare qualcosa che si è rotto. Nowhere boy è il film di Sam Taylor-Wood, artista contemporanea alla sua prima opera cinematografica, che racconta John Lennon prima che diventasse un’icona della musica. Un biopic sui generis, nel quale non troverete il racconto cronologico dell’ascesa e del successo mondiale del quartetto di Liverpool - a dire la verità i Beatles non vengono nominati neanche una volta - ma conoscerete la storia di un ragazzo ribelle, che cresce ascoltando il blues e il rock MUSICINVIDEO(CLIP) > Fonderia feat. Barbara Eramo E basta ch’io sorrida, quale vigorosa luce Sulla Valle avvampa È come se un volto di Vulcano - Avesse liberato la sua gioia degli anni 50 e che sfoga la rabbia giovanile cercando conforto nella musica, fino al giorno in cui insieme a due amici, un tale Paul McCartney e un certo George Harrison, parte per Amburgo in cerca di fortuna. La sceneggiatura scritta da Matt Greenhalg (l’autore di Control, film dedicato al leader dei Joy Division, Ian Curtis), basata sulla biografia della sorella di Lennon (Immagine this. Io e mio fratello John), preferisce infatti scavare nel particolare rapporto tra il futuro artista e le donne che hanno segnato la sua adolescenza: la zia Mimi (Kristin Scott Thomas), austera donna che lo ha cresciuto dall’età di 5 anni e la vera madre Julia (Anne-Marie Duff), che vive a pochi metri di distanza e che John conoscerà solo a quindici anni. Una sorta di triangolo amoroso in cui il giovane John, interpretato da un intenso Aaron Johnson, è in un certo senso vittima, stretto tra la severa disciplina della zia e la giovialità della madre dalla quale scappa di nascosto tutti i pomeriggi per ascoltare rock’n roll e imparare a suonare il banjo. Come spesso accade, sarà la musica l’unica via d’uscita. Il ritmo di Elvis Presley, Jerry Lee Lewis e Eddie Cochran, la voce di Wanda Jackson (Hard Headed woman), le spettacolari esibizioni di Screamin’ Jay Hawkins (I put a spell on you), la carica esplosiva di Big Mama Thornton in Hound Dog, sono il tappeto musicale su cui Lennon muove i primi passi. L’incontro con un ragazzino che suona la chitarra al contrario (il mancino Paul) e la formazione del primo gruppo musicale, The Quarrymen, con il quale comincia ad esibirsi nelle feste locali, saranno poi la decisiva spinta verso quella che si rivelerà un’inarrestabile corsa al successo. Il seguito ■ della storia la conosciamo bene. LIFEINADAY D ove eravate sabato 24 luglio 2010? Perché al Sundance Film Festival, la manifestazione cinematografica che premia le pellicole d’autore e le produzioni indipendenti, sta per essere mostrato Life in a day, documentario prodotto da Ridley Scott in cui ogni fotogramma è catturato dal materiale che su Youtube anonimi utenti di tutto il mondo hanno inviato, risponendo all’appello lanciato dal regista de Il gladiatore e caricando sul sito il filmato della loro giornata. Negli spezzoni, rigorosamente girati nelle 24 ore indicate, i partecipanti hanno dovuto rispondere alle domande «che cosa ami?», «di cosa hai paura», «che cosa ti fa ridere?» e «che cosa hai in tasca?». A Kevin Macdonald, il regista scozzese di State of play e L’ultimo Re di Scozia, il compito di prendere le 5.000 ore di girato e trasformar- lo in un film dal filo logico e coerente della durata di circa 2 ore. La colonna sonora invece: affidata a un grande sperimentatore, Matthew Herbert, abituato a campionare suoni reali (nel suo The Pig ha registrato i rumori dell’intera vita di un maiale, ricomponendoli in musica; la sua prima vera performance nel 1995 lo vedeva alle prese con un pacchetto di patatine; una denuncia della globalizzazione ha preso vita a partire dai suoni registrati con prodotti MacDonald e GAP). Per questa soundtrack Herbert ha chiesto di inviare ogni tipo di suono, seguendo le indicazioni contenute in un demo reperibile su Youtube. In esso si trova anche spiegato l’applauso. Fatto divieto di inviare file contenenti musica. Diverranno musica solamente i comunissimi suoni della vita di tutti i giorni. Sic. ■ DI A DI ROMINA CIUFFA a mia vita era stata un fucile carico negli angoli, finché un giorno il proprietario passò, mi identificò e mi portò via. E ora vaghiamo in boschi regali, e ora cacciamo la cerva. È tutto. C’è «scappare» in questo video, c’è «possedere» nel testo, i versi di Emily Dickinson rubati dalla voce cervina di Barbara Eramo per parafrasare l’elettronico romanzo post-rock della Fonderia. La registrazione del cd d’origine (My Grandmother’s Space Suite) nei Real World Studios inglesi di Peter Gabriel; il video di Loaded Gun girato in Valtellina (So). Con cui meritatamente il regista Antonello Schioppa vince vari premi, fotografia compresa. Legata a un filo rosso la salvezza di un animale già morto. Si vedono bambini e cappucci, ma le fate predominano: fate non dette, fate non riprese, fate l’amore. L’evocazione è più forte della presenza. C’è un Occhio giallo, c’è un Pollice. L’ambientazione mi riporta a giardini segreti con personaggi chiave di storie che non leggo più, e a un prodromo, il Wuthering Heights di Kate Bush, che non regalava questo viaggio nel tempo né il profondo dolersi di possesso. La rottura di un filo, alla fine, è pur sempre l’uscita di scena. Essere posseduti garantisce l’unica immortalità. «Niente si muove per la seconda volta - su cui io abbia posato un Occhio giallo - o un energico Pollice, sebbene di Lui - possa vivere più a lungo - Egli più a lungo deve - di me perché io ho solo il potere di uccidere, Senza - il potere di morire». L WWW.YOUTUBE.COM/MUSICINCHANNEL di Flavio Fabbri sono notevoli. Tanta azione quindi, ma anche tanta buona musica. A curare le 24 tracce di cui è composta la colonna sonora del film (tranne un brano dei Journey e la celebre Sweet Dreams degli Eurythmics) sono stati i Daft Punk (al secolo Guy-Manuel de HomemChristo e Thomas Bangalter), i folletti francesi dell’elettronica. Con la loro estetica cyborg, l’utilizzo di laser e di atmosfere tipiche del ciber-spazio, sono sicuramente i più adatti ad un film come questo, in cui peraltro sembra facciano una piccolissima apparizione. Nel 1982, a curare le musiche del primo Tron fu chiamata Wendy Carlos, artista ricordata oggi sia per le leggendarie colonne sonore di Arancia Meccanica e Shining del maestro Stanley Kubrick, sia per la prima utilizzazione LOADED GUN R OMINA C IUFFA +R OBERTA M ASTRUZZI TRON: LEGACY quasi trent’anni dall’uscita di Tron (1982), la Walt Disney ha deciso di produrre un ambizioso sequel, Tron: Legacy. Del primo episodio rimangono nel cast Jeff Bridges e Bruce Boxleitner, che la magia del digitale rende quasi senza tempo. Lo stesso regista si ripropone, in questa nuova avventura, ma in veste di co-produttore, lasciando la macchina da presa nelle mani del debuttante Joseph Kosinski. Tron: Legacy, la cui prima breve première di 23 minuti si è avuta alla quinta edizione del Festival Internazionale del Film di Roma, è un film in cui a dominare è l’animazione in digitale e soprattutto in 3D, con un ottimo montaggio e uno script che non lascia, come al solito, campo libero ai soli effetti speciali, che pure Videoclip del sintetizzatore Moog nella composizione di musica elettronica, ma anche per il suo cambio di sesso avvenuto nel 1972 (nome all’anagrafe Walter Carlos). Mentre per Tron la Disney chiese una scrittura per orchestra, coro e organo, nel sequel i Daft Punk hanno praticamente immerso il film in un dance floor senza soluzione di continuità, per tutta la durata del lungometraggio. Alcuni temi musicali hanno comunque avuto il supporto di un’orchestra di oltre 100 elementi e sono stati registrati agli AIR Lyndhurst Studios di Londra. Il primo estratto della soundtrack è stato Derezzed, composto e suonato come gli altri dai Daft Punk, mentre il cd della colonna sonora è in vendita dal 7 dicembre 2010. ■ SOUND tracking Music In ¢ NUMERO 16 > Inverno 2011 ROMANZO CRIMINALE Credevo fosse finita, ho creduto ad un’altra vita ma il destino sbatte forte le porte. Dover tornare indietro, un ultimo inchino, non c’è più tempo né più destino. Il passo ad un tratto si fece leggero. Quanto è lontana da Roma la felicità? DAVID LINCH Minimalista, elettronico. Ma lui lo sa che è solo un regista. OODDAY G C L I N C H sangue Freddo DI ROBERTA MASTRUZZI M a ora è una lunga storia di rabbia che sanguina potere senza limiti, il mondo tra le tue mani e poi non resta più niente, fuori muore la speranza che tu tornerai iciamoci la verità: per qualche misteriosa ragione la Strega di Biancaneve ci è stata sempre più simpatica di quella sdolcinata principessa destinata a diventare la più bella del reame. Il fascino dei cattivi è duro a morire, anche quando questi sono veri e propri criminali che hanno compiuto efferati omicidi e seminato terrore, decidendo del destino del nostro Paese per almeno un decennio. Non si spiega altrimenti il successo di Romanzo criminale, la storia della sanguinaria Banda della Magliana che continua ad affascinarci con una storia di violenza, sangue, lotta per il potere e tradimenti, che si tratti del libro di Giancarlo De Cataldo, del film di Michele Placido del 2005 o della recente serie Tv diretta da Stefano Sollima, uno dei migliori prodotti televisivi italiani degli ultimi anni. Forte del successo della prima serie trasmessa da Sky lo scorso inverno, il Freddo, Dandi e compagni tornano a raccontare la loro storia nei 12 episodi della seconda serie. L’ambientazione passa dagli anni Settanta agli anni Ottanta, il gruppo di ragazzi di periferia si è trasformato in una banda criminale perfettamente organizzata: conquistato il controllo della Capitale, ora sembra iniziare una parabola discendente. Trascinata dalle musiche di Pasquale Catalano, che in questa seconda parte acquista- D no una venatura ancora più dark, la storia di Romanzo Criminale e dei suoi anti-eroi è ora raccontata in un cd. Costruito come un concept album - non si tratta di una semplice compilation di brani, ma di ritratti musicali che completano e aiutano a capire la psicologia dei personaggi - la colonna sonora della seconda serie ospita diversi artisti italiani, da The Niro (Nero il sole) ai Rezophonic (Vita da Dandi) a Marta sui Tubi (Il commissario). Ognuno di loro ha dedicato un brano ad uno dei personaggi. È Francesco Sarcina (nella foto), leader de Le Vibrazioni, a rompere il silenzio con Libanese, il Re, brano che scava nell’intimo dell’indiscusso capo della banda, spietato e maniacale nel perseguire il proprio sogno di conquistare tutta Roma con il suo folle piano criminale. Il testimone poi passa a Pierluigi Ferrantini dei Velvet (Il sangue è Freddo), Aimeé Portioli (Call me Patrizia) e Roberto Angelini (Spara, Bufalo!). Sono i Calibro 35 a chiudere con un brano strumentale, Come un romanzo..., un’elettrizzante colonna sonora che riesce a riunire in un unico sound gli anni 80 con i più interessanti musicisti emergenti degli ultimi anni, la violenza con l’introspezione psicologica, dando voce e musica ai pensieri e alla rabbia dei protagonisti ■ della serie più criminale vista in Tv. hi è David Lynch lo sappiamo bene, che cosa sia è più difficile da stabilire. Regista (per cinema, tv, pubblicità e videoclip musicali), pittore, compositore, performer, produttore, sceneggiatore, musicista, il 64enne americano del Montana ama cimentarsi con tutto ciò che abbia a che fare con l’espressione e la comunicazione di idee, attraverso parole, note e immagini. E il 30 novembre 2010 è uscito per la Sunday Best Recordings un inedito brano di musica elettronica suonato e composto da Lynch, Good Day Today, il cui b-side è I Know. CORSO PROFESSIONALE DI MONTAGGIO VIDEO DIGITALE primo turno da novembre a febbraio secondo turno DAVID LINCH da marzo a giugno due incontri settimanali di 3/4 ore ciascuno per un totale di 80 ore www.slmc.it Un pezzo dallo start minimalista, ingenuo se confrontato con le evoluzioni più recenti della galassia electronica, non per questo meno interessante. Piace il ritmo brillante, il beat dell’elettro-pop e la voce filtrata che canta «Send me an Angel/ Save me/I’m so tired». Eppure il regista si guarda bene dal definirsi musicista. Per lui, nelle colonne sonore dei suoi film, due sono i compositori necessari: Alan R. Splet per il visionario e sublime Eraserhead, e Angelo Badalamenti per tutta o quasi la filmografia lynchiana. Ed entro i primi mesi del 2011, assicura la label inglese Sunday Best, sarà dato alle stampe un album di remix tutto dedicato alla musica elettronica firmata Lynch. DI FLAVIO FABBRI LA GRANDE MELA, LA GRANDE FESTA Capodanno 2011 a New York Volo a/r da Roma e Milano + 6 notti in hotel a partire da 1.350 euro a persona Prenota ora allo 06 4411166, nelle sedi CTS o su www.cts.it/capodanno Richiedi anche le migliori offerte per le capitali europee, il tour Marrakech e le città imperiali in Marocco, il Gran Tour del Rajasthan in India, il Gran Tour dello Sri Lanka, il tour Paesaggi d'Oriente in Cina. La quota si riferisce alla partenza del 28 dicembre. Tasse aeroportuali escluse. Spese di apertura pratica 30 euro a persona. Offerta riservata ai soci CTS. BED TIME Music In ¢ NUMERO 16 > Inverno 2011 SPECIALE a cura di ROMINA CIUFFA SOL7 SOL DIM SOLE Once I’ll get you up there I’ll be hol- LO SPECCHIO ANIMATO PANNOLINO VIOLINO La ding you so near, mi sussurra in un jazz perfetto come un tonneau Penso al soffio rivelatore di un studentessa di violino. Possibile che non si chiude, l’improvvisazione più sacra. Più mortale. sassofonista. E mi piace il sax. che io non ricordi altro? ¢ CONTINUA DALLA PRIMA PAGINA > SOL7 SOL SOLE di ROMINA CIUFFA SOL SETTIMA, SOL DIMINUITO, SOLE 5.000 giri il motore, assetto di salita ripida e una velocità di 70 nodi per raggiungere la mia città, dove albergo sola. Il Gran Sasso che mi fissa, non ci sono città, e sottointende: per quelle come te, se continui a guardare in basso. L’ho fatto nell’ultimo anno, guardare sotto anziché mirare alto. Ed ora che c’è neve me ne accorgo: i miei pensieri hanno lasciato le impronte. Posso vedere sino al fondo delle mie ossessioni, che hanno scavato abili e lasciato un solco visibile da quassù. Mentre continuo a guardare verso il basso. La schiena è attirata dalla gravità in questo assetto a 70 gradi ed io ancora ho a terra l’occhio per adocchiare i pozzi delle mie paure. E poi la vedo. La mia ombra. È a terra anche lei. È da questa prospettiva che me ne accorgo: il mio aereo è a forma di sax. Un aerofono, appunto. Sarà la miopia, o lo scherzo del sole. Sarà che un volo è come jazz, si improvvisa: una piantata motore o un luogo da inseguire, un arcobaleno da attraversare, una virata sfuocata, il cielo che si chiude. Puro, standard jazz. In questo assetto riesco anche a vedere i piattelli del mio sassofono, e un bocchino - lo stabilatore - dentro cui soffia vento da est, dal mare. Ascolto. Le note di Come fly with me, un Do9 che spinge il mio aereo con maggiore trazione soffiando nell’imboccatura. (Non troverai mai la tua città se continui a guardare in basso). Let’s take off in the blue. La neve qui è più densa e segna il passaggio da un’ossessione a un dolore profondo perché, per l’esser soffice, non mantiene un’impronta ma la sprofonda. Allora si vede solo un’interruzione nel bianco, sacrilega. Let’s float down to Peru, in Llama land there’s a one man band, Do dim, Re min, mentre anche in cuffia, ora, non arrivano più le voci dei paracadutisti. L’altezza, forse - già 8.000 piedi - non consente alla radio di ricevere, ed io mi sto isolando. Ma più salgo (4.600 i giri, 50 nodi, mi segnala un livello troppo freddo dell’acqua e non posso intervenire, eppure il mio distacco deve avere luogo) più lo sento, up there where the air is rarified we’ll just glide, starry-eyed. photocredit ROMINA CIUFFA (...) di Flavio Fabbri da questa prospettiva che me ne accorgo: il mio aereo è a forma di sax. Un aerofono, appunto. Sarà la miopia, o lo scherzo del sole. Sarà che un volo è come jazz, si improvvisa: una piantata motore o un luogo da inseguire, un arcobaleno da attraversare, una virata sfuocata, il cielo che si chiude. Puro, standard jazz. In questo assetto riesco anche a vedere i piattelli del mio sassofono, e un bocchino - lo stabilatore - dentro cui soffia vento da est, dal mare. È LO SPECCHIO ANIMATO PANNOLINO VIOLINO Forse l’amore è una grande assenza. Qui però si tratta solo di un uomo di fronte alla propria emozione disturbata. Una rapsodia d’autunno che provoca brividi illeciti. E Col sole, un sol diminuito, sfondo le nuvole. La velocità è in arco bianco, un prestallo a 70 km/h (it’s perfect for a flying honeymoon, they say) per trovarmi quassù. Fra un momento solo, altri 500 piedi più su, non sarò più in grado di vedere terra, le nubi sono un prato di ovatta e, dopo averle bucate, si chiuderanno sotto di me lasciando le ossessioni 10.000 piedi sotto i piedi. L’ultimo sguardo giù, c’è la punta del Gran Sasso (la chiave, la chiave della tua città. Lascia le nevi ai gatti, tu hai ali) e sbuca tra due strati fitti di nubi. Poi cielo sotto, oceano sopra, inversione della percezione. 50 km/h, uno stallo per livellare l’aereo, l’acqua troppo fredda, siamo io e il mio sax. I’ll get you up there, I’ll be holding you so near mi diceva. Salivamo fino a che il mondo non fosse a tal punto lontano da doverlo ricordare; da lì ne parlavamo per capire dove avevamo sbagliato. Dappertutto. Come adesso che l’aria calda è tutta inserita ma la temperatura segna meno 10 gradi. Livello l’aereo. Ho vento in coda, nel bocchino del mio sax vibrante, e faccio in cielo 200 km orari, a terra almeno 270. Mi diceva: Just say the words and we’ll beat the birds, poi inseguivamo le curve degli arcobaleni. Era una scusa per darsi un obiettivo improbabile e non sentirci frustrati nel non conseguirlo, ma folli nel perseguirlo e belli nel colorarci. Chiudo uno dei due rubinetti carburante, è quasi vuoto mentre sono in condizioni rischiose di volo. Ma Si bemolle 9 e sono nella bambagia. You may hear angels cheer, e c’è un pianoforte quassù. Accompagna questo sax che ho in bocca, cloche che ho nelle mani. Once I’ll get you up there I’ll be holding you so near, mi sussurra in un jazz perfetto come un tonneau che non si chiude, l’improvvisazione più sacra. Più mortale. Let’s fly, let’s fly away. Il secondo serbatoio carburante è a metà: o rientro subito, o jazz. C’era qualcuno che mi aspettava laggiù, non ricordo neanche che faccia avesse. Ma no, non c’era più, era solo samba con un gran sasso e la ballavo sola. Sorride ‘cause we’re together, weatherwise, it’s such a lovely day. Sol7, sol, sola. Sole. ■ ccoci qui. Davanti ad uno specchio. Da soli. Dovrei parlare, dirti quello che ho pensato in questi anni. Ti avevo promesso che avrei raccontato qualcosa di me che non sapevi. Però non è semplice. Come si fa? Le parole non sono come le note. Do, re, mi, fa, sol, la, si. Il difficile sta solo nel metterle in fila nel modo giusto. Penso al soffio rivelatore di un sassofonista. Il suono del sax mi piace. È caldo, gentile, sensuale e ed elegante. Se ti sbagli al massimo provochi rumore. A qualcuno piace anche quello. Ma parlare è diverso. Le parole, come le metti le metti, generano sempre emozioni dubbie, sollevano sentimenti che bruciano presto e, soprattutto, non bastano mai. Non bastano ad evitare che nascano equivoci e delusioni. Sono sempre poche le certezze che regalano. Quando posi le tue labbra sul bocchino di un sax e ci soffi dentro l’intera tua anima, invece, è tutto più semplice. Sarà la musica a lavorare per te. Chi ti ascolta è vittima di una felice intuizione o di una più serena menzogna. Si raccontano le verità dell’anima, dentro il discorso di uno strumento santificato da salive mistiche. Quelle che lo specchio mi ferma sempre come un dispetto. Quelle che Gato Barbieri sputa in una meravigliosa pioggia di luce che poi si spegne negli occhi di lei. Quelle che Charlie Parker sollevava in aria e invitava a volteggiare per eccitare la poesia di Jack Kerouac e Allen Ginsberg. Noi siamo sensibili alla musica come lo è la fotografia alla luce. Ne siamo pervasi, svuotati, plasmati, deformati, ammalati, curati, eccitati, sedati, riempiti, svuotati, affamati, saziati. Neanche fosse amore. Si dice che per innamorarsi bastino pochi minuti, pochi secondi. Anche la musica si misura nell’istante in cui arriva alle nostre orecchie. Quando poi rimaniamo soli, possiamo risentire le note di un brano anche senza strumenti. Succede la stessa cosa con l’immagine di una donna, che ci torna agli occhi anche in sua assenza. Forse l’amore è una grande assenza. Qui però si tratta solo di un uomo di fronte alla propria emozione disturbata. Una rapsodia d’autunno che provoca brividi illeciti. Un po’ come la sensazione che sto provando davanti a questo specchio che lentamente si appanna del mio respiro. Una superficie insicura che non sa trattenere l’immagine di me che rido mentre è chiaro che ho paura. I piedi nudi sul pavimento non fanno altro che gelare un insano istinto di ordine e di fame. Non c’è razionalità che tenga al desiderio. Il momento in cui Rollins gonfiava le sue guance, quell’atto drammatico che è la creazione di musica, non è altro che un ironico e umiliante gesto di disordine gioioso. È il sistematico sregolamento dei sensi che ci anima, di tanto in tanto. È il tentativo di comunicare una sensazione che ora, qui, non riesco a provarti. Servirebbe un assolo. Servirebbe il coraggio di salire su un palco e far incazzare o godere qualche decina o centinaia di persone. Servirebbe questo per tenerti inchiodata a me. Oh amore, quale animato suono di donna sei? Pensandoci bene, non ho mai imparato a suonare nessuno strumento. Io non sono pronto. Non è colpa mia se abbiamo scelto uno specchio per dirci ti amo. ■ di Rita Barbaresi Forse suonavo il pianoforte o forse pulivo le scale. Devo chiamarmi Roberto della 251, fare la pipì nel letto, non va bene e sono ricco. Certezze. Pannolino. Violino. R oberto della 251. Deve essere questo il mio nome. Tutte le mattine entrano nella mia stanza due signore vestite di bianco; toccano le coperte del mio letto, si guardano e mi gridano in viso: «Anche stanotte ti sei tolto il PAN-NO-LI-NO. Non si fa, capito? Franca, chiama l’inserviente e digli le solite lenzuola per Roberto della 251». Ho delle certezze. Ci sono parole che vanno gridate e sillabate, sono vecchio e sono Roberto della 251. Sono ricco. Lo dicono sempre le due signore vestite di bianco. Pensavo di essere molto povero perché quando non hai altro che il tuo nome vicino a un numero devi per forza essere nullatenente. Stavolta penso di aver ragionato bene, anche se sto dicendo una bugia. Qual’è la bugia? Non è vero che non ho più nulla che mi appartenga. In questa stanza non ci sono cose della mia vita; la bella famigliola che una volta alla settimana mi viene a trovare, mi porta una scatola di gelatine alla frutta e mi bacia sulle guance non la ricordo. Dentro di me, però, c’è l’immagine della vita ed è sempre viva. Per cinque anni, tutti i martedì, andavo alla scuola di musica del mio quartiere e aspettavo. Forse suonavo il pianoforte o forse pulivo le scale. Ma fu là che la conobbi. Capelli biondi, due occhi marroni e un volto d’incanto appoggiati alla curva del suo violino. Non so se fosse brava. Cinque anni. Alle 19 finiva la lezione. Alle 19 ero in strada, davanti al portone della scuola. Lei si fermava sull’ultimo gradino, allungava il collo per cercare la macchina della mamma, salutava i suoi amici, mi passava davanti e scompariva dentro la macchina, dove le rubavo l’ultimo sguardo mentre posava il suo violino sul sedile posteriore. Tutti i martedì provavo la medesima gioia nel vederla e nasceva in me la voglia di parlarle, di chiederle perché suonasse il violino, cosa provasse nel momento in cui l’archetto iniziava a pizzicare le corde, e di domandarle: «Posso accompagnarti io a casa, martedì prossimo?» Non l’ho mai fatto. Ho avuto il terrore di un «no». Quanto sono felice ora di non averla mai fatta quella domanda. Se Veronica avesse risposto «no», ora sarei davvero un nullatenente. Quanto è stata lunga questa mia vita non lo so più, ma certamente più breve del mio amore per Veronica, la studentessa di violino. Come trascorrono gli anni? Possibile che io non ricordi altro? Mi impegno a mettere a fuoco la mia vita quando le signore vestite di bianco mi portano nel parco di questa villa a fare una passeggiata. Forse suonavo il pianoforte o forse pulivo le scale. Devo chiamarmi Roberto della 251, fare la pipì nel letto, non va bene e sono ricco. Certezze. Il volto d’incanto di Veronica, il suo sorriso, la sua musica. La mia vita. Domani mattina, tutto sporco di pipì, dirò alle due signore cos’è l’amore: userò le parole più belle per spiegare loro cosa possono significare, per me, due occhi marroni, un sorriso e un violino. Sono sicuro che non capiranno e come ogni mattino si guarderanno e chiameranno l’inserviente che porterà le lenzuola pulite per Roberto della 251. ■ Music In ¢ NUMERO 16 > Inverno 2011 AA.VV. Burlesque Temptations. Music for Streaptease Nude. ELISA Evy È pur sempre bellissima un’emozione con le cadute e tutto il male, come una musica, come un dolore MARLENE KUNTZ Ricoveri virtuali e sexy solitudini Chi tutto crede di sapere di quel grande nulla poi s’intristisce, pieno di dubbi poi si incupisce vedendosi di spalle e partire FEED back a cura di ROMINA CIUFFA DANILO REA - A TRIBUTE TO FABRIZIO DE ANDRÉ AA.VV. - BURLESQUE TEMPTATIONS Sei qui a guardarle ballare perché, in tutta la tua vita, la soddisfazione BEYOND &further che hai cercato nell’amare non è mai stata pari al dolore che ti ha dato il capire. Capire che conoscere fino in fondo una persona non fa che peggiorare lo stato in cui ti trovi (quella bionda si struscia su un palo di metallo) e ti accompagna sempre più in fondo, un pozzo privo di femmine in cui si sta meglio, ma davvero meglio. Miss Dirty Martini guarda Trixie che si agita. (Slaccia il reggiseno, prima spallina, seconda spallina). Un burlesque, quello che serviva stanotte per disconoscere la femminilità mentre la tocchi. (Ti guarda negli occhi come fossero i suoi). Non ti devi illudere che lo spettacolo sia fatto per te, queste signorine non sono tue, sono solo di un palco, per giunta femminista. Allontanarle fischiando al loro ancheggiare te le avvicina. Tutte. (Mi hai rubato gli occhi, ti dice con gli occhi). Tu ti fissi sul seno destro, che è più grosso del sinistro. La tua mano arranca, vorrebbe essere lì ma non si può. Puoi fischiare, urlare, questo sì, e volteggiano i fianchi, le rotondità a volte esagerate delle donne in questa sala. Trixie Malicious si sdraia. L’orchestra raccolta dal direttore artistico del Micca Club, Alessandro Casella, suona per le «follie dei poveri», questo il burlesque, tutta una parodia vittoriana di te che non ami, la confusione eccentrica tra sesso, amore e avanspettacolo. Trixie. La danza del ventre la viene a fare addosso a te, improvvisamente sei nell’occhio di bue, sei l’occhio di un bue, sei il bue. (Occhiolino). Trixie è seminuda e sceglie le tue mani per aiutarla a slacciare gli slips. Chi l’avrebbe detto, un burlesque a Roma. Fischi, schiamazzi, la tua mano in panne, in panni: cerchi di sbottonare la giarrettiera, come lei ti chiede di fare, su, non fare la solita figuraccia con le tue dita di pastafrolla, sei al centro dello show, Trixie deve essere spogliata ora, stanno aspettando. È il punk che arriva ad aiutarti, la rivoluzione che nasce dal basso, improvvisamente accomodi questo New Burlesque tra le gambe e te lo ricordi, ricordi il motivo per cui sei qui: non volevi sapere nulla di lei, non vuoi più saper nulla di femmine, e queste qui ci ridono sopra, un cabaret non ipocrita in cui tutti vogliono solo una cosa. Esser leggeri. Così gli slips vanno via, e in mano non ti resta che lei. Che prende, si volta, e danzando si allontana. Più leggera di così. Osservi. C’è la parete della tua stanza davanti a te. La solitudine. Questo cd. I vinili originali dell’epoca tutti in play. La ferita di lei. Il cabaret che ha fatto mentre se ne andava. La burla più grande. ROMINA CIUFFA atome atom me primitif threeyearsthreedays h re e y ea rsth re e days DA D A NOVEMBRE N VEMBR E NO NEII MIGLIORI MIGLIIORI NEGOZ NEGOZII D DII D DISCHI ISCHI W W W. U R BA N 4 9 . C O M w w w . mys my s p pac ac e . c o m / a ato to m e p r i m I t i f PO PCK pop&rock Ci sono versi di Fabrizio De André pubblicati in manuali di letteratura; diventano citazioni colte, titoli di libri, nomi di band; imperversano su facebook. E le melodie? Be’, anche quelle sono patrimonio universale. Eppure finora non avevamo mai scisso la musica dalle parole. Il lavoro di Danilo Rea, A tribute to Fabrizio De André, dunque, presenta un primo elemento di novità: le storie di De André perdono voce e parole, ma non significato. Il misto di emozioni che vive Maria, nell’Ave Maria, ad esempio, è un inseguimento tra ottave contrapposte che si avvicinano e si riallontanano, perché «gioia e dolore hanno il confine incerto, nella stagione che illumina il viso». Così Bocca di Rosa, grande esercizio di fraseggio e respiro per ogni cantante, rivive nei tasti di Rea come un vociare distinto e corale: la maldicenza che insiste, batte al lingua sulle corde del pianoforte (anziché sul tamburo, come in Un giudice), ma l’effetto è quello. Le interpretazioni di Rea trasformano semplici ballate in piccoli moderni lieder, vivacizzati da improvvisazioni jazz (come in Girotondo). Le canzoni provengono principalmente dai primi lavori di De André. Forse presentimento di un sequel. Nicola Cirillo MARLENE KUNTZ - RICOVERI VIRTUALI E SEXY SOLITUDINI ALT ER NATIVE Oltre vent’anni di carriera, sette album pubblicati e un livello di sperimentazione che pochi gruppi del panorama musicale italiano possono vantare di avere. Questi sono i Marlene Kuntz, il gruppo, che ha fatto dell’alternatività e della ricerca sonora il manifesto del proprio successo. Da sempre catalogati come formazione experimental rock, i Marlene Kuntz fondano le radici della loro arte nella ricerca della deframmentazione dell’armonia. Utilizzando il rumore delle distorsioni come un’attitudine stilistica, come un canale di interpretazione fra pensiero e musica. La band capitanata da Cristiano Godano ha pubblicato il nuovo album Ricoveri virtuali e sexy solitudini. Un’opera che dimostra l’attitudine della band alla scrittura di testi che debbano, in maniera necessaria, raccontare la realtà, la quotidianità. Una poetica, quella di Godano, che esige di parlare del mondo che circonda tutti noi. L’ottavo album dei Marlene Kuntz è un lavoro di concetto, che ha la peculiarità di essere raro nel mondo della musica italiana. Le sonorità sono rock, del genere più grezzo e crudo, scelta questa che è stata fatta per creare un collegamento temporale con i primi lavori della band. Si abbandonano quindi gli stili cantautorali del precedente album Uno, uscito nel 2007. Il nuovo CD è composto da 11 brani, tra i quali è compreso il singolo Paolo Anima Salva, precedentemente uscito e che ha fatto da apripista all’opera completa fin dai primi giorni di novembre. L’album si pone e si impone in un ambito qualitativo superiore alla produzione rock nazionale più diffusa oggi. Anche se la scelta di tornare alle sonorità di un tempo getta su questa nuova opera un velo di nostalgia ed uno scomodo, ma inevitabile, paragone con le prime e migliori opere della band. Lorenzo Fiorillo SWANS - MY FATHER WILL GUIDE ME UP A ROPE TO THE SKY ALT ER NATIVE Uscito il 23 settembre 2010, My Father Will Guide Me Up a Rope to the Sky è l’ultimo lavoro in studio degli Swans a seguito di una pausa durata ben 14 anni. Dopo anni di militanza nel progetto «Angel of Light» e l’esperienza come produttore per la propria etichetta Young God Label, Mr Gira aveva annunciato ai media di volersi dedicare nuovamente al progetto Swans. Non tanto per pura nostalgia. «Questa non è una reunion», aveva detto il leader della post punk-no wave band newyorkese, «stavo solo cercando un modo per andare avanti e muovermi in una nuova direzione, perciò rivisitare il concetto degli Swans mi è sembrata l’unica maniera possibile per riuscirci». Anche se diverso e innovativo rispetto a tutti gli altri album, My Father Will Guide Me Up a Rope to the Sky, che vanta inoltre la collaborazione di Devandra Banhart (voce su You Fucking People Make Me Sick), Grasshopper (Mercury Rev), Bill Rieflin ( Ministry, Lard, The Revolting Cocks, Pigface, Nine Inch Nails, Chris Connelly), non manca certo di quel turbine di emozioni tipicamente oscure che ha fatto degli Swans una band ormai di culto. Cupo, elettrico, nichilista, epico, il nuovo album si apre con il suono di campane e il turbine di chitarre di No Words/No Thoughts, incipit perfetto per un disco che porta dritto negli angoli più nascosti, lasciando dimenticare il resto, che è ciò che poi ci circonda. Valentina Giosa ELISA - IVY POPCK Elisa Toffoli, in pop&rock arte solo Elisa, la si riconosce subito. Minuta, dal volto aggraziato, con un timbro vocale unico nel panorama musicale italiano. Una delle migliori cantanti che il Bel Paese, e non solo, abbia ascoltato. Un’artista completa. Non solo una interprete, ma soprattutto un’autrice dal talento innato. Originale negli arrangiamenti ed innovativa nelle scelte stilistiche, unica nel suo genere per la particolarità di voler comporre la maggior parte dei suoi testi in lingua inglese. Maturata negli anni e cresciuta insieme alle sue opere, Elisa giunge quest’anno al concepimento del suo settimo lavoro, dopo il successo di Heart, pubblicato lo scorso anno e arrivato insieme ad una figlia e ad un amore, Andrea Rigonat, con il quale condivide la carriera artistica. Il nuovo album, uscito il 30 novembre, è battezzato Ivy e non è un inedito, bensì di un concept album in cui sono racchiusi 17 pezzi tra vecchi successi, nuove canzoni e diverse cover dal timbro rock, che l’artista dichiara di «aver scelto con il cuore». NERI PER CASO - DONNE L’opera è interamente riarrangiata su un tappeto musicale completamente nuovo, che ha la particolarità di sintonizzare anche i pezzi cover, sulla lunghezza d’onda della cantante di Monfalcone. Dandole la possibilità, non solo di reinterpretarli, ma anche di renderli un po’ suoi. Gli inediti del cd sono Fresh Air e Sometimes Ago, mentre tra i suoi vecchi successi rivisitati troviamo brani come Rainbow, It is what it is, Lullaby, ed i più recenti Forgiveness e Ti vorrei sollevare. Nell’album non mancano le collaborazioni con altri artisti. È presente un duetto d’eccezione: Anche tu, anche se (non trovi le parole), con il rapper Fabri Fibra. E insieme a Giorgia si può ascoltare Pour Que L’Amour Me Quitte di Camille. Ivy è decisamente un progetto commerciale, ma ben realizzato, dove sono perfettamente amalgamate ballate e canzoni dall’anima rock, con orchestrazioni non banali e mai scontate su cui la voce di Elisa si stende ed estende alla perfezione. Lorenzo Fiorillo PO PCK pop&rock Le ragazze che «decidono il destino dei loro amori» e «volteggiano sulle ali degli aquiloni» sono diventate Donne. I Neri per caso pubblicano il loro dodicesimo lavoro discografico e lo dedicano all’altra metà del cielo. Dieci brani famosissimi completamente riarrangiati e portati nell’inconfondibile stile a cappella che i «neri» hanno avuto il merito di far conoscere al grande pubblico. Come al solito, bando agli strumenti: solo voci e mani per accompagnare una voce femminile diversa a canzone. Donne riunisce infatti in un unico CD le voci di Ornella Vanoni (Io che amo solo te), Loredana Berté (E la luna bussò), Wendy Lewis (Ain’t no Mountain high enough) e Mietta (Baciami adesso) accanto a quelle emergenti di Alessandra Amoroso (Maniac), Noemi (Come si cambia), Karima (Street Life) e Giusy Ferreri (Aria di vita), fino all’indimenticabile voce di Mia Martini. Sì, avete capito bene. I Neri per caso non si fanno mancare proprio niente e si cimentano nel Minuetto di Califano: la voce di Mia Martini si sovrappone alle loro armonizzazioni, mentre i cori sanno farsi da parte al momento giusto per dare spazio alla voce della cantante scomparsa, inimitabile nella sua capacità di strappare un brivido quando canta la sua disperazione («avrei dovuto perderti e invece ti ho cercato»). I fratelli Ciro e Diego Caravano che hanno curato gli arrangiamenti si divertono a stravolgere i brani, prendendo la canzone di Flashdance e facendola diventare uno swing o creando un’atmosfera reggae per E La luna bussò. Ma le vere protagoniste sono le donne che hanno ispirato il disco. Il loro canto è dolcemente accolto dalle voci dei «neri» che preparano per loro un tappeto rosso di suoni e armonie e cori per valorizzarle al meglio. Una dichiarazione d’amore universale per tutte le donne. Anche se, come ribadisce il duetto con Dolcenera, il cuore è uno zingaro e va. Roberta Mastruzzi