Numero 2 - anno 2011 - Istituto Luigi Boccherini

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Codice 602
Nuova serie
Rivista dell’Istituto Superiore di Studi Musicali “Luigi Boccherini” di Lucca
N. 2 - anno 2011
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«CODICE 602»
Nuova serie
Il titolo della Rivista è un omaggio ad una delle più antiche tradizioni musicali lucchesi.
Risale, infatti, all’XI secolo il prezioso Antifonario noto come Codice 602, custodito nella Biblioteca Capitolare
Rivista annuale dell’Istituto Superiore di Studi Musicali
“L.Boccherini” di Lucca
N. 2 - Dicembre 2011
Autorizzazione del Tribunale di Lucca n. 867 del 20.10.2007
Direttore Responsabile: Carmelo Mezzasalma
Responsabile editoriale: Sara Matteucci
Comitato di redazione: Giulio Battelli, Sara Matteucci, Carmelo Mezzasalma, Fabrizio Papi
Comitato scientifico: Giulio Battelli, Marco Mangani, Guido Salvetti
In questo numero hanno collaborato:
Carlo Bellora, Carlo Bianchi, Matteo Cammisa, Sara Matteucci, Stefano Ragni, Macrì Simone
Progetto grafico e stampa: Felici Editore
via Carducci 60 - 56017 Ghezzano (PI)
tel. 050 878159 - fax 050 8755897
www.felicieditore.it)
Direttore dell’Istituto Superiore di Studi Musicali “L.Boccherini: GianPaolo Mazzoli
Presidente: Ugo Giurlani
Istituto Superiore di Studi Musicali “L.Boccherini”
Piazza del Suffragio, 6
55100 - Lucca
Tel. 0583 464104
Sito web: www.boccherini.it
La Rivista «Codice 602» Nuova serie è realizzata grazie al contributo di: Fondazione Banca del Monte di Lucca
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Indice
Editoriale
di Carmelo Mezzasalma
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Contributi
Vers l’abîme.
Considerazioni sul tardo stile pianistico di Alexandr Skrjabin
di Carlo Bianchi
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E i giovani artisti si preparino divoti:
I musicisti del XXI secolo davanti al pensiero di Giuseppe Mazzini
di Stefano Ragni
25
La merce buona trova facilmente un compratore (Plauto)
ovverosia: piccolo vademecum per l’organizzazione dello spettacolo
dal vivo
di Macrì Simone
55
Intervista a Ennio Morricone
di Sara Matteucci
59
Studi sulla musica lucchese
Filippo Manfredi, violinista virtuoso, collega di Luigi Boccherini
e anticipatore di Niccolò Paganini
di Carlo Bellora
61
La parola agli studenti
Fare musica oggi. Fugaci riflessioni su suoni e suonatori moderni
di Matteo Cammisa
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Editoriale
di Carmelo Mezzasalma
«L’albero che nell’orecchio sorge». Così Rainer Maria Rilke definiva la
musica nel primo dei Sonetti a Orfeo dal momento che spetta alla musica –
questo linguaggio senza concetti – di portarci notizie non solo del nostro
mondo ideale, ma anche della profondità umana che emana dai nostri
sogni e dalla loro creatività. Notizie singolari, si direbbe, che generano
stupore, capacità di astrazione, perfino comunione tra coloro che suonano
e altri che ascoltano. Di fatto, la musica non vuole convincerci di nulla ma
solo mostrare le forme in cui si combinano, nell’anima dell’uomo, la meraviglia di ascoltare, l’invenzione di elaborare, la gioia dello stare insieme
con la musica e per la musica. In questo senso, la musica si può soltanto
ascoltare. Non se ne può parlare direttamente, se non nel modo tecnico
che, per così dire, circonda l’ascolto.
Tuttavia, come di ogni altra arte, anche la musica ha bisogno della parola, dello studio che tenta di scandagliarla, della messa a fuoco anche del
musicista che l’ha inventata ed elaborata. Parlare della musica è, dunque,
un modo per continuare a farla echeggiare in noi, o semplicemente per
convincerci che esiste. È questo, tra l’altro, il compito di una rivista come
«Codice 602» che continua, anche in questo numero, il suo cammino tra
pratica musicale – quale si esprime in “Boccherini OPEN” – e il desiderio
di dilatare le motivazioni e i percorsi che ne sono l’anima. Contributi diversi, in realtà, ma che puntano anche alla novità di certi itinerari musicali,
come quello del rapporto tra musica e cinema, presente in questo numero
con l’intervista a Ennio Morricone. Il notissimo autore di musica per film e
che ci ha regalato un indimenticabile incontro nell’Auditorium del nostro
Istituto, peraltro affollato quasi fino all’inverosimile.
Qualcuno diceva che scrivere intorno alla musica significa fare della
mitologia. Ma la musica, quando ci accade, si sottrae alla mitologia, perché è mito in azione. Ed è mito universale e senza il quale tutti resteremmo
poveri di qualcosa di essenziale che impariamo a vivere fin dal seno materno. Come ci insegnano le varie culture del mondo che senza la musica
non potrebbero dirsi nemmeno culture. Ci auguriamo, dunque, che anche
questo numero di «Codice 602» incontri il favore di amici, estimatori ed allievi dell’Istituto Boccherini che vuole rendere così testimonianza del suo
impegno a fare cultura nella musica e per la musica.
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Vers l’abîme
Considerazioni sul tardo stile pianistico
di Alexandr Skrjabin
di Carlo Bianchi
I due Poemi op. 63, i tre Studi op. 65 e le Sonate
op. 64 “Messa bianca” e op. 68 “Messa nera” appartengono all’ultimo periodo creativo di Skrjabin, quello che inizia intorno al 1910-1911 nella scia
della composizione di un gigantesco e suggestivo
brano per grande orchestra, pianoforte, organo,
coro e fonti luminose intitolato Prometeo, o Poema
del fuoco (op. 60). Skrjabin era giunto all’estremo
di una sua peculiare poetica compositiva che già
da tempo si identificava totalmente con il milieu
culturale del simbolismo russo. In queste ultime
opere le soluzioni radicali e ardite, volte a un deAlexandr Skrjabin
ciso superamento dell’eredità tonale – vedremo
(Mosca, 6 gennaio 1872se e come è possibile parlare di a-tonalità – sono il
Mosca, 27 aprile 1915)
risultato di un percorso lungo e fortemente meditato durante il quale Skrjabin aveva ricercato un metodo compositivo che
si ponesse come correlativo oggettivo della sensibilità spirituale – mistica,
progressivamente sempre più religiosa – da lui maturata in simbiosi con
poeti, scrittori e vari pensatori di quel primo Novecento simbolista.
Oltre ai contatti con grandi esponenti del simbolismo letterario, come
Andrej Belyi, Konstantin Bal’mont, Vjačeslav Ivanov e Valerij Brjusov, la
sfaccettata mistica skrjabiniana si era nutrita di varie fonti culturali, filosofiche e psicologiche. Le propensioni di Skrjabin verso un misticismo sempre più intriso di significati religiosi avevano trovato piena rispondenza
nell’antroposofia steineriana e, soprattutto, nel circolo teosofico fondato
da Helena Blavatskij – in particolare nel libro La chiave della teosofia, letto
da Skrjabin nel 1905. A quel tempo egli aveva da poco concluso l’attività
di insegnamento al Conservatorio di Mosca, aveva già scritto una prima
Sinfonia con un testo corale inneggiante alla divinità e all’arte, aveva testé portato a compimento la terza Sinfonia op. 43, il Poema divino, e di lì
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a poco avrebbe composto il Poema dell’estasi. Come, da un lato, egli stava
sviluppando le sue concezioni filosofiche, accentuandone gli orientamenti
religiosi, così, un’evidente virata compositiva, tesa alla sperimentazione
e all’abbandono della tonalità, si rivela proprio a partire da quelle medesime composizioni scritte a partire dal 1904-5 (riguardo al pianoforte
una linea di demarcazione è segnata dalla quinta Sonata op. 53) al punto
che è già da questo momento che si potrebbe parlare di “ultimo periodo”
skrjabiniano. Più precisamente, si potrebbe parlare di una fase finale che
inizia dal 1904-1905 e di cui il periodo dal 1910-1911 costituisce un’estremizzazione. A partire dal Prometeo infatti le strutture musicali si fanno,
comunque, quanto mai sperimentali e ardite, e con il Prometeo il misticismo musicale di Skrjabin inizia ad acquistare una dimensione non solo
religiosa ma addirittura in qualche modo liturgica e rituale – si fa strada
l’idea della “messa” musicale. In particolare, a ridosso di questa composizione Skrjabin aveva iniziato ad elaborare un grande progetto teurgico,
scenico e musicale, da lui chiamato Mistero – in seguito Atto preparatorio a
una trasformazione spirituale personale, collettiva, cosmica.
Le istanze extra-musicali di Skrjabin si ritrovano in vari testi scritti da
lui stesso per le composizioni orchestrali e corali, oltre che in certe sue considerazioni generali raccolte da varie testimonianze e contenute in scritti, quaderni di appunti. Nella produzione pianistica, è certo più difficile
scorgere questi significati, eppure Skrjabin parlava spesso di come il suo
mondo poetico si rivelasse anche tramite il pianoforte. Utilizzò già per la
quinta Sonata alcuni versi dal Poema dell’estasi, sulle “forze misteriose”
chiamate alla vita “dalle oscure profondità dello spirito creatore”, e negli
ultimi anni assegnò ad alcuni brani titoli e soprannomi eloquenti, “Messa
bianca”, “Messa nera”. Alla fine, il brano dal titolo più emblematico sarà
Vers la flamme, un poema pianistico scritto nel 1914, proprio uno degli ultimissimi pezzi, e che testimonia ancora, dopo il Prometeo, l’importanza
che per Skrjabin in questa fase rivestiva l’elemento del fuoco. Inoltre, egli
disseminò le sue partiture di sintomatiche indicazioni agogiche ed espressive; parole e frasi che, a partire dagli anni successivi al Conservatorio,
aveva iniziato a scrivere in francese, per renderle comprensibili a un pubblico internazionale, e che talvolta suonano in qualche modo chiarificatrici
del suo pensiero, talvolta invece misteriosamente allusive.
Un esempio significativo è costituito proprio dalla settima Sonata, la
“Messa bianca” (soprannome impiegato spesso da Skrjabin ma non riportato per iscritto sulla partitura)[Vedi es: 1 e fig. 1b]. Si tratta di un brano
per cui egli spendeva parole di orgoglio (la definiva la sua sonata migliore)
e accanto all’epiteto “Messa bianca” parlava di misticismo purissimo, di
un’opera che già si avvicina al Mistero. All’inizio l’indicazione è prophétique (parola che si trova nell’autografo ma stranamente non nell’edizione a
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stampa). Subito dopo, il mystérieusement sonore prepara la ripetizione del
motivo principale, e così via: per la seconda zona tematica, Skrjabin scrive
avec une sombre majesté; avec una céleste volupté; très pur, avec une profonde
douceur… e verso la fine en un vertige, fulgurant… avec une joie débordante.
Suonano addirittura en délire gli ultimi accordi nella zona acuta della tastiera, prima di quell’enorme arpeggio in fortissimo che pare un’apoteosi e
dopo il quale la Sonata si conclude, dimessa, quasi come quiescenza, nel
soffuso rumorismo acutissimo del trillo.
Per la nona sonata l’appellativo “Messa nera” non sembra sia stato
impiegato da Skrjabin, ma sappiamo da alcune testimonianze che egli la
chiamava “Poema satanico”. Basta l’inizio, légendaire, sopra il breve motivo cromatico, per scorgere una dimensione narrativa confermata dal mystérieusement murmuré indicato per il motivo seguente.
Es. 1: A. Skrjabin, Sonata n° 7 op. 64, “Messa bianca”, batt. 1- 8
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Fig. 1b: Ibid., versione manoscritta
(Questa pagina iniziale è riportata in Alessio Di Benedetto, Alexander Skrjabin. VII Sonata
per pianoforte “Messa bianca”, Milano, Carisch, 1997, p. 141; e in Roman Vlad, Skrjabin tra cielo
e inferno, Bagno a Ripoli (Firenze), Passigli, 2011, p. 203)
Nella parte centrale dopo i rapidi arabeschi la sezione lenta è avec une
langueur naissante. Dopo la ripresa dell’inizio, il clima si fa sombre mystérieux e avec une douceur de plus en plus caressante et empoisonnée… ma in
seguito la narrazione è affidata solo al mistero delle note.
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Es. 2: A. Skrjabin, Sonata n° 9 op. 68 “Messa nera”, batt. 1-15
Dove non giungono le parole del compositore, rimane la realtà della
sua musica a testimoniare e veicolare il mistero dell’Atto preliminare che
egli stava meditando in quegli anni. Quali sono dunque le caratteristiche
strettamente compositive che rivelano tale simbiosi fra musica e pensiero pur nella loro connotazione puramente materiale – anche laddove il
compositore non ha lasciato nemmeno parole o titoli, anche nei Preludi,
perfino in pezzi apparentemente “asettici” come gli Studi? Il concetto che
presiede alla poetica di Skrjabin, in generale, è quello della trasformazione.
Secondo lui tale trasformazione doveva verificarsi tanto nel mondo della
vita e dello spirito, quanto in quello dell’arte e della musica. È dunque in
base a questa idea che si comprende l’evoluzione skrjabiniana verso una
radicale trasformazione delle leggi armoniche, melodiche, ritmico-metriche e contrappuntistiche, e infine formali, ereditate dal XIX secolo. Già
in un quaderno di appunti redatto fra il 1904 e il 1905, quando sia le sue
convinzioni mistiche sia il suo stile compositivo ricevettero un impulso
decisivo, Skrjabin, scrisse che il principio della “libera creazione” è “il deCodice 602
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siderio di novità”1. Rinuncia alle triadi e all’utilizzo dei modi maggiore e
minore, impiego sistematico di scale e armonie altamente cromatiche, organizzazione armonica, ritmica e melodica che scongiura, apparentemente, l’individuazione di un centro tonale di riferimento. Non si può certo
parlare di tonalità nell’ultimo Skrjabin. Ma nemmeno di un mero caos privo di logica, anche in relazione alle citate istanze extra-musicali, mistiche
e religiose, e in generale impregnate della poetica simbolista russa.
Per quanto la ricerca di analogie interdisciplinari possa risultare sovente opinabile, e inevitabilmente nel passaggio da una disciplina all’altra
vadano smarriti certi elementi peculiari, l’assenza di tonalità skrjabiniana
rivela una caratteristica che si può ricondurre a un principio fondamentale
del simbolismo letterario e che, paradossalmente, si rivela proprio nella
fusione fra sfere sensoriali diverse: la sinestesia. Skrjabin la ricercava come
ideale di sintesi fra le arti – altra istanza fondamentale del simbolismo russo – e nella sua musica la rendeva, ad esempio, tramite l’abolizione della
distinzione fra armonia e melodia: una differenziazione e un rapporto che
avevano dominato il linguaggio tonale per quasi due secoli, ma che Skrjabin vedeva infine negativamente come precipitazione dello spirito nella
materia. Egli dunque sosteneva che nella sua musica dell’ultimo periodo,
a partire ancora dal Prometeo, non esistevano melodie o armonie, bensì
armonie melodiche e melodie armoniche. “La melodia è armonia dispiegata e l’armonia è melodia contratta”2. Nell’inizio della “Messa bianca”,
ad esempio, la scrittura skrjabiniana fonde accordi di accompagnamento
con marcati intervalli all’acuto e al grave in bilico fra funzioni melodiche
e cadenzali, bassi profondi con armonie arpeggiate. Nella “Messa nera”
d’altronde l’iniziale breve cellula a due voci si dipana in una mescolanza
di contrappunto e sovrapposizioni di scale e arpeggi. Oltre alla dimensione melodica e armonica, sono tutte le varie dimensioni della scrittura a
confluire l’una dentro l’altra, anche quella ritmica e contrappuntistica, e la
forma risulta infine come un tutto unico. È anche in conseguenza di questo anelito a una unità conchiusa dell’opera musicale che Skrjabin nelle
ultime sonate rinuncia alla tradizionale disposizione in vari movimenti,
in favore di una forma in un movimento solo.
La trasformazione e la novità invocate da Skrjabin corrispondono a un
principio generale di coerenza della struttura compositiva. Le varie dimensioni della scrittura non solo confluiscono l’una dentro l’altra fino a
rendersi indistinguibili ma sono anche conseguenza di medesimi principi
generatori. Skrjabin solitamente procede mantenendosi fedele per tutta la
1
2
Alexander Skrjabin, Appunti e riflessioni, a cura di Maria Girardi, Pordenone, Edizioni Studio
Tesi, 1992, p. 49.
Fabion Bowers, Skrjabin, Gioiosa Edizioni, 1990, p. 156.
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composizione alle “matrici” poste all’inizio – talvolta si può parlare addirittura di strutture pre-compositive. Entra dunque in gioco un altro termine che viene spesso impiegato per definire la coerenza dello stile compositivo di Skrjabin: sistemico. Nelle sue tarde opere non esistono elementi
accidentali, casuali. Tutto si dipana come in un edificio costruito con rigore dalle fondamenta fino al tetto, tenendo conto perfino del numero delle
battute, e in base a un sistema “armonico” – inteso come sistema di organizzazione delle altezze in generale – che a partire dagli elementi di base
determina agglomerati sempre più complessi. Vari studiosi hanno chiarito
da tempo quali siano questi elementi di base. È in particolare l’intervallo
di tritono ad essere impiegato da Skrjabin per formare le sue peculiari
armonie – “inclassificabili” secondo i manuali tradizionali – ma questo
intervallo è parte integrante anche delle nuove scale, esatonali, acustiche
e ottatoniche, variamente cromatiche, che si fondono indistintamente con
le armonie skrjabiniane in virtù dell’invocata confluenza fra armonia e
melodia e dell’ideale di opera come unità coerente e conchiusa.
Queste caratteristiche sono evidenti soprattutto nei pezzi brevi, piccole forme, come i Preludi, o gli Studi, così come nei due Poemi (cfr. inizio
del testo) op. 63. Skrjabin utilizza l’intervallo di tritono per le sue armonie, che si formano come progressive concatenazioni e sovrapposizioni di
questo intervallo, ma anche per le successioni fra i bassi, che determinano
segmentazioni della forma, mentre le risorse sonore esatonali, acustiche
od ottatoniche e altre scale tipiche di Skrjabin talora sono disposte come
vere e proprie scale, talora come costellazioni di suoni non lineari che si
pongono come luogo di appartenenza di accordi, arpeggi, cellule melodiche. Raramente si era visto un compositore sfruttare questi mezzi con tanta
coerenza. D’altronde il tritono si rivela fondamentale per la consequenzialità skrjabiniana non solo nelle tarde opere, considerate singolarmente,
ma anche, diacronicamente, nell’evoluzione stilistica della sua produzione
attraverso gli anni. Ritorniamo dunque al concetto di trasformazione da cui
eravamo partiti, al processo di superamento di quella tradizione tonale,
soprattutto modelli pianistici chopinani, con cui Skrjabin si era confrontato in gioventù. Tale trasformazione si rivela anch’essa coerente e consequenziale in quanto progressiva, avvenuta gradualmente, tramite opere che
Skrjabin avvertiva come “anelli di una stessa catena” o “tappe successive
di una rivoluzione”3. Una concezione che egli aveva trovato anche nella
psicologia di Wilhelm Wundt e nella sua idea di esperienza interiore come
“concatenazione di processi”4.
3
4
Si vedano le testimonianze di Marina Skrjabin e Boris de Schloezer, in Appunti e riflessioni, cit.,
p. XLIX.
Si veda il quaderno di appunti compilato da Skrjabin nel 1904 (Ibid., p. 7).
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Es. 3: A. Skrjabin, Preludio op. 16 n° 4
Fra i numerosi brani pianistici di Skrjabin composti negli anni Novanta
quando le strutture tonali sono ancora ben riconoscibili, si possono trovare
vari esempi di una “coloritura” armonica che si basa proprio sulla funzione-perno del tritono e anticipa le radicali conquiste armoniche successive.
Si può prendere come esempio il Preludio op. 16 n° 4, in Mi bemolle minore, scritto nel 1895 e osservare come il breve tema di tre battute che Skrjabin utilizza per costruire questa piccola forma venga ripetuto variato nella
parte centrale, per creare contrasto, con il motivo “conseguente” (batt. 8-9)
che si arricchisce di una dominante minore con la quinta diminuita, un
Fa bemolle, che rende la dominante un accordo semidiminuito e deforma
le armonie fino al raggiungimento della tonica, quando il motivo viene
ripreso come nella forma iniziale (b. 10). La dominante alterata in questo
caso è dunque un espediente in cui il tritono Fab-Sib crea un peculiare contrasto armonico e formale che aggiorna la tonalità skrjabiniana rispetto a
quella di Chopin cui egli si era ispirato nei primi anni.
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Per Skrjabin questa trasgressione della regola tonale si trasformerà
progressivamente in una nuova regola costruttiva, che vedrà le “dominanti skrjabiniane” concepite non più come alterazioni di accordi costruiti per terze, ma come sovrapposizioni di tritoni e quinte e quarte giuste. Nel caso in cui la dominante di partenza sia minore, come in questo
Preludio, l’abbassamento della quinta rende l’accordo, in senso tonale,
semidiminuito, ma nel contempo, nella nuova prospettiva skrjabiniana,
esso si pone come una sovrapposizione di un tritono e di una quinta giusta. Nel caso in cui l’accordo di dominante sia invece maggiore, l’abbassamento della quinta rende l’accordo interpretabile tonalmente come una
sesta francese, e d’altronde si tratta della sovrapposizione di due tritoni
potenzialmente svincolati dalla funzionalità tonale. Ecco dunque come
gli espedienti armonici sfruttati nel periodo tonale di Skrjabin anticipano
quei principi di costruzione del tritono che determinerà non solo le tipiche
tarde armonie, fino all’accordo “mistico”, ma anche le altre costellazioni
sonore cui abbiamo accennato, in particolare le scale esatonali, acustiche e
ottatoniche che altri compositori di questo periodo raggiungono per altre
vie (ad esempio etniche).
L’abbandono dell’uso delle triadi e dei modi maggiore e minore si pone
in logica continuità con lo stile precedente. Non si tratta di una improvvisa
virata stilistica ma, appunto, di una trasformazione progressiva. In brani
come i tre Studi op. 65, che sono gli ultimi studi composti da Skrjabin, fra il
1911 e il 1912, il ruolo centrale rivestito dal tritono, e dunque dalle progres-
Es. 4: schema delle dominanti skrjabiniane
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sioni, dalle armonie e dalle risorse sonore o scale connesse a questo intervallo, si pone in continuità con una generale preformazione intervallare del
materiale che si concentra rispettivamente sugli intervalli di nona maggiore,
settima maggiore e quinta giusta. Si tratta di intervalli affidati ai bicordi della mano destra, innanzitutto, ma riverberano un ruolo costruttivo in tutta la
struttura della composizione. La linea del basso, nel connettere le armonie
e delimitare gesti cadenzali e minime sezioni formali, rivela una presenza
strutturale del tritono come conseguenza di continue successioni di terze
minori. Basta osservare la prima battuta del primo Studio, dove la progressione discendente del basso per terze minori viene altresì “inquadrata” in
modo simmetrico da due tritoni Mi-La# e La#-Mi. Come spesso succede nei
tardi di pezzi Skrjabin, specialmente quelli brevi, la copertura degli intervalli di tritono o dell’intera ottava tramite concatenazioni di terze minori al
basso determina triadi o settime diminuite distribuite in arpeggio.
Questo è uno dei motivi fondamentali per cui qui, come nel tardo Skrjabin in generale, nonostante l’apparente assenza di strutture tonali risulta
comunque problematico parlare di a-tonalità. Infatti, oltre alle scale cromatiche esatonali e ottatoniche che già erano state impiegate da compositori
della generazione romantica (Chopin e Liszt) o da altri compositori della
fase di transizione come Rimskj-Korsakov, permangono nella sintassi armonica e nei collegamenti fra le unità formali certi rapporti simmetrici, diminuiti ed eccedenti, che non erano estranei al sistema tonale. Piuttosto, ora
essi vengono impiegati ed esperiti in modo totalmente diverso. In alcuni
brani come il Preludio op. 74 n° 3 – l’ultima raccolta pubblicata da Skrjabin
– l’armonia diminuita costituisce addirittura una “linea profonda” che sottende la struttura di tutta la composizione, in diversificato intreccio con la
linearità ottatonica. Ecco perché a livello di analisi il tardo stile skrjabiniano
ha stimolato diversi approcci “misti”, come quello suggerito da Augusto
Mazzoni che fonde set-theory, analisi scalare e un’analisi schenkeriana parzialmente modificata – dove il concetto analitico di prolungamento dei suoni e dunque di “struttura profonda”, che mantiene eventuali residui tonali,
viene stabilito non più in base alla contrapposizione fra consonanza e dissonanza, da Skrjabin ormai abolita, ma in base a proprietà come la durata, la
ripetizione, l’estremità registica, la pregnanza melodica etc.5.
In questo primo studio dell’op. 65 l’armonia diminuita al basso delimita alcuni segmenti, alcune movenze cadenzali, specialmente all’inizio.
Nella parte centrale Meno vivo l’intervallo di tritono è un esclusivo e quasi
sistematico appoggio per i bassi e per le armonie della mano sinistra. La
mano destra suona none maggiori in rapide successioni per lo più cro-
5
Augusto Mazzoni, Derivazioni schenkeriane nell’analisi della musica post-tonale, tesi di diploma
in composizione sperimentale, corso superiore di musicologia, Conservatorio G. Verdi di Milano, a. s. 1995-1996.
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Es. 5: A. Skrjabin, Studio op. 65 n° 1, batt. 1-14
matiche. Nella parte centrale, mentre i tritoni monopolizzano i bassi, le
none ritornano con un gusto più melodico, eppure straniato. Nei due Studi successivi, data la persistenza dei tritoni, delle terze minori e delle relazioni diminuite al basso, i bicordi affidati alla mano destra sono sfruttati
per sonorità più articolate. Nello studio op. 65 n° 2 le settime maggiori si
succedono sfruttando in particolare l’intervallo di terza minore, e si incastonano in scale ottatoniche. Lo Studio è una forma bipartita AA’ dove la
seconda parte è la replicazione trasposta della prima, come sovente succede nei pezzi brevi di Skrjabin. Ognuna delle due sezioni è costituita a sua
volta da una sorta di struttura bipartita in cui i rapporti fra le varie sezioni
– anche questo è tipico dell’ultimo Skrjabin – non sono determinati da
contrasti motivici o armonici ma da una sottile e continua rielaborazione
dei medesimi materiali. La scala ottatonica – che storicamente è connaturale alle strutture diminuite, oltre che ai tritoni – governa i bicordi della
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mano destra in particolare nella seconda parte di ciascuna delle due grandi sezioni, dove genera contrasto tramite una accelerazione delle figurazioni. Nella prima sezione A, verso la fine della seconda parte (batt. 15-16)
dunque prima della ripresa trasposta dell’inizio, l’accelerazione cromatica
dei bicordi-settime produce due differenti scale ottatoniche simultanee:
al grave Fab-Fa-Labb-Lab-Sib-Dob-Reb-Mibb e all’acuto Mib-Mi-Solb-SolLa-Sib-Do#-Reb in una progressione cromatica che continua a inquadrarsi
sull’intervallo di terza minore.
Nel terzo Studio dell’op. 65 le quinte giuste, sopra le volate interrotte della mano sinistra che si appuntano sui soliti tritoni, sono sfruttate
dapprima esclusivamente come bicordi e poi, verso la sezione indicata
impérieux, per formare vari tricordi (sovrapposizione di due quinte) anche
alla mano sinistra, ribattuti velocissimi. Lo Studio di conclude con una
eclatante scala cromatica di tricordi all’acuto, in crescendo, da piano a for-
Es. 6: A. Skrjabin, Studio op. 65 n° 2, batt. 1-19
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tissimo fff, ed è un passaggio che risulta a suo modo emblematico di un
altro aspetto innovativo fondamentale di questi Studi, un aspetto che balza evidente fin dall’inizio del primo brano della raccolta, e che da sempre
è connaturato alla forma dello studio in generale: vale a dire quello della
tecnica esecutiva e del virtuosismo. Nella scia di una grande tradizione,
gli Studi di Skrjabin sono – per certi versi prima di tutto – prove di tecnica
pianistica, in cui la scrittura, particolarmente ardua in questi ultimi tre
dell’op. 65, nello sfidare le capacità dell’esecutore si rivela innovativa e
sperimentale tanto quanto il linguaggio compositivo – o, meglio, in quanto
parte di un nuovo linguaggio compositivo.
Come in Chopin, modello prediletto da Skrjabin fin dalla gioventù, e a
differenza di altri illustri predecessori, come Clementi o Czerny, lo studio
pianistico in Skrjabin è una forma in cui la distanza fra il piano delle esigenze artistiche e quello della “ginnastica” pianistica è ridotta pressoché
a zero. Lo “studio” e la trasformazione della meccanica delle formule digitali corrispondono a sperimentazioni compositive. Fin dall’inizio dello
Studio op. 65 n° 1, si coglie benissimo che le rapide e leggerissime scale
cromatiche dei bicordi/none alla mano destra, sopra gli amplissimi accordi/arpeggi della sinistra, sono un banco di prova sia per il pianista,
alle prese con i problemi di apertura della mano causati dagli intervalli in sovrapposizione e in rapida successione, sia per il compositore, di
fronte al nuovo linguaggio che questi intervalli implicano. E, d’altronde,
tale nuovo linguaggio non si rivela solo negli aspetti armonici e formali
cui abbiamo accennato. Se la difficoltà esecutiva è concepita da Skrjabin
in funzione di una poetica innovativa, ciò non riguarda solo la formazione di nuove scale, accordi, cadenze, una nuova texture e nuove strutture
profonde, ma è proprio il modo in cui questi passaggi risuonano sul pianoforte a risultare inconsueto. Giungiamo così ad un altro fondamentale
territorio della ricerca skrjabiniana: la sperimentazione sul timbro. Nello
Studio op. 65 n° 1, i soffusi e rapidissimi attriti provocati dagli intervalli di
nona maggiore alla mano destra, dissonanze con dinamica sempre in pianissimo (addirittura ppp), “suoni di lamine metalliche” come li definisce
Enzo Restagno6, sembrano prima di tutto voler varcare una soglia fonica, per rendere fantastico l’Allegro di questo brano. In seguito, e così come
negli altri due studi, la ricerca di nuove strutture intervallari determina
una nuova timbrica nella dissonanza emancipata, nelle esplorazioni delle
estremità acute e gravi della tastiera, negli originali sfruttamenti dinamici
e negli improvvisi accostamenti sonori.
6
Oltre a questa espressione si vedano le varie considerazioni di Restagno sugli studi di Skrjabin in generale, in Enzo Restagno, Due virtuosi russi: Skrjabin e Rachmaninov, in Le tentazioni
della virtuosità, a cura di E. Restagno, Milano, Longanesi & C., 1997, pp. 139-166.
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Al di là degli Studi, in tutte le forme della sua produzione pianistica,
Skrjabin ricercava un nuovo mondo sonoro anche tramite lo studio di nuove figurazioni, talvolta visionarie, che avrebbero influenzato successivi pianisti-compositori del Novecento (ad esempio Prokof’ev). Il tardo pianismo
di Skrjabin è tutto pervaso di irregolari gruppetti di note disgiunte, ampie
acciaccature, brevissimi arpeggi deformati, il cui effetto innovativo non risiede solo nel timbro ma è proprio quello della figurazione strana in quanto
tale, addirittura nella poetica della sorpresa, dell’effetto volutamente bizzarro. Questo è evidente ad esempio nella scrittura del secondo dei due brevi Poemi op. 63, intitolato appunto Etrangeté, che alterna in modo intermittente abbellimenti scomposti a brevi scale di note staccate, piccoli gruppetti
difformi a velocissimi arpeggi dagli intervalli inusuali, ora amplissimi, ora
strettissimi, e poi pause improvvise, accordi dissonanti e isolati.
Anche nel primo dei due Poemi, Masque, l’imprevedibilità delle figurazioni viene sfruttata con intenti evocativi. Basta considerare l’indicazione
énigmatique che viene posta alla fine della prima frase, proprio dove la
mano sinistra conclude con una improvvisa accelerazione di un arpeggio in sedicesimi (accentuato paradossalmente da un molto ritardando che
giunge dopo un progressivo accelerando delle crome iniziali). La fine della
seconda frase invece è indicata bizarre sulla cadenza di un tipico accordo
skrjabiniano fatto di due tritoni e una quarta giusta, dimostrando quindi
come gli aspetti “superficiali” della sperimentazione skrjabiniana si fondono con quelli più “strutturali” legati alle armonie per quarte, gli accordi
“sintetici” che qui vengono impiegati sistematicamente in cadenza, ma
anche all’utilizzo di varie scale post-tonali – le crome della figurazione
iniziale suggeriscono inizialmente una scala “acustica” da cui la frase fuoriesce alla fine in modo énigmatique.
Il mondo sonoro a cui Skrjabin era giunto in questi anni tramite una
progressiva e inesorabile trasformazione si avvaleva di tutti i mezzi che il
pianoforte gli poteva mettere a disposizione. Riguardo al timbro andrebbe fatto anche un discorso per il pedale di risonanza, che insieme al pedale una corda e al pedale tonale costituisce la risorsa timbrica forse più
eclatante di questo strumento. Le indicazioni lasciate sulle partiture non
sembrano particolarmente rivelatrici, ma possiamo ricordare il giudizio
dato sullo Skrjabin esecutore da N. N. Cherkass, quando egli asseriva che
Skrjabin “toglieva il piede dal pedale solo per rimettercelo”. Questo a suo
dire era un modo per compensare una cattiva articolazione delle dita, di
un esecutore che in realtà “era un cattivo pianista”, ma sembra anche che
la continua pedalizzazione di Skrjabin, nel suonare le sue musiche, facesse
parte, coerentemente, di un’oasi interpretativa descritta come ammaliante, capace di rapire, aritmica, nervosa, magica, dai colori incantevoli, piena
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di pause e silenzi che si caricavano di significato7. Infine, se lo stile esecutivo di Skrjabin si distingueva e ammaliava anche per “aritmia” e frequenti
pause, anche questo aspetto pare indicativo del suo stile compositivo, perché, non a caso, un’altra caratteristica tipica delle tarde opere di Skrjabin
è proprio l’inatteso sfruttamento della pausa e, soprattutto, la frequente
“confusione” ritmica: la sovrapposizione di figure ritmiche contrastanti
e irregolari, tese ad occultare una pulsazione profonda, che si ponga in
sintonia con il metro di battuta. Tale originalità ritmica certo contribuisce
all’ideale dell’innovazione, e in particolare il caos delle figurazioni sembra farsi parte, ancora, dell’idea di confluenza fra le varie dimensioni della
scrittura e fra le classi operative della composizione.
Ecco dunque che se la mistica trasformazione invocata da Skrjabin nel
Mistero e nell’Atto preliminare emerge in tutta la sua forza e coerenza anche
nei brani per pianoforte, questo non riguarda solo i titoli “Messa bianca”,
“Messa nera”, Vers la flamme e non solo le indicazioni agogiche ed espressive. Sono tutti gli aspetti della scrittura pianistica a caricarsi di una valenza fortemente simbolica: dalle soluzioni strutturali dell’armonia melodica e della melodia armonica alle figurazioni più superficiali e ai minimi
dettagli delle strutture ritmiche, dalle indicazioni dinamiche alle pause,
perfino gli abbellimenti, i trilli, “solventi che smaterializzano la sostanza
sonora” (Restagno) e tutti quegli espedienti rumoristici con cui Skrjabin
stava aprendo nuovi mondi al timbro del pianoforte.
La trasformazione, sempre esperita come attesa, coinvolge tutto, in
modo coeso, eppure ritornando sempre agli elementi da cui essa era partita, come il tritono. Abbiamo visto come questo intervallo sia seminale di
tutto sistema armonico e scalare del tardo Skrjabin. D’altronde, tale generazione, nella sua coerenza, avviene in base a un principio dialettico, di
contrapposizione. Le due note che compongono il tritono, infatti, danno
origine a un sistema “duale” delle armonie – come lo ha definito Boleslav
Javorskij – dove ogni armonia si genera in contrapposizione ad un’altra,
sempre in base a un collegamento per tritono. Ma sono anche le scale a
inserirsi in questa modalità duale, in base a principi ancora una volta assai
logici e stringenti – e che qui non possono essere indagati nel dettaglio per
motivi di spazio. Anche a livello formale, specialmente nelle forme complesse, come nelle due Sonate op. 64 e op. 68, le varie idee si relazionano
fra loro in base a un principio di opposizione/generazione del tritono. Ad
esempio, i temi principali iniziali della “Messa bianca” si alternano fra la
polarità della nota La (prima prophétique e poi avec una céleste volupté) e Re#
(mystérieusement sonore e poi avec une sombre majesté). Come nella “Messa
nera” la contrapposizione strutturale è fra la nota Si, come all’inizio lé7
Riportato in F. Bowers, Skrjabin, cit., p. 211.
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gendaire, e il Fa di certe sezioni successive. In questi principi dialettici risiedeva ovviamente una valenza profondamente simbolica. Basti pensare
a come Skrjabin descriveva il tema iniziale della “Messa bianca” – tema
scintillante, o “fontana di fuoco” che “conduce alla danza suprema con
l’intervento delle trombe e degli arcangeli” – o quando nella “Messa nera”
parlava del secondo tema come di “un appello alle forze del male”.
La dualità compositiva skrjabiniana ovviamente si estendeva ben oltre
il ruolo centrale del tritono – così come la dualità simbolica agiva ben oltre
le strutture di una singola composizione. Anche solo la contrapposizione
fra “Messa bianca” e “Messa nera” è indicativa di come tutto il misticismo di Skrjabin fosse pervaso da una contrapposizione fra le forze del
bene e del male, e dunque di come egli in virtù di questa carica religiosa dualistica ponesse accanto alle composizioni divine, sante e angeliche
quelle demoniache e sataniche. Al di là del fatto che nella Russia di quel
tempo le messe nere si celebrassero davvero e facessero parte di un certo
tipo di cultura, questa dualità era caratteristica di molte forme di pensiero
mistico e religioso che si erano sviluppate a cavallo dei due secoli, dalla teosofia della Blavatskij all’antroposofia di Rudolf Steiner, alla teurgia
apocalittica di Vladimir Solov’ëv, ed era anche tipica del mondo poetico
del simbolismo russo in generale. In questi primi anni del Novecento, i
simbolisti russi, letterati poeti e pensatori, avvertivano e preconizzavano,
come Skrjabin stesso, la necessità di una trasformazione dell’umanità che
si stava realizzando grazie a un catartico conflitto – sovente venato da simboli della religiosità cristiana – fra le forze del bene e del male. Attraverso
il milieu simbolista, la Russia stava convergendo verso un inaudito scontro
materiale: la prima guerra mondiale, con la rivoluzione bolscevica al suo
interno. Eppure questi conflitti, come già altri precedenti – ad esempio la
guerra russo-nipponica del 1905 –, non venivano vissuti come meri eventi
militari e socio-politici, bensì filosofici e spirituali, addirittura ultraterreni.
E se da un lato, come a suo tempo argomentò il filosofo Nikolaj Berdiaev,
gli archetipi spirituali, mistici e demoniaci di questo caos risalivano anche a certe figure letterarie, come Gogol, Tolstoij e Dostoevskij8, d’altronde
si trattava di un caos in cui trovava piena rispondenza larga parte della
contemporanea poetica simbolista9. Sotto l’impatto della nuova violenza
militare tecnologica, la dematerializzazione del mondo fenomenico si poneva in sintonia con la poetica del simbolo e in generale con la percezione
8
9
Si veda in particolare Nikolaj Berdiaev, Durchi russkoj revoljucij [Gli spiriti della rivoluzione russa] pubblicato in russo per la prima volta nel 1918; in italiano, fra le varie traduzioni, si veda
quella di Pietro Modesto per l’edizione, Bruno Mondadori, Milano, 2001 (introduzione di G.
Herling, a cura di Mauro Martini).
Ben Helman, Poets of Hope and Despair. The Russian Symbolists in Russian and Revolution, Helsinki, Institute for Russian and East European Studies, 1995.
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e la ricerca di un altro mondo, dietro le apparenze di quello esistente. Fu
lo stesso Skrjabin nel 1915, da poco scoppiata la guerra, ad affermare esplicitamente, in una lettera indirizzata ad Alexandr Brjančaninov, che quella
catastrofe si inseriva a pieno diritto nel percorso di trasformazione umana
ed artistica che egli aveva portato avanti coerentemente per tutta la vita
Non posso fare a meno di esprimerti la mia simpatia riguardo al pensiero da te
espresso nell’ultimo numero di “Novoe Zveno” sul significato educativo della
guerra. Hai espresso l’idea che io stesso medito da molto tempo della necessità che le masse vengano periodicamente colpite da scosse che rimettano a
punto l’organizzazione dell’uomo e che lo rendano sensibile alla percezione di
vibrazioni più fini di quelle cui ha reagito fino ad allora. Commettono un grave
errore coloro che vedono nelle guerre solo un male ed il risultato di dissidi sorti
per caso tra i popoli. La storia delle razze è l’espressione periferica dello sviluppo di un’idea centrale oggetto della contemplazione dei profeti, la quale viene
avvertita dai creatori-artisti nei momenti di ispirazione. Lo sviluppo di questa
idea è subordinata al ritmo delle realizzazioni particolari, mentre l’accumulo
di energie creative, agenti in periferia, produce degli sbalzi che determinano il
movimento evolutivo delle razze. Questi sbalzi (cataclismi, catastrofi, guerre,
rivoluzioni, ecc.), scuotendo l’animo della gente, le rendono percepibile l’idea
nascosta dietro gli eventi esteriori. Si chiude il cerchio e la tappa è compiuta.
Ancora una realizzazione, ancora una volta l’idea creativa si è impressa nella
materia. Noi stiamo attraversando attualmente proprio un periodo di tali spostamenti e questo secondo me è il sintomo di uno stato d’animo maturo e desideroso di concretizzarsi. In tali momenti viene voglia di lanciare un appello a
tutti gli uomini capaci di concepire il nuovo, agli uomini di scienza e agli artisti
che finora si sono astenuti dalla vita sociale, ma che in realtà inconsapevolmente hanno fatto la storia. È giunto il momento di spingerli a creare nuove forme
e a risolvere nuovi problemi sintetici10.
Non avrebbe fatto in tempo a vedere la rivoluzione, Skrjabin. Nondimeno, gli “sbalzi” avrebbero determinato una trasformazione che per certi
aspetti corrispondeva a ciò che lui stava auspicando. Da questi sconvolgenti riti di passaggio sarebbe nato “un nuovo tipo antropologico” (Berdiaev) che, pur militarizzato e indurito nell’animo, aveva sviluppato una
nuova percezione dei dati reali, alla ricerca di nuovi miti, simboli, idoli. Se
dunque la musica dell’ultimo Skrjabin nel suo farsi sempre più sperimentale e meno “corporea” può essere certo interpretata come parte di una
generale tendenza della musica europea verso il superamento del sistema
tonale, verso la nascita della musica moderna – e più in generale come
parte di quel cammino verso l’astrattismo che coinvolgeva le esperienze
10 Dalla Lettera ad Alexandr Nikolaevič Brjančaninov pubblicata sulla rivista «Muzyka», n° 214,
21 marzo 1915, pp. 190-191, riportata e tradotta in Giovanna Taglialatela, Alexandr Nikolaevič
Skrjabin nel Simbolismo russo, Firenze, La Nuova Italia, 1994, pp. 204-205.
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più sensibili dell’arte del XIX secolo – d’altronde, da questi medesimi suoni, veicoli di modernità in quanto aneliti a una trasformazione cosmica,
emergono anche l’inquietudine e la smania che in quegli anni come in
un vortice stavano trascinando la Russia, l’Europa – il mondo –, verso
l’abisso.
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E i giovani artisti si preparino divoti:
XXI secolo davanti al pensiero
di Giuseppe Mazzini
i musicisti del
di Stefano Ragni
Il 20 ottobre 2011 la musica è tornata alla Domus Mazziniana di Pisa.
Tornata, è il caso di dire, perché si sa che in casa Rosselli, dove Mazzini
si spegneva nel marzo del 1872, ambedue i suoi ospiti, Pellegrino e Janet
Nathan, erano suonatori di chitarra1.
Con una chitarra è iniziato il mio rapporto con il Mazzini musicista,
fine intenditore di melodramma, esegeta e filosofo dell’opera italiana, ma
anche suonatore provetto di chitarra. Quella che nel vecchio allestimento
della Domus veniva tenuta in una teca di vetro ad altezza d’uomo, sbudellata e sbrindellata, quasi un feticcio umanoide, immiserita da un paio
di pantofole da camera che giacevano ai piedi dello strumento, accentuandone la grottesca impostazione antropomorfa2.
In una luminosa e calda giornata di ottobre dunque, il Presidente
Giorgio Napolitano, in visita all’Università di Pisa, ha inaugurato nel pomeriggio quello che, dopo l’insediamento di Pietro Finelli, è diventato il
Memoriale Mazzini, ossia una Domus completamente rinnovata, spazio
museale inondato di luce, bacheche e vetrine in grado di competere con
i più moderni ed efficienti ambienti espositivi. La chitarra ora ha assunto
una posizione orizzontale, è in alto, dentro una custodia trasparente, e
sovrasta l’immagine di Emilie Ashurst, una delle donne inglesi che Mazzini seppe sedurre non solo con la persuasività dell’eloquio, ma anche col
1.Denis Mack Smith, Mazzini, Milano, 1993, p. 316.
2
«Quattro corde rotte si arricciavano intorno ai bischeri»: immagine tristissima trasmessa da
Adriano Lualdi nel suo Giuseppe Mazzini e il melodramma italiano, Milano, 1943, p. 18. Arturo
Codignola, che, sostando a Pisa nel 1921, poteva visitare la Domus, scriveva a proposito della
chitarra: «È intatta, ha solo tre corde spezzate. Anche in carcere se la portò, e anche sul trono,
sul suo effimero trono di triumviro della Repubblica romana, quando, per l’assedio, viveva
di pane e uva, e a notte alta, dopo una giornata di lavoro e di febbre, nella sua stanzuccia al
Quirinale s’abbandonava, a mezza voce, a cantare»: A. Codignola, in La Prealpina, Varese, 26
giugno 1955.
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suono discreto e sapiente della sua chitarra. Quella che appunto vediamo
è quella che fu legata al museo da Filippo Bettini, compagno di studi di
Mazzini all’università e scrupoloso amministratore dei beni da lui posseduti a Genova. Nella lettera che accompagnava lo strumento destinato a
Janet Rosselli, Bettini asseriva:
Giuseppe Mazzini, mio vecchio amico, mi scrisse di far pervenire a V.S. una
chitarra che fu già di sua madre e che serbava come memoria. Eseguisco puramente l’incarico e trasmetto oggi alla ferrovia una cassa che la contiene al di lei
indirizzo datomi dal medesimo3.
La chitarra è stata recentemente esposta per tutto il mese di maggio
nel Museo Napoleonico di Roma, nell’allestimento di una mostra intitolata Giuseppe Mazzini e la musica, curata da Anna Villari, Raffaella Ponte,
Giuseppe Monsagrati, Pietro Finelli e Paolo Peluffo e promossa dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri – Unità Tecnica di Missione – in collaborazione con l’Assessorato alle Politiche Culturali e Centro Storico e la
Sovrintendenza ai Beni Culturali.
La visione dello strumento da parte di una folto pubblico che ha visitato la mostra capitolina ha convinto gli organizzatori della necessità di
procedere ad un restauro integrativo dello strumento, come è stato fatto
per l’altra chitarra mazziniana, quella conservata a Genova, la “Gennaro
Fabricatore” del 1821, oggi perfettamente reintegrata e frequentemente
suonata in concerto.
Ma soprattutto ha convinto tutti del fatto che l’immagine di Mazzini
chitarrista non era un’iperbolica invenzione, ma era una realtà documentata non solo dalle lettere dello stesso genovese, ma anche da autorevoli
testimonianze di personaggi dell’epoca, come quella di Aurelio Saffi che
scriveva:
Mazzini amava, sapendosi solo e non ascoltato – talora fra giorno, più spesso a
tarda notte – cantare sottovoce, accompagnandosi colla chitarra; e avea tal voce
che, modulata dal canto, scendeva al core. Mi rammento l’impressione che faceva l’udirlo cantare di tal guisa in Roma, in qualche momento di ristoro dagli
affari nella sua camera privata al Palazzo della Consulta4.
3
4
Nella lettera si legge anche la ricevuta dell’invio: «Lettera del Bettini consegnando a me la
chitarra appartenuta a Giuseppe Mazzini: Janet N. Rosselli»; dal che si arguisce come già allora l’autentica appartenenza di questo strumento all’apostolo politico venisse considerato
un fatto di singolare importanza. I documenti citati si leggono in G. ADAMI, Le chitarre di
Mazzini, in Bollettino della Domus mazziniana, 1990, anno XXVI, n. XI, pp. 115-116.
Aurelio Saffi, Cenni biografici e storici. A proemio del testo in Scritti editi ed inediti di G. Mazzini,
vol. IX, (Politica III), Roma, 1877, pp. LVI-LVII.
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E i giovani artisti si preparino divoti
Se e quando si restaurerà anche questa seconda chitarra appartenuta
e certamente suonata da Mazzini, potrò dire concluso il percorso iniziato, tra l’incredulità e il sincero stupore di tanti, nell’ormai lontano 1989
quando pubblicavo per gli Annali della mia Università il primo saggio
sugli aspetti che legavano la musica al grande utopista politico. Il saggio
aveva per titolo Giuseppe Mazzini e la chitarra: un inedito capitolo de “La filosofia della musica”. Eravamo nella Prima Repubblica, ed esisteva ancora il
Partito Repubblicano: da lì mi pervenne un messaggio verbale sommesso,
ma autorevole, quello di lasciar perdere… L’argomento andava a toccare una figura somma dell’Unità d’Italia e mescolarla alla musica veniva
considerato una diminutio del prestigio del grande pensatore, quasi una
occhiuta e indiscreta dimensione della vita privata di cui ci si dovesse vergognare. Un atteggiamento che nel nostro paese data “da sempre”, ovvero
da quando la letteratura e il relativo accademismo universitario hanno
sancito l’aspetto ludico ed eterodosso dell’attività musicale. Con gli effetti
che si vedono tuttora sulla ambigua riforma dei Conservatori e sulla quasi
inesistenza di reali rapporti di reciprocità tra il mondo dell’educazione
pubblica e la formazione musicale5.
D’altra parte dire di Mazzini chitarrista voleva dire inserirlo in una
corolla di personaggi che con la chitarra avevano avuto dimestichezza,
primo tra questi un assoluto dispregiatore della musica operistica come
Vittorio Alfieri. Ebbene, il conte astigiano nella sua autobiografia non si
tirava indietro sul fatto di essere, in privato, un chitarrista per diletto:
Torno a quel mio ritiro estivo in Cézannes, dove oltre l’abate letterato aveva
anche meco un abate citarista che m’insegnava a suonare la chitarra, strumento
che mi parea ispirar poesia e pel quale qualche disposizione avea; ma non la
stabile volontà che si agguagliasse al trasporto che quel suono mi cagionava.
Onde in questo, né sul cimbalo, che da giovane avea imparato, non ho mai ecceduto la mediocrità, ancorché la fantasia e l’orecchio fossero in me musichevoli
nel sommo grado. […] Avviatomi alla volta di Piacenza e di Parma, m’andava a
passo tardo e lento, ora in biroccio, ora a cavallo, in compagnia dei miei poetini
tascabili, tre soli cavalli, la chitarra e molte speranze della futura gloria6.
Certo, a scandagliare le figure chiave del Risorgimento si vedrà innanzi
tutto come gli interessi musicali di Casa Savoia fossero esigui, limitati,
nel caso del “Re Galantuomo” al fatto che la Bella Rosina era figlia di un
tamburo maggiore di banda militare. E che il Vercellana senior fosse una figura discesa dritto dritto dall’Elisir d’amore lo testimonia questa immagine
5
6
Stefano Ragni, Giuseppe Mazzini e la chitarra: un inedito capitolo de “La filosofia della musica”, in
«Annali dell’Università per Stranieri», giugno 1989, pp. 215-223.
Vittorio Alfieri, Vita, Torino, 1974, pp. 154 e 160.
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tratta dall’Autobiografia di Enrico Della Rocca che lo ricorda maestoso e
solenne durante le evoluzioni delle esercitazioni:
I soldati usciti dalle caserme arrivavano con la loro banda ed apriva la marcia
alla musica un colossale tamburo maggiore, bellissimo uomo che attirava tutti
gli sguardi. Mentre i soldati erano occupati e la musica taceva, egli passeggiava
in su e in giù, fermandosi talvolta presso i bambini che, come me, lo guardavano con occhi pieni di curiosità e di ammirazione; sorrideva, si chinava, prendeva l’uno o l’altro, e sollevandolo per aria se lo metteva a sedere sulle larghe
spalle. A quello pareva d’essere sulla vetta d’un monte […]7.
Pittoresca immagine di un Dulcamara suonatore, che riappare poi nel
finale del Quadro del Quartiere Latino della pucciniana Bohème, conservando intatta tutta la capacità di fascinazione; ma comunque è un po’
poco per il primo re d’Italia. L’unico esponente di casa Savoia ad aver
nutrito interessi musicali è stata Margherita, nipote di Vittorio Emanuele,
regina d’Italia quando sposerà Umberto, suonatrice di pianoforte, amante
della musica tedesca e allieva di canto di Francesco Paolo Tosti8.
Per la musica della dinastia regnante italiana, a parte gli esternamenti
canzonettistici dell’ultimo rampollo di famiglia, Emanuele Filiberto, parla
meglio di tutti quella Marcia reale assunta come inno del regno sardo con
decreto del 2 agosto 1834. L’aveva scritta Giuseppe Gabetti, maestro della
banda della brigata Savoia e primo violino del Teatro regio di Torino, come
Marcia di parata della Brigata Guardie, ma la musica, piuttosto pimpante
anche se altezzosamente caracollante, divenne l’emblema sonoro con cui
gli italiani sono andati a morire sui campi di battaglia fino al 19459. E si sa
che dall’altra parte del Ticino le truppe austriache marciavano con un altro
calibro di musica, quell’inno imperiale austriaco Gott erhalte den Kaiser che
nel 1797 Haydn aveva consegnato all’esercito asburgico e alla posterità: è
una pagina che incede con il senso della potenza e della storia, musica di
un paese unitario da secoli, legato a una famiglia che aveva saputo fare
della tolleranza e della clementia un intelligente strumento di governo10.
Forse, a proposito dell’arroganza che traspare dalla Marcia reale sabauda,
è opportuno citare una pagina dal forte sapore acusticamente evocativo,
quella con cui Giuseppe Cesare Abba ricorda la rivista militare che Vittorio
7
Paolo Pinto, Vittorio Emanuele II. Il re avventuriero, Milano, 1995, p. 82.
9
Tarquinio Maiorino, Giuseppe Marchetti Tricamo, Piero Giordana, Fratelli d’Italia. La vera storia
dell’Inno di Mameli, Milano, 2001, pp. 117-119.
8
Carlo Boschi, Tosti e la vita musicale romana dall’Unità agli inizi del secolo, in Tosti, a c. di F. Sanvitale, Torino, 1991, pp. 99-106.
10 Francois Fejto, Requiem per un impero defunto. La dissoluzione del mondo austroungarico, Milano,
1990, p. 174.
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E i giovani artisti si preparino divoti
Emanuele concesse, frettolosa e indisponente, alle camicie rosse di Garibaldi dopo l’incontro di Teano (che poi non avvenne a Teano) e il passaggio
delle consegne tra l’esercito volontario, cencioso e lacero, e l’armata sabauda: mentre diecimila soldati dei vermigli battaglioni aspettavano, pied-arm,
il sovrano, s’udì, a destra della lunga fila lo squillo di una tromba:
Attenti… il re! […] Intanto le bande suonavano, e quella dei granatieri pareva
dicesse: “basta, ora, andate, andate!”11.
Procedendo per esclusione, possiamo elidere subito il conte Cavour dai
patiti della musica: lui, da vero statista proteso in un progetto per il futuro
del suo paese, anche quando era all’estero studiava fabbriche e metodi
di coltivazione e non aveva tempo, né orecchio, per la musica. Occasionali e sporadici ascolti, un Puritani di Bellini a Parigi, o un Guglielmo Tell,
ottennero come unico commento che lui non capiva le parole. Quando
Mercantini scrisse i versi destinati a Garibaldi, al suo immortale Inno dei
Cacciatori delle Alpi subito musicato da Olivieri, Cavour espresse sdegno
per la retorica “volgarità” delle parole12.
Diverso il discorso su Garibaldi, inspiegabile conoscitore di romanze
d’opera al punto di saper intonare la cabaletta del secondo atto della donizettiana Gemma di Vergy, «Questa soave immagine», ma anche imprevedibile estensore di un suo personale canto, parole e musica, dal titolo
emblematico di Inno ai Romani13. D’altra parte si sa che per la musica garibaldina, che fosse la canzone napoletana di Libero Bovio con le melodie di
Rodolfo Falvo, o l’intonazione pretenziosa di Mercadante (1860), la marcia
funebre di Agostino Mercuri o la canzone inglese di Eliza Coock musicata
da James Hatton, tutto si legava a quella particolare “musicalità” entusiastica ed entusiasmante che emanava dalla figura del condottiero, tanto che
giustamente uno studioso contemporaneo può affermare:
Questa voce narrante […] dovrebbe raccontare dei fratelli Attilio ed Emilio
Bandiera che scendendo il vallone di Rovito per essere fucilati cantarono un
brano della Donna Caritea di Mercadante, ascoltata diverse volte alla Fenice di
Venezia o del “baritono” Garibaldi (il mito era anche nella sua voce, intensa e
dolce) che nella lunga notte che precede l’imbarco dei Mille canta arie di Verdi,
Mercadante e Donizetti per poi descrivere quella notte “bella, tranquilla, solenne, di quella solennità che fa palpitare l’anime generose”14.
11 Giuseppe Cesare Abba, Da Quarto al Volturno. Noterelle d’uno dei Mille, Milano, 1980, pp. 170172.
12 Denis Mack Smith, Cavour. Il grande tessitore dell’unità d’Italia, Milano, 1985, p. 172.
13 pp. Della Porta, L’Inno ai Romani di Giuseppe Garibaldi in Perugia e l’Unità d’Italia, a cura di S.
Parlagreco, Perugia, 2011, pp. 118-120.
14 Lucio Villari, Bella e perduta. L’Italia del Risorgimento, Roma-Bari, 2009, p. VI. Sulla musica di
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Per tornare al Mazzini chitarrista, dunque, è agevole ricordare come
la chitarra, più ancora che il pianoforte, fosse lo strumento della media
e piccola borghesia italiana preunitaria: questo per comodità di collocazione, per costi economici e anche per la distanza delle classi sociali italiane dell’epoca dalla conoscenza della grande musica austrotedesca per
tastiera15. Quasi sempre lo studio della musica era un fatto occasionale ed
episodico, limitato a poche sedute impartite nell’adolescenza; ce lo ricorda
Ippolito Nievo:
M’ero scordato di dirvi che a Padova, durante la mia intrinsichezza con Amilcare, io aveva imparato a pestare la spinetta. Il mio squisitissimo orecchio mi fece
acquistare qualche abilità come accordatore, e lì, a Cordovado, mi risovvenni
in buon punto di quest’arte imparata, come dice il proverbio, e messa provvidamente di parte… allora la mia fama spiccò un volo per tutto il distretto e non
vi fu organo né cembalo né chitarra che non dovesse esser tormentata dalle mie
mani per sonare a dovere16.
Poco si sa comunque della reale formazione musicale mazziniana17. E
non è leggibile chiaramente neanche la fonte biografica offerta dal romanzo di Giovanni Ruffini, quel Lorenzo Benoni che rievoca, in forma palpitante e coinvolgente, le fasi della giovanile infatuazione politica operata
da Mazzini su Giovanni, Agostino e Jacopo Ruffini, nella Genova dell’oppressione piemontese. Finita tragicamente l’avventura col suicidio in carcere di Jacopo e l’esilio dei tre superstiti, il romanzo evoca anche momenti
di serenità giovanile, compreso lo studio e lo svago della musica. Nel delineare il personaggio di Fantasio, sotto le cui sembianze si cela Mazzini,
si legge della sua passione per la musica, soprattutto quella di Rossini,
ma non si parla di chitarra che invece era suonata, insieme al flauto, dai
fratelli Ruffini18.
ispirazione garibaldina e sui personali interessi musicali di Garibaldi ho scritto un saggio di
imminente pubblicazione dal titolo La tromba di Garibaldi, Silvana editori.
15 Patrizia Florio, La letteratura pianistica italiana nell’editoria milanese della prima metà dell’Ottocento
in Tasti bianchi e tasti neri, Lucca, 2011, pp. 189-202.
16 Ippolito Nievo, Le confessioni di un italiano, Milano, 1972, p. 760. Nievo versus Manzoni, ovvero
i Promessi sposi imposti e metabolizzati come libro chiave dell’età Risorgimentale: forse se gli
studenti unitari, dopo la riforma Spaventa, avessero letto il capolavoro dello scrittore garibaldino, il livello morale e culturale delle classi politiche della Nuova Italia avrebbe potuto, ma
il condizionale è d’obbligo, essere diverso.
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«Quando era solo con la famiglia soleva cantare, accompagnandosi colla chitarra, o cavandone i motivi di qualche opera favorita»: B. King, Mazzini, Firenze, 1903, p. 148.
18 Giovanni Ruffini, Lorenzo Benoni, Milano, 1927, p. 148. Sulle condizioni dello studio della chitarra a Genova nell’età mazziniana vedi D. Prefumo, La chitarra a Genova nell’Ottocento in La
casana, n. 3, 1978, pp. 10-15.
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La chitarra, per Mazzini, sarà strumento di socializzazione nell’esilio
londinese, quando la suonerà nei salotti delle famiglie democratiche che
prenderanno a cuore la causa della libertà italiana19. E proprio dalle lettere
londinesi che Mazzini invia alla madre è agevole conoscere il tipo di repertorio che il genovese suonava:
Prima di pranzo suonai, per la prima volta da che sono fuori, alcuni duetti per
flauto e chitarra con uno di essi. Anzi, vorrei che, se fosse possibile cercaste nella musica che aveva a casa, qualcosa di concertato qualche duetto, se ne avete,
per flauto e chitarra d’autori buoni, eccettuato Carulli, che scrive troppo facile;
credo ve ne fossero qualcuno di Giuliani, di Kuffner, ecc. poi qualche cosa per
violino, flauto e chitarra, per esempio certe sinfonie della Gazza ladra, del Barbiere
e della Pietra di paragone ridotte da Carulli: qualche cosa per flauto, violoncello e
chitarra, se ne esiste: ed anche qualche quartetto per flauto, violino, violoncello e
chitarra mi pare che vi fosse, non so più se per questi strumenti, qualche cosa di
Paganini. V’era anche, ma non ricordo per che strumenti, un terzetto di Giuliani.
Insomma se avete serbata la musica, scegliete voi: abbiate l’avvertenza di cucire
le parti d’ogni pezzo insieme, o anche meglio, tutto quel che mi mandate in uno
o due volumi, perché pagherà meno di dazio e poi, per diligenza, se vi pare, consegnatelo ai signori Modena per il signor Pellegrino Rosselli, inviatela20.
Troppo facile, dunque, Carulli, e predilezione per Giuliani21. Ma, lo apprendiamo in lettere successive, anche attenzione a Legnani e Picchianti:
Una voglia: tra la musica che manderete vorrei che cercaste di porre, se potete
in qualche modo trovarla, un pezzo mi pare di Legnani o di Picchianti ch’è la
cavatina Largo al barbiere ridotta per sola chitarra. Questo pezzo ch’è il mio favorito, io l’ho avuto, ma l’ho perduto, e qui, a Londra, ben inteso è impossibile
trovarlo. Del resto quanti più pezzi per chitarra sola trovate in casa o da amici
che forse potrebbero farli ricopiare, tanto meglio. Ho proprio sete di un po’ di
musica nuova, dopo tanti anni che non ne ho veduta22.
19 Mazzini esule a Londra dal 1841, inizialmente coi fratelli Ruffini in E. Morelli, L’Inghilterra
di Mazzini Roma, 1941, e F. Fiumara, Mazzini tra le nebbie di Londra, Reggio Calabria, 1987.
«Intanto nell’ospitale cerchia degli Ashurst e Stansfeld il profeta della sorte deponeva le sue
saette e qualche volta prendeva invece la chitarra»: G. O. Griffith, Mazzini profeta di una nuova
Europa, Bari, 1935, p. 146. Mazzini, da parte sua, percepiva la sua accettazione da parte di
questi nuclei familiari londinesi come l’accesso a una vera e propria armonia musicale: «Mi
piace immaginarvi, esseri eccezionali quali siete, uniti tutti insieme, come stelle in un gruppo,
aggirandovi tutti in un circolo uno attorno all’altro… Formate un concento: ogni nota aggiunta sarebbe di troppo e guasterebbe l’armonia, come una sola nota lasciata fuori toglierebbe
ad esso qualche cosa. Io sono stato ammesso, non so come, nel circolo, sono una nota nel
concento»: G. Mazzini, lettera a Bestie Ashurst, Lugano, 27 gennaio 1853, S.E.N. XLVIII, pp.
182-183.
20 Giuseppe Mazzini, Lettera alla madre, Londra, 4 maggio 1841, in Scritti, Edizione Nazionale
(citato d’ora in poi come S.E.N.), XX, p. 186.
21 Marco Riboni, Mauro Giuliani, Palermo, 2011, che tuttavia non cita Mazzini.
22 Giuseppe Mazzini, Lettera alla madre, Londra, 10 aprile 1847, in S.E.N. XXXII, p. 106.
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L’apparizione del mio saggio diede inizio a una serie di ripercussioni
nel mondo chitarristico, ampliate dall’apparizione del testo anche ne “Il
fronimo” (n. 74, gennaio 1991, pp. 36-48). La redazione apparsa nella gloriosa rivista trimestrale di chitarra e liuto edita da Suvini-Zerboni si arricchiva della citazione di nuove lettere riguardanti l’attività chitarristica di
Mazzini, in particolare quelle relative al soggiorno di Grenchen, il piccolo
paese dell’Oberland bernese che accolse Mazzini e Ruffini, aprendo le porte della proverbiale ospitalità che la Svizzera concedeva ai perseguitati
politici di ogni Paese europeo23. In questo appartato paesone (attualmente
nel cantone di Solothurn), una volta oggetto dell’emigrazione italiana di
addetti all’orologeria, i tre liguri furono ospitati in casa del pastore Girard
fino all’espulsione voluta dall’ambasciatore francese. Oggi a GranchenBechtelenbad, in una stanza di un istituto per il recupero di bambini audiolesi si apre, in una piccola stanza, un interessante museo mazziniano
che ricorda con orgoglio la permanenza e la protezione concessa al grande esule. Ebbi il piacere di effettuare un concerto di soggetto mazziniano proprio nel salone dove una volta la famiglia Girard, e quindi anche
i suoi ospiti, consumavano i pasti. E qui avvenne il risibile episodio del
colonnello svizzero che portò sua figlia chitarrista a fare un’audizione, con
effetti catastrofici sull’umore del povero Mazzini24.
Probabilmente su un giovane soggetto a cadute depressive (Mazzini
lo definiva spleen) la chitarra esercitava un potere più che normativo. Per
esserne persuasi è più che sufficiente consultare altre due missive del periodo svizzero, nella prima delle quali lo scrivente manifesta segni di impazienza e di inquietudine:
Da alcuni giorni non ho giornali: il mondo per me è come se non esistesse. Esistesse almeno la mia chitarra e tutti i miei libri! Ma né l’una né gli altri e codesto
stato m’annoia un pochino. Del resto tempo e pazienza25.
Ancora, in previsione di un ventilato arresto da parte della polizia elvetica, Mazzini si prepara al peggio:
Se ci pigliano finisce tutto per me… Come finirà non so dirti. Io potrei ben vivere tutta la mia vita chiuso in una camera, purché per altro avessi tutti i miei libri
vicini: così senza libri, senza chitarra, senza cielo, è troppo26.
23 Giannino Bettone, Mazzini e la Svizzera, Pisa, Domus Mazziniana, «Collana divulgativa», n.8,
1995, pp. 71-88.
24 Giuseppe Mazzini, Lettera alla madre, Grenchen, 24 marzo 1836, S.E.N. XI, p. 293.
25 Giuseppe Mazzini, Lettera alla madre, Solothurn, 5 agosto 1836, S.E.N. XII, p. 7. Sottoposto alle
oscillazioni e alle incognite di una vita da clandestino, Mazzini non aveva sempre a sua disposizione lo strumento.
26 Giuseppe Mazzini, Lettera a Gaspare Ordoño Rosales, Solothurn, agosto 1836, S.E.N. XII, p. 40.
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I miei interessi sulla chitarra mazziniana mi sono valsi nel recente
mese di ottobre la presenza al XVI Convegno Internazionale di Chitarra
di Alessandria dove, nell’auditorium “Michele Pittaluga” ho presentato
un contributo dal titolo La chitarra di Giuseppe Mazzini a 150 anni dall’Unità
d’Italia27.
Per tornare al 1989 ricordo che l’allora direttore della Domus Mazziniana di Pisa, Giacomo Adami, accolse nel Bollettino dell’istituzione il primo
dei mie contributi che aveva per oggetto lo studio dei rapporti intercorsi
tra Mazzini e il quartetto di grandi cantanti d’opera che si esibivano nei
teatri londinesi28. Erano nomi solenni, come quelli di Giovanni Matteo de
Candia, esponente della nobiltà genovese che, aderendo alla Giovine Italia
dovette misurarsi con l’ostilità della famiglia e una condanna a morte dalla quale si salvò con la fuga. A Parigi, dopo aver messo a frutto la bellezza
della voce tenorile, debuttò in Robert le Diable di Meyerbeer, assumendo
il nome d’arte di Mario, in ricordo del tribuno dell’antica Roma repubblicana29. Nel 1839, cantando Lucrezia Borgia all’Her Majesty’s Theatre di
Londra conobbe il soprano Giulia Grisi con la quale, da allora, andò a costituire una delle più belle e acclamate coppie del canto italiano. Mario, la
Grisi, il baritono Antonio Tamburini e il basso Luigi Lablache, costituirono
una pattuglia di generosi artisti che non si tirarono mai indietro quando
Mazzini chiese concerti di beneficenza a favore della scuola per bambini
italiani poveri da lui creata nella capitale londinese, inizialmente aperta in
Hatton Garden30.
Ben presto, oltre all’occasionale contributo di Giovan Battista Rubini
27 Una recentissima produzione pittorica di Giovanna Bartoli e Andrea Podenzana, una tela
incamottata su tavola (1.20 per 1.80) riproduce allegoricamente un episodio bellico della Repubblica romana, raffigurando Mazzini e Garibaldi. In un angolo della tela, significativamente, è dipinta anche la chitarra. Il quadro è stato esposto per la prima volta l’11 settembre
2011 nella Sala Gialla del Circolo dei Forestieri di Bagni di Lucca, nel corso della International
Conference “Art, Literature, the Press and Exil: Relationships between the United Kingdom
and the Italian Risorgimento”, promossa dalla Fondazione Montaigne.
28 Stefano Ragni, Giuseppe Mazzini e Giulia Grisi in Bollettino della Domus mazziniana, anno XXV,
1989, n.1, pp. 29-49.
29 Cecilia Pearse De Candia, Mario De Candia, Firenze, 1913, pp. 43-54.
30 Il 10 novembre del 2010 ho partecipato al concerto di musiche risorgimentali tenuto a L’Aquila
nella chiesa di San Francesco a Pettino. La manifestazione, significativamente rivolta agli
studenti delle scuole secondarie della città martire del terremoto, è stata significativamente
promossa nel giorno in cui, nel 1841, Mazzini inaugurava a Londra la sua scuola italiana. Di
questo hanno parlato, nel corso della mattinata, Giuliana Limiti, presidente della “Mazzini
Society” e Mario Di Napoli, presidente nazionale dell’Associazione Mazziniana Italiana, dibattendo il tema: “Dalla fondazione della scuola di Hatton Garden alla pubblicazione dei
Doveri dell’uomo”. Nella litografia esposta nel nuovo Memoriale Mazzini di Pisa, opera di
Giacomo Mantegazza (1883) si raffigura Mazzini alle prese coi suoi giovanissimi discepoli: in
un angolo della stanza, accatto al caminetto, figurano una cornamusa e una chitarra.
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il “re dei tenori”, altri cantanti si aggiunsero generosamente al gruppetto
di simpatizzanti mazziniani, come Marietta Alboni, il contralto prediletto
da Rossini e il baritono Giorgio Ronconi, l’artista sulle cui qualità Verdi
modellò il personaggio del Nabucco. Con artisti di questo calibro il genovese era certo di poter ricavare ottimi introiti finanziari da destinare alle
necessità della sua scuola:
Ieri, poi, era il giorno della nascita di Madama Grisi, ed era invitato a pranzo
da lei. V’erano parecchi degli altri cantanti, i quali tutti accettarono immediatamente di cantare al nostro Concerto che daremo alla fine del mese venturo31.
Il 1990, dopo gli esordi chitarristici, fu la volta di passare al violino,
nella consapevolezza che il più grande cultore dello strumento era un
concittadino e un contemporaneo di Mazzini. Ma per Niccolò Paganini
nell’epistolario mazziniano non ci sono che parole di esecrazione:
[…] certo l’Italia è la più grande fra tutte le nazioni, dacché Paganini suona
bene il violino – stolidi quelli che non si contentano di questo e cercano altro32.
Di Paganini, dunque Mazzini, nella sua compatta visione politica, deprecava il lato più appariscente, quello animalesco-funambolico, sostegno
di un’arte puramente istrionica che nessun contributo poteva offrire a
quella “musica santa” che, nel progetto di sintesi culturale che il pensatore
andava elaborando proprio nelle giornate di esilio elvetico, avrebbe dovuto contribuire alla rigenerazione culturale e umana del popolo italiano. Dibattendo nel 1834, nel suo scritto Fede e avvenire, dell’importanza dell’arte
messa al servizio di una visione politicamente palingenetica, la musica
avrebbe avuto di lì a pochi mesi la sua trattazione filosofica. Intanto era
chiaro che per una musica consapevolmente impegnata nel processo di
ri-creazione del nuovo cittadino italiano, non c’era posto per virtuosi e
strumentisti frivoli e disimpegnati. Paganini primo fra questi.
Andò meglio a Camillo Sivori, che di Paganini fu emulo e che, dopo gli
esordi londinesi del 1827, aveva stabilito sulle rive del Tamigi le basi della
sua fortuna di continuatore dei prodigi paganiniani. Mazzini, dopo una
iniziale diffidenza, trovò il modo di coinvolgerlo nei concerti di beneficenza per la scuola, ma per due volte si vide rifiutare all’ultimo momento la
prevista partecipazione. Solo al terzo tentativo, ma del tutto casualmente,
il genovese riuscì a far suonare il concittadino in un concerto promosso
31 Giuseppe Mazzini, Lettera alla madre, Londra, 24 maggio 1847, S.E.N. XXXII, p. 153.
32 Giuseppe Mazzini, Lettera alla madre, Grenchen, 10 agosto 1835, S.E.N. XI, p. 48.
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per la scuola, naturalmente ottenendo una entusiastica risposta da parte
del pubblico33.
Da Paganini, sempre procedendo per vie mazziniane, era facile ricadere
poi nelle spire del più paganiniano dei compositori romantici, Franz Liszt.
L’epistolario mazziniano offriva un suggerimento più che incoraggiante:
Liszt è il mio tipo sul piano34;
Sono andato a un suo concerto, dove egli suonava in modo straordinario e ch’io
non ho mai trovato in nessun pianista35;
Liszt è repubblicano36.
Era dunque a Londra che l’esule, ospite spesso di serate musicali che
gli venivano offerte dai suoi amici cantanti, poteva apprezzare e valutare l’arte pianistica di un personaggio che sarebbe probabilmente rimasto
attratto nella sua orbita politica, solo che avesse potuto conoscerlo direttamente. Liszt in quel momento trionfava sulle pedane di tutta Europa,
scorrazzando in ogni dove con un repertorio forse non dissimile da quello
di Paganini37. Ma rispetto al demoniaco genovese, l’altrettanto sulfureo
ungherese aveva dalla sua qualcosa in più, la “vibrazione politica”. Forse
Mazzini valutava, nel suo giudizio sul pianista, anche quel che il compositore sapeva aggiungere di “sociale”, come quell’incredibile pezzo intitolato Lyon, una vera esecrazione sulla tastiera a commento dei massacri
perpetrati in quell’anno a Lione, esercito contro scioperanti delle seterie,
soldati contro operai, e, naturalmente, tanti morti. Lyon è un brano di una
violenza fonica pari, nella dimensione della tastiera, a quel che Prokof’ev e
Šostakovič hanno saputo evocare contro la barbarie nazista, il primo nelle
sue ultime sonate, il secondo nelle Sinfonie “di guerra”. Vi si possono ravvisare la mitraglia, le urla dei feriti, e, nel finale, una sorta di glorificazione
degli operai, dei canuts che vengono glorificati da una sorta di solenne
corale. Una “classe operaia” che va in Paradiso, dunque38. Ma non era
solo questo. Il pezzo era innanzi tutto dedicato a père Lamennais, il prete
che aveva scritto le Paroles d’un croyant, un libro giudicato dal giansenista
Mazzini tra i più creativi dell’epoca e da lui consigliato a tutti i suoi amici.
33 Stefano Ragni, I violinisti romantici italiani: Niccolò Paganini e Camillo Sivori nell’epistolario
mazziniano in “Gli Annali della Università per Stranieri”, dicembre 1990, n. 15, pp. 269-278.
34 Giuseppe Mazzini, Lettera alla madre, Londra, 27 gennaio 1842, S.E.N. XXXIII, p. 29.
35 Giuseppe Mazzini, Lettera alla madre, 3 giugno 1840, S.E.N. XIX, p. 149.
36 Giuseppe Mazzini, Lettera alla madre, 15 luglio 1842, S.E.N. XXXIII, p. 216.
37 Paula Rehberg, Liszt, Milano, 1987, pp. 35-48.
38 Alexander Main, Liszt’s Lyon in “19th. Century Music”, vol. 4, n. 3, 1981, pp. 228-243.
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Lamennais era non solo in rapporti di amicizia con Liszt, ma figurava tra
i personaggi apprezzati da George Sand. E Mazzini, appassionato lettore
delle Lettres d’un voyageur della Sand, poteva trovare Liszt non solo citato
in continuazione, ma addirittura argomento di un’intera Lettre, la settima, quella Sur Lavater et sur une maison déserte39. A sua volta George Sand
poteva considerarsi una pensatrice sansimonista, come sansimonista era
anche, per lo meno in quel momento, Liszt40. E sansimonista è tutta la fase
del pensiero giovanile mazziniano, dunque una sorta di convergenza fatale, necessaria e naturale41. Considerando anche che Liszt è autore di una
cospicua quantità di saggi e di riflessioni sulla musica e sulla collocazione
dei musicisti nel giusto contesto sociale che l’utopia sansimonista destinava agli artisti, si comprende come le convergenze tra il Mazzini filosofo e
il Liszt “artista responsabile” fossero delle migliori e delle più nettamente
delineate42. Naturalmente, nonostante questa cospicua quantità di scritti
tutti sorretti dalla chiara necessità di emancipare gli artisti dal loro ruolo
servile, Liszt, non più corroborato dalla consulenza letteraria e dalla sensibilità umana di Marie D’Agoult, si pose “a servizio” del duca di Weimar,
contraddicendo quindi tutto ciò che aveva sostenuto nella sua enfatica attività editoriale, per tanti versi coincidente con le tesi esposte dal Mazzini
della Filosofia della musica43.
Nel settembre del 2011 ho partecipato a Torino al convegno internazionale “L’unità d’Italia nell’occhio dell’Europa” promosso dal Centro Interuniversitario di Ricerche sul Viaggio in Italia e dalla biblioteca di cultura
“Victor del Litto”, in collaborazione con le Università di Torino, Firenze e
Catania. Nella relazione intitolata Franz Liszt, un repubblicano tra Francia
e Italia ho cercato di ipotizzare quelli che nel contesto della musica europea dell’età delle rivoluzioni avrebbe potuto produrre una reale collaborazione tra il musicista ungherese e Mazzini. Ferma restando l'insolubilità
dell’ipotesi ho preferito collocare l’esecuzione di Lyon all’interno di un
concerto risorgimentale tenuto nella Biblioteca Comunale di Moncalieri.
Dopo lo studio su Liszt era il momento di occuparsi di Rossini, il musicista di cui il giovane Mazzini era appassionato ascoltatore. Se per Liszt
39 George Sand, Lettres d’un voyageur, Parigi, 1863, pp. 196 e seg.
40 Wladimir Karénine, George Sand, sa vie et ses ouevres, Parigi, 1899, II, pp. 394 e seg.
41 Gaetano Salvemini, Scritti di storia moderna e contemporanea, II, Milano, 1957, p. 226.
42 Stefano Ragni, Liszt e Mazzini in «Gli Annali dell’Università per Stranieri», giugno 1991, n. 16,
pp. 119-136.
43 Paradossalmente Mazzini subentrò nella relazione con Marie D’Agoult, naturalmente solo
per affinità politiche e culturali, dopo la sua separazione da Liszt, intessendo con la nobile e
colta dama dell’aristocrazia francese una bella e raffinata corrispondenza. Gli scritti lisztiani,
apparsi sulla Revue et Gazette Musicale de Paris tra il 1835 e il ’37, sono leggibili, in italiano, in
F. Liszt, Un continuo progresso. Scritti sulla musica, Milano, 1987.
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il diaframma prospettico poteva essere stato offerto dalle riflessioni sandiane, per quanto concerne il pesarese la lettura mazziniana avveniva sub
specie della infatuazione stendhaliana:
Dopo la morte di Napoleone c’è stato un altro uomo del quale si parla ogni
giorno a Mosca come a Napoli, a Londra come a Vienna, a Parigi come a Calcutta. La gloria di quest’uomo non conosce limiti, se non quelli del mondo civile,
ed egli non ha ancora trentadue anni44.
Ci vuol poco a capire da dove Mazzini trae la sua immagine quando,
nella Filosofia della musica, proclama:
E venne Rossini. Rossini è un titano. Titano di potenza e d’audacia. Rossini è
il Napoleone d’un’epoca musicale. Rossini, a chi ben guarda, ha compito nella
musica ciò che il romanticismo ha compito in letteratura45.
Toccare Rossini e riferirsi alla Filosofia della musica è un tutt’uno, quindi
limitandoci a citare lo scritto in questione, passiamo ad altro46. Il testo a cui
ci riferiamo prende in esame le convergenze che convogliano sia Mazzini
che la citata George Sand verso un grande successo meyerbeeriano, Les
Huguenots. Paragonabile oggi a una primavera di Praga o a una piazza
Tienammen, il massacro dei riformati perpetrato dai cattolici francesi nella cosiddetta “notte di San Bartolomeo” (agosto 1572) è una delle pagine
peggiori della storia europea. Mazzini era attratto dalla dimensione politica espressa dalla musica di Meyerbeer:
Prediligeva, dopo il Guglielmo Tell di Rossini, gli Ugonotti di Meyerbeer47.
Certamente la riflessione su una delle Lettres sandiane, la XI, indirizzata appunto a Meyerbeer, accentuava la disposizione di Mazzini verso la
produzione dell’autore tedesco di cui, nella Filosofia cita il Robert le Diable
paragonandolo addirittura al Don Giovanni di Mozart48. Accostamento per
44 Stendhal, Vita di Rossini, Torino, 1983, p. 3. L’edizione a stampa è del 1824, ma l’opera risultava già disponibile alla fine del ’23. Biografia affettuosa e inattendibile, oltretutto non autorizzata dall’oggetto della medesima, la Vie va ancor oggi letta e gustata con le “ragioni del
cuore”: O. Matteini, Stendhal e la musica, Torino, 1981, pp. 193-223.
45 Giuseppe Mazzini, Filosofia della musica. Note di lettura di Stefano Ragni, Domus mazziniana, Pisa,
Collana scientifica, 23, 1996, p. 22.
46 Stefano Ragni, La musica di Rossini nel pensiero di Giuseppe Mazzini, in Bollettino della Domus
mazziniana, anno XXXVIII, 1992, n. 2, pp. 150-171.
47 Aurelio Saffi, A proemio del testo, cit., pp. LXXI-LXXII.
48 Stefano Ragni, Les Huguenots di Meyerbeer tra George Sand e Mazzini in “Annali dell’Università
per Stranieri” luglio-dicembre 1993, n. 19, pp. 165-180.
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noi bislacco, ma ai tempi in questione la ricezione del magniloquente stile
meyerbeeriano era un fatto condiviso dalla migliore cultura europea49. Gli
Ugonotti saranno oggetto di desiderio per il Mazzini londinese:
Non ho potuto, per mancanza di tempo, sentire un po’ di musica tutta questa
stagione: avevo una gran voglia di sentire gli Huguenots di Meyerbeer, ch’è il
mio gran compositore […]50.
Lo sdegno per l'intolleranza politica e la sopraffazione religiosa così
ben rievocato da Meyerbeer che, come esponente di una categoria di europei più che perseguitati, sapeva di cosa trattava, avvolgevano la musica
de Les Huguenots in una sorta di sudario che traspirava poeticità di martirio. Riparleremo di Meyerbeer a proposito della Filosofia della musica, dopo
aver sinteticamente citato una produzione del 1996, scaturita dalla partecipazione alla giornata di studio tenuta nella Domus pisana il 2 dicembre
del ‘95. Convegno breve dedicato a “Mazzini e le arti”, con un contributo
dal titolo Di gloria e di patria: Giuseppe Mazzini tra Mercadante e Rossini51. Il
contributo prendeva lo spunto dall’ascolto della prima ripresa moderna
di Donna Caritea di Mercadante, avvenuta nell’estate del ’95 nella corte del
palazzo ducale di Martina Franca. Era l’occasione di ascoltare finalmente dal vivo il coro “Chi per la patria [gloria] muor vissuto è assai”, una
musica entrata di prepotenza nella mitografia risorgimentale. L’avevano
cantato i fratelli Bandiera poco prima di essere fucilati nel vallone di Rovito. Correva l’anno 1844, ma la musichetta della scena IX del primo atto
dell’opera rappresentata per la prima volta al teatro La Fenice di Venezia
nel febbraio del ’26 era cantato, o meglio fischiettato da tutti. Perché si
trattava di cambiare la parola “gloria” con “patria”, ma bisognava farlo
mentalmente, perché altrimenti si rischiava la forca. Tutti se lo cantavano
in cuor loro quando incrociavano qualche pattuglia dell’esercito di occupazione austriaco o altra sbirreria locale, ma i fratelli Bandiera si presero
la soddisfazione di sbatterlo in faccia a chi puntava contro di loro i fucili
per la scarica fatale52. E con loro era anche un perugino, un democratico,
un mio concittadino, Domenico Lupattelli53.
49 Fiamma Nicolodi, Il Grand-Opéra di Meyerbeer: da fenomeno elitario a spettacolo di massa, in Orizzonti musicali europei 1860-1890, Roma, 1990, pp. 43-75.
50 Giuseppe Mazzini, Lettera alla madre, Londra, 11 luglio 1842, S.E.N. XXIII, p. 212.
51 Bollettino della Domus mazziniana, anno XLII, 1996, n. 2, pp. 233-246.
52 Raffaello Barbiera, I fratelli Bandiera, Roma, 1923, pp. 75-82.
53 Ragguagli intorno alla fazione operata in Calabria nel 1844 dai fratelli Bandiera e consorti, Perugia,
1868, p. 15. Fatalmente questa marcetta sembra collegarsi ai lutti risorgimentali umbri, poiché
fu suonata dalla banda durante le esequie di Colomba Antonietti, la patriota folignate uccisa
sugli spalti del Gianicolo mentre combatteva a fianco del marito, il conte Porzi, durante le
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E veniamo all’edizione critica della Filosofia della musica, nata nell’estate
del 1996, torridissima quanto mai e inadatta al lavoro di scrivania, ma pressata dalle sollecitazioni di Giacomo Adami, allora direttore della Domus
pisana. Contenuta nel volume VIII degli Scritti dell’Edizione Nazionale,
la Filosofia aveva avuto una veste dignitosissima nell’edizione moderna
curata da Marcello de Angelis54.
Ma un ulteriore contributo critico si rendeva necessario, soprattutto da parte di chi aveva abbracciato la causa mazziniana come metodo
comparativo di un particolare modo di vedere la sua attività musicale,
la sua attività professionale e le sue funzioni di educatore e formatore.
Ispirandosi, soprattutto nella fase divulgativa della musica, a quel senso
di alta moralità che scaturisce da ogni scritto mazziniano. Un intervento
che si rendeva necessario come poi dimostrò – ma l’evento è certamente
casuale – l’intervento di un disinvolto giornalista che allora andava per la
maggiore e di cui non faccio il nome per non offrirgli una sponda pubblicitaria, che appena l’anno seguente, sulle colonne del prestigioso Sole 24 ore
(n. 74, marzo 1997) scrisse uno spocchioso articolo sul Mazzini “lutulento
musicologo”. Dimostrando di non aver capito niente né di Mazzini né del
Risorgimento.
Anche perché il piccolo testo mazziniano, una manciata di pagine in
qualunque formato lo si voglia stampare, è di quei libercoli che affondano
le loro radici nella concezione greca della musica, socratica, platonica, irrorata di quella sensibilità religiosa che il giovane Giuseppe mutuò dalla
madre Maria Drago, e dalla cerchia di preti giansenisti che frequentavano
la sua casa di via Lomellini. Una religiosità che veniva irrorata dei fumi
della nuova pietas romantica dei francesi, i sansimonisti, si diceva, ma
anche dagli enunciati dei socialisti umanitari, in primis da quel père Lamennais a cui Mazzini dedicherà uno scritto55.
Che di autentica religiosità paolina si possa parlare a proposito della
Filosofia lo ricorda la prima frase del testo, la dedica all’Ignoto Numini56.
giornate della repubblica romana: E. Doni, Rose bianche per un soldato. Colomba Antonietti, in
Donne del Risorgimento, Bologna, 2011, pp. 25-35.
54 Giuseppe Mazzini, Filosofia della musica, a c. di M. De Angelis, Firenze, 1977.
55 Attrazione da parte di Lamennais anche per la impostazione “paolina” della sua inflessibile
riflessione sui mali della chiesa: «[…] dell’audace commentatore di San Paolo che affermava il
regno della libertà dove fosse lo spirito di Dio […] Ei sapeva che lo spirito di Dio è immortale e
che la missione apostolica può mutare di interpreti e di direzione, ma non può cessare per volger di secoli fino all’ultimo giorno della nostra terra»: Giuseppe Mazzini, Lamennais, S.E.N. XVIII,
pp. 348-349. Allo scritto, redatto nel 1839, faceva seguito, nel ’40, un’ulteriore riflessione.
56 Tutto il pensiero filosofico e politico mazziniano è improntato a una forte connotazione cristiana-paolina. L’immagine dell’altare che gli ateniesi avevano dedicato al Dio Ignoto proviene
dagli Atti degli Apostoli (17, 23), così come lo vide l’apostolo Paolo nella sua predicazione nella
città greca. Tra i libri di carattere religioso presenti nella biblioteca del giovane Mazzini vanno
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Agostinianamente, dunque, come se la musica venisse da Dio e nell’abbraccio di Dio fosse destinata a tornare, una volta che avesse assolto, sulla
terra, il suo compito, che è quello di migliorare gli uomini:
L’Arte è immortale: ma l’Arte, espressione simpatica del pensiero di che Dio
cacciava ad interprete il mondo, progressiva com’esso.
E, per quanto riguarda l’Italia, di vederla una, libera e repubblicana.
Lettura panica, enfatica e tribunizia, contorta a causa della difficile scrittura mazziniana, ostica anche nella irregolare punteggiatura. Prevalgono i
punti interrogativi, quasi fosse un antico dialogo medievale tra maestro e
discepolo. Ma al disotto di un periodare serrato, sbocciano frasi che paiono scaturire dalle righe di un Lied di Schumann:
La musica è un’armonia del creato, un’eco del mondo invisibile, una nota
dell’accordo divino che l’intero universo è chiamato ad esprimere un giorno
[…]. La musica è il profumo dell’universo, e a trattarla come vuolsi, è d’uopo
all’artista immedesimarsi coll’amore, collo studio delle armonie che nuotano
sulla terra e ne' cieli57.
Al registro mistico-platonico, una sorta di Somnium Scipionis risorgimentale, si alterna la prosa didascalica, quella che invita ad astenersi dai
“trafficatori di note” e a cercare nell’antica melodiosità della musica italiana la forza rigeneratrice di un processo “sintetico” che, attraverso l’acquisizione di progressivi stati di coscienza deve necessariamente condurre a
quella dimensione morale dell’arte musicale che fornirà ai giovani desiderosi di riscatto politico, l’ambito entro cui maturare quel grande “coro
nazionale” che porterà al “canto generale” della terza Roma. Un programma enorme per poche pagine di trattazione musicale che, tuttavia, come
è stato dimostrato, non si dimostra ignara di trattati storici e specialistici
dell’epoca, resa per di più accorta ed aggiornata non solo dallo studio della chitarra, ma, certamente in misura determinante, dall’ascolto delle opere in teatro, sulla cui sostanza Mazzini si mostra molto informato.
Non si conosce ancora con esattezza il preciso contorno in cui è scaturita la stesura della Filosofia, ma si offre all’indagine una piccola batteria di
lettere legate da questo soggetto.
ricordati L’Esprit de S. Paul ou les pensées de ce grand Apôtre, nonché la Bibbia del Deodati: F.
Landogna, Giuseppe Mazzini e il pensiero giansenistico, Bologna, 1921, p. 2. Per la “morale” dei
giansenisti e per i rapporti che legano anche Manzoni alle riflessioni religiose di père Lamennais vedi S. Ruffini, Studi sul giansenismo, Firenze, 1974, pp. 125-282.
57 Raffaello Monterosso, La musica nel Risorgimento, Firenze, 1948, p. 142.
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La prima è del 14 dicembre 1835, da Greche, dove Mazzini scrive alla
madre:
Ho a far molto per finire certo opuscolo sulla musica italiana – figuratevi – che
m’è stato commesso, e ch’io doveva fare. Forse verrà stampato in Italia, quindi
ben inteso, senza nome58.
Seguono due incisive comunicazioni, la prima a Gaspare Ordoño de
Rosales, dove dichiara:
Ma lo scritto francese prima, poi la Giovine Svizzera – uno scritto sulla musica
italiana che ho finito l’altro ieri, ed altri lavori, mi pigliano tempo59.
L’altra, a Luigi Amedeo Melegari a cui confida, con un certo distacco,
quasi volutamente studiato:
Ho scritto, vuoi ridere? Un opuscolo sulla musica – italiano – forse lo stamperanno in Italia60.
Missiva conclusiva quella inviata a Fritz Courvoisier nell’agosto 1836,
quindi a pubblicazione inoltrata, dove dichiara:
Il doit y avoir dans le Troisième numéro quelque chose sur l’avenir de la musique et je regrette beaucoup de ne pouvoir entendre votre jugement sur des
idées que l’ai à peine ébauchées: mon style est passablement obscur, et de plus
la langue italienne n’est pas encore faite au genre d’idée que je cherche à exprimer61.
Niente autorizza a credere che veramente qualcuno avesse commissionato all’esule un testo sulla musica italiana. Piuttosto sembra che Mazzini,
nello sforzo sistematico di operare una forte sintesi sulle arti, la letteratura, la pittura e la musica, volesse di ognuna stabilire i connotati atti a
inserirle nella centrifuga del progresso, quello inarrestabile della storia
provvidenzialmente ordinata.
La Filosofia sarà pubblicata nel 1836, nei numeri di giugno-agosto, sulle colonne de «L’Italiano», foglio dell’emigrazione edito a Parigi. Collaboravano alla testata, subitamente soppressa, Niccolò Tommaseo, Gian
Domenico Romagnoli, Francesco Domenico Guerrazzi. In queste pagine
58 Giuseppe Mazzini, Lettera alla madre, Grenchen, 14 dicembre 1835, S.E.N. XI, p. 154.
59 Giuseppe Mazzini, Lettera a G. Ordoño de Rosales, S.E.N., XI, p. 158.
60 Giuseppe Mazzini, Lettera a Luigi Amedeo Melegari, Grenchen, 15 dicembre 1835, S.E.N. XI, p.
156.
61 Giuseppe Mazzini, Lettera a Fritz Courvoisier, [Soleure], agosto 1836, S.E.N. appendice II, p. 58.
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l’autore riversa tutto il frutto delle sue letture e dei suoi scritti precedenti,
su Dante, Goethe, Schiller, Hugo, Byron, Berchet e Foscolo. Musicologicamente parlando l’operetta si connette perfettamente a tutta la letteratura innescata sin dal suo apparire, nel lontano 1600, dall’opera in musica.
Il melodramma infatti fu perentoriamente sanzionato per i suoi caratteri
spettacolari ed edonistici, corrosivi della morale e pericolosamente inclini
alla corruzione dei suoi ascoltatori. Di qui una pletora di considerazioni
sulla liceità delle rappresentazioni teatrali destinate al canto e sulla infinite cautele da adottare nella fruizione degli spettacoli. La sterminata letteratura, praticamente ignorata dal pubblico che regolarmente si assiepava
nei teatri d’opera, si arricchì nel corso di due secoli dei pronunciamenti
ostili di eruditi come Ludovico Antonio Muratori e Benedetto Marcello, a
fronte dei quali si schierarono gli innovatori e i moderatori come Vincenzo Gravina, Francesco Algarotti, Jean Jacques Rousseau, Stefano Arteaga,
Antonio Planelli. Unanime nella riflessione degli esegeti e dei difensori,
dei denigratori come dei polemisti, la comune necessità di contenere le
leggi dello spettacolo musicale all’interno di una morale sociale condivisa
dalle classi dominanti. Prevalente, in coloro che riconoscevano al melodramma caratteri di positiva partecipazione alla complessità delle vicende evolutive della cultura europea, in particolare per i philosophes e gli
Enciclopedisti, era la necessità di sottrarre i soggetti del teatro musicale
dal clima di futile edonismo e di incosciente euforia in cui erano praticamente immersi. Una condizione di ambigua considerazione coinvolgeva
infatti autori e protagonisti del teatro d’opera, avvolgendo anche i fruitori
nel cono d’ombra di un implicito “disordine morale”. In tal senso si era
espresso persino Ugo Foscolo, redattore di un opuscolo, Dell’impresa d’un
teatro per musica62.
Ma il pamphlet di Mazzini, ammesso che sia stato letto da altri che non
fossero gli esuli parigini, deflagrava con la potenza di un autentico grido
di rivolta che per la prima volta superava d’un balzo lamentele ed esaltazioni, piagnistei e nostalgie, introducendo una nozione nuova, un’opzione
ideologica che assumeva la forza di un proclama politico.
Prosa alta, alfieriana, si diceva. E scorrendo le pagine iniziali, superata la prima difficoltà del periodare tutto a sbalzi e picchi, metricamente
impervio, ci si imbatte nell’esortazione iniziale rivolta ai “trafficatori di
note”, di astenersi dalla lettura, fino a quella finale con cui si invoca la
palingenesi di “giovani recipiendiari di cavalleria” su cui la musica del
rinnovato melodramma cadrà come “spirito creatore ed unitario”. Una
62 «Non si mira già al senso del Dramma (che pure dovrebbe essere l’oggetto più importante – a ciò
né anche si pensa), ma che sia ad un tempo di soddisfazione di chi lo canta e di chi non lo canta»:
Ugo Foscolo, Dell’impresa di un teatro per musica, Milano, (1821), Firenze, 1859, p. 388.
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sorta di Veni Sancte Spiritus, o, wagnerianamente, “Santo Spirito cavaliere”. In mezzo è tutto un susseguirsi di citazioni di nomi ritenuti necessari
allo sviluppo di una nuova sensibilità musicale: da Palestrina, a Marcello,
Pergolesi, Lulli, Piccinni e Guglielmi, a Rossini, Bellini e Donizetti, il percorso storico ed evolutivo della musica italiana, ovvero del melodramma,
sottoposto alla legge del progresso, è tutta votata all’affermazione di principi morali e sociali che, attraverso il popolare veicolo del teatro musicale,
dovranno riversarsi su un pubblico di ascoltatori politicamente rigenerato
dal nuovo soffio profetico che spirerà da una musica eticamente rifondata.
In questa visione anche i grandi nomi della storia passata e, per Mazzini,
presente, come Mozart, Beethoven, Weber, finanche Berlioz, risulteranno
quasi impari di fronte al musicista dell’avvenire, “quell’ ignoto giovine”
che da qualche parte d’Italia si sta preparando ad assumere sulle sue spalle il peso di questo nuovo slancio creativo, portatore luminoso di quella
che, messianicamente, viene ripetutamente indicata come la “nuova sintesi” della musica non più italiana, ma europea.
Commentare questo processo, riferire di pagine ognuna delle quali
pesa forse più filosoficamente che musicalmente, è stata un’operazione da
risolvere con opportuni stacchi tematici, suddividendo la vasta materia
mazziniana in settori autonomamente ben delineabili. È così che, anche in
previsione di una divulgazione della Filosofia anche in ambiti scolastici, ho
frammentato l’esegesi testuale in sedici grandi note, ognuna con un titolo
connotativo.
Primo inserto è quello relativo a “Verdi e Mazzini”. Inevitabile, visto
che i due Giuseppe, insieme al terzo, Garibaldi, hanno rappresentato per
l’unificazione italiana qualcosa di fondamentale e insostituibile. Il nome
del musicista non appare per forza di cose nella Filosofia dal momento
che nel ’35-36 il bussetano era occupato a vincere il posto di organista nel
paesello nativo e sposava la Margherita Barezzi. Ma non è difficile individuare in lui quel “giovane ignoto” della pagina iniziale della Filosofia il
portatore del “segreto d’un’epoca musicale”. Indirettamente Mazzini consegna a Verdi le opzioni future delle sue intuizioni filosofiche e politiche.
Per il resto sarà incomprensione totale, per non dire ostilità, dal primo
incontro a Londra, in casa Milner Gibson, nel giugno del ’47, al mancato
Inno sui versi di Mameli63. Sarà poi la totale indifferenza nelle fasi successive alla mancata rivoluzione del ’48, con Mazzini sempre più radicale, e
Verdi ancorato a posizioni cavouriane64.
Secondo inserto quello indicato come “Sansimonismo: il sacro profumo
63 Franco Della Peruta, Giuseppe Verdi e il Risorgimento, in Suona la tromba. Verdi, la musica e il
Risorgimento, Genova, Quaderno dell’Istituto Mazziniano, n. 10, 2001, pp. 13-40.
64 Giuseppe Mazzini, Filosofia della musica, cit., pp. 47-51.
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della musica”. Il biografo Bolton King sintetizzava il sansimonismo mazziniano riportando la poesia che il genovese aveva indirizzato ai proprietari di schiavi neri in America, dal titolo Preghiera a Dio per i piantatori:
«Tu hai posto, quasi a simboleggiare l’occhio della tua Provvidenza,
un sole nel cielo per guardare la terra. Tu hai intessuto in una possente armonia, di cui l’umana Musica, ch’è della religione figlia primogenita, non
è se non una fievole eco incerta […]». Platonismo si diceva, agostinismo,
ma anche misticismo palingenetico di sapore francese, come postulavano
i seguaci di Saint-Simon. Prima di loro nessuno aveva pensato di rendere nuovamente efficace la potenza civilizzatrice della musica: nessuno ad
eccezione di questa associazione di uomini che aveva teorizzato la trinità
novella della scienza, dell’industria e dell’arte. Musica come sacerdozio e
musicisti come ministri di una nuova arte, quella che deve condurre gli
uomini, attraverso un “progresso infinito” verso un “immenso avvenire
sociale”. In questo lo scritto mazziniano concordava perfettamente, senza
naturalmente conoscerlo, con il saggio che nel luglio 1837 Liszt pubblicava sotto il titolo Lettre d’un bachelier ès-musique (“Revue et Gazette Musicale de Paris”). Per Liszt, che attinge a sua volta da George Sand, i musicisti
sono creature che vengono da lontano, sono sacerdoti dei suoni e traducono, attraverso la loro arte, quel senso “indefinito” che unisce l’uomo alla
natura65.
“Il melodramma dell’epoca: critiche e contestazioni”. Terzo punto delle
note critiche: ora si tratta di capire cosa Mazzini rimproverasse al teatro
d’opera della sua epoca, che pure vantava maestri di enorme rilievo come
Cherubini, Spontini, Rossini, Bellini, Donizetti, ma anche minori come
Morlacchi, Coccia, Fioravanti, Mosca, finanche Mercadante. Il fatto è che
si andava a teatro per divertimento e non già per fare accademia o filosofia. E l’ornato belcantistico, affermato nella sua stagione autunnale dall’arte di Rossini, lo si gustava come voleva Carpani: chiudendo gli occhi e
gustandolo, magari in attesa di altri, successivi appagamenti66. Contro la
stolida inutilità di cantanti occupati solo a fare incetta di applausi e sol-
65 Giuseppe Mazzini, Filosofia della musica, cit., pp. 52-56.
66 Curiosamente nell’Appendice alla Lettera XV delle Haydine, Giuseppe Carpani introduce, come
una vision salvifica, l’immagine del giovinetto Rossini che incarnerà un radioso futuro di
riformatore musicale: “In un angolo della Romagna era nato un fanciullo, e già pervenuto
al terzo suo lustro, il quale dovea fra breve romper le tenebre che l’Orbe musicale involgevano»: Giuseppe Carpani, Le Haydine, ovvero Lettere sulla vita e le opere del celebre maestro Giuseppe
Haydn, Bologna, 1969, p. 293. Tale visione è incredibilmente speculare a quella che appare
nella pagina iniziale della Filosofia mazziniana: «[…] al giovine ignoto, che forse in qualche
angolo del nostro terreno, s’agita, mentr’io scrivo, sotto l’ispirazione, e ravvolge dentro di sé
il segreto d’un’epoca musicale»; solo che in questo caso è più facile immaginarsi il giovane
Verdi.
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di, e di compositori pronti a compiacerli pur di conquistarsi il favore del
pubblico, fornendo storie insulse, inverosimili, purché costellate di trilli,
vocalizzi e ornamenti di ogni genere, Mazzini eleva il bando di esilio dai
teatri. Mostrando di non conoscere l’impegno profuso da Cherubini e da
Spontini per aprire nuove strade al palcoscenico postnapoleonico, il genovese se la prende con quelli che ha sottomano, ovvero i tanti minori e “minimi” che percorrevano il paese a suon di Semiramidi e di Serpine, quegli
esecrati “trafficatori di note” che avrebbero anche l’ardire di rimpiangere
la scomparsa dei castrati. A loro Mazzini eleva, con espressioni piuttosto
durette, il monito che condivide con George Sand, ovvero produrre «une
musique de passion vraie et d’action vraisemblable», aggiungendovi, per
di più, quel tanto di “senso morale” che deve trasformare un’opera in una
riflessione etica. Un po’ troppo per l’epoca, e forse un po’ troppo per il melodramma, ma il Mazzini polemista su questo punto non faceva sconti67.
A fare le spese di questo argomentare sono dunque i cantanti; quarto punto “Gli artisti eccellenti: una nullità sul piano ideologico”. È ovvio che una
volta che si sia stabilito che l’opera va collocata su un piano morale, i protagonisti della medesima debbono uniformarsi. E con loro anche gli omologhi
nel campo strumentale, i “virtuosi”, in primis Paganini. Niente galleria o vetrina di starnazzamenti, come per George Sand che si chiedeva:
Pourquoi toutes ces formes rebattues et monotones qui détruisent l’effet des
plus belles phrases?
Provate a spiegarlo ai cantanti che si deve vocalizzare solo come il Mosè
di Rossini68.
Siamo al quinto punto: “Contro l’edonismo: per una musica morale”.
D’accordo, “morale” come può essere il finale della IX Sinfonia di Beethoven. Che infatti non è un’opera. Rinunciare alla bellezza del fantasmagorico pulviscolo vocale vuol dire anticipare Wagner, ed è in effetti quel
che Mazzini sta facendo. Ma è difficile convincere gli altri che bisogna
andare a teatro per fare “ideologia”. Non certo Hegel che scriveva da
Vienna, nel 1824, alla moglie: «In realtà quando si può smettere di vedere
questi dipinti e di sentire le voci di David, Lablache, Fodor e Dardanelli
(quest’ultima anche di vederla)?69». Al “verosimile” a cui da Monteverdi
a Leopardi si era pensato come scopo fondante del teatro vocale, Mazzini
67 Giuseppe Mazzini, Filosofia della musica, cit., pp. 57-59.
68 Giuseppe Mazzini, Filosofia della musica, cit., pp. 59-61.
69 Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Lettere alla moglie, Bari, 1972, p. 178. Hegel assaporava nella
capitale asburgica la trilogia rossiniana di Barbiere, Matilde di Shabran e Zelmira portate in
tournèe da Barbaja.
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vorrebbe sostituire il “vero morale” che deve essere posto al servizio del
progresso e dell’avvenire dell’Umanità70. Essere moralmente impegnati è
una questione che coinvolge il genio: «Il genio è l’ombra di Dio: opera
com’esso, giunge all’intento senza manifestarsi direttamente. L’edifico che
egli innalza non ha nome, ma la corda che risponde al pensiero ti vibra
dentro al solo vederlo: e tu uscirai dalla rappresentazione del suo Dramma altamente compreso dal principio ch’egli avrà voluto istillarti, come tu
sorgi più virtuoso e potente dalla lettura di Dante, dalla musica di Rossini,
dalla contemplazione delle Alpi»71. È uno scritto che precede la Filosofia e
per Rossini c’è ancora uno spazio72.
“Il superamento del Romanticismo e l’eclissi dell’individualismo” al
sesto punto.
Nel nome della necessità del Progresso, Mazzini sacrifica due personaggi che gli sono molto cari e che hanno avuto una considerevole importanza
nella sua formazione: Victor Hugo e Rossini. Del primo il pensatore ligure
trattava proprio sulle colonne de «L’Italiano» con un articolo intitolato Potenze intellettuali contemporanee: Vittore Hugo. Nelle pagine iniziali della Filosofia si celebrerà l’esaltazione e l’immediato distacco del secondo. Ambedue
gli artisti, ritenuti assolutamente necessari all’affermazione del Romanticismo, hanno svelato con la loro stessa smagliante parabola i limiti della
propria individualità. Un'individualità autoriflettente, che ha guardato in
faccia solo se stessa. Hugo e Rossini hanno mostrato l’aspetto statico del
Romanticismo, quello del compiacimento della propria genialità:
Fu un grido di riazione: guerra d’indipendenza, non altro. Emancipò l’intelletto, non lo riconsacrò ad una missione.
(Prefazione d’un periodico letterario). Tutto quel che si dirà nella Filosofia
per accettare il sorpasso delle grandi individualità romantiche, e tra queste si colloca anche l’amatissimo Byron, è già stato detto nello scritto Ai
poeti del secolo XIX e, ancor più nel Fede e avvenire, testo chiave del ’34-ʼ35:
quando nascerà una nuova fede sociale, fecondata dal soffio di Dio, si daranno anche poesia, musica e letteratura nuove73.
Chiedendosi se ci sia una “vera musica rivoluzionaria”, e siamo al set-
70 Giuseppe Antonio Borgese, Giuseppe Mazzini in Storia della critica romantica in Italia, Milano,
1965, p. 321. Siamo all’anticamera del teatro di Brecht.
71 Giuseppe Mazzini, Del dramma storico, S.E.N. I, p. 310.
72 Giuseppe Mazzini, Filosofia della musica, cit., pp. 62-64.
73 «I grandi pensieri creano i grandi popoli. Sia la nostra vita il riassunto d’un solo e grande
pensiero organico»: la musica è dunque componente di un processo storico in cui la libertà
“santificherà” l’intelletto; Giuseppe Mazzini, Fede e avvenire, S.E.N. VI, p. 351.
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timo punto, Mazzini sente di poter rispondere affermativamente citando
un’opera per noi del tutto desueta, La muette de Portici di Daniel Auber.
Data al teatro La Monnaie di Bruxelles, la sera del 25 agosto del 1830, con
la sua ambientazione rivoluzionaria legata alla rievocazione dell’epopea
napoletana di Masaniello, aveva praticamente scatenato quei tumulti che
porteranno il popolo belga a staccarsi dagli olandesi, spezzando un artificioso legame politico creatosi all’indomani dell’eclisse napoleonica. Sommosse, devastazioni e incendi erano stati provocati dall’ascolto di pagine
come il duetto Masaniello-Pietro (atto II), «Amour sacrée de la patrie» o il
coro della rivolta popolare che chiude il III: «Aux armes, aux flambeaux».
Niente vieterebbe agli italiani di darsi la loro Diana rivoluzionaria, solo
che un compositore si assumesse l’incarico di evocarne la musica infiammante. Sull’efficacia della musica della Muette si mostrerà dello stesso avviso anche Wagner quando scriverà il suo Souvenir sur Auber (1869-71).
Anticipando la famosa esortazione di Verdi, di tornare allo stile di
Palestrina, Mazzini, in quello che viene individuato come ottavo punto,
considera il grande prenestino come il capostipite di ogni successivo stile musicale italiano: i due grandi discordi concordano almeno su questo
punto. Palestrina, per il genovese, traduce in note il Cristianesimo. È nota
la rinascita palestriniana susseguita alla pubblicazione delle monumentali
Memorie storico-critiche del Baini, apparse nel 182874. E se gli italiani hanno
il loro pater absconditus in Palestrina, questa consapevolezza muove Mazzini su un terreno minato per ogni musicografo, il confronto tra la musica
francese e quella italiana (nono punto). È certamente vero che gli italiani
hanno portato la loro musica in terra di Gallia sin dai tempi di re Clodoveo, come è vero che in pieno Seicento è stato il fiorentino Lulli a proporsi
come creatore della musica strumentale francese. La querelle des bouffons
e gli oltranzisti pronunciamenti filoitaliani di Rousseau non hanno certo
facilitato una sana cooperazione tra i due stili nazionali, ma in età napoleonica musicisti come Cherubini e Spontini hanno ibridato le componenti
linguistiche, comportandosi da più francesi degli stessi francesi. Il rousseauiano Mazzini sfodera argomentazioni vecchie, ma almeno si avvede di
un giovane scatenato, Hector Berlioz, che col suo Lélio ha fatto scattare la
scintilla della novità75. Fuor di polemica, Mazzini continua comunque nella difficile strada degli accostamenti e mette in comparazione melodia italiana e armonia tedesca (“Musica italiana e musica tedesca: un confronto”,
decimo punto). Qui neanche Stendhal era riuscito a raccapezzarsi. Se per
74 Intuizioni palestriniane anche nelle riflessioni beethoveniane: Martin Cooper, Beethoven,
l’ultimo decennio (1817-1827) Torino, 1979, p. 153.
75 Lélio ou le retour à la vie un programma letterario di 20 pagine, un nome che poi sarà assimilato
da George Sand nel suo Lélia: Olga Visentini, Berlioz e il suo tempo, Lucca, 2010, p. 367.
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Mazzini “la Germania è stanca”, è vero anche che la quasi totalità delle sue
cognizioni gli deriva dalla lettura di De l’Allemagne di madame de Staël,
un testo rimasto fermo al 1813. Curiosamente il genovese cita un autore
che probabilmente gli sarebbe rimasto congeniale, solo che lo avesse conosciuto nei suoi aspetti teatrali, Carl Maria von Weber. Invece lo nomina
solo per un pezzetto piuttosto insulso, L’ultimo pensiero. È accaduto che
nelle fasi dell’arresto da parte della polizia elvetica a Soleure, una delle
ragazze Girard si era fiondata sul pianoforte per dare un ultimo addio con
questa paginetta fioca e salottiera. Ma destinata a rimanere impressa nella
mente dell’esule che, appena due mesi dopo, chiede per lettera a Ordoño
Rosales se sia al corrente dell’esistenza di una biografia weberiana. D’altra
parte se lo stesso Rossini era stato tacciato di “tedeschinismo”, l’irruzione
di modelli orchestrali ultramontani faceva nel 1828 tuonare gli esegeti del
“dolce stile italiano”, preoccupatissimi dei clangori che provenivano dal
mondo degli iperborei. Comunque l’acume critico mazziniano non manca
di segnare ancora un punto a suo favore quando, in nota al suo ragionamento sottolinea come spesso le due componenti “nazionalistiche”, l’armonia, che dovrebbe essere appannaggio dei teutonici e la melodia, retaggio della solarità mediterranea, sono capaci di scambiarsi reciprocamente
i ruoli. Accade in Beethoven dove sovente «la melodia s’innalza spesso
divinamente espressiva sull’armonia, caratteristica della scuola»; come, al
contrario, la strumentazione, che è un fatto armonico, diventa melodica in
Rossini76.
E visto che si tira in ballo Rossini ecco una sezione, la undecima, interamente dedicata a lui. Mazzini lo esalta: “E venne Rossini”, lo paragona
a Napoleone (vedi Stendhal), e ne celebra una fama che non conosce confini. È dai tempi giovanili che il pesarese anima le fantasie patriottiche del
giovane appassionato di musica. Si legga a proposito qualcosa già nello
Zibaldone e lo si confronti con uno scritto organico, D’una letteratura europea, dove si afferma:
No; non vogliamo gettare in fondo l’Italia: non vogliamo inservilire il Genio che
ispirò le Grazie a Canova e i concenti immortali di Rossini.
76 C’è da chiedersi cosa avrebbe pensato – e scritto – Mazzini godendosi la cavatina dell’op. 132.
In quanto alla strumentazione la sorprendente intuizione sulla melodiosità della compagine
orchestrale rossiniana, trova un ulteriore approfondimento, pur nella fugacità di una citazione, quando Mazzini si chiede perché gli autori non curano maggiormente proprio nel colore
orchestrale «quel tumulto d’affetti, d’abitudini, d’istinti, di tendenze materiali e morali” che
l’orchestra può creare intorno a un singolo personaggio per caratterizzarne maggiormente il “profilo morale”». Per una riflessione sulle intuizioni mazziniane riguardo al “colore”
dell’orchestra vedi Renato Meucci, Mazzini, Ricordi e la strumentazione in «Nuova Rivista Musicale Italiana», n. 4 - 2010, pp. 495-507.
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Il moto innovativo innescato da Rossini ha dei precisi titoli di riferimento: il terzo atto di Otello, il Mosè, Semiramide e Guglielmo Tell, tutte cose
collocabili nell’alveo di quelle opere che possono essere sorgente di nuova
drammaturgia, proprio perché attingono all’elemento storico. Ma Rossini,
come si diceva, condivide il suo occaso con Hugo, ambedue messi da parte per eccesso di individualismo. Per quanto riguarda il pesarese è certo
che egli
«[…] ha presentita la musica sociale, il dramma musicale dell’avvenire». Ma
purtroppo non ha saputo varcare il «pensiero dell’epoca. […] Non lo varcò. Più
potente di fantasia che di pensiero, o di profondo sentimento, genio di libertà e
non di sintesi, intravide forse, non abbracciò l’avvenire»77.
Quando si guardi al numero dodici di questo arbitrario e provvisorio
catalogo, “I canori tiranni del palcoscenico”, si deve rispondere alla domanda che si è posto il genovese quando si chiede:
Perchè non vietare a’ cantanti – almeno finché i cantanti non siano più filosofi
ch’oggi non sono – quell’arbitrio di fioriture, abbellimenti, frastagliature, alle
quali s’è fatta da molto una guerra accanita, ma non tanto che non s’affaccino
ancor sovente a rompere l’emozione, per mutarla in ammirazione fredda e importuna?
Domanda che, da sola, azzera tutti gli arabeschi vocali rossiniani e inficia non solo tutto il Belcanto nazionale, ma anche una larghissima parte di
produzione belliniana e donizettiana. Si può seguire e apprezzare l’autore
sul filo della polemica, seguendo il suo ragionamento che è volto non contro l'ellenistica purezza del Belcanto, quanto piuttosto del cattivo uso che
ne fanno i cantanti disposti ad aprire la bocca solo per scatenare uragani
di applausi. Leggasi, a questo proposito un qualunque Voyage en Italie di
un forestiero del Settecento per vedere come gli italiani usufruissero degli
spazi teatrali e di quanto in essi di vocale accadeva78.
Superata la pars destruens della Filosofia, quando ci si accosta al momento costruttivo non si può che rimanere perplessi constatando come
Mazzini deleghi a Gaetano Donizetti il compito di traghettare la musica
77 Giuseppe Mazzini, Filosofia della musica, cit., pp. 79-84.
78 Citiamo per tutti il divino marchese, che a Firenze, nel 1775, rimaneva scandalizzato del pessimo comportamento degli ascoltatori che, in teatro, schiamazzavano e rumoreggiavano:
dubito tuttavia che si possa parlare di spettacoli senza sfiorare il quadro delle sregolatezze
dei suoi abitanti a questi proposito»: F.A.D. De Sade, Viaggio in Italia, Roma, 1974, p. 78. Al
contrario Mazzini i suoi “cantanti filosofi” li aveva vicino e tutti dalla sua parte, e sono i citati
Giulia Grisi, Mario, Lablache, Tamburini, la Marietta Alboni e i tanti sostenitori dei concerti
benefici londinesi.
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italiana verso quella Sintesi Europea a cui l’arte del melodramma dovrà
necessariamente fornire il suo contributo:
Comunque, la potenza con che Donizetti ha calcata la via di Rossini è inizio
d’altra potenza che non s’è rivelata finora, e che un impulso diverso susciterebbe. Poi, e questa è speranza vitale, il genio di Donizetti s’è, come dissi, dimostrato fin qui progressivo, e nessuno può dire a qual punto ei s’arresterà.
Dubitativo d’obbligo, e quanto mai opportuno, perché sappiamo benissimo a quale punto si sia arrestata la Musa donizettiana. Oltretutto, a
causa dei molteplici incarichi ricevuti dalla corte di Vienna, tutt’altro che
disponibile, se mai avesse saputo della designazione, a seguire il genovese
sui campi di battaglia79.
L’intoppo nasce dall’entusiasmo con cui Mazzini seguiva le fasi della
presentazione del Marin Faliero, l’opera in tre atti data al Théâtre Italien
di Parigi nel 183580. La partecipazione di Agostino Ruffini alla reimpostazione del libretto di Emanuele Bidera metteva il pensatore genovese nelle
condizioni di seguire lo sviluppo di un testo che indubitabilmente toccava
uno di quei forti argomenti storici postulati come movente di un melodramma consapevolmente austero81. La vicenda di Marin Faliero, doge di
Venezia decapitato dalla repubblica nel 1355 per presunto colpo di Stato,
aveva acceso la fantasia di Byron che ne aveva fatto un dramma in cinque
atti, Marin Faliero Doge of Venise (1821)82. Cogliere segnali di democrazia
dove c’era solo senso operistico di rara efficacia evocativa è un abbaglio
che Mazzini condivise con altri, come un martire del Risorgimento quale Angelo Scarsellini, uno degli impiccati di Belfiore, che cantava nel silenzio del carcere di Mantova «Il palco è a noi trionfo, ove ascendiamo
ridenti»83.
Più tardi, aperti gli occhi sulla insolvenza politica del maestro bergamasco, Mazzini utilizzerà l’indirizzo postale che Donizetti aveva a Parigi
per inoltrare la sua corrispondenza segreta, complici i fratelli Ruffini, Michele Accursi e il nipote che accudiva il compositore ormai preda della
79 Guglielmo Barblan, L’opera di Donizetti nell’età romantica, Milano, 1948, pp. 112-113.
80 Stefano Ragni, Il “Marin Faliero” di Donizetti tra Byron e Mazzini, in Psallitur per voces istas.
Scritti in onore di Clemente Terni, a c. di D. Righini, Firenze, Edizioni del Galluzzo, 1999, pp.
265-284.
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Sulle fasi di passaggio dal libretto originale di Bidera a quello rimaneggiato da Agostino Ruffini vedi Paolo Fabbri, “Fosca notte, notte orrenda”, in Marino Faliero, Venezia, (a c. dell’Ufficio
stampa del Teatro La Fenice) giugno 2003, pp. 73-88.
82 Giuseppe Campolieti, Il doge decapitato, Milano, 1995, pp. 137-139.
83 Luigi Martini, I martiri di Belfiore, Firenze, 1928, p. 75.
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demenza84. Anche Vincenzo Bellini, entrato più marginalmente nell’orbita
mazziniana, sarà cassato come portatore di una sensibilità personalistica e
poco adatta all’agone politico:
È Bellini il Lamartine della musica che, nella sua poesia profondamente malinconica, erra senza tregua attorno a tre o quattro idee, ricordo, desiderio, speranza vaga e incompleta. Bellini, che non vi dice il suo segreto se non a metà,
e non ha mai tradito il suo pensiero intimo, il pensiero nazionale, se non forse
una volta in un coro della Norma85.
Ritagliato uno spazio anche per la musica popolare (quindicesimo
punto) Mazzini, intorno agli anni ’40 vagheggerà la stesura di un vero e
proprio canzoniere italiano, rammaricando la quasi totale mancanza di
quelle “melodiucce” che ne costituiscono l’essenza86.
Mentre lo scrittore ligure si congeda dai suoi occasionali e certamente
sporadici lettori auspicando l’avvento di una nuova generazione di artisti
che configureranno la loro musica con un «alto intento sociale, ponendola
a sacerdote di morale rigenerazione», lasciando praticamente l’opzione
Donizetti, l’indagatore musicomane deve andare a cercare la soluzione
fuori della Filosofia. Nonostante la provvisorietà dello scritto, Mazzini,
come rosicchiato da un tarlo dubitativo, molti anni dopo ritornerà sui suoi
passi per chiudere definitivamente l’argomento (sedicesimo punto). E lo
farà in una lettera scritta del 1867 a Emilie Venturi che si apprestava a una
traduzione in inglese degli scritti giovanili mazziniani. Orbene in questa
missiva il genovese chiede alla sua interlocutrice di specificare che è a Meyerbeer che va assegnata la capacità di Sintesi Europea, in quanto i suoi
Huguenots si sono rivelati in grado di soddisfare sia alle forti esigenze di
un argomento storicamente motivato, sia alla possibilità di fondere, sul
palcoscenico d’opera, la melodia italiana con l’armonia tedesca:
Questo per l’alta idea ispiratrice, ma in sede secondaria l’unirsi, il fondersi dei
due elementi che costituiranno la musica del futuro – la melodia italiana e l’armonia tedesca – è andato un passo avanti. Quello che in Roberto si può quasi separare e spartire nei due campi, qui è inseparabilmente unito: la melodia nasce
dal substrato armonico: l’una non si può scindere dall’altro87.
La forte diffusione e l'accurata distribuzione della edizione critica della
84 I Protocolli della Giovine Italia. Congrega di Francia, anni 1842-1843-1844, Imola, 1916, p. 25.
85 Giuseppe Mazzini, De l’art en Italie, à propos de Marco Visconti roman de Thomas Grossi, S.E.N.
VIII, pp. 24-25.
86 Giuseppe Mazzini, Lettera alla madre, Londra, 8 giugno 1840, S.E.N. XIX, pp. 186-187.
87 Giuseppe Mazzini, Lettera a E. Venturi, Londra, 21maggio 1867, S.E.N. LXXXV, pp. 44-46.
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Filosofia della musica mi consentiva nel 2005 di entrare a far parte del Comitato Nazionale per le celebrazioni della nascita di Mazzini. Conseguenti
a una continua attività divulgativa messa in atto attraverso veri e propri
concerti mazziniani realizzati al pianoforte, in forma di conversazioni con
esecuzioni pertinenti e motivate, ho partecipato nel dicembre del 2005 al
convegno internazionale Mazzini e la democrazia universale, promosso dal
Comitato per le celebrazioni e realizzato a Roma, nella sede dell’Accademia dei Lincei.
Due le presenze ai convegni mazziniani realizzati nella sua città natale.
Nel dicembre del 2004 a palazzo Tursi, nell’ambito delle giornate di studio
sul tema Pensiero e azione. Mazzini nel movimento democratico italiano e internazionale, ho tenuto una relazione all’interno dei “Nuovi percorsi della
storiografia mazziniana” (coordinamento di Giuseppe Monsagrati)88. Nel
marzo del 2008 nella sede del Museo del Risorgimento di via Lomellini ho
tenuto una conferenza-concerto sul soggetto “Musica e politica nell’Ottocento italiano”.
Ultima realizzazione che ha occupato tutto l’anno delle celebrazioni
dell’Unità d’Italia è stato il programma Viva Italia! Suggestioni sonore del Risorgimento, un percorso pianistico che va dalle prime espressioni musicali
dell’età della cospirazione, fino alle grandi realizzazioni innografiche legate a Garibaldi, allo stesso Mazzini, e all’età dell’Annessione. Realizzato
in molteplici sedi, più di una volta in collaborazione con artisti quali Anna
Ackermann impegnata nella lettura di Tomasi di Lampedusa, Sciascia, e
de Roberto, il concerto-conferenza ha avuto significativi riscontri nei due
convegni internazionali di Bagni di Lucca (Art, Literature, the Press and Exile: Relationships between the United Kingdom and the Italian Risorgimento) e
Torino (L’Unità d’Italia nell’occhio dell’Europa), rispettivamente promossi
dalla Fondazione Montaigne e dall’Università di Torino e dal Centro di
Ricerche sul Viaggio in Italia (CIRVI). Ultima in ordine di tempo la presentazione del programma mazziniano-risorgimentale nella sala Fontana del
palazzo Krzystofory a Cracovia.
Tornando all’assunto iniziale di questo scritto, il “ritorno” della musica nella nuova Domus mazziniana di Pisa, devo aggiungere che non mi
riferivo solamente alla chitarra. La nuova sede museale, infatti, dispone al
primo piano dell’edificio, di un allestimento espositivo di pannelli riproducenti quadri d’epoca legati alle riflessioni mazziniane. Si tratta di dodici
soggetti dipinti da Hayez, Lipparini, Petarlini, Rillosi, Donhauser, Camuccini e Morelli-Panizzi, che rappresentano sia effigi di Donizetti, Manzoni,
88 Stefano Ragni, Il punto su Mazzini e la musica in Pensiero e azione: Mazzini nel movimento democratico italiano e internazionale, Atti del LXII Congresso di Storia del Risorgimento italiano, Genova,
8-12 dicembre 2004, Istituto per la storia del Risorgimento Italiano, pp. 581-587.
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Byron, Verdi, Liszt e Rossini, che momenti storici topici della riflessione
politica dell’epoca come l’esilio degli abitanti di Parga. Distribuite in sei
postazioni binarie, ovvero due quadri affiancati, le postazioni-totem usufruiscono di un supporto audio da ascoltarsi con l’ausilio di cuffie. Per
ognuna di queste postazioni ho realizzato al pianoforte registrazioni di
brani della tradizione risorgimentale che vanno dalle intonazioni anonime
sull’albero della Libertà, all’Inno per la libertà d’Italia, il Canto degli esuli piemontesi, l’Addio all’Italia di un incognito del 1848, alla marcia per Gli esiliati
di Siberia di Donizetti. Opportuni inserti di Verdi, Catalani, Rosisi e Liszt
completano la mappa degli ascolti che legano in maniera funzionale gli
interessi pittorici e musicali di Mazzini. Non poteva mancare nell’incisione la citazione del breve saggio di trascrizione del cosiddetto Canto delle
mandriane bernesi realizzato dallo stesso Mazzini per voce e chitarra e da
me trasposto al pianoforte.
Per quanto concerne le ultime pubblicazioni compilate in vista delle celebrazioni centocinquantenarie segnalo quello che considero sino a questo
momento il mio testo più aperto a ulteriori prospettive di ampliamento:
Giuseppe Mazzini e la musica della Giovine Italia. Edito nel 2008 il libro si articola su nove capitoli: “Con Fantasio verso la Filosofia della musica”, “Tra
fremiti e furori intellettuali”, “Dante, padre di tutte le letterature”, “Coi
giornali e con la penna”, “Verso l’Europa delle lettere, dei fucili e delle
rivoluzioni”, “Dentro e contro il romanticismo”, “La Giovine Italia per pensare a una nuova Europa”, “Tutt’altra musica: la guerriglia per bande”,
“Coro finale, cum figuris: la musica dei fratelli”89.
Nell’ambito delle attività del Dipartimento di Culture Comparate
dell’Università per Stranieri di Perugia, è stato edito un volume miscellaneo che raccoglie gli atti del Colloquium svoltosi il 7 aprile del 2006. Il mio
contributo ha per titolo Riflessioni musicali mazziniane, dagli “Esempi d’ardire e di valore” dell’Italiana in Algeri di Rossini al “Terrorismo” del Nabucco di
Verdi90.
Strettamente legata alle celebrazioni del 2011 è la ricerca che mi ha portato alla individuazione di una Marcia per la presa di Perugia, una pagina
sinistramente legata alle cosiddette “Stragi di Perugia” che il XX giugno
del 1859 segnarono uno degli episodi più cruenti di massacri di civili inermi operati da truppe regolari, in questo caso il primo reggimento Esteri
delle armate pontificie91.
La marcia, scritta per la piccola banda dell’accozzaglia di mercenari
89 Stefano Ragni, Giuseppe Mazzini e la musica della Giovine Italia, Perugia, 2008.
90 L’eredità di Giuseppe Mazzini nella civiltà contemporanea, a c. di N. Cacciaglia, Perugia, 2007.
91 Giustiniano Degli Azzi, L’insurrezione di Perugia e le stragi del giugno 1859, Perugia, 1909.
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che penetrarono in città, sparando su chiunque si presentasse loro davanti, avrebbe dovuto essere suonata per le strade della città a scherno dei
vinti e per la gioia dei vincitori. Ne era autore il maestro Devorseck, che
iniziò le prove per una prevista esecuzione che avrebbe dovuto aver luogo
nel mese di agosto92. L’indignazione popolare e l’esecrazione internazionale resero impossibile la nefanda concertazione di una musica nata sulle
disgrazie dei patrioti perugini, per la più parte mazziniani. Il reperimento
del manoscritto conservato nell’Archivio di Stato ha reso possibile l’adattamento per pianoforte solo e la relativa esecuzione del brano che ha il
carattere di una baldanzosa e sfrontata polka93.
92 Luigi Bonazzi, Storia di Perugia dalle origini al 1860, Città di Castello, 1960, vol. II, p. 534.
93 Stefano Ragni, Testimonianze musicali del Risorgimento perugino in Perugia e l’Unità d’Italia, a c.
di S. Parlagreco, Perugia, 2011, cit.
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La merce buona trova facilmente un compratore (Plauto)
ovverosia
piccolo vademecum per l’organizzatore dello spettacolo dal vivo
di Macrì Simone
Quando mi trovo davanti a ragazzi ventenni che mi chiedono come si
fa a diventare organizzatori dello spettacolo dal vivo, la prima cosa che mi
viene in mente come risposta è una frase che il mio mèntore disse quando iniziai ad affacciarmi, giovanissima, a questa professione: “Ci vuole
abnegazione verso il mondo musicale e devi saper vendere bene il tuo
prodotto”.
Fino a quel momento non avevo mai affrontato lo studio economico rapportato al mondo della musica né tantomeno realizzavo il senso
di quella frase (parlare di prodotto come al mercato era come dissacrare
l'opera d'arte) ma capii ben presto cosa intendesse dire.
A distanza di anni e di esperienze lavorative ho effettivamente imparato che l’amore per la musica non basta, deve infatti coesistere con l’amore per il mondo musicale. E il mondo musicale, nel suo specifico, è tutto
quello che ruota come satellite intorno al grande sole che noi chiamiamo
musica; per fare l’ organizzatore dello spettacolo dal vivo con competenza, questi satelliti si debbono non solo conoscere, ma anche farne parte.
Mi spiego meglio. Lavorare all'interno dell'organizzazione dello spettacolo dal vivo, legato al mondo musicale a 360 gradi, ha molteplici sfaccettature, ognuna delle quali da conoscere opportunamente e saper gestire.
Il mestiere dell'organizzatore, fatto in prima persona o in team, racchiude in sé un bagaglio di conoscenze che nessun titolo didattico può essergli
pari. Lo studio che si fa sui banchi delle università ad indirizzo spettacolo
o musicologico, piuttosto che quello che si affronta su uno strumento, non
basta: un professionista che lavora nel settore musicale-manageriale opera
in più aree contemporaneamente, che comprendono le attività che vanno
dall’amministrazione dell’impresa musicale alla gestione dell’artista fino
all’organizzazione dell’evento musicale stesso. L’organizzatore nel senso
più preciso del termine, che nel ventunesimo secolo possiamo appellare
come music project manager, non è altro che un operatore che gestisce un
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M. Simone
progetto con una vera e propria metodologia di lavoro che ha per caratteristiche principali la competenza artistica, tecnica ed organizzativa delle
performing arts, nel nostro caso la musica.
Una conoscenza musicale di repertorio approfondita innanzitutto, sia
esso legato al mondo dell'opera lirica, al mondo sinfonico o della musica
da camera, è il primo ed essenziale step. Molto spesso i music project manager non sono persone con conoscenza musicale di base, cioè non hanno
mai studiato uno strumento, ma sono solo delle persone con grande passione per la musica e solitamente conoscitori a fondo di un filone specifico. Non è detto che questa sia una mancanza, può spesso rivelarsi un
interesse più acuto verso ciò che “praticamente” non è conosciuto. Quante
volte ascoltando un musicista nel proprio repertorio studiato si ha meno
interesse di chi invece ama il repertorio stesso? Capita di riscontrare nella
persona con meno basi musicali un’attenzione meno tecnica ma più estetica, che molto spesso è attendibile in quanto rappresentativa del pubblico
nel senso più lato del termine.
Per quanto riguarda gli studenti di musica, nei Conservatori e Istituti
pareggiati, sebbene ora ampliati come formazione didattica, non si riesce
a dare una totale conoscenza del repertorio, perciò è cura di chi si avvicina
a questo lavoro di approfondire autonomamente la propria cultura non
solo con il supporto di audio e video, ma anche verificando la programmazione dei principali enti ed istituzioni musicali del circuito maggiore
(italiano ed estero) che possono ben ragguagliare sul “cosa si fa”, “dove”
e soprattutto “chi lo fa”.
Sarà dunque più facile approcciarsi a questa conoscenza attraverso
l'aiuto di Internet che fortunatamente in questi ultimi tempi ci fornisce
tutti gli strumenti per la ricerca, affiancato da una buona curiosità e attitudine all'ascolto ed alla critica, anche con l'ausilio di spartiti di riferimento
e varie incisioni per paragonare gli approcci e i gusti di esecuzione.
Una volta che il repertorio di base viene via via formandosi, e conoscendo il gusto nonché la “moda” musicale del momento, è necessario
conoscere chi in prima persona decide il mercato.
Il processo di programmazione musicale è analogo in tutte le istituzioni di produzione: sia esso un festival, piuttosto che un teatro di tradizione,
una rassegna concertistica che un ente lirico, chi decide è il management
artistico.
Il management artistico è una vera e propria squadra che lavora per
progetti, ha la responsabilità dei risultati della produzione artistica e il
cui funzionamento e relativa conoscenza del mercato sono cruciali per la
riuscita della manifestazione musicale.
Le caratteristiche principali che possono definire il profilo del management di un'organizzazione artistica sono: le competenze estetiche e la co-
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La merce buona trova facilmente un compratore
noscenza profonda dell'arte amministrata (garantite in prima persona dal
direttore artistico); conoscenza delle condizioni storiche e sociali dell'ambiente in cui si opera e abilità a stipulare quello che si può chiamare “contratto estetico” con il pubblico.
L'esempio più facile a cui attingere per capire una gestione artistica è
prendere a riferimento un Ente lirico, in quanto struttura più articolata
professionalmente.
Solitamente il Sovrintendente è colui il quale amministra la squadra
artistica. Il direttore artistico programma qualità e quantità delle produzioni in accordo con il sovrintendente stesso e garantisce che il team di
management artistico di supporto sia preparato come competenza musicale e gestionale. Dalla scelta degli artisti alla contrattazione dei cachet
degli stessi, dalla scelta del titolo o del programma concertistico alla stesura contrattuale, dall'organizzazione delle masse artistiche alla gestione
dell'ufficio stampa, il management artistico deve assicurare la perfezione
delle mansioni senza che alcuna di esse venga scavalcata da altre e senza
che qualcuna di essa venga offuscata dall’altra.
Il music project manager solitamente nasce in una fucina musicale come
un’istituzione artistica, proprio perché ad uno studio di base, sia esso di
Conservatorio o universitario, si può accorpare la gavetta in un team di
organizzazione dove si impara la costruzione di un progetto dalla fase
embrionale della mera idea estetica agli indicatori di verifica finale, cioè
il raggiungimento di tutti gli obiettivi, proprio come uno studio di marketing.
L'organizzatore dello spettacolo musicale dunque, affinché porti a termine un progetto competitivo, deve esso stesso essere professionalmente
attendibile: non solo studio e amore per la musica ma rispetto, competenza e conoscenza del mondo musicale.
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Il maestro Ennio Morricone durante la conferenza nell’auditorium
dell’Istituto Musicale “L. Boccherini” il 24 maggio 201
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Intervista a Ennio Morricone
di Sara Matteucci
Maestro, qual è il cinema che trova particolarmente affine al suo
sentire musicale?
Amo molto spaziare da un genere all'altro. Ad esempio, negli anni
'60, dopo essermi dedicato per lungo tempo al cinema western, per me
è stato importante cercare un cambiamento e fare altro, anche perché
non desideravo essere considerato come uno specialista di un unico settore cinematografico. Per questo ho anche variato spesso stile musicale
e modo di scrivere, in maniera da non limitarmi mai a un solo genere.
Adesso infatti sono molto felice di lavorare con Giuseppe Tornatore, non
soltanto perché è il grande regista che tutti conosciamo, ma anche perché
ogni suo nuovo film ha un carattere sempre diverso dal precedente.
Quali peculiari valori attribuisce alla musica per il cinema?
Dal momento che il cinema racchiude in sé tutte le arti, e vede necessariamente coinvolti contemporaneamente i sensi dell’udito e della
vista, in esso la temporalità della musica e le immagini si amalgamano
in un matrimonio artistico molto importante ed esclusivo.
In fondo la musica applicata non è così diversa dalla musica assoluta. Può sembrarlo se diamo per scontato che il compositore di musica
assoluta possa sentirsi libero da condizionamenti, ma credo comunque
che anche questa sia solo una chimera. Il canto gregoriano, in sostanza è
musica applicata. Molti capolavori composti durante tutta la storia della
musica sono nati effettivamente come musica applicata, tutti i grandi
autori hanno scritto secondo i tempi, le necessità e la volontà dei committenti. Basti pensare, solo per fare un esempio, alla Musica per i Reali
fuochi d’artificio di Georg Friedrich Haendel.
Il cinema e la musica per film saranno quindi due delle arti che meglio di ogni altra parleranno in futuro del nostro tempo.
*
Il Maestro Ennio Morrione è stato ospite dell’Istituto Musicale “L.Boccherini” di Lucca il 24
maggio 2011.
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S. Matteucci
Dopo aver partecipato in prima persona alle eccezionali esperienze
di ricerca sonora-musicale della metà del secolo scorso – e alla luce di
quelle – come valuta l'apporto della sperimentazione e della tecnologia nell'odierno processo di produzione della musica per film?
Assolutamente decisiva. Il progresso non si può fermare e bisogna stare
al passo con i tempi, però ciò che è importante è che il compositore non assuma passivamente le grandi esperienze e le grandi scoperte della tecnologia. Egli deve dominare le macchine a favore del proprio processo artistico
e non l’inverso, come invece accade, purtroppo, tra molti dilettanti.
C'è qualche esperienza musicale – o artistica in genere – che sarebbe tuttora curioso di esplorare?
Non vorrei passare per presuntuoso ma credo nella mia carriera, fortunatamente, di aver fatto un po’ di tutto, da oltre cento opere di musica assoluta e sperimentale alle duecento di musica per film. Riguardo
quest’ultima, inoltre, ho sempre cercato di scrivere pezzi che potessero
considerarsi indipendenti dalle immagini per cui li avevo scritti, mantenendo quindi un loro “senso musicale” anche al di fuori del film.
Pensa che la composizione di musica per film potrebbe trovare un
adeguato spazio negli attuali conservatori? E se sì, in che forma?
Ritengo che chiunque voglia dedicarsi alla musica per film dovrebbe
conseguire prima il Diploma di Composizione e poi proseguire con almeno due anni di corso specialistico in musica per il cinema. In Italia non
ci sono molte scuole specifiche, mi auguro infatti che anche i conservatori
si attivino per creare dei corsi di questo genere. Ciò che tengo a ribadire è
tuttavia la speranza che l’illusione di poter lavorare nel cinema non tolga
agli studenti la voglia e la necessità di cimentarsi, ad esempio, nel contrappunto. Come per ottenere il Diploma di Pianoforte è necessario aver
prima superato l’esame dell’ottavo anno, così per fare musica per film
dovrebbe essere un requisito obbligatorio il Diploma in Composizione, e
poi qualche corso specializzato sulla musica applicata all’immagine.
Come giudica il panorama musicale attuale, e quale direzione auspica per la musica contemporanea?
Io credo che poco a poco i compositori di musica contemporanea cercheranno sempre più di comunicare e farsi capire dal pubblico. Ci sono
molti compositori che non si interessano dell’aspetto della comunicazione e fanno quindi delle “sculture di suoni” e disegni sonori che molta
gente non capisce facilmente. Quindi, se è vero che il pubblico deve fare
uno sforzo per andare incontro ai compositori d’avanguardia, è ancor
più vero – e soprattutto mi auguro – che tali compositori facciano il possibile per trovare un contatto più diretto con il pubblico.
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Filippo Manfredi, violinista virtuoso, collega
di Luigi Boccherini
e anticipatore di Niccolò Paganini
di Carlo Bellora
Madre di sommi ingegni, e di valenti artisti la patria nostra vide i suoi figli sorgere in
fama Europea, e fra tanti novera un Guami, un Geminiani, un Gasperini un Boccherini un Manfredi e da ultimo un Santucci1.
Sono sicuramente toni troppo enfatici, figli di una stagione in cui spesso si elogiavano a dismisura i propri “gioielli” culturali, ma è indubbio
che Filippo Manfredi sia stato uno dei violinisti lucchesi più interessanti
del Settecento. Non solo per il legame professionale con Luigi Boccherini con il quale condivise l’esperienza del primo quartetto d’archi, con il
quale realizzò una lunga tournée concertistica in duo, mostrando evidenti affinità anche sotto l’aspetto compositivo (impiego di forme cicliche) e
sotto il profilo della scrittura strumentale, attraversata da evidenti tracce
virtuosistiche; ma anche per la fama che raccolse a Lucca, dove per molti
anni ricoprì il ruolo di primo violino della Cappella Palatina e in altri importanti centri della penisola. Per esempio a Genova dove fu il creatore
di una scuola violinistica che porterà un flusso di strumentisti proprio a
Lucca. Tra questi anche Niccolò Paganini, il quale fu sicuramente debitore
di alcuni aspetti della tecnica violinistica manfrediana. E poi non si può
sottacere la considerazione che avranno violinisti ed editori del calibro europeo come J.B. Cartier e F.A. Hoffmeister i quali inseriranno una sonata
del Manfredi – l’op. 1 n. 6 – nelle loro celebri raccolte di musica per violino
del secolo XIX.
1
Michele Puccini, Elogio funebre di Giuseppe Rustici Maestro della Cappella e delle Scuole Musicali del
Municipio di Lucca nei solenni funerali celebrati dalla Venerabile Confraternita di S.Cecilia nella Chiesa
di SS. Giovanni e Reparata il XXVII settembre MDCCCLVI del Prof. Michele Puccini Maestro Direttore della Cappella e Scuole Musicali del Municipio di Lucca Maestro di Cappella della Metropolitana
Accademico Filarmonico di Bologna di quella di Guido D’Arezzo Socio Prof. dell’Accademia Fiorentina
di Belle Arti e Segretario della Confraternita di S. Cecilia, Lucca, Tip. Bertini 1856, pp. 6-7.
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C. Bellora
Filippo Manfredi a Lucca dal 1731 al 1758
Filippo Manfredi nacque a Lucca l’8 marzo 1731 all’interno di una famiglia di musicisti2 e non nel 1729 come hanno sempre indicato tutti i
repertori. Il padre era cornista presso la Cappella di Palazzo, prestigiosa
istituzione lucchese nata due secoli prima, nella quale lavoreranno anche
il fratello Vincenzo Ferrerio, flautista e oboista e l’altro fratello Luigi, cornista. In quegli anni la famiglia abitava (così come indica un documento
successivo)3 nel Chiostro dell’Arcivescovado, cioè l’attuale piccola piazzetta posta sul lato destro della Cattedrale di Lucca. Famiglia di una certa
caratura i Manfredi, non solo perché all’atto del battesimo di Filippo vennero scelti come padrino e madrina due nobili, Giuseppe e Maria Angela
Mansi, ma soprattutto per la sovvenzione che il padre chiese al Governo
lucchese, ottenendo una borsa di studio per la formazione musicale del
figlio a Genova4. Il giovane Filippo, o Filippino, come spesso viene chiamato dai suoi concittadini, si formò dapprima a Lucca presso il Seminario
di San Michele in Foro studiando con Matteo Lucchesi (Lucca, 1710 - ivi,
1779) composizione e con Giovanni Lorenzo Gregori (Lucca, 1663 - ivi,
1745) violino per poi perfezionarsi a Genova nel 1742 (forse con Domenico Ferrari [Piacenza, 1722-Parigi, 1780], o forse con un tal Luigi Frattini)
e a Livorno dal 1745 al 1746 con Pietro Nardini (Livorno, 1722 - Firenze,
1793).
Fervida attività musicale a Lucca grazie alla Cappella Palatina – istituzione creata nel 1543 con soli cinque o sei musicisti e attiva fino al 1805 con
un organico più che triplicato, comprendente quattro cantanti (un contralto, un tenore, due bassi) e quindici strumentisti (cinque violini, due
viole, due violoncelli, due corni, una tromba e un clavicembalo) – che si
occupava di curare le principali feste religiose e civili, tra cui la celebre
funzione delle Tasche per l’elezione del Consiglio degli Anziani della Repubblica lucchese5. Attività che ci sono note grazie a due preziose fonti
della storia della musica lucchese, custodite nell’Archivio di Stato di Lucca: le Deputazioni sopra la Musica di S. Croce: deliberazioni, una sorta di libro
mastro con paghe, qualifiche e provenienza dei musicisti compilato da
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Libro n. 89 dei Battesimi di S.Giovanni di Lucca, c.89 (Archivio Arcivescovile della Curia di Lucca); documento da me rinvenuto e verificato con quelli relativi alla famiglia.
Carlo Bellora, Filippo Manfredi, La biografia e l’opera strumentale, Varese, 2009, Zecchini editore, p. 9.
Stato delle Anime della Parrocchia di San Martino, anno 1757.
Anziani al Tempo della Libertà: Deliberazioni, n. 355, anno 1747, primo semestre, c.46 (Archivio
di Stato di Lucca).
Gabriella Biagi Ravenni, Diva Panthera, Musica e musicisti al servizio dello stato lucchese, Accademia Lucchese di Scienze, Lettere ed Arti, Lucca 1993, pp. 27-61.
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Filippo Manfredi
una commissione di tre cittadini lucchesi e il Libro delle Musiche Annue e
Avventizie, curato da Giacomo Puccini senior (Lucca, 1712-ivi, 1781), il quale sentì l’esigenza di redigere un vero e proprio diario nel quale registrò
con estrema precisione gli orari delle funzioni religiose e civili, le usanze
più caratteristiche e i compensi dei musicisti.
Dalla lettura di entrambi i registri ci si imbatte più volte nel nome della famiglia Manfredi, del padre, il cornista Giancarlo, dei due solisti di
maggior pregio perché tra i meglio retribuiti della Cappella, il flautista
Vincenzo Ferrerio, e il violinista Filippo, mentre dopo qualche anno si
perdono le tracce di Luigi, cornista. Filippo venne registrato partecipante
alle Musiche di S.Croce per la prima volta a dieci anni, nel 1741, quando
venne indicato come “alto” del secondo coro fino al 1743, mentre l’anno
successivo iniziò a prodursi come violinista al fianco di Domenico Ferrari.
Registrazioni che continuano fino al 1757 con la sola eccezione del 1751.
Non sappiamo, invece, quando venne inserito per la prima volta come
membro della Cappella Palatina perché i documenti del Governo Lucchese tacciono6 e i volumi consultabili del diario di Giacomo Puccini senior
iniziano dal 1748 (il primo volume, relativo al periodo precedente non è
stato ancora rinvenuto). Sicuramente dal 1748 il nostro era già stato registrato dal suo maestro di cappella come soprannumerario a Palazzo il 28
aprile “per la messa in Musica di San Martino e per la festa delle Reliquie”.
Nonostante la precarietà della sua nomina, il violinista intraprese comunque un’attività in altri centri, tanto da essere costretto a chiedere continue
licenze. È probabile, inoltre, che Manfredi si fosse addirittura trasferito
fuori Lucca, poiché il suo nome non appare negli Stati delle Anime di San
Martino7 dal 1753 al 1757. In ogni caso la sua famiglia doveva avere una
certa fama in città perché altrimenti non si spiegherebbe il motivo per il
quale Manfredi ottenne – attraverso il padre Giancarlo – una nuova sovvenzione nel 1755 dal Governo Lucchese8. Inoltre, la sua scarsa puntualità
nell’espletare gli obblighi professionali lo portarono paradossalmente prima sull’orlo del licenziamento nel luglio del 1758,9 poi – sempre grazie ad
una perorazione del padre Giancarlo – all’assunzione a tempo indeterminato nel ruolo di primo violino il 5 settembre dello stesso anno,10 cosa che
non modificò peraltro le abitudini del violinista, il quale – evidentemente
forte della sua bravura artistica – continuò a centellinare la sua presenza
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Anziani al Tempo della Libertà: Deliberazioni; Consiglio Generale - Riformaggioni Pubbliche (Archivio di Stato di Lucca).
Archivio della Curia Arcivescovile di Lucca.
Anziani al tempio della Libertà n. 361, anno 1755, primo semestre, c.197 recto.
Anziani al tempio della Libertà n. 364, anno 1758, secondo semestre, c.5 recto.
10 Consiglio Generale - Riformaggioni Pubbliche… doc. cit. n. 235, p. 280.
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C. Bellora
a Lucca presentandosi in sole due occasioni nel 1758, poiché – così come
ci suggerisce Giacomo Puccini senior – Manfredi aveva trovato impiego
«presso l’Opera»11.
Filippo Manfredi a Genova
Tutti i biografi parlano delle sue trasferte genovesi, ma nessuno di questi cita mai delle precise fonti documentarie che facciano riferimento all’attività musicale svolta dal nostro nella Superba. Dopo diverse ricerche archivistiche, ho rinvenuto presso l’Archivio Storico del Comune di Genova
i primi documenti che attestano l’attività artistica del Manfredi e, godendo
inoltre degli studi effettuati dalla musicologa Carmela Bongiovanni sulle
trasferte di Boccherini nel capoluogo ligure, sono riuscito a tratteggiare in
maniera meno indefinita l’attività artistica del Manfredi.
Questi appare citato nelle liste di musicisti che erano obbligati a partecipare alle processioni del Corpus Domini in San Lorenzo, pena una forte
ammenda pecuniaria. Manfredi fu il primo violino della lista per tre anni
(1759, 1760 e 1766)12, mentre nel 1763, così come segnala Carmela Bongiovanni13, venne registrato in occasione della festa del 3 dicembre 1763 per
la Novena e festa di S.to Fran.co Saverio, come primo violino di rinforzo
accanto al violinista Giacomo Costa, il futuro maestro di Niccolò Paganini.
Anche l’anno seguente, e più precisamente il 31 luglio 1764, il musicista
lucchese risulta pagato come primo violino in sant’Ambrogio in occasione
della Novena e della festa di sant’Ignazio. Si conferma, così, il prestigio
del musicista che venne remunerato con un importante cachet, lo stesso
concesso ad un soprano. E per la stessa cifra – L.39.6 – venne reclutato per
suonare presso la Chiesa del Gesù, il 30 luglio 1765.
Sempre dagli studi della Bongiovanni14 si rileva come il Manfredi fosse
legato alle potenti famiglie genovesi proprietarie del teatro sant’Agostino.
Dapprima i Pallavicini e in seguito i Durazzo, tanto che il suo nome lo si
11 Libro delle Musiche…doc. cit., libro B, c.134 recto.
12 Magistrato dei Padri del Comune - Pratiche Pubbliche, filza n. 242, fascicolo n. 163; filza n. 243,
fascicolo n. 163; filza n. 243, fascicolo n. 193 (Archivio Storico del Comune di Genova).
13 Carmela Bongiovanni, Luigi Boccherini a Genova (1765-1767): novità e precisazioni, in “Rivista
Italiana di Musicologia”, XLI - 2006 - N. 1 pp. 65-99 e in Carmela Bongiovanni, Luigi Boccherini y
Genova por una revisión de las fuentes musicales y documentales in “Luigi Boccherini, Estudios sobre
fuentes, recepción e historiografía", Madrid, Biblioteca Regional de Madrid “Joaquin Leguina”,
2006, pagg.190-193.
14 Sempre nei sopraccitati saggi della Bongiovanni, si illustra la figura di Giacomo Durazzo
(1717-1794) diplomatico e sovrintendente dei teatri imperiali di Vienna all’epoca dei viaggi
nella capitale asburgica della famiglia Boccherini; Giacomo Durazzo infatti era fratello della
madre di Giacomo Filippo III (Clelia), anch’essa di un ramo Durazzo, ma anche del futuro
acquirente del teatro Sant’Agostino, Marcello.
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Filippo Manfredi
trova in un’importante accademia di musica, organizzata il 2 giugno 1764,
da Madame de Chavelin, moglie del guardasigilli di Francia. Infine, non
bisogna dimenticare come in quegli anni (già a partire dal 1730) vi furono
intensi scambi di musicisti tra Genova e Lucca, che furono il preludio alle
affermazioni del Manfredi a Genova e al successivo trasferimento a Lucca
nel 1801 di Niccolò Paganini. Sempre Manfredi, così come ci raccontano i
repertori antichi, fu anche stimato insegnante di violino proprio nel capoluogo ligure con i suoi allievi Giovanni Battista Serra e Giuseppe Romaggi. Proprio quest’ultimo, non solo venne nominato alla morte del suo maestro primo violino della Cappella Strumentale, ma decise di soggiornare
a Lucca con moglie e figli. Furono lui e il suo maestro di cappella, Antonio
Puccini, a chiamare a Lucca Niccolò Paganini, il quale dal 1801 al 1818,
pur alternando le sue trasferte concertistiche in tutta Italia, venne assunto
come “spalla” dei secondi violini della Cappella di Palazzo.
Gli anni dal 1759 al 1767
Furono anni frenetici per Filippo Manfredi molto presente a Lucca, ma
sempre molto attivo anche a Genova e in altri teatri d’opera della penisola;
in questo periodo iniziò inoltre il sodalizio cameristico con il collega Luigi
Boccherini. Colpisce, in primo luogo, la benevolenza del governo lucchese
che concedeva sempre licenze (che spesso si protraevano con proroghe
successive, come avvenne per tutto il 1762 in cui il permesso da gennaio a
luglio venne esteso a tutti gli altri mesi)15, nonché salari molto elevati per
le sue prestazioni, spesso assieme al fratello flautista Vincenzo.
Oltrea partecipare – quasi sempre – alla famosa festa delle Tasche suonò per le tradizionali feste religiose lucchesi (Sant’Antonio del 13 giugno,
San Paolino l’11 luglio, San Domenico il 4 agosto, Santa Croce il 14 settembre, San Michele il 29 settembre, la solennità del Santissimo Rosario
il 18 ottobre), e fu convocato per importanti eventi legati alla presenza di
personalità straniere a Lucca. Tra questi il «Trattenimento in onore della visita
del cardinale di York» del 1763 (ma replicato anche l’anno seguente)16, in cui
si esibì come solista in una sonata per violino solo, seguito dall’esibizione del fratello Vincenzo in un concerto al flauto traverso, e da due arie
dell’evirato Veroli17. Sempre nel mese di aprile del 1764, il 29, partecipò
inoltre alla festa della Libertà, ma il suo atteggiamento da “primadonna”
gli costò un formale rimprovero da parte del governo lucchese. Non solo
si presentò in ritardo, ma ebbe anche il coraggio di indossare «un abito di
15 Anziani al Tempo della Libertà…doc.cit., anno 1762 primo e secondo semestre.
16 Libro delle Musiche, Libro C, c.7 recto.
17 Libro delle Musiche…doc. cit., libro B, c.188 verso e c.189 recto e verso.
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colore con sottoveste di Broccato d’oro» che doveva contrastare nettamente
con gli abbigliamenti dei colleghi «vestiti di nero con mantello e Parrucca
propria». Come al solito, se non era il padre ad intervenire a favore del
figlio, era il suo maestro di cappella, Giacomo Puccini senior, a salvarlo
dall’ira del governo lucchese con giustificazioni abbastanza improbabili:
«Filippino aveva soltanto un abito nero di velluto e perciò essendo questo stretto
di maniche e allargandosi di più il velluto, e non potendo suonare cose d’impegno
con detto abito si era cambiato…»18. Evidentemente il Manfredi, non solo avvertiva l’esigenza di distinguersi dagli altri strumentisti per lo stipendio,
ma voleva che anche il vestito contribuisse ad evidenziare questo senso di
distinzione: lui solista con un abito colorato, impreziosito dalla sottoveste
di broccato d’oro, gli altri solo comprimari abbigliati di nero.
Il 1764 fu l’anno in cui comparve all’interno della Cappella di Palazzo
anche il fratello Pietro Luigi, suonatore di corno (nato nel 1744, mentre
Boccherini – che era del 1743 – venne assunto proprio quell’anno come
violoncellista di ruolo)19 che prese parte alla «Musica per l’Incoronazione al
Re dei Romani nella persona dell’imperatore Francesco I» il 3 maggio 1764, ma
del quale ben presto si perdono le tracce.
Oltre alle consuete trasferte genovesi (spesso con il fratello flautista)
Manfredi diede inizio ad una carriera nell’ambiente lirico20 e precisamente
al teatro San Benedetto di Venezia per la fiera dell’Ascensione del 1765,
impegnato ad accompagnare l’aria seconda del secondo atto della Nitteti di Giuseppe Sarti21, così come nell’Alessandro nelle Indie su libretto di
Metastasio e musiche di autori vari (centone), assieme a cantanti di grido
come Luca Fabris e Lucrezia Agugiari detta La Bastardina al Teatro Pubblico di Lucca22. In quell’occasione, il 22 settembre 1765, arrivarono a Lucca
persino il granduca di Toscana Pietro Leopoldo con tutto il suo seguito,
mentre l’11 ottobre giunsero (sempre dal capoluogo toscano) il principe
di Brunswitch che – essendo valente violinista – desiderava ascoltare i
famosi musicisti Manfredi e Boccherini, ai quali poi elargì la somma di
20 zecchini23. Molto probabilmente i due musicisti iniziarono proprio da
quelle prime esperienze lucchesi a capire che avrebbero potuto avviare
una propria carriera concertistica fuori dalle mura cittadine.
18 Libro delle Musiche…doc. cit., Libro C, c.10 recto.
19 Remigio Coli, Luigi Boccherini, la vita e le opere, Lucca, Maria Pacini Fazzi, 2005, pag.44.
20 Il fratello Vincenzo – secondo le indicazioni di Giacomo Puccini (Libro delle Musiche…doc. cit.
Libro B, c.181 recto) – aveva già iniziato a collaborare con il teatro di Pisa.
21 Claudio Sartori, I libretti italiani a stampa dalle origini al 1800, Cuneo, Bertola e Locatelli, 1991.
Pag.236, scheda n. 16556.
22 Remigio Coli, Luigi Boccherini, Lucca. Maria Pacini Fazzi, 2005, pag.62.
23 Vedi nota precedente.
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Filippo Manfredi
Il quartetto toscano e la lunga trasferta con Luigi Boccherini
Difficile ricostruire le vicende del primo quartetto d’archi anche perché l’unica informazione che possediamo riguarda un articolo postumo
del violista, il livornese Giuseppe Cambini, apparso sull’"Allgemeine musikalische Zeitung", solo nel 1804, cioè ben 37 anni dopo i fatti. Il violista
livornese, soffermandosi sulle qualità professionali dei singoli componenti (Nardini e Manfredi, violini, Cambini, viola e Boccherini, violoncello)
parlò di «sei mesi felici» nei quali si posero le basi per il primo quartettismo
italiano24. I membri, tutti di origine toscana, avevano in comune proprio
le esperienze lucchesi. In effetti Nardini, già maestro del Manfredi, era
tornato a Livorno nel maggio del 1766, dopo aver trascorso quattro anni a
Stoccarda. Cambini, invece, aveva partecipato a Lucca nel 1765 e 1766 alla
tradizionale festa di S.Croce25, mentre Boccherini, a soli 13 anni, debuttò
come violoncellista per la festa di S.Croce26 e più volte prese parte, prima
come soprannumerario, poi come membro effettivo dal 1764, ai concerti
della Cappella di Palazzo, esibendosi anche in duo con il Manfredi27.
Più informazioni abbiamo invece sul rapporto professionale tra Manfredi e Boccherini. Il violoncellista, dopo la morte del padre Leopoldo (avvenuta nel 1766) doveva aver trovato nel violinista il compagno più anziano ed esperto per avventurarsi nel difficile ambiente concertistico28. Grazie infatti alle altolocate conoscenze genovesi del Manfredi, i due musicisti
intrapresero una tournée concertistica, partendo proprio da Genova, dove
Filippino aveva ottenuto ben sei lettere di raccomandazione per mano di
personalità straniere (la maggior parte inglesi), residenti nella città, ed una
da una signora genovese. È significativo inoltre che il Manfredi sia elogiato come "celebre suonatore di violino" e Boccherini come "buon suonatore
di violoncello e compagno di Filippino": la fama del violinista lucchese era
evidentemente superiore a quella del violoncellista29.
La tournée sarebbe poi proseguita verso Nizza, dove la Signora Irene
Bromfeild scrisse una lettera di raccomandazione per il duo al violinista
torinese Felice Giardini, maestro a Londra delle più prestigiose famiglie
24 Guido Salvetti, Cambini, Giuseppe in Dizionario Enciclopedico della Musica e dei Musicisti, Le
Biografie, Torino, UTET, 1986, III, pp. 80-81.
25 Cfr. Nomi,Cognomi....doc.cit., agli anni 1765, 1766.
26 Ibidem, anno 1756.
27 Guido Salvetti, Boccherini, Luigi in Dizionario Enciclopedico della Musica e dei Musicisti, Le
Biografie, Torino, UTET, 1986, I, p. 568; cfr. REMIGIO COLI 1988, op. cit. p. 35.
28 Germaine De Rothschild, Boccherini, Parigi, Plon, 1962, p. 26.
29 Cfr. Remigio Coli, 1988, op. cit. p. 48 e segg.; in nota sono indicate tutte le lettere di raccomandazione (di proprietà del Professor Franco Calogero Calabrese di Lucca).
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d'Inghilterra30. In seguito i due musicisti giunsero a Parigi, attraverso
Lombardia e Piemonte,31 rinunciando alla successiva trasferta londinese,
preannunciata dalle missive in loro possesso. Il 20 marzo 1768 Boccherini
e Manfredi si esibirono con discreto successo (il primo con una sonata
per violoncello e basso ed il secondo con un concerto per violino di sua
composizione) al Concert Spirituel di Parigi. Manfredi e Boccherini replicarono al Concert Spirituel il 2 aprile, ma furono valutati negativamente dalla
critica parigina: la musica del Manfredi fu considerata mediocre ed il suo
modo di suonare folle e disordinato, i suoni emessi dal violoncello di Boccherini furono definiti aspri e poco armoniosi32. Stroncato dalla critica, il
violoncellista non fu più invitato a suonare, mentre il violinista, rinfrancatosi dalla brutta esecuzione, tenne un nuovo concerto il 4 aprile, riabilitando la sua fama di virtuoso33. Le critiche rivolte al Boccherini esecutore non
diminuirono il prestigio del compositore, che aveva pubblicato, grazie ad
alcuni editori parigini, la prima serie dei quartetti, i trii e una sinfonia in
re maggiore34. Anche Filippo Manfredi riuscirà nel 1769 a far pubblicare
da M.lle Fleury del Bureau d'Abonnement Musicale di Parigi sei sonate per
violino solo e basso Op. 1, dedicandole a “Sua Altezza Principe delle Asturie”, suo mecenate per mezzo dell'ambasciatore spagnolo a Parigi. L'ultima traccia della permanenza dei due lucchesi a Parigi è una lettera di
Manfredi, datata 30 giugno 1768 e diretta all'amico Lelio di Poggio, in cui
il violinista lucchese descrive i suoi colleghi francesi come «imbattibili per
la precisione e il trattamento dell'archetto, ma privi di espressione»35.
Sul periodo trascorso in Spagna – non avendo effettuato ricerche archivistiche specifiche – poco si può aggiungere se non che la presenza di Filippo Manfredi è stata segnalata nel 1768 a Valencia, presso la Compagnia
dei Sitios reales con la quale suonarono sia Boccherini nell’Almeira di Marco
Coltellini, sia Manfredi in un Montezuma per il quale il violinista lucchese
scrisse un’aria, Se amor il cor m’accende, che poi accompagnò al violino36.
La vulgata vorrebbe che Manfredi fosse stato assunto fin dal suo arrivo
in Spagna come primo violino della musica da camera del Principe delle
Asturie, il futuro re di Spagna, ma questa indicazione37 non possiede at-
30 Ibidem.
31 cfr. Luigi Nerici, op. cit., p. 281.
32 cfr. Germaine De Rothschild, op. cit., p. 33.
33 Ibidem, p. 34.
34 cfr. Remigio Coli, 1988, op. cit. p. 49.
35 cfr. Germaine De Rothschild, op. cit., pp. 36-37.
36 Marco Mangani, Luigi Boccherini, 2005, Palermo. L’Epos.
37 cfr. Germaine De Rothschild, op. cit. Parigi, Plon, 1962, pagg.36-37.
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tualmente riscontri documentari. Di sicuro, invece sappiamo che qualche
anno dopo, nel 1770, Boccherini prese servizio presso l’Infante di Spagna38
riallacciando con tutta probabilità i rapporti con Filippo Manfredi che era
stato per lui, dopo la morte del padre, una guida preziosa. Boccherini rimase a lungo in Spagna, mentre Manfredi tornò in Italia.
Il ritorno in Italia e la reintegrazione nella Cappella Palatina
Nel frattempo a Lucca i tempi erano cambiati e – a quanto pare – Filippo Manfredi non doveva più riscuotere le simpatie del Governo lucchese,
tanto che il 30 giugno 1772 il Consiglio degli Anziani deliberò, che si potevano reintegrare in servizio alcuni dipendenti «eccetto che Filippo Manfredi
primo violino, che fu per due volte perduto alla rafferma...»39. Il violinista infatti,
pur in licenza da molto tempo all’estero, continuò a percepire lo stipendio, che gli venne però sospeso il 15 maggio 177140. Manfredi non faceva
più parte della Cappella di Palazzo e nel 1772 lo si trova esclusivamente
come violinista nei concerti tenuti per la festa di S.Croce41. In realtà, da ciò
che si evince in una "supplica" scritta dal musicista al Consiglio Generale
il 16 aprile 1773, Filippino aveva perduto il posto di primo violino «per
non essersi con puntualità restituito al suo Impiego, a motivo di alcuni impegni
contratti a Lucca e Livorno, e per motivi di salute...». Sempre nello stesso documento Manfredi, con tono ossequioso e dimesso, si offrì gratuitamente
come insegnante di due giovani violinisti, scelti dal governo lucchese, «...
per renderli abili a servire nella Cappella...»42. Il violinista sembrò aver perduto il tono spavaldo degli anni precedenti tanto che – al fine di accattivarsi
nuovamente la simpatia dei governanti lucchesi – giunse apposta da Genova il 14 giugno 1773 per suonare alla festa delle Tasche.
Finalmente il 29 ottobre 1773 i membri del Consiglio Generale, dopo
aver letto un’ennesima "supplica" del musicista, lo reintegrarono nel ruolo
di primo violino della Cappella di Palazzo, imponendogli però delle condizioni molto precise e stringenti: «...dare lezioni gratis a due giovani per poter
formare in Lucca una scuola di violino...»; contattare «...qualche personaggio
di distinzione per poter dare in Lucca un'Accademia di Musica...»; limitare le
licenze a soli quattro mesi l'anno, sospendendo lo stipendio per ogni licenza aggiuntiva43. Evidentemente la città di Lucca non voleva privarsi di un
38 cfr. Remigio Coli, op. cit. pag.86.
39 cfr. Anziani al Tempo…doc.cit., n. 378, anno 1772, primo semestre, c.222 verso.
40 cfr. Cons.Gen. - Mandatorie, n. 345.
41 cfr. Nomi, Cognomi…doc. cit., anno 1772
42 cfr. Cons.Gen. - Rif. Pubbl…doc. cit., n. 250, p. 192.
43 cfr. Cons. Gen – Rif. Pubbl…doc. cit., n. 250, p. 192.
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violinista così brillante, tanto che gli Anziani riammisero Filippo Manfredi
nella Cappella concedendogli come sempre una paga molto elevata, superiore persino a quella del maestro di cappella, ma con la clausola che non
sarebbero state tollerate ulteriori licenze, esorbitanti i quattro mesi l’anno:
pena l’interruzione del suo stipendio.
Ma la situazione era ancora fluttuante perché ancora una volta il talento di Filippo Manfredi venne richiamato in Spagna. In effetti, nel dicembre
del 1773 l’incaricato d’affari presso la Corte di Firenze, marchese Viviani,
su richiesta del «Marchese Grimaldi Segretario di Stato di Sua Maestà Cattolica» sollecitò il governo lucchese a concedere un’ulteriore licenza «a Filippo
Manfredi violinista di potersi portare per due anni alla corte di Madrid». Gli
Anziani concessero questo permesso – che doveva contrastare nettamente
con le loro recenti deliberazioni sul violinista lucchese – proprio malvolentieri, spinti probabilmente da superiori ragioni diplomatiche. Di fatto
Manfredi partì poco tempo dopo per la Spagna tanto che venne registrata
una sua assenza dal 19 febbraio al 20 giugno 1774, ma non sappiamo se –
dopo aver fatto tappa a Genova – sia mai giunto nella penisola iberica44.
Gli ultimi anni
Tornato a Lucca, Manfredi non cambiò peraltro le sue inveterate abitudini e durante il 1774 si esibì solo nei concerti per la festa di S.Paolino
dell'11 luglio, per quella di S.Domenico del 4 settembre, per quelle di
S.Michele del 29 settembre e per quella di S.Giovanni del 26 dicembre45,
facendosi sostituire dal suo allievo genovese Romaggi, per la festa di
S.Croce46. L’anno successivo, il 1775, qualcosa cambiò nelle abitudini di
Filippino perché – oltre a suonare un concerto per violino l'8 marzo alla
festa di Santa Francesca Romana nella chiesa di S.Ponziano – venne pagato per un servizio prestato al coro47. Dal Libro delle Musiche di Puccini non
si evince però, se fu retribuito come aiuto al maestro di cappella, o come
compositore delle musiche corali, come aveva suggerito già diversi anni
fa Biagi Ravenni48. Continuò a suonare nelle principali feste civili e religio-
44 cfr. Remigio Coli, 2005 op. cit. pag. 108 in cui vengono citati due documenti dell’archivio di
stato di Lucca (Consiglio Generale 688, Scritture Segrete, 1748-1799, 225, 227 e 236). A questi
giorni, per la verità, vanno aggiunti gli otto che aveva chiesto in precedenza (forse per preparare la stessa trasferta) dal 2 al 9 febbraio sempre dello stesso anno (cfr. Anziani al Tempo…
doc.cit., n. 380, anno 1774, primo semestre, c.36 verso).
45 cfr. Libro delle Musiche…doc. cit., libro C, c.185 verso, c.186 verso, c.188 verso, c.191 recto e
c.192 verso.
46 cfr. Nomi, Cognomi…doc. cit., anno 1774.
47 cfr. Libro delle Musiche…doc. cit., libro D, c.1 verso.
48 cfr. Gabriella Biagi Ravenni, Manfredi, Filippo in Dizionario…, op. cit. p. 2 06. Alla luce della
recente scoperta dei due brani di musica sacra, potrebbe essere verosimile pensare che fosse
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se lucchesi, distinguendosi sempre per gli atteggiamenti esosi tanto che
per la festa di S.Paolino i soldi messi dal priore del convento non furono
sufficienti e vennero integrati da quelli dal Confaloniere Fondora49. Evidentemente aveva proprio ragione il celebre storico lucchese Luigi Nerici
quando sosteneva che Manfredi «...amò grandemente l'arte, ma nell'esercizio
della medesima più che la gloria amò i guadagni...»50. Del resto le sue esecuzioni riscuotevano sempre molto successo, specialmente nell'ambiente religioso, tanto che durante la festa di S.Domenico le religiose furono così
contente di Filippino, da richiederne la sua presenza il lunedì seguente51. In
questa occasione si esibì inoltre il violinista genovese Giuseppe Romaggi,
che nel concerto successivo del 29 ottobre per la festa di S.Michele, sostituì
Manfredi perché ammalato52. Ripresosi in breve tempo, partecipò alla festa di S.Giovanni con un concerto durante il secondo vespro, chiedendo –
ancora una volta – una cospicua aggiunta all'onorario preventivato; suonò
poi per il Te Deum di fine anno nella Cattedrale di S.Martino53.
Nel 1776 fu incaricato dal Consiglio Generale, così come era stato stabilito dalla sua nuova assunzione in ruolo, di «...contattare qualche personaggio di distinzione per poter dare in Lucca un'Accademia di Musica...». La lettera
– scritta dal Manfredi all'impresario teatrale del Teatro Sant’Agostino di
Genova, Francesco Bardella, per scritturare la cantante Magherini [Macherini] – ci conferma nuovamente come il violinista lucchese conoscesse
l'ambiente musicale genovese54. A Lucca diradò comunque le sue esibizioni, venendo pagato anche per dei servizi prestati al coro come avvenne per
la festa di Santa Francesca Romana nella chiesa di S.Ponziano55, o come
successe per la Pentecoste in S.Frediano il 26 maggio quando partecipò
solo alla Messa, in cui venne pagato per suonare l'organo56. L'11 luglio per
la festa di S.Paolino tenne come di consueto un concerto al Vespro, ma
Puccini lo indicò come violinista soprannumerario: probabilmente l'incalzare della malattia, che l'anno successivo lo condusse a morte precoce, non
gli permetteva di suonare regolarmente con la Cappella di Palazzo.
Nel 1777 interruppe totalmente l'attività concertistica, secondo Puccini
per l'aggravarsi di un reumatismo, che gli impediva persino di uscire di
pagato per queste due composizioni.
49 cfr. Libro delle Musiche…doc.cit., libro D, c.13 verso.
50 cfr. Luigi Nerici, op. cit., p. 282.
51 cfr. Libro delle Musiche…doc. cit., libro D, c.152.
52 Ibidem, libro D, c.17 recto.
53 Ibidem, libro D, c.20 verso e 21 verso.
54 Offizi sui Ricevimenti dei Principi, n. 6, c.28 e segg.
55 cfr. Libro delle Musiche…doc.cit., libro D, c.23 recto.
56 Ibidem, libro D, c.31 recto.
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casa57. Sostituito inizialmente da violinisti lucchesi di secondo piano, il
suo posto nella Cappella Palatina fu poi ricoperto da Romaggi. L'altro allievo genovese Giovannni Battista Serra subentrò al Manfredi come capo
degli strumentisti per la festa di S.Croce del 177758, ma in seguito questo
posto fu assegnato a Romaggi59, trasferitosi tra l'altro con moglie e figli
nella stessa Parrocchia della famiglia Manfredi60.
Morì il 12 luglio 1777 alle ore 20.30 a soli 46 anni e venne sepolto nella
chiesa di S.Giovanni e Reparata nella Tomba dei Confratelli di S.Cecilia
(oggi rimossa dalla chiesa assieme alla lapide), i quali gli decretarono una
solenne messa funebre, eseguita nella Cattedrale di S.Martino e diretta
da Giacomo Puccini senior61. Secondo il contrabbassista Domenico Baldotti62morì di male gallico, cioè di "lue", ma questa informazione non è
confermata, né smentita dall'atto di morte63. Dei musicisti della famiglia
Manfredi rimase il solo Vincenzo, flautista ed oboista della Cappella di
Palazzo fino al 1805, poichè‚ il padre, cornista e trombettista era morto nel
1774, ma non era stato sostituito nel suo ruolo dall'altro figlio Luigi, ottone
anch'esso, non più registrato negli Stati di Anime già dal 176764.
La produzione strumentale65 e i suoi caratteri
Le fonti
Sei Sonate per violino e basso Op. 1, Dodici Sonate “lucchesi” per violino e
basso e il Duetto Notturno per due violini “la buona notte” costituiscono lo
sforzo compositivo di Filippo Manfredi esistente oggi66. Secondo Mario
Fabbri al violinista lucchese apparterrebbe anche il Piccolo Trio in si bemolle
maggiore per violino, viola e violoncello, di cui rimane solamente la trascri-
57 Ibidem, libro D, c. 43 recto.
58 cfr. Nomi, Cognomi…doc. cit. anno 1777.
59 Ibidem, anno 1778 e seguenti.
60 cfr. Stato delle Anime di S.Martino…doc. cit. anno 1777 e segg.
61 cfr. Luigi Nerici, op. cit. p. 282.
62 cfr. [Domenico Baldotti] Musiche e Paghe del Principe e altro, c.1. (Istituto Superiore di Studi Musicali “L.Boccherini”, Lucca).
63 Libro dei Defunti di S.Giovanni (1744-1799), c. 97 recto.
64 cfr. Luigi Nerici, op. cit. p. 207.
65 cfr. Stato delle Anime di S.Martino…doc. cit., anno 1767 e segg..
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La produzione del Manfredi fino a pochi anni fa risultava essere solo strumentale, ma recentemente sono state scoperte due opere del repertorio sacro. Si tratta di un Vexilla regis per
coro a cappella (Collezione privata Bacci) e di un Sacerdos et pontifex per soprano, coro a 4,
archi e 2 corni (Abbazia di Einsiedeln, Musikbibliotek, Mss., 191, 10). Entrambe le opere sono
state eseguite e incise da Luca Bacci.
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zione e la revisione moderna curata dallo stesso musicologo, ma non il
manoscritto settecentesco67.
Tutte le opere del Manfredi sono prive della data di composizione e
l’unica indicazione indiretta sulla cronologia ci perviene da una nota biografica curata molto probabilmente da Domenico Agostino Cerù, il quale
possedette i primi dieci fascicoli delle Sonate Lucchesi, che donò il 1° aprile 1873 all’Istituto Musicale “Pacini”, l’attuale Istituto Superiore di Studi
Musicali “L.Boccherini” di Lucca68. Secondo il celebre storico, il violinista
lucchese «compose di suo n.6 Sonate a violino e basso che dedicò al Ser.mo Principe delle Asturie, stampate a Parigi. Successivamente queste altre 10. Sonate [le
lucchesi]»69. L’analisi stilistica70 non conferma, peraltro, questa affermazione che del resto non viene suffragata né da indicazioni di pugno dell’autore (assenti sia sui manoscritti, sia sulle edizioni a stampa), né da Giacomo
Puccini senior. Questi – pur citando più volte nel Libro delle Musiche71 le
esecuzioni dello stesso Manfredi di concerti, sonate o movimenti di sua
composizione non precisa i titoli dei brani suonati e non permette quindi
una esatta collocazione temporale degli stessi.
Le Sei Sonate per violino e basso Op. 1 sono pervenute sia manoscritte sia
in un’edizione a stampa della seconda metà del Settecento. I manoscritti sono custoditi presso la Biblioteca del Conservatorio “N. Paganini” di
Genova e riguardano però le prime cinque Sonate ed una seconda copia
della n.5. I primi cinque fascicoli sono vergati da un’unica anonima mano72, mentre l’ultimo, la seconda copia della n.5, è di grafia diversa ed ha
la firma del copista Francesco Giusto73.
67 Il RISM di Francoforte aveva segnalato un «Andante» attribuito al Manfredi custodito nella
Bilioteca di Uppsala (segnatura: Instr.mus.hs.133.17), ma da un confronto con le Sonate Op.
1 di Domenico Ferrari (Piacenza 1722 - Parigi 1780) si conclude facilmente che si tratta del
primo movimento della Sonata Op. 1 n.2 del violinista piacentino.
68 Siena, Biblioteca dell’Accademia Musicale Chigiana, Ms. D.IV.43., Partit. e Parti; cc. 6+3+3+3,
cm. 32x23,5. La trascrizione moderna di questo Piccolo Trio – che, secondo le indicazioni non
documentate di Mario Fabbri, sarebbe stato «composto verso il 1760», venne eseguito da tre membri del Quartetto Carmirelli il 28 luglio 1962 all’interno dei concerti delle “Settimane Senesi”.
69 Lucca, Istituto Musicale “L.Boccherini”, Ms D.IV.260., Partit., Ms. Composito del sec. XVIII;
cc.58; 11 fascicoli. Fascicoli 1-8 (dalla carta 1 recto al 42 verso) cm. 24x33; fascicolo 9 (dalla carta
43 recto al 46 verso) cm. 23x33; fascicoli 10-11 (dalla carta 47 recto al 58 verso) cm. 23x29,5.
70 Lucca, Istituto Musicale «L.Boccherini», Ms.D.IV.260., Partit., Ms.composito del sec.XVIII,
fascicolo 1, carta 1 recto.
71 Le prime e meno evolute sono le Lucchesi n.10, n.11 e, in parte, la n.6. Al periodo centrale appartengono, invece, la n.1, 3 e 6 dell’Op. 1 e le Lucchesi n.1, 7, 8, 12. Le più interessanti sono le
Lucchesi n.2, n.9 (che contengono gli esempi migliori di forma ricorsiva), oltre alla n.3, 4, 5 e la
n.2, 4 e 5 dell’Op. 1.
72 Giacomo e Antonio Puccini, Libro delle Musiche Annue e Avventizie fatte da me Giacomo Puccini
M.[aest]ro di Capp. [ell]a della Seren. [issim]a Repubblica di Lucca, ed Org.[anist]a della Catedrale, ed
Accademico Filarmonico di Bologna. Archivio di Stato di Lucca. Deposito Pacini n. 1-2-3.
73 Genova, Biblioteca del Conservatorio “N. Paganini”, segnatura da M.4.30.2 a M.4.30.6, Partit.,
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Undici delle Dodici Sonate “lucchesi” sono manoscritti custoditi presso
l’Istituto Superiore di Studi Musicali “L.Boccherini” di Lucca74, che contengono sul frontespizio della Prima Sonata una dedica, «Riservata e Dedicata all’Ad.M.V.I», ad un oscuro personaggio. Sono copie manoscritte del
secolo XVIII redatte da quattro mani diverse, ma non vi sono indicazioni
sui nomi dei copisti. È stato rinvenuto, inoltre, grazie ad un’indicazione
dell’Eitner75 che riferiva di un’opera del Manfredi negli “Stimmbücher”
dell’Archivio della Gesellschaft der Musikfreunde di Vienna, un fascicolo
manoscritto contenente una Sonata per violino e basso del violinista lucchese. Si ritiene che questa sia la Dodicesima sonata “lucchese” – sebbene non
vi siano indicazioni né sul manoscritto di Vienna, né su quelli dell’Istituto
“L.Boccherini”, né tantomeno sul Libro delle Musiche di G.Puccini76 – per
evidenti affinità stilistiche con le Undici custodite a Lucca. Innanzi tutto, la
Sonata si articola in tre movimenti, come la maggior parte delle ”lucchesi”:
un «Allegro moderato» dalla forma monotematica tripartita, impiegata
dal Manfredi in altri due tempi della stessa raccolta77; un «Largo» dalla
forma A-B-A’, la più utilizzata dall’autore nei tempi lenti; un «Minuetto
con variazioni» che possiede delle affinità con quello della Lucchese n.278.
Di manfrediano si ritrovano altri elementi come una certa irregolarità nel
fraseggio, le numerose appoggiature del movimento lento (l’abbellimento
più utilizzato dal compositore lucchese) e un vocabolario armonico caratterizzato da una certa semplicità. Inoltre, considerando questa Sonata
come la Dodicesima delle Lucchesi, la raccolta – che si apre in Mi bemolle
maggiore – si chiuderebbe, così come molte dell’epoca, nella medesima
tonalità. Il compositore lucchese Gaetano Luporini (Lucca, 1865 - ivi, 1948)
rimase sicuramente avvinto dalla fresca e spontanea vena melodica delle
“lucchesi” trascrivendo la n.6, la n.7 e la n.8, che lasciò nella sua biblioteca
privata; la n.6 fu inoltre pubblicata nel 1938 dalla Carisch di Milano.
Come premesso, Manfredi non sembra compositore prolifico e la sua
produzione rimastaci termina con il Duetto Notturno per due violini in mi
bemolle maggiore “la buona notte”. Il Duetto Notturno è opera legata ad un
interessante conflitto d’attribuzione con Boccherini perché è pervenuta in
Ms del sec. XVIII; cc.6, cm.21,5x29.
74 Genova, Biblioteca del Conservatorio “N. Paganini”, segnatura M.4.30.31, Partit., Ms del sec.
XVIII; cc.4, cm.21,5x29.
75 cfr. nota 3.
76 Robert Eitner, Manfredi, Filippo in Quellen Lexicon der Musikgelehrten, VI, Lipsia, Breitkopf &
Härtel, 1902, pag.297. 16 Vienna, Biblioteca della Gesellschaft der Musikfreunde, Stimmbücher Q 16686, Partit. e Parte di basso, Ms del Sec.XVIII; cc.5+3, cm. 21,5x2
77 cfr. Libro delle Musiche...., doc.cit.
78 L’«Allegro» della n.3 e l’«Allegro moderato» della n.5.
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tre copie differenti: la prima assegnata al Manfredi si trova nella Biblioteca del Conservatorio “N. Paganini” di Genova79; la seconda, attribuita a
Boccherini, è collocata nell’Archivio Musicale della Cappella Antoniana
di Padova80; la terza, della quale ci rimane solo la parte di primo violino,
è anche ascritta al violoncellista ed è conservata presso la Biblioteca del
Conservatorio “G.Verdi” di Milano81. Nonostante sia difficile affermare
con certezza la paternità di quest’opera, sotto l’aspetto stilistico mi sembra vi siano più affinità con lo stile del Manfredi poiché in tutti e quattro
i movimenti la tessitura compositiva risulta realizzata da una condotta
delle parti di terze e seste per moto retto con qualche breve imitazione solo
nell’ultimo movimento. Sono elementi – oltre ad una difficile collocazione
del Notturno all’interno delle collezioni di duetti del Boccherini – più affini ai limitati studi di armonia e contrappunto del Manfredi, rispetto alla
notevole sensibilità compositiva del collega violoncellista, che nei duetti
dimostra una ben diversa padronanza del moto delle parti.
I caratteri generali
L’analisi delle due raccolte di Sonate per violino e basso e del Duetto notturno colloca stilisticamente l’opera del Manfredi all’interno del periodo
pre-classico, evidenziando i caratteri stilistici della cosiddetta “musica
galante”. Forme sonata prevalentemente bipartite (ma anche tripartite
monotematiche, tripartite bitematiche e anche un rondò-sonata bitematico tripartito) che si succedono a movimenti lenti con lunghezze oscillanti
da poche misure sino a cinquanta battute, i quali si sviluppano attraverso
strutture molto differenti tra loro, concludendosi spesso con movimenti
di danza (Minuetti, Rondò e Gighe) o con tema e variazioni, dove vi è la
possibilità di sciorinare le qualità della tecnica strumentale.
Le frasi musicali, così come è tipico per gli autori dello stile galante,
perdono il lungo respiro delle composizioni barocche, frammentandosi in
una serie di corti periodi, di frasi brevi, o addirittura di semplici incisi. È
però opportuno distinguere l’analisi del fraseggio musicale tra movimenti
in forma sonata, di danza e i tempi lenti. Nei primi il fraseggio appare più
regolare nell’esposizione, si contrae e diventa particolarmente dispersivo nello sviluppo per ritrovare una maggiore fluidità nella ripresa. I temi
hanno lunghezza variabile oscillando da quattro sino a sedici battute e
79 Nella terza variazione la scrittura violinistica è in entrambe le sonate prevalentemente polifonica e caratterizzata dall’impiego di bicordi con terze e seste.
80 Genova, Biblioteca del Conservatorio “N. Paganini”, M.4.30.7, le due parti in 8°ob., Ms.del
Sec.XVIII; cc.3+3, cm.21,5x29.
81 Padova, Biblioteca dell’Archivio Antoniano, Il Notturno del Sig.Boccherini, M.1368.D.I., le due
parti in 4°ob., Ms. Del Sec.XVIII, cc.5+5, cm.23,5x32,5.
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sono per lo più realizzati unendo frasi, semifrasi ed incisi. Ma è nello sviluppo che Manfredi si abbandona alla creazione di nuove idee melodiche
che nascono e muoiono ad ogni batter di ciglia, creando un certo disordine
nel fraseggio, più regolare nelle code. Gli abbellimenti più utilizzati sono
le appoggiature semplici superiori e i trilli, ma vi sono, inoltre, appoggiature doppie e triple (superiori ed inferiori), acciaccature doppie e triple,
acciaccature con corde doppie e mordenti.
Anche per quanto riguarda il ritmo l’opera strumentale del Manfredi
appare legata allo stile dei coevi per l’utilizzo di ricorrenti figure ritmiche
come terzine e quartine di sedicesimi, sincopi insistenti e particolari clichés
ritmici tipici degli autori galanti, oltre agli stessi abbellimenti (appoggiature e trilli) che, a volte, possono diventare parte integrante del profilo ritmico proprio perché particolarmente insistenti. Il ritmo armonico appare
lento, ma subisce brusche accelerazioni nello sviluppo dei movimenti in
forma sonata e nelle sezioni centrali dei movimenti lenti. Le modulazioni più utilizzate sono quelle ai toni vicini, mentre quelle ai toni lontani
si possono trovare sia negli sviluppi dei movimenti in forma sonata più
interessanti e meglio articolati, sia nei movimenti moderati e lenti. Sono
presenti, così come in Boccherini che li impiega sempre con grande maestria, bruschi passaggi tra modo maggiore e modo minore con esplicite
finalità espressive. Come la maggior parte delle partiture settecentesche
anche la produzione strumentale del Manfredi è sprovvista di numerica
nella parte del basso continuo, ma il vocabolario armonico, che in ogni
caso le due linee melodiche fanno intravedere, rivela semplicità e linearità
tipica dei musicisti galanti coevi. Le triadi più frequenti sono quelle allo
stato fondamentale o di primo rivolto, mentre quelle al secondo rivolto
sono concentrate nelle parti cadenzanti, alla fine dei periodi o al termine
delle code. Molto utilizzati sono gli accordi di settima di dominante e di
sensibile presentati, a volte, con degli eloquenti arpeggi del violino. Nelle
Lucchesi, inoltre, le armonie dissonanti sono più ricorrenti e vengono impiegate per sottolineare l’espressività della melodia.
Il basso continuo si articola su una semplice linea melodica che si snoda attraverso i gradi fondamentali della scala. Ha un’esclusiva funzione
di sostegno armonico impiegando le note fondamentali dell’armonia sui
movimenti principali della battuta, privilegiando, inoltre, andamenti omoritmici, note ribattute e note lunghe. In qualche caso Manfredi ricorre ai
clichés tipici dell’accompagnamento settecentesco utilizzando il “basso albertino”, arpeggi con terzine di ottavi e arpeggi con quartine di sedicesimi. Per l’esecuzione del basso continuo non sono indicati suggerimenti
sui manoscritti, ma è verosimile ritenere che Manfredi avesse pensato al
violoncello per la presenza di alcuni bicordi e per l’impiego della chiave di
tenore. Del resto non possiamo dimenticare i numerosi concerti tenuti dal
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duo Manfredi-Boccherini sia a Lucca, sia nella lunga trasferta verso la Spagna. L’opera strumentale di Manfredi possiede solo pochi segni dinamici
come f. oppure for. (forte) e p. (piano), cui si aggiungono nelle Lucchesi altre
indicazioni quali pia. (piano), FF. (Fortissimo), Dol. oppure Dolce e morendo,
mentre nei termini “amoroso”, “grazioso”, “smorfioso”, “variazioso”, “flebile ed espressivo” ritroviamo il tipico vocabolario dell’agogica galante.
Le forme ricorsive
Sei sonate possiedono un numero particolarmente elevato di movimenti e si articolano su cinque, sei e sette tempi, quasi fossimo in una sonata
corelliana, ma la peculiarità di queste composizioni non consiste esclusivamente nel numero dei tempi, piuttosto nel fatto che gli stessi vengano
riproposti due, o più volte all’interno della medesima composizione seguendo un andamento ciclico-ricorsivo. Si preferisce impiegare il termine
di “forma ciclico-ricorsiva”, piuttosto che quello storico di “forma ciclica”
per differenziarla dalle varie forme cicliche impiegate da Boccherini. In effetti, la critica boccheriniana – che ha definito giustamente il violoncellista
lucchese l’inventore delle forme cicliche82– ha scoperto una serie di ciclicità
che riguardano solo in parte le forme impiegate dal Manfredi. Bathia Churgin83, per esempio, studiando le sinfonie di Boccherini ha proposto una
classificazione della ciclicità dividendola in quattro modelli: 1) ritorno del
tema di un movimento all’interno di un altro movimento; 2) riproposizione
di un modulo ritmico o di una figura melodica da un movimento all’altro;
3) riproposizione dell’introduzione lenta prima del finale; 4) impiego della
seconda sezione del primo movimento come finale. In seguito, anche Timothy Noonan84 si è occupato delle ciclicità nel violoncellista lucchese soffermandosi soprattutto sull’impatto che le ripetizioni esercitano sull’ascoltatore e, semplificando la tipologia proposta dalla Churgin, ha indagato
sulle motivazioni dei diversi procedimenti, in particolare, sulle introduzioni lente. Mangani, infine, trattando delle forme cicliche in Boccherini85
propone una serie di esempi che si avvicinano alla ciclica-ricorsività del
Manfredi in cui alcuni movimenti si ripresentano intercalati da altri.
82 Milano, Biblioteca del Conservatorio di Musica “G.Verdi”, Duetto VII A due Violini Obligatti
del Sig.Luigi Boccherini,Fondo Noseda E 24/8, la parte di primo violino in 4° ob., Ms. Del Sec.
XVIII, cc.5, cm 29,5x22,5.
83 Marco Mangani, Luigi Boccherini, L’Epos, Palermo, 2005, p. 232.
84 Bathia Churgin, Sammartini and Boccherini: Continuità and Change in the Italian Instrumental
Tradition of the Classical Period, in CHIGIANA 43, 1993, pp. 171-191.
85 Timothy Paul Noonan, Structural anomalies in the symphonies of Boccherini, Ph.D. Diss., University of Wisconsin, 1996; T. Noonan The slow introduction in Boccherini’s symphonic finales in
«Studi Musicali», XXXI, n. 1, 2002, pp. 145-160.
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Eccoli di seguito:
Quintetto G 276 “L’Uccelliera”
«Adagio» - «Allegro giusto»
«Allegro» “I pastori e li cacciatori”
«Minuetto» (A || A’) - «Trio» - «Minuetto» (A || A’ - passaggio di raccordo), attacca:
«Allegro giusto» (il primo movimento a partire dalla seconda parte)
Sinfonia G508
«Allegro assai»
«Larghetto»
«Minuetto con moto» - «Trio» - «Minuetto»
«Grave» - «Allegro assai» (il primo movimento a partire dalla seconda
parte)
Quintetto G337
«Andante lento»
«Allegro vivo» - «Tempo di minuetto» - «Grave» - «Allegro vivo» (ripetizione), attacca:
«Rondeau, allegro non tanto» - «Minuetto» - «Rondeau» (ripetizione)
Quintetto G377
«Grave assai» -«Allegro assai» (IV || V, cadenza sospesa)
«Andantino con innocenza»
«Tempo di minuetto»
«Grave assai» (versione abbreviata del precedente) - «Allegro assai» (I,
completamento del primo movimento)
Difficile capire quale provenienza abbiano queste strutture formali in
Manfredi e Boccherini e soprattutto se le abbia suggerite il più anziano
violinista, se fossero un consiglio del giovane violoncellista, oppure per
entrambi un retaggio del passato al quale Manfredi e Boccherini attingono
in modo diverso. In effetti, un esempio di ciclica-ricorsività dei movimenti
si ritrova in un violinista come Tartini il quale, pur operando lontano dalla
Toscana ebbe alcuni allievi provenienti da questa regione, tra cui Nardini
e forse lo stesso Manfredi86. In particolare il Concerto per violino, archi e continuo D115 dedicato a Lunardo Venier ed appartenente all’ultimo periodo
della sua produzione (1750-1770) si articola alternando un andante con
86 Marco Mangani, op. cit. pp. 122-123.
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Filippo Manfredi
un allegro secondo un libero legame ciclico-ricorsivo che di seguito viene
schematizzato.
Movimenti
Forma
Battute
Modulazioni
Andante
cantabile
Allegro
assai
Andante
cantabile
Allegro
Andante
Allegro
α2
1-10
10-18
19-28
A’
28-34
35-42
A’’+ A’’’
la min.
Mi
magg.
α
la min.
A
la min.
α1
la min.
42-74
Mi
magg.
Andante
cantabile
α3
75-86
Do magg.,
la e re min.,
Mi magg.
Allegro
assai
B + coda
86-121
la min.
È un movimento caratterizzato da una certa compattezza compositiva
poiché se l’«Andante» si basa su una sola melodia che viene leggermente
variata ogni volta, l’«Allegro» è più articolato perché le variazioni del motivo principale (A) sono molto più consistenti. Si giunge, poi, nell’ultima
sezione all’introduzione di una nuova idea (B), chiosando peraltro con
una coda molto simile ad A. Sebbene questo movimento si possa ritenere
indubbiamente interessante per l’articolato e fantasioso respiro compositivo, sembra più affine allo stile tardo barocco che a quello pre-classico.
Forme di questo tipo si trovano anche in altri autori, ma anch’esse rivelano elementi stilistici decisamente seicenteschi87.
Per Manfredi, invece, il legame ciclico-ricorsivo si sposa con le forme
tipiche del periodo come la sonata, i tempi lenti fioriti tipici del secondo
stile galante, i movimenti di danza – minuetto e rondò – più caratteristici
del secondo Settecento. E l’intento dell’autore di legare due movimenti in
un’unica macro-struttura ciclico-ricorsiva viene ribadita dalle diciture inserite nella partitura: si legge «Volti subito che segue il Minore Adagio» nella
Lucchese n.2 e «Segue subito il Minuetto» nella Lucchese n.9.
La Lucchese n.2 evidenzia efficacemente il primo tipo di forma ciclico-ricorsiva essendo costituita da un «Largo-Adagio» e da un «Allegro
moderato», entrambi tripartiti, che si alternano sviluppandosi. Infatti se il
«Largo-Adagio» si svolgesse interamente senza avvicendarsi con l’«Allegro moderato» risulterebbe così composto:
87 Nel primo movimento del Concerto per violoncello e archi RV409 di Vivaldi – segnalatomi dal
prof. Cesare Fertonani – si alternano per ben sei volte un «Adagio» e un «Allegro». Il movimento mosso ha una chiara funzione di ritornello ed è suonato dal tutti orchestrale, mentre
quello lento viene eseguito dal violoncello. L’evoluzione melodica ed armonica è concentrata
nella prima parte (bb.1-75), perché dopo la ripresa tematica il movimento non si sposta dalla
tonalità d’impianto (bb.76-110) e non ci sono sviluppi delle idee melodiche. Sempre di chiara
matrice barocca è la Sonata XIII per due violini e basso continuo Op. 4 del compositore abruzzese
Michele Mascitti (Villa Santa Maria, Chieti, ca.1664 - Parigi, 1760) – della cui esistenza mi parlò la Dott.ssa Carla Ortolani, alla quale porgo i miei ringraziamenti – che inizia con «Grave»,
«Allegro», «Grave» dallo sviluppo piuttosto contenuto sia dal punto di vista melodico, sia da
quello armonico.
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Schema formale dei movimenti lenti della Lucchese n.2
«Largo»
«Largo»
«Adagio»
«Largo»
Forma
Battute
a
1-4
a’
21-26
sutura
63-64
Modulazioni
Do magg.
Sol magg.
a’’ / b / c
49-54 / 55-58 / 58-63
do min., Mib magg., Fa magg., Mib
magg.
Mib magg.
Anche l’«Allegro moderato» se non fosse preceduto ed interrotto da
parti del «Largo-Adagio» si articolerebbe come una normale sonata bitematica pre-classica:
Schema formale dell’«Allegro moderato» della Lucchese n.2
Forma
Battute
transizione
2° tema
Do magg.
re min.
Sol magg.
5-8
modulazioni
Forma
Battute
9-13
Sviluppo
1° tema
modulazioni
26-31
Modul.
Esposizione
1° tema
31-48
Sol magg. la min,
mi min., Do magg.
Sol magg.
coda
13-18
Ripresa
1°tema
transizione
64-69
70-74
Do magg.
18-20
Sol magg.
2° tema + coda
74-79
79-85
Do magg.
In realtà i movimenti si avvicendano ricorsivamente originando questa
particolare struttura formale:
La forma ciclico-ricorsiva nella Lucchese n.2
forma
«Largo»
battute
1° tema
transizione
2°tema
Do magg.
Do magg.
re min.
Sol magg.
1-4
modulazioni
5-8
«Largo»
forma
battute
a’
1° tema
Sol magg.
Sol magg.
21-26
modulazioni
«Allegro moderato»
A
8-13
18-20
Sol magg.
«Allegro moderato»
modulazioni
27-32
32-48
Sol magg., la min., mi min., Do magg.
«Adagio» «Largo»
«Allegro moderato»
a’’
b
c
sutura
1°
tema
battute
49-54
55-58
58-63
63-64
65-68
modulaz.
do min.
Mib magg.
Fa magg
Mib
magg
Mib
magg.
forma
coda
13-18
Do magg.
transizione
2°
tema
coda
69-76
76-79
79-84
Do magg.
Do
magg.
Do
magg.
Dopo questo lungo movimento ciclico-ricorsivo la Sonata si conclude
con un «Minuetto in variazioni».
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Filippo Manfredi
La tecnica violinistica
Uno degli elementi di maggiore interesse delle sonate del Manfredi è
indubbiamente la particolare ricchezza della tecnica violinistica. L’ampio
campionario delle difficoltà contenute nelle due raccolte di Sonate rivela
come Manfredi fosse soprattutto un virtuoso del suo strumento. Del resto, se è difficile provare che fu allievo di Tartini, non si può sottacere che
prese lezioni da un violinista di scuola tartiniana come Pietro Nardini e
probabilmente studiò a Genova con Domenico Ferrari, anch’egli legato al
maestro istriano: in ogni caso le affinità con la scrittura violinista tartiniana sono piuttosto evidenti.
L’«Allegro ma non tanto» della Op. 1 n.6 – sonata che, non a caso, venne pubblicata all’interno di alcune pregevoli sillogi violinistiche (quella
di Jean-Baptiste Cartier, quella di Delphin Alard e quella di Franz Anton
Hoffmeister) – compendia gran parte delle difficoltà tecniche utilizzate
dal Manfredi.
Bicordi di ottave si trovano nel tema.
Es. 1: «Allegro ma non tanto» Op. 1 n.6 (misure 1-14)
E alla fine dello sviluppo.
Es. 2: «Allegro ma non tanto» Op. 1 n.6 (misure 57-71)
Passi polifonici riguardano la transizione.
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Es. 3: «Allegro ma non tanto» Op. 1 n.6 (misure 33-43)
Le posizioni acute si trovano nello sviluppo.
Es. 4: «Allegro ma non tanto» Op. 1 n.6 (misure 94-103)
Un passo molto impegnativo nel registro acuto e sovracuto si trova,
invece, nella transizione dopo la ripresa.
Es. 5: «Allegro ma non tanto» Op. 1 n.6 (misure 119-129)
Infine le code contemplano l’impiego di trilli reiterati “alla Tartini”
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Filippo Manfredi
Es. 6: «Allegro ma non tanto» Op. 1 n.6 (misure 44-49)
Tutta l’opera strumentale del Manfredi è ricca di passi violinistici di
una certa complessità ma le difficoltà maggiori si concentrano negli sviluppi delle forme-sonata oppure nei couplets dei rondò, che tendono a diventare il momento dell’ostentazione virtuosistica, grazie alla loro varietà
melodica, armonica e ritmica. Negli sviluppi sono presenti, in effetti, una
serie interessante di “trilli alla Tartini” che seguono linee melodiche ascendenti e discendenti.
Trilli su linee discendenti tratti dall’«Allegro ma non tanto».
Es. 7: «Allegro ma non tanto» Op. 1 n.1 (misure 134-139)
Es. 8: «Allegro ma non tanto» Op. 1 n.1 (misure 193-197)
Oppure degli arpeggi come nell’«Allegro brillante» Op. 1 n.1 (misure
214-216) e trilli sugli arpeggi come nell’«Allegro brillante» Op. 1 n.1 (misure 214-216)
Es. 9: «Allegro brillante» Op. 1 n.1 (misure 214-216)
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Manfredi ama giocare con questo elemento decorativo, ma anche con il
mordente che si ritrova con le relative risoluzioni nello sviluppo dell’«Allegro moderato» della Lucchese n.2, oppure semplicemente reiterato come
nell’«Allegro moderato» della Lucchese n.5.
Es. 10: «Allegro moderato» della Lucchese n.2 (misure 41-44)
Es. 11: «Allegro moderato» della Lucchese n.5 (misure 75-79)
Altri elementi che contraddistinguono gli sviluppi sono dei passi polifonici con bicordi di terze e seste, oppure delle brevi volatine accostate alla
scrittura polifonica.
Es. 12: «Allegro» della Lucchese n.4 (misure 54-57)
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Filippo Manfredi
In un caso Manfredi concede all’esecutore la possibilità di eseguire il
passo all’ottava bassa o a quella più alta, indicando la dicitura «all’8° alta,
se piace».
Es. 13: «Allegro moderato» della Lucchese n.2 (misure 33-35)
Anche i couplets dei rondò contengono delle curiosità tecniche di un
certo interesse. In special modo il «Rondau, Allegro» dell’Op. 1 n.3 si
distingue per un passo con terze e seste (bb.15-27), un altro con ottave
spezzate (77-81), ma soprattutto contiene un passo con armonici naturali
semplici e doppi, nel quale è presente un armonico artificiale di quarta
(battute 134, 136 e 138).
Es. 14: «Rondau, Allegro» dell’Op. 1 n.3 (misure 127-141)
Molto probabilmente Manfredi ebbe modo di perfezionare la tecnica
degli armonici con il suo insegnante genovese, il violinista Domenico FerCodice 602
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L’ultima pagina dell’edizione a stampa del «Rondau» Op. 1 n.3
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rari, che attorno al 1757-58 pubblicò una Sonata per violino e basso, la Op. 1
n.5, in cui vi è un uso molto avanzato dei suoni armonici. Sebbene il violinista lucchese sia stato tra i primi violinisti italiani ad impiegare i suoni
armonici88, è verosimile pensare che questa tecnica fosse comunque molto
diffusa tra gli strumentisti dell’epoca perché altrimenti non si spiegherebbero le considerazioni del violinista lucchese Francesco Geminiani (Lucca,
1687 - Dublino, 1762), che nel suo metodo per violino89 stigmatizza la cattiva abitudine dei violinisti di usare i suoni armonici per imitare il timbro
della tromba marina.
In effetti, proprio il «Rondau» dell’Op. 1 n.3 evidenzia una ricerca timbrica particolare che ci consente di introdurre il discorso relativo ai modi
di attacco del suono adoperati dal Manfredi. Nel penultimo couplet del
«Rondau»90, infatti, si succedono nell’ordine: un “passo” che va eseguito
«al Conticello», uno che prevede note «Flautate» ed infine quello, citato nella pagina precedente, con gli «Armonici».
Nell’arco di trentanove battute perciò le sonorità del violino cambiano
repentinamente. Si passa dal suono ovattato e impuro, prodotto dal modo
di attacco del suono «al Conticello» – mediante il quale l’archetto viene in
contatto con le corde in una posizione molto vicina al ponticello – a quello
dolce e delicato dei «Flautati» – ottenuto sfregando l’arco in corrispondenza della tastiera – a quello sottile e cristallino degli «Armonici». Una ricerca
timbrica particolare che suggerisce le sperimentazioni che si ritroveranno nelle partiture violinistiche di Nicolò Paganini e i repentini passaggi
timbrici che contraddistinguono i Concerti, i Capricci e i pezzi di bravura
come le Variazioni su temi operistici. È perciò plausibile ritenere che Paganini conoscesse l’opera strumentale del Manfredi sia per le frequentazioni
genovesi del violinista lucchese91, sia per la permanenza ventennale del
virtuoso genovese a Lucca. Inoltre Paganini, che diventò “spalla” dei secondi violini della Cappella Palatina dal 1805 al 1818 (pur continuando le
sue trasferte concertistiche in tutta Italia), ebbe «l’obbligazione di fare due
allievi di violino fra i Nazionali Lucchesi da destinarsi con l’intelligenza di due
Anziani deputati sopra la Famiglia di Palazzo»92, incarico che venne imposto
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Oltre a D.Ferrari, bisogna citare il piemontese Carlo Giuseppe Chiabrano (Torino 1723 - Londra ?) e il lombardo Antonio Lolli (Bergamo ca.1730 - Palermo 1802), che furono tra i primi
violinisti italiani ad impiegare i suoni armonici.
89 Francesco Geminiani, The Art of Playing on the Violin, Containing all the Rules necessary to attain
to a Perfection on that Instrument, with a great variety of Compositions, which will also be very useful
to these who study Violoncello, Harpsichord..., Londra, 1751.
90 Da battuta 102 a battuta 141.
91 In ogni caso, visto che le Sonate Op. 1, dalla n. 1 alla n. 5, e il Duetto Notturno sono state rinvenute nella Biblioteca del Conservatorio “N. Paganini” di Genova, è plausibile ritenere che
fossero familiari ai violinisti del capoluogo ligure.
92 Herbert Handt, Paganini a Lucca in “Atti del Seminario”, a cura dell’Istituto di Studi Paganinia-
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anche al Manfredi nel 1773 quando fu reintegrato nel posto di “primo violino” della Cappella di Palazzo93. Si delinea, quindi, un trait-d’union tra i
violinisti lucchesi e quelli genovesi perché già dalla prima metà del Settecento – come alcune fonti documentarie confermano – erano molto intensi
i rapporti artistici tra i violinisti delle due città, sino all’arrivo a Lucca nel
1805 di Nicolò Paganini.
La presenza costante nell’opera a stampa e nei manoscritti di indicazioni concernenti le legature di articolazione e i modi di attacco del suono
permette qualche considerazione sulla tecnica della mano destra, che, peraltro, non risulta particolarmente complessa. Sono legature di articolazione che uniscono soprattutto due, tre e quattro suoni, ma che possono
collegare sino sei, sette, otto, dodici e sedici note. Vi sono, inoltre, brevi arpeggi su due e tre corde che riguardano esclusivamente le Lucchesi,
precisamente l’«Allegro moderato» della n.4, l’«Allegro non tanto» della
n.6 e l’«Allegro smorfioso» della n.10. Interessante è l’arpeggio su tre corde tratto dall’«Allegro moderato» della Lucchese n.4, che – per consentire
l’esecuzione degli accordi successivi – deve essere realizzato in posizione
medio-acuta.
Es. 15: «Allegro moderato» della Lucchese n.4 (misure 15-18)
I modi di attacco del suono staccati e balzati riguardano soprattutto
terzine, quartine di ottavi o di sedicesimi o di trentaduesimi, ma vi sono
anche le tipiche alternanze tra note legate e note staccate o balzate. Le
combinazioni utilizzate da Manfredi sono: due note legate e una balzata
(terzine di ottavi94 e di sedicesimi95); due legate e due balzate (quartine
ni, Genova, Sagep, 1984.
93 Consiglio Generale - Riformaggioni Pubbliche, n. 250, pp. 263 e segg.
94 Cfr. «Allegro» dell’ Op. 1 n.3, bb.21-23.
95 Cfr. «Allegro» della Lucchese n.4, bb.29-30.
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di sedicesimi96 o di trentaduesimi97); una balzata e tre legate (quartine di
trentaduesimi98); una balzata, due legate ed una balzata (quartine di sedicesimi99). Un segno di questo tipo ~~ non possiede un significato univoco
trovandosi in due contesti differenti. Nell’«Allegro» della Lucchese n.5 potrebbe suggerire – così come indica il metodo del coevo Geminiani100– il
moderno vibrato, utile in questo contesto per arricchire la consistenza timbrica delle note flautate. Nell’«Allegro moderato» della Lucchese n.2 lo stesso segno, proprio perché posizionato nella battuta conclusiva si potrebbe
invece interpretare come modo di attacco del suono “staccato liscio”.
Filippo Manfredi, Sonata Lucchese n. 2 (Ms. D.IV.260 - Biblioteca Istituto Musicale
“L. Boccherini di Lucca)
96 Cfr. «Allegro non tanto» della Lucchese n.7, bb.3-6.
97 Cfr. «Allegro maestoso» dell’Op. 1 n.4, bb.105-106.
98 Cfr. «Allegro maestoso» dell’Op. 1 n.5, b.88.
99 Cfr. «Andante con moto ed espressione» della Lucchese n.9, bb.29-32.
100Cfr. Francesco Geminiani, The Art of playing..., op. cit.
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Fare musica oggi
Fugaci riflessioni su suoni e suonatori moderni
di Matteo Cammisa
«Che fai nella vita?»
«Sono un musicista»
«Ah, ma di lavoro che fai?»
Ebbene sì, in Italia il musicista, dalla maggior parte dei non esperti e
dei fruitori occasionali dell’arte del suono non è considerato un lavoro.
Fare musica nel pensiero collettivo è un mero sollazzo, un vezzo aristocratico di chi ha tempo da perdere. Ah! Quanto dolore genera tutto
questo nel povero strumentista che suda le sue ore d’orchestra per un
compenso che arriverà forse sei mesi più tardi o per l’insegnante che
dopo aver studiato anni e anni di passi d’orchestra, studi e concerti
grandiosi, si trova a dover rifilare un flauto dolce a dei ragazzi che farebbero di tutto meno che soffiare in un tubo di plastica…
Ma andiamo per ordine.
Il problema forse è nella storia o meglio nel fatto che molti non la
conoscono.
Essa ci testimonia che la professione musicale, almeno fino alla fine
dell’Ottocento, era una mansione di grande valore: cantori, suonatori
e maestri di cappella delle Cattedrali e delle Corti (e in seguito dei
Comuni) erano rispettati e solitamente ben pagati. Oggi la situazione
è ai poli opposti e più che al caso del maestro di cappella siamo vicini
ai casi del giullare umiliato a corte oppure dell’orchestrina sottopagata
per far sentire le arie della diva del momento. I medio istruiti in materia, se così li vogliamo chiamare, ricordano il buffone o lo strumentista
sfruttato per giustificare la propria idea del musicista quale personaggio votato alla proliferazione artistica e ripudiatore del guadagno, o
per meglio e volgarmente dire: uno povero sfigato.
Come dicevo, e ci tengo a ribadirlo, la storia non ci dice questo, il
musicista nelle epoche passate era una persona rispettabilissima, ma a
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Fare musica oggi
quanto pare la gente l’ha dimenticato e quando vede un “suonatore di
corde” o un “battitore di pelli” pensa inconsciamente al saltimbanco,
al sottopagato e forse al poveraccio. Nessuno osa dichiararlo, certo!
Perché il buoncostume sociale fa la sua parte trasformando i commenti
in sorrisi indifferenti o frasi di circostanza. I complimenti si sprecano
e gli applausi esplodono incontenibili senza un motivo reale. Nessuno
osa ricordare il buffone ma dentro di sé lo rende presente e suo (unico)
punto a favore nel caso qualcuno avesse da ridire.
Il fatto è che oggi, secondo il mio umile e azzardato punto di vista,
in pochi conoscono veramente la musica e sanno che cosa vuol dire
suonare. La musica crea un’ambientazione, genera emozioni, intrattiene la mente e foraggia le immagini libere del pensiero astratto. Come
direbbe Platone «La musica è una legge morale, essa dà un'anima
all'universo, le ali al pensiero […] e la vita a tutte le cose. Essa è l'essenza di tutte le cose…». La musica è l’espressione dell’essere e del non
essere, essa porta a Dio e contemporaneamente lo annulla imponendosi sull’io, la sua ragione e la sua morale. Una melodia può inebriare un
santo o purificare un libertino. E se della storia ricordiamo i momenti
meno nobili è giusto ricordare anche quelli grandiosi: i tamburi nelle
fanfare a esaltare e sostenere il passo dei militari in guerra, le orchestre
che cantano la libertà di un popolo, i canti polifonici che elevano a
Dio… E si potrebbe continuare per ore e ore entrando nel particolare
di eventi storici che senza la musica avrebbero preso un sapore e forse
una strada differente. Nessun altro mestiere può tanto ma ciò sembra
non toccare l’idea precostituita e sedimentata nei recessi dell’istruzione
media del popolo italiano. «La musica è inutile e tu suonando fomenti
l’inutilità!» quanti vorrebbero urlarlo in mezzo ad una sala da concerto… e quanti musicisti vorrebbero rispondergli con mezzi poco civili.
È una guerra? Forse. Il problema è che abbiamo tutti ragione! Come?!
Direte voi. Eppure è così, la musica di per sé non produce materia e
non ha un ritorno economico sicuro (per essere più chiari: un cavatappi, finché ci saranno le bottiglie sarà utile e la gente continuerà a comprare; lo stesso si può dire per la carta igienica che come si sa… Ma non
vorrei scadere in un gratuito trivialismo medievale). Insomma, si dice
utile ciò che serve a qualcosa di concreto e che porta a un vantaggio
immediato. Il musicista dispensa l’immateriale, vive di diteggiature e
prende soldi per aver composto o cantato un po’ di note. Non è né un
produttore né un venditore in quanto produce e vive di aria. È al di
fuori del consumismo e la società moderna lo isola e bandisce dalle
sue liste di aziende e artigiani. C’è solo un caso in cui il mondo musicale riprende vigore: quando diventa “hit del momento”! L’aria diventa
moda e l’artista un eroe che parla al cuore delle persone. Soldi a palate
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M. Cammisa
e gloria ritrovata alla musica: è il successo! La fama diventa l’unica via
d’uscita in una società governata dal denaro. E l’istruito medio trova
nuovi stratagemmi per colpire ancora una volta il povero diavolo che
si ostina a studiare il suo amato strumento «Davvero suoni? Ma non
sei ancora famoso perché ti ostini…?» e ai grandi esperti dell’arte strumentale non resta che abbassare gli occhi e maledire il fato.
Eppure, ogni tanto, al di là di ogni aspettativa, il lavoro qualcuno lo
trova. Non sono molte le situazioni professionali per cui vale la pena
fare domanda ma ci sono. La più agognata in Italia è sicuramente l’orchestra. Si fa un’audizione, si passano i turni, si vince e il posto è tuo.
Facile no? In realtà il più delle volte è quasi impossibile. Le audizioni
sono sempre meno perché molte orchestre hanno chiuso i battenti e le
poche rimaste non hanno soldi per aumentare la fila. In compenso i
“concorrenti” aumentano e le probabilità di riuscita del singolo diminuiscono drasticamente. Direbbe il saputello «Eh, ma se uno è bravo, è
bravo! Le probabilità non c’entrano!» vero. Ma, oltre al fatto che i posti
disponibili si contano sulle dita di una mano, è altrettanto realistico
pensare che la fortuna gioca un ruolo importante nei pochi secondi di
audizione che vengono concessi. Un raffreddore, un litigio precedente,
un calo di zuccheri o una sorpresa del tipo: il direttore con cui hai litigato il giorno prima sostituisce un commissario e via dicendo. Ma alla
fine qualcuno ce la fa. Passa un mese: primo sciopero, mancano i soldi.
«Beh, sarà un momento, tutto si sistemerà…» il giovane orchestrale
non molla. Poche settimane dopo: assemblea sindacale, i soldi non arrivano e il direttore è un raccomandato. Il giovane comincia a vacillare
ma la musica è il suo sostegno non cadrà, in più è molto bravo, non ha
rivali! In orchestra qualcuno è geloso: cominciano i primi subdoli attacchi. Il ragazzo non demorde ma le note cominciano a cadere. Primo
richiamo del direttore. È la generale, lo guardano tutti. Arriva il solo:
poco sicuro ma non sbaglia niente. È salvo! Ma chissà per quanto…
Sembra incredibile ma di queste storie ce ne sono a migliaia ed è capibile se molti si arrendono prima di iniziare.
Un’altra possibilità lavorativa è l’insegnamento, il buon vecchio
insegnamento. Lasciamo stare la cattedra di conservatorio, già utopia
per il grande artista con vent’anni di riconosciuta carriera, figuriamoci
per un giovane che con il suo diplomino può aggiudicarsi al massimo
il fondo del fondo della lista degli idonei. Rimangono le scuole medie,
i licei e le scuole private. Più o meno la solita storia per le prime due,
un po’ meglio per il privato. Meglio se non si considera il fatto di essere
sottopagati senza nessuna forma di diritto, tutela e/o pensione. Comunque al di là di tutto rimane un buon ripiego anche se, come capita
a volte in alcune scuole può rivelarsi molto stressante. I bambini sono
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Fare musica oggi
spesso dei demoni camuffati da angeli e le direzioni, se hanno altre
materie di cui occuparsi, per il motivo ancestrale di cui sopra, mettono
la musica in coda alle loro questioni. Si dovrebbe andare orgogliosi del
corso di musica e invece spesso lo si tratta come un insegnamento di
serie B. È insomma una giungla in cui il leone non è certo la musica che
come abbiamo visto rimane un semplice passatempo evanescente.
Già, la musica non è una sostanza tangibile, valutabile materialmente. Essa è un effetto, un po’ d’aria che sbatte nei timpani degli orecchi.
Si potrebbe dire quasi che non esiste. Essa, da un punto di vista fisico è la semplice vibrazione di un corpo in un fluido, una dispersione
d’energia; in poche parole: uno spreco. Anche la scienza quindi come il
mercato, di cui parlavamo prima, non è dalla parte di chi suona. Fortunatamente la musica non ha bisogno di alleati per mostrare e imporre
la propria dignità. Essa è immateriale nel senso che è superiore alla
materialità e il musicista non è un furbo fannullone che sa di campare
con il niente, è proprio tutt’altro! Chi intraprende questa strada sa che,
oltre alle incomprensioni elencate sopra, incontrerà molte altre difficoltà. Suonare uno strumento a livelli professionali significa infatti studio
e dedizione quotidiana nonché sacrifici costanti. Non tutti riescono a
tenere fede al patto e, infatti, si perdono dopo qualche anno di studio.
Fare musica non è per tutti perché richiede oltre alla costanza, il talento
e la passione. E anche questo non basta, è necessario lo studio della tecnica e l’acquisizione di più esperienze possibili. Un violoncellista, per
esempio, prima di fare una melodia che abbia un senso musicale deve
aspettare due o tre anni di studio; un pianista, anche se le note ce le ha
già “li sotto” preparate e pronte all’utilizzo, prima di essere in grado di
eseguire una sonata o un concerto deve lavorare moltissimi anni.
Il fatto che la musica sia “invisibile” non è il suo punto debole ma
il suo punto di forza in quanto la rende ancora più affascinante e misteriosa. Nessuno sa spiegare le sue capacità evocative e il movimento
che riesce a generare nello spirito di una persona. Si è scritto tanto su
di essa eppure resta sempre difficile tradurre fedelmente questo miracoloso effetto. L’unica via possibile affinché la parola possa spiegare la
musica è far sì che si avvicini ad essa e diventi quindi poesia. Lascio
allora la conclusione di questa rocambolesca disamina del mondo musicale ad una lirica, affinché la personale idea di musica in ognuno di
noi continui il suo inarrestabile cammino e si mantenga oltre e sopra
ogni possibile calunnia per i nostri cari musicisti.
Musica muove e reprime il falso/ fecondo germe d’emozioni rare./
Mostra l’essere infinito e vero/ dentro gli occhi di un bambino assorto./ Il vecchio depura morte e cura/ dalla prossima e in un vivo riso.
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