LA CODA CHE NON SERVE Periodico di informazione, attualità e cultura musicale a cura del Saint Louis College of Music Ottobre-Novembre 2007 PERIODICO DI INFORMAZIONE, ATTUALITÀ E CULTURA MUSICALE A CURA DEL SAINT LOUIS COLLEGE OF MUSIC Non è morto solo lui, il tenore, anche se è ciò che vogliono far credere sotterrando quegli altri con una pala bella grossa. Ci sono altri artisti a un palmo da terra, freddi. Due a caso, Joe Zawinul e Maxwell Lemuel Roach. Fresco fresco Luca Giacometti, chitarrista dei Modena City Ramblers, schiantatosi su un guard rail la notte del 5 ottobre. Sul colpo, non una morte elegante né annunciata quanto quella toccata a Luciano Pavarotti o al pianista austriaco Zawinul, che hanno entrambi simpatizzato con il cancro. Né quanto quella da idrocefalo di Max Roach, uno che dormiva mentre moriva. Nel silenzio e nel sonno come coloro che, dovendo ricordarlo, lo hanno passato in cavalleria: e allora grazie al monopolio, grazie a chi decide chi deve morire e chi no. Ma grazie, soprattutto, alla morte, che ha coperto gli spazi vuoti delle testate e ne ha lasciati altri, quella stessa che consente di ricordare la mortalità di un immortale. Sarà d’accordo per una volta con me Benedetto XVI quando dico che morto un papa se ne fa un altro. Ci sono brani, però, che una volta scritti restano come fossero Dna a dimostrare la teoria darwiniana dell’evoluzione della specie, quella selezione naturale che avviene sugli incapaci, sugli inadatti, sulle code che non servono e sui denti del giudizio. Restano note come Dna nei nostri geni, come quando Elvis Presley interpretò pezzi innovativi e ben scritti o quattro ragazzotti schitarrarono a Liverpool. Come quando un’Édith molto simile a un passerotto, piccola, sfortunata, si esibiva nei campi di concentramento per i prigionieri di guerra e, nonostante questo, riusciva a scrivere che la vita era rosa. Poi ci sono pezzi che fruttano milioni di dollari e, contandoli, sembra quasi che la morte non li sfiori. Ma che sono immortali al pari di una coda che proprio non serve. Sono immortali per quei trenta minuti di una vita intera in cui la coda serve per scodinzolare, ossia trenta minuti di felicità fasulla. Perché non è più lunga, non è di più, non è vera comunque. Trenta minuti e poi la coda sparisce dalla specie. Così il brano da milioni di dollari, il tempo di ascoltarlo, canticchiarlo, scaricarlo, sparisce naturalmente. Diventa come un osso che di sacro non ha niente. Siamo ciò che ci tramandano e stiamo tramandando male. Nel Dna resta Bohemian Rapsody, resta New York EDGE AND BACK New York, resta un duetto tra Louis Armstrong e Aretha Franklin. Generazioni future, inconsapevoli, avranno un pelo cresciuto direttamente dal genoma di My Funny Valentine e un carattere forgiato dall’Arte della Fuga di Johannes Sebastian Bach. C’è qualcuno che una mattina si è alzato e ha scritto un molare come Take The A Train, un dente che mastica, che nessuno consiglia di togliere anche se fa male come una canzone d’amore. C’è qualcuno che ha composto ossi sacri che, sacri, per quanto inutili, restano nell’orecchio a ricordo di un’era mentre l’era è crollata tutta con la coda, e risbuca come un motivetto nella doccia proprio come il dolore agli arti torna durante un cambio di stagione. È in natura, è già dentro la specie. C’è qualcuno che ha lavorato come Dio e ha creato una coda utile, felicità che dura più di trenta minuti: questi sono gli immortali, quelli che prima che arte facevano scienza perché conoscevano il cuore, prima che arte facevano psicologia perché curavano l’anima, prima che arte facevano musica perché la studiavano prima di essere musicisti. C’è chi una mattina si è svegliato e ha composto Imagine, e chi non si è svegliato proprio. E un po’ li invidio entrambi. Romina Ciuffa CLAS&opera SICA Direttore Responsabile SALVATORE MASTRUZZI Direttore STEFANO MASTRUZZI Condirettore ROMINA CIUFFA Redazione Romina CIUFFA [email protected] Flavio FABBRI [email protected] Rossella GAUDENZI [email protected] Valentina GIOSA [email protected] Roberta MASTRUZZI [email protected] Corinna NICOLINI [email protected] Progetto grafico e impaginazione Romina CIUFFA Logo Caterina MONTI Redazione Via Cimarra 19/b 00184 Roma Tel 06.4870.017 Fax 06.4891.3051 Mail [email protected] Marketing e Pubblicità Mail [email protected] Tipografia Litografica Iride Srl Via della Bufalotta 224, Roma Anno I n. 2 Ottobre-Novembre 2007 Registrazione presso il Tribunale di Roma n. 349 del 20 luglio 2007 STEFANO MASTRUZZI EDITORE MUSICALL SOtU r a cN k i nD g FENOMENI TUTTI ITALIANI MA SOLO ITALIANI Sono quelli da salotti Ikea, cui è dedicata la musica dei tasti bianchi, dove maturano fenomeni senza spessore che in Italia si impongono come suonerie da cellulare mentre squilla il telefono. Sono quelli che ci ricordano quanto indietro sono l’educazione musicale italiana, gli investimenti nel settore e il mercato dei sottobicchieri da tavola Fa piacere al nostro piglio patriottico (perlomeno a chi ce l’ha) constatare che alcuni artisti italiani abbiano imposto la loro arte in tutto il mondo. Un esempio su tutti è quello di Ennio Morricone, personaggio burbero ma geniale, schivo quanto preparato e creativo al quale perdoniamo la scontrosità in cambio di intramontabili melodie. Anche Pavarotti ha portato nel mondo uno stile inconfondibile, pure se il fisco non perdonò i suoi torti in cambio di note vibranti. Tuttavia, Pavarotti rimane un cantante straordinario in grado di fondere la propria voce con quella dell’orchestra, non un artista - termine che etimologicamente ha un’accezione legata al momento creativo, al «dar principio a qualcosa», riferibile quindi al compositore - ma sicuramente un grandissimo interprete di cui andare fieri. Esistono però anche dei fenomeni che solo in Italia trovano spazio, probabilmente dovuti alla scarsa cultura musicale che contraddistingue la nostra gente e la porta ad apprezzare musica il cui collocamento più adatto sarebbe negli ascensori, possibilmente per pochi piani. Preso da una smaniosa volontà di appro- fondire ho cominciato a scaricare musica dal web; è un utilizzo dei mezzi informatici che ritengo giusto se il fine è quello di conoscere la musica prima di comprarla. Ho trovato diversi brani ad esempio di Ludovico Einaudi, un pianista italiano molto noto, sulla cui carriera ha forse anche influito il cognome altisonante e i salotti che si porta dietro. Certo, spacciare queste note per «musica colta» è un’offesa a Beethoven, Bach e Schoenberg, spacciarla per musica di qualità dipende dalla norma ISO 9001 di riferimento, spacciarla per «musica intellettuale» poi cosa significa? Che viene apprezzata nei salotti bene? Allora definiamola musica da salotto. Ho ascoltato I Giorni, Le Onde e altri brani, forse è proprio vero quello che malignamente si sussurra nei salotti Ikea, quelli del popolo: «Questo musicista usa solo i tasti bianchi». Per i non musicisti garantisco che è un’espressione che non suona come un complimento, tradisce una sciattezza creativa e una banalità tematica che neanche uno studente di musica di 2° anno riuscirebbe a giustificare in una propria composizione. Anche altri suoi pezzi hanno suscitato la stessa sensazione, ricordandomi certa musica new age degli anni Novanta, che però era volutamente concepita in maniera sempliciotta ed essenziale, ossessivamente ripetitiva e asettica in quanto destinata a fare da sottofondo ad altre attività e non ad avere una valenza artistica autonoma. CONTINUA NELLA PAGINA JAZZ&BLUES SOtU r a cN k i nD g a cura di ROBERTA MASTRUZZI L’ LLUCA UCA F FLORES LORES:: V VITA ITA B BREVE REVE DI DI UN UN P PIANO IANO,, S SOLO OLO infanzia trascorsa in Africa e il ricordo della madre scomparsa, l’incontro con il jazz e la scoperta dell’amore, e poi il pianoforte, croce e delizia. La musica dove rinchiudersi per non affrontare il dolore, rifugio troppo accogliente che lo porterà a distaccarsi da tutto e da tutti. Questa è la storia di Luca Flores, pianista jazz. «Piano, solo» di Riccardo Milani è il film ispirato alla sua vita, interpretato da Kim Rossi Stuart con Paola Cortellesi, Michele Placido e Jasmine Trinca. Il soggetto nasce da un libro di Walter Veltroni, che ipnotizzato dalle note di How Far Can You Fly?, il brano inciso da Flores pochi giorni prima del suo sucidio, decide di scrivere la biografia dell’artista scomparso a soli 40 anni. Ripercorre la sua vita attraverso i ricordi degli amici, le interviste ai familiari, le lettere scritte dallo stesso Luca e racchiude tutto nel libro «Il disco del mondo. Vita breve di Luca Flores, musicista». La storia del grande pianista che ha suonato con Chet Baker, Dave Holland e Massimo Urbani rivive ora nelle sale cinematografiche. Più che la carriera, è la vita intima dell’artista e la sua estenuante ricerca di un attimo di felicità, ciò che interessa Riccardo Milani, il regista che già nel 2003 si interrogava su dove fosse «Il posto dell’anima», intenso film con Silvio Orlando, operaio in fabbrica che rischia il posto di lavoro e tra scioperi e lotte sindacali ci rimette speranza e salute. Ma se nell’opera precedente il dramma si alterna alla commedia, in «Piano, solo» la leggerezza sembra quasi assente. La I PIANO, SOLO Luca Flores e Kim Rossi Stuart come uno, solo. storia si fa via via più drammatica, la passione diventa frenesia, l’amore si confonde con la pazzia, la musica diventa l’unico linguaggio possibile. Molto più delle parole, è la musica di Flores a raccontare la sua storia. Un film non può restituire la complessità della vita di un uomo. Tanto meno se si tratta di un uomo con un talento fuori dal comune, un mondo interiore complicato e ricco di pensieri inespressi, un dolore costante che lo accompagna per una vita intera. L’intensa interpretazione di Kim Rossi Stuart regala però immagini indelebili e significative, frammenti di vita di un uomo che vive il suo talento da testimone quasi inconsapevole e subisce la realtà di un mondo moderno che lascia poco spazio agli animi più sensibili, a chi cerca la verità prima dell’apparenza. Chi non si rassegna alla solitudine e accusa il mondo di essere troppo grande e dispersivo e di allontanare le persone dagli affetti più cari. Chi pur avendo la fortuna di suonare con i grandi nomi del jazz, preferisce «una casetta di plastica, come quelle dei bambini, per suonarci dentro senza essere visto». Da vero artista, Flores non cercava la notorietà. Al contrario, provava il desiderio di scomparire. Decise di farlo prima di diventare qualcuno «da imboccare e portare al sole». Scomparire, per mancanza di coraggio, per la difficoltà di affrontare la realtà, ma non solo. Scomparire, per lasciar parlare solo la musica. Lasciarla volare fino a dove troverà ascolto, fino a dove ci sarà spazio, fino a chiedersi: How Far Can You Fly? (Roberta Mastruzzi) mmaginate. Un assolato paesaggio americano. Una lunga strada polverosa e una meta lontana da raggiungere. Una macchina anni 70 con i sedili in pelle e una radio per tenervi compagnia. Come sottofondo musicale la colonna sonora dell’intera filmografia di Quentin Tarantino. Siete pronti? Che il viaggio abbia inizio. La scelta del primo brano è fondamentale. È lo stesso regista a sottolinearlo: «Non riesco ad andare avanti nella scrittura di una sceneggiatura se non so quale sarà la musica d’apertura. È la musica che mi fa entrare nell’atmosfera e nel ritmo di un film». E allora potete scegliere: la voce di Nancy Sinatra che con sommessa malinconia canta Bang Bang e ci riporta alla mente la figura di Uma Thurman in abito da sposa e la strage iniziale di Kill Bill durante i preparativi delle nozze. Oppure, la chitarra di The Last Race di Jack Nitzsche, il brano che dà inizio a Grindhouse - A Prova Di Morte, immaginando di avere accanto una delle terribili protagoniste dell’ultimo lavoro di Tarantino, rigorosamente a piedi nudi. Per i più ribelli, Misirlou, la canzone che accompagna i titoli di testa di “ulp Fiction, preannuncia un film carico di pallottole, vendette, rapine. Pensare che il brano lanciato negli anni 60 dai Dick Dale & The Del Tones era originariamente un antico canto liturgico ebraico. Questo è proprio il punto di forza del regista americano. Scegliere la musica che meglio si adatta alla scena e fonderla con essa fino a creare un legame indissolubile. E chi ricorda più che You Never Can Tell era cantata da Chuck Berry? Ora è per tutti il ballo più famoso della storia del cinema: Uma Thurman e John Travolta che si esibiscono in un twist spettacolare. Perché nei film di Tarantino la musica è il valore aggiunto. A volte basta poco, come il motivo fischiato da Daryl Hannah in Kill Bill (Twisted Nerve di Bernard Hermann). Ed è così che la donna dall’occhio bendato assume una sfumatura più inquietante. Music In DIETRO LE QUINTE Qualcuno ha spiegato a Stuart come essere Flores. Principalmente Principato. Ottobre Novembre 2007 QUENTIN TARANTINO Il mago del Nerve che fischietta PIERPAOLO PRINCIPATO HOO INSEGNATO INSEGNATO A A KIM IM ROSSI OSSI STUART TUART «F A A SUONARE SUONARE IL IL PIANO PIANO lores era un grande musicista. Uno di quelli che suonava ogni nota come se fosse l’ultima, proprio come egli stesso definiva i musicisti che amava ascoltare». A parlare è Pierpaolo Principato, il maestro che ha avuto il compito di preparare Kim Rossi Stuart ad interpretare il ruolo di Luca Flores e di assisterlo durante le riprese per curare i play-back delle esecuzioni pianistiche. Grande pianista jazz, racconta la sua esperienza come insegnante di pianoforte sul set del film «Piano,solo». Come è stato «vedere» un film da «dietro le quinte? Assistere alle riprese è stata un’esperienza interessante perché ti permette di scoprire i segreti che stanno dietro la costruzione di una storia. Dall’interno comprendi meglio la grande fatica fisica ed emotiva che accompagna la realizzazione di un film. La cosa più intensa è l’emozione che suscita il «ciak» e la ripresa di una scena, quando tutti in pochi minuti devono dare il massimo. Quali sono state le difficoltà maggiori? L’unica reale difficoltà era legata al poco tempo a disposizione per la preparazione. Questo ci ha costretto a trascurare un pò lo studio della tecnica e l’impostazione e a lavorare direttamente sulle musiche del film cercando di raggiungere il massimo di credibilità possibile. In questo devo dire che Kim Rossi Stuart ha dimostrato di avere un grande talento ed un grande spirito di osservazione ed emulazione. Ciò gli ha consentito di interpretare al meglio un ruolo così difficile e in così poco tempo. Tra l’altro ha imparato a suonare l’intero brano dell’ultima esecuzione in studio, How Far Can You Fly. C’è differenza nell’insegnamento quando si tratta di preparare un attore ad interpretare un personaggio realmente esistito? C’è una grande differenza. Abbiamo dovuto trascurare aspetti legati allo studio dello strumento per favorire quelli che portassero alla maggiore aderenza possibile al personaggio. Abbiamo concentrato l’attenzione sulle zone del pianoforte in cui la musica si muoveva e cercato di adeguare gli atteggiamenti del corpo, ispirandoci allo stile di Flores. Kim ha approfondito l’osservazione dei suoi modi di muoversi, sia come pianista che come uomo. Hai mai incontrato Flores? Ho conosciuto Flores nel 1987, durante il Festival della Versiliana in cui ho suonato con il Quartetto «Jazz Union». Luca suonava tutte le sere nello spazio «Jazz Club». Andai a sentirlo il giorno prima del nostro concerto e ne rimasi affascinato: suonava benissimo! Quella sera tra il pubblico c’era anche Herbie Hancock il quale, piacevolmente colpito dalla sua esecuzione, andò di persona a complimentarsi con lui. Questa cosa mi emozionò molto. Posso dire di averlo conosciuto a distanza perché non ho poi avuto modo di parlarci, ma ho ben scolpite nei miei ricordi le emozioni di quella sera. Nel film emerge il legame di Flores con l’Africa dove ha trascorso l’infanzia e dove torna da adulto dopo un momento di crisi, ci sono influenze di quella terra nella sua musica? Le influenze africane si sentono già nel jazz in sè. In particolare, in alcune sue composizioni mi sembra si colgano gli echi di quella terra, come ad esempio nei brani del disco Love For Sale. Luca Flores considerava la musica un linguaggio universale, forse per lui l’unico modo per esprimere le sue emozioni Ho apprezzato molto in lui la grande padronanza armonica e soprattutto quell’atteggiamento di chi non si accontenta ma cerca sempre il massimo della profondità nella musica: il gusto, il tocco, il fraseggio ricercato, carico di intensità e sofferenza. TARANTELLE ALLA TARANTINO E come per magia, mentre l’asfalto scorre sotto di noi e la radio continua ad accompagnarci, tutto si trasforma. La musica surf non ci fa più pensare ai falò e alle spiaggie della California, ma agli spietati killer di Pulp Fiction. E con sorpresa scopriamo un pezzo del nostro passato tra le note che accompagnano gli inseguimenti automobilistici di Grindhouse. Franco Micalizzi (Italia A Mano Armata), i fratelli De Angelis (La Polizia Incrimina, La Legge Assolve) ed Ennio Morricone (Il Gatto A Nove Code e L’Uccello Dalle Piume Di Cristallo di Dario Argento). Musica per le orecchie dei nostalgici che rimpiangono i film polizieschi italiani degli anni 70. La musica nel cinema di Tarantino torna anche nei dialoghi. Indimenticabile la discussione tra le Iene su quale sia il vero significato del testo di Like A Virgin di Madonna: ragazza romantica che scopre l’amore per la prima volta o ninfomane insoddisfatta? Il segreto è cogliere il lato ironico della vita. Il cinema è per Tarantino prima di tutto puro divertimento. E anche la violenza, portata al suo estremo, diventa surreale e a suo modo divertente. E mentre il viaggio sta per terminare, torna in mente il sermone che Samuel L. Jackson, killer pentito, recita alle sue vittime. Spari finali. Buio in sala. Silenzio. Giunti a destinazione. (RM) Music In Fback EED Ottobre Novembre 2007 THE SILENCE BEFO- NORDGARTEN Un lumi- RAMIN BAHRAMI Che MARCELLO ROSA RE BACH A Venezia, il noso blu dove si trovano ha fatto della fuga (di Bach) L’incosciente. Il bambino. DAVID SYLVIAN Un unico nuovo film di Portabella un’arte brano di 80 minuti. In Giappone Un preludio a un bacio. Buckley e De André A BRIGHTER KIND OF BLUE RICCDIAR O FONSECA ND ORDGARTEN l a musica dello scandinavo Nordgarden, contaminata da influenze inglesi e americane (rock e jazz), si sviluppa soprattutto come energia personale, intima, sul solco della tradizione dei cantautori a cui attinge (da Cohen a Jeff Buckley, da Bruce Springsteen a Fabrizio De André). Per il suo secondo disco, A Brighter Kind Of Blue, si è avvalso della collaborazione di Peder Øiseth (tromba, violino, banjo, organo), di E. Hareide (basso) e C. Skaugen (batteria); un cd acustico, quindi, che mette in risalto sua voce potente e limpida. La title track, che è anche il brano di apertura, risulta particolarmente efficace: ha una melodia ampia, illuminata da un arrangiamento arioso ed essenziale; il suo titolo può suggerire riferimenti alla celebre Kind Of Blue di Miles Davis, ma questi sono presenti di più in altri brani del disco (To The River, Good Things Die). La leggerezza e la serenità che sembrano sostenere tutto l’album sono venati dalla malinconia di Blessed, quasi una ballata barocca, a cui Nordgarden aggiunge le vibrazioni di una voce ben timbrata, e Metronome, brano strumentale, in cui un violino classico, dolente scandisce il fluire del tempo. Dieci tracce partorite da un'ispirazione pura, rielaborate in maniera raffinata, in cui pop, jazz e folk convivono in maniera armonica e convincente. Crepuscolare. NICOLA CIRILLO t r a c k i n g SOUND P T THE HE S SILENCE ILENCE B BEFORE EFORE B BACH ACH resentato alla 64^ Mostra del Cinema di Venezia nella Sezione Orizzonti, Die stille vor Bach (The Silence Before Bach), l’ultima opera del cineasta spagnolo Pere Portabella è un intenso lavoro emotivo legato all’estetica pura delle melodie eterne del compositore tedesco. Johann Sebastian Bach però non è il soggetto di questo film, né il film è un suo biopic, ma ne è l’oggetto. La sua musica attraversa la pellicola anche con l’esecuzione in presa diretta eseguita dall’attore ed esecutore Christian Brembeck. Portabella, da ‘regista Punk’ (da una nota definizione che ne diede un critico), ha cominciato a sforbiciare la storia del compositore, mantenendo ferma la sua musica. Per poi ricomporla, a prima vista casualmente, in un patchwork spazio-temporale, in cui si alternano personaggi e situazioni non collegate ma piene dell’universalità derivante dalla musica stessa. Per una volta quindi, non sarà la musica a commentare le immagini, ma viceversa. Ecco perché non importa se queste ultime non seguono un piano temporale omogeneo. Perché non sono da seguire le immagini, ma la musica. Quando Bach arriva con la sua famiglia a Lipsia per lavorare era ancora un kantor senza un soldo. La sua era una vita poco agevole ma dignitosa, grazie alla sua musica e al suo amore per questa. Poi arrivano i riconoscimenti e il benessere materiali, prima che la storia decide di inghiottire nell’oblio tutto la sua sterminata produzione. Ma la musica non si ferma alla storia e le immagini cominciano a seguire le note di un rondeau ubriaco passando per la bellissima scena dalle cromature eccitanti del macellaio che incarta la carne con lo spartito insanguinato della Passione secondo Matteo (la preferita dallo stesso Bach), finita fortunosamente nelle mani di un giovane Felix Mendelssohn Bartholdy, che ebbe il merito, eseguendola di nuovo nel 1829, di riportare alla luce il genio di Bach. Per poi passare nella camera scura dell’accordatore cieco e ritrovarci con due camionisti che nei loro bisonti d’autostrada ascoltano le melodie di Bach, fino ad arrivare sotto la metro e trovare violoncellisti che suonando sempre le sue melodie chiedono l’elemosina. Infine, bellissimo, il parallelo tra i ragazzi del XXI secolo che ascoltano le sue composizioni e il Johann Sebastian padre che insegna a suonare questa musica ai suoi ragazzi (da notare che i suoi figli furono tutti dei talentuosi musicisti, tant’è che Bach divenne termine per indicare chi suonava a corte). Un gioioso ponte immaginario che solo la musica può creare tra generazioni altrimenti perdute nella Storia, cercando di unire tempi e vite diverse come fosse un inno all’Europa di tutti i tempi, all’unione dei popoli (nel film si parla italiano, tedesco e spagnolo), come volontà finale di una composizione ipotetica, fatta finalmente di persone e nello stesso tempo di note musicali. Anche la musica, non solo la politica, è in grado di portare le idee lontano nel tempo. Flavio Fabbri L’ARTE DELLA FUGA DI BACH INTERPRETATA DA RAMIN BAHRAMI a ffrontare un’opera come la BWV 1080, meglio conosciuta come Die Kunst der Fuge-L’Arte Della Fuga, composta da un Johann Sebastian Bach malato e prossimo alla morte, non è cosa da poco. Eppure il giovane e talentuoso pianista iraniano Rahmin Bahrami non ha esitato. Il suo Arte della Fuga (Decca, 2007) presenta la caratteristica di un’interpretazione coraggiosa e forte, piena di una malinconia avvolgente e di una sicurezza nell’esecuzione che non tradisce fino all’ultimo brano. Coraggio e sicurezza, perché questa BWV 1080 è proprio l’ultima opera del grande Bach, portata avanti sotto dettatura dal maestro di Lipsia, ormai cieco e malato, e nella quale non ne erano neanche stati specificati gli strumenti per l’esecuzione. La consuetudine prevalente nel tempo ha indicato nel pianoforte e nel cembalo quelli più idonei, ma è fuori di dubbio che questa partitura rimanga nei secoli un oggetto misterioso e quindi di difficile esecuzione. Bach morì senza terminare la Die Kunst der Fuge nel 1750, lasciandoci nel dubbio e nell’insicurezza espressiva, nonché tecnica. La Fuga rimane ancora oggi una delle forme del pensiero musicale occidentale tra le più importanti e Bach ne fece nelle sue note una summa di arte combinatoria senza precedenti ne seguiti. Ecco quindi le platee intuire questo passo difficoltoso e rispondere con entusiasmo. Rahmin Bahrami ha dato all’opera immortale un’aura trascendentale e sognante, una chiave alternativa all’universo bachiano basata sulle trascrizioni del nobile maestro del piano Carl Czerny (1791-1857), allievo viennese di Beethoven e a sua volta maestro di Liszt. Secondo molti la stella iraniana ha dato a questi brani il significato di un omaggio personale al J. S. Bach suo idolo assoluto. Probabilmente è vero perché questo è un lavoro intenso, tecnicamente impeccabile, con un’interpretazione estremamente emotiva che forse ha lasciato un fianco dell’autore scoperto alla critica più intransigente. Una nota negativa, se c’è, è da evidenziare nella scelta della Decca di presentare un’opera di tale importanza con una lunghezza complessiva di 78 minuti, contro i 90 di media degli altri solisti. Una scelta di mercato si dice, meglio un cd solo che uno doppio, forse remunerativa economicamente, ma sconsigliabile in rapporto alla qualità delle esecuzioni, in alcuni casi simili a una galoppata sui tasti. FLAVIO FABBRI A CHILD IS BORN DI MARCELLO ROSA g iunto, come la chiama lui, all’età dell’«incoscienza» il decano dei trombonisti jazz italiani, Marcello Rosa, ci sorprende con l’uscita del cd nuovo di zecca A Child Is Born (Nelson Records) che comprende, insieme a riletture di celebri standard, molte sue composizioni originali e ben quattro perle «bonus» rimasterizzate e riportate in gran spolvero per i veri appassionati di questa musica, «brani vecchi ma non invecchiati», come tiene a sottolineare Rosa, infaticabile artigiano e divulgatore del jazz (ha ideato e condotto per ben 30 anni trasmissioni radiofoniche musicali in Rai). E il bambino che compare tanto nel titolo quanto nella copertina è forse la cifra per comprendere l’anima di questo piccolo gioiello, come da tempo agli appassionati di jazz non capita di ascoltare. Un’energia, una vitalità ed una spontaneità che, se non si sapesse chi ne è responsabile e che fior fiore di musicisti lo stanno accompagnando (qualche nome? Andy Gravish, Fabrizio Bosso, Paolo Tombolesi, Gianluca Renzi e tanti altri ancora), sembrerebbe avere la grinta di un’opera prima, solo perfezionata da 55 anni di professionismo e da collaborazioni con veri monumenti del calibro di Lionel Hampton, Earl Hines, Slide Hamtpton, Kay Winding. La voce del suo trombone è quella di sempre, quando ombrosa e malinconica, quando soprendentemente spumeggiante ed ironica, con quel fraseggio fluido, perfetto ritmicamente ed essenziale al tempo stesso, nessuna concessione a «note» fuori posto e con un’idea melodica di cantabilità sempre scolpita in ogni battuta d’improvvisazione. Due aspetti convincono maggiormente di questo album: gli arrangiamenti articolati ed intriganti che danno corpo e solidità ad ogni brano (ascoltate bene Lover Man, sia nella versione di oggi sia in quella del 1974 con Enrico Pieranunzi al piano e Gegè Munari alla batteria, entrambe presenti nel cd) e, finalmente, la sensazione di compattezza del «gruppo» musicale jazz, in cui al protagonismo del solista è sostituito il meccanismo di insieme e dove ogni strumento è al servizio dell’altro per la migliore riuscita dell’ensamble; il cuore prende il posto del virtuosismo e ricama, traccia dopo traccia, il disegno unitario di una sensibilità musicale fuori dal comune. L’atmosfera in cui ci sembra muoversi meglio Marcello Rosa è quella degli umori della New Orleans perduta nel primo decennio dello scorso secolo, simbolo e culla della musica jazz (The Sinner), come anche nello swing più autentico che in brani come Senorita, dopo il tema spagnoleggiante, prende d’improvviso per mano ed invita a ballare, mentre la versione della ballad The Very Tought Of You arrangiata per quattro tromboni e tromba (suona tutto su diverse piste lo stesso Rosa) emoziona per l’intensità e la forza interpretativa. E quando si parla di swing, non può mancare un omaggio al suo nume tutelare, Duke Ellington, in una splendida versione della celebre Prelude To A Kiss, ingentilita dalla bella interpretazione della giovane Angelica Caronia. PAOLO ROMANO WHEN LOUD WEATHER BUFFETED NAOSHIMA DI DAVID SYLVIAN i n concomitanza con il tour che lo vede impegnato in questo periodo tra Europa e Giappone, David Sylvian da alle stampe il suo nuovo lavoro dal titolo When Loud Weather Buffeted Naoshima, che–è bene che il pubblico sia avvertito–non ha nulla a che vedere con il raffinato e ricercato pop d’autore che ci ha regalato con il recente progetto firmato Nine Horses e nelle ultimissime apparizioni live in Italia. Siamo di fronte ad un unico brano di 70 minuti commissionato dalla Naoshima Fukutake Art Museum Foundation in Giappone come parte della mostra Naoshima-Standard 2 che si è svolta nell’omonima isola giapponese da ottobre 2006 ad aprile 2007. Il pensiero, al primo ascolto, corre subito a quella produzione strumentale di Sylvian che, partita con Alchemy–An Index Of Possibilities (contenente l’inarrivabile suite Words With The Shaman e la splendida Steel Cathedrals) e la seconda parte del doppio Gone To Earth, si è sviluppata nelle collaborazioni con l’ex-Can Holger Czukay (Plight&Premonition e Flux+Mutability) e nelle istallazioni con Russell Mills (Ember Glace–The Permanence Of Memory) e con Robert Fripp (Redemption–Approaching Silence). Nella sua ultima produzione il nostro fa un passo in avanti. Si sposta dall’ambient «classico» alle sonorità più elitarie del field recording con inserti e collage sonori. Come al solito Sylvian si rivela sapiente nella scelta dei collaboratori, questa volta tutti o quasi paladini della più significativa scena sperimentale ed elettronica del momento. Bastano i nomi: il francese Akira Rabelais, l’austriaco Christian Fennesz, il trombettista norvegese Arve Henriksen e il maestro di shakuhachi Clive Bell. La lunga composizione si presenta come un assem- blaggio di voci filtrate dal sapore arcano, suoni di foreste, vento, strumenti a fiato, altre vocalità dal fascino angelico, qualche drone più tagliente e qua e là rumori di passi, porte che si aprono e cigolano. Tutto apparentemente senza un filo conduttore. Poco importa. Qui Sylvian è più vicino alle concezioni di John Cage e alla musica concreta di Pierre Henry che alla musica per aeroporti di Brian Eno o i soundscapes di Robert Fripp. Nata com’è per una istallazione artistica che deve essere fruita in presenza dei forti rumori ambientali del luogo per il quale è stata scritta, la composizione è stata volutamente mixata per la produzione in cd con i suoni della città di Honmura, in modo tale da avvicinare l’ascoltatore all’esperienza reale dell’istallazione stessa. L’ultima particolarità di questo disco–che si presenta in una raffinata e semplice confezione da dvd con la cover art di Sachiyo Tsurumi–è data dal fatto che esso è in edizione limitata e non sarà mai ristampato. Per volere dell’artista e della Fondazione committente, infatti, la composizione entrerà a fare parte delle istallazioni permanenti del museo e solo lì potrà essere ascoltata una volta esaurita l’edizione originale. GABRIELE BRUZZOLO C&opera LASSICA a cura di FLAVIO FABBRI Music In Ottobre Novembre 2007 DANZA Cos’è diventata oggi, TESI Quella sulla morte di Beethoven. TRIGESIMO Morto un Pavarotti, com’era prima. Secondo la Crazy Veleno, altro che cirrosi epatica. se ne fa un altro. O forse no Gang School LUCIANO PAVAROTTI: UNA VOCE CHE RISCHIA IL SILENZIO Un uomo ingombrante, un’ingombrante eredità. Finiti i cd da vendere in allegato alle riviste degli avvoltoi, ora l’industria discografica cerca il nuovo lirico. Aspettando che muoia BEETHOVEN AVVELENATO? UNA «CLASSICA» MORTE A distanza di 150 anni qualcuno si è preoccupato di raccontarci di cosa è morto Ludwig Von Beethoven, uno dei più grandi compositori di tutti i tempi. Fino a oggi tutti o quasi hanno creduto alla tesi mai confutata del decesso per cirrosi epatica avanzata. Eppure, grazie alle analisi condotte sui capelli dell'immortale, la verità sembra stia per emergere dal buio della storia. Christian Reiter, medico legale dell'Università di Vienna, dopo gli studi condotti su alcuni dei capelli del musicista tedesco, ha potuto evidenziare una possibile nuova verità: Beethoven fu avvelenato dal piombo! La classica morte di un divo dell'epoca insomma: omicidio. I livelli del metallo, infatti, sembrano essere molto alti nei capelli esaminati. E i capelli d'altronde ci dicono tanto, quasi tutto: mantengono traccia delle sostanze ingerite e conservano cellule di cuoio capelluto da cui ricostruire il Dna del povero proprietario. Il piombo, ci ricorda Reiter, ad alti livelli diviene tossico e mortale. Anche negli USA si è battuta la pista dell'avvelenamento, da mercurio però, portando avanti una ricerca molto simile al Pfeiffer Research Center a Napperville (Illinois). Secondo alcuni studiosi del compositore di Bonn, però, non si deve parlare di omicidio o morte sospetta, molto probabilmente, infatti, il corpo di Ludwig assorbì i letali livelli di piombo, o altra sostanza utilizzata in cure mediche, dai Sali con cui il suo medico personale cercava, invano, di lenire i gonfiori e i dolori addominali provocatigli dalla cirrosi. Niente di sicuro ci affrettiamo a dire, ma è una plausibile spiegazione per dar ragione della repentina morte di un genio assoluto, avvenuta il 26 marzo del 1827. PEER GYNT rande appuntamento al Teatro dell’Opera di Roma con il Peer Gynt del drammaturgo Henrik Ibsen e le musiche del compositore Edvard Grieg. Dal 7 all’11 novembre l’imponente dramma norvegese verrà messo in scena dall’Orchestra, il coro e il corpo di ballo dell’Opera di Roma, diretti da Peter Tiboris e dal Maestro del Coro Andrea Giorni. Un balletto in due tempi per la regia di Beppe Menegatti e la coreografia di Renato Zanella. Danzatore ospite Adrian Fadacev, per la partecipazione straordinaria di Carla Fracci. Un’opera, questa di Ibsen, scritta proprio a Roma nel 1867 e particolarmente difficile nella sua rappresentazione scenica, sia per la lunghezza (5 atti) che per l’ambientazione fantastica. Le stesse fortunate musiche di scena composte da Grieg, per la difficoltà delle scene (il dramma era scritto in versi) e la lunghezza dell’opera, divennero il collante definitivo di Peer Gynt. (Illustrazione ˙Peer Gynt¨ di Elena Prette) g 6 settembre 2007 si è spento uno dei più grandi tenori al mondo, L u c i a n o Pavarotti. Ai funerali pubblici di Modena decine di migliaia di cittadini comuni e decine e decine di ospiti della politica e dello spettacolo mondiali hanno voluto decretare il loro personale tributo ad una delle voci più belle della musica. Passate le commemorazioni, sepolto Big Luciano nel piccolo cimitero di Montale Rangone, sembra proprio che debbano iniziare le tipiche polemiche da salottino televisivo fatto da e per il nuovo vulgum pecus, ben diverso da quello che un tempo riempiva il loggione della Scala di Milano. Già negli ultimi anni, mentre le condizioni del Maestro peggioravano nel silenzio, nubi minacciose si addensavano sul suo ingombrante cognome. Dicerie su una moglie, Nicoletta Mantovani, che in tutti i modi ha cercato di isolare il marito e che lo ha obbligato, sembra, ha cambiare il testamento due settimane prima della morte. Ritornano anche le ombre lunghe più vecchie, sui suoi concerti di beneficenza, su scuole in Africa mai costruite e su evasioni il del fisco ripetute. Insomma, sembra proprio che i solenni requiem verranno eseguiti da lingue avvelenate e molto lunghe. Una voce unica che rischia davvero il silenzio? Cerchiamo di allontanarci da questa palude insidiosa per cominciare a ragionare su che cosa Luciano Pavarotti ci abbia veramente lasciato. Torniamo allora al 1961, al Teatro dell’Opera di Reggio Emilia, quando interpretando il Rodolfo ne La Bohéme di Gioacchino Puccini, Pavarotti diede esempio di una potenza vocale davvero fuori del comune. Molto presto anche dall’estero cominciarono a richiedere le sue performance. Sarà proprio interpretando Puccini, Donizetti e Verdi che il mondo gli tributerà un successo che ha avuto dell’incredibile. Alcuni suoi concerti furono interrotti dalla forza degli applausi interminabili. Cose mai successe nei teatri della storia della Lirica. La sua stessa immagine, enorme, da bohémien lirico, con cappello, barba e sciarpa lunga, meglio se rossa come Aristide Bruant nel dipinto di Henri Toulouse-Lautrec, ha decisamente affascinato tutti. Probabilmente è vero, quando si dice che Pavarotti è l’immagine dell’Italia nel mondo. Un uomo fatto di passioni mediterranee, amante delle grandi abbuffate e delle donne, pieno d’amore per la musica. Negli anni Novanta comincerà lentamente ad allontanarsi dai grandi palchi dell’Opera lirica, per affrontare le sterminate platee di Hyde Park a Londra o di Central Park a New York. Forse è qui e dopo, con i vari Pavarotti & Friends, che il grande artista ha lasciato il posto ad un ingombrante vocione e certo a una fama planetaria. Così, forse, è proprio qui che Pavarotti si è spento davvero prima del tempo. E allora bisogna chiedersi: qual’è la vera eredità che ci ha lasciato il più grande tenore italiano dopo Caruso? Chi in Italia può essere considerato il suo successore? O nel mondo? Salvatore Licita, R o l a n d o Villazon, Andrea Bocelli, Roberto Alagna, Marco Alvarez? Tutti nomi che l’industria discografica cercherà di spingere e far conoscere, perché lo spettacolo va avanti, mentre nel frattempo le royalties sui diritti d’autore e sul merchandising dell’immagine del grande tenore porteranno nelle tasche degli eredi di Pavarotti un’enorme fortuna. Una fortuna piena di insidie, per i parenti e per il ricordo del lirico che tutti noi abbiamo. Forse la sua voce non rischierà il silenzio e per il momento è solo questo che ci ha lasciato il Maestro del bel canto, insieme a tante grandi emozioni e qualche smorfia, come quando dal Loggione arrivavano i fiori più belli tra le ovazioni e un attimo dopo i fischi umilianti mischiati alle urla. Tante immagini, centinaia di ore di filmati, e la sua voce puntata verso il futuro. CRAZY GANG SCHOOL: L’ISTINTO RENDE DIVERSI La danza non è danza ginare che i presupposti ci siano. Music In ne senza generosità. intervistato uno dei fondatori, Marco Stopponi, La danza che è che si è fidato dell’idea «classica», quella di una un linguaggio che trascende il corpo. Prima professione di danzatore fatta di studio costante forma espressiva che l’uomo abbia sperimen- e serio, fatica, impegno e forza di volontà, ma tato e conosciuto con il proprio corpo e parte che, assieme all’amore per il lavoro e alla pasdella sua storia fin dall’antichità, è strumento sione per quest’arte meravigliosa, dà grandi soddisfazioni a chi lavora in questo campo e di comunicazione; il gesto ne è il linguaggio. La madre delle arti, boicottata: dopo la grande futuro ai tanti allievi che studiano con la sperantradizione che danza e balletto hanno avuto in za di realizzare i propri sogni. Stopponi, coreografo e ballerino, è uno di Italia nell’Ottocento e nel Novecento, ora non quelli che ha il fuoco sacro della danza che gli versa in una situazione eccellente. Innanzitutto poca cultura del balletto classi- brucia l’animo. Ci dice: «La Crazy Gang è nata co: anche se nell’ultimo periodo c’è stato un a Roma, inizialmente come Crazy Dance nel ritorno dovuto a trasmissioni televisive come 1981. Il primo spettacolo che abbiamo fatto è stato al Teatro Olimpico, quindi, «Amici», ma un avvicinamento con passati a Canale 5 con PoP Corn, falsi presupposti, la voglia di sfonne abbiamo cambiato il nome con dare e non di studiare. Crazy Gang. La fortuna ha voluto Luogo comune sì, ma all’estero la La televisione che tanti ragazzi sopra i 18 anni cultura della danza spopola, e in uccide la danza. hanno iniziato insieme senza Francia ogni settimana i balletti sono voler perdere tempo. La grinta in televisione, rete nazionale. In Parola di Marco c’era, e così non hanno tardato ad Italia, tante le scuole, molti gli allie- Stopponi, arrivare Domenica In, con Pippo vi e gli appassionati accolti da un Baudo, Maurizio Costanzo, turnè pubblico caloroso, eppure intorno fondatore della al Teatro Sistina, e collaborazioni quasi nulla. La danza fatta di tradi- Crazy Gang con molti artisti ancora presenti in zione, cultura, arte, non abita più qui. televisione. Finché non è entrata Poche scuole sono realmente ido- School Antonella Steni, con la quale nee a formare ballerini professionisti. E se la follia, per gli artisti, per la danza, per abbiamo fatto spettacoli dal 1985 al 1989, e con la situazione itaiana che è quella che è, è richie- la quale collaboriamo tutt’ora. Nel 1985 sta per decidere di dedicarsi in tutto e per tutto Mustafà si ritirò dalle coreografia e io presi il alla disciplina e all’insegnamento, non dell’arte suo posto. Subito dopo con i miei fratelli, di sfondare ma di quella di ballare, allora il Stefano Stopponi, anche lui ballerino e coreonome della scuola «Crazy Gang» lascia imma- grafo, ed Enrico Stopponi, abbiamo aperto la Crazy Gang School. La scuola realizza spettacoli, inclusi matinèes per le scuole al Sistina, cercando di creare un dialogo con i giovani, e collabora con diverse compagnie teatrali». Su quale principi si basa? «Creare persone, gruppi, cercare dai giovani un modo di vivere, dar loro un’educazione teatrale. Una scuola lontana dai valori trasmessi dai programmi in televisione, in cui sembra che per arrivare al successo basti poco: solo nello studio si possono raggiungere risultati». Qual è il legame tra la musica e la danza? «Non c’è legame perché è una cosa unica. Basta guardare al modello primitivo africano in cui ogni movimento era accompagnato da musica e ogni nota era accompagnato da un movimento. Le due cose non possono essere separate. Non sono infrequenti scelte radicali e suggestive, come la totale indipendenza dell’una dall’altra, oppure la danza scolpita nel silenzio più assoluto, alla ricerca della purezza del movimento, del suo diapason espressivo. Al contrario, qualche volta coreografo e compositore si sono inseguiti nel reciproco territorio creativo, alla ricerca di echi e risonanze espressive, di corrispondenze nella scrittura, di sintonie nel colore emotivo di un pezzo». Quali sono i vostri punti di forza? «I punti di forza sono la passione, l’educazione, la qualità degli insegnanti. Ma soprattutto, i ragazzi». Un consiglio ai giovani? «Non farsi prendere in giro dai programmi televisivi, e sapere che ci vuole una vita di studio. La danza deve essere affrontata come un divertimento, all’inizio, senza prendersi troppo sul serio; quindi, diviene sacrificio, serio e costante». Da quando hai iniziato la tua vita da ballerino, come è cambiata la danza nel tempo? «La danza è cambiata come è cambiata la società: mentre prima i ragazzi erano colpiti dalla musica, ora quando vengono qui già conoscono tutto e non gli basta. Dobbiamo far loro capire l’umiltà. Cos’è la danza? «Seduzione, Passionalità, Intimità e Poesia». E conclude: «La prima cosa è l’istinto, che deve essere lasciato libero. È questo che mi fa scegliere la musica. È l’istinto che fa la differenza, perché se basi tutto sulla tecnica diventi come gli altri». (AliceS) Music In SCIENZA I notturni di Chopin? Sono un plagio di milioni e milioni di anni. G li esseri umani, ormai è dimostrato, sono programmati, dal punto di vista uditivo, neurologico e finanche emotivo verso la musica. Nella nostra vita la musica sembra avere un valore probabilmente pari a quello del linguaggio, solo che ancora non si riesce a capire a che cosa ci serva tanta dote cerebrale. Solo gli uomini e nessun altro nel mondo animale reagiscono con tale potenza alle note musicali e tali meccanismi sono lungi dall’essere svelati. Queste sono le posizioni di molti neurologi di fama mondiale come Oliver Wolf Sacks (a molti noto per il romanzo Risvegli da cui fu tratto nel 1990 l’omonimo film di successo con Robin Williams e Robert de Niro) o Robert Zavorre ricercatore scientifico per la Fondazione Mariani. La stessa prestigiosa rivista di neurologia a Oxford, ‘Brain’, non ha dubbi a riguardo. Le neuroscienze ci aiuteranno a capire le ragioni fisiche e biologiche alla base del potere della musica di toccare, calmare o eccitare il cervello umano, perché comprenderle significa in ultima analisi, non solo trovare uno strumento capace di ottenere un effetto terapeutico in molte patologie neuropsichiatriche, ma anche gettare una luce attraverso la quale esplorare a ASSOLUTAMENTE Callas, ma anche lo Chopin di Ciccolini, la Tosca del Flaiano e lo Strauss dell’Orchestre des Champs-Élysées PODCASTING Scaricare Mozart e Morricone come fossero entrambi in chat LA MUSICA È SCRITTA NEL DNA fondo l’evoluzione e la psiche dell’uomo. Negli ultimi anni la biologia molecolare sembra aver trovato un insospettabile rapporto tra il nostro Dna e la musica. La nostra più piccola parte di organismo è fatta di figure meravigliose, eleganti cristalli, perfette spirali, mirabili geometrie. Il materiale ereditario, il famoso Dna (Acido Desossiribo Nucleico) è un nastro avvolto in una regolare e lunghissima elica di misure costanti e perfette. È da qui che parte l’armonia perfetta della natura e da questo stesso punto POD CAS TING & CLA SSIC A TUTTI DENTRO LA RETE he la tecnologia, da sempre, metta paura non c’è dubbio. In ogni settore lavorativo, o creativo, l’impatto delle nuove tecnologie ed eventualmente delle nuove tecniche derivate sembra essere stato nella storia sempre un evento inizialmente drammatico, per poi generare benessere e ricchezza, sia materiale che spirituale. Anche nella musica classica grandi cambiamenti sono all’orizzonte, se non fosse altro che l’intero universo musicale ne è coinvolto, per la gran parte già da molti anni. Soprattutto Internet, la rete delle reti, sembra esser riuscita a contaminare anche l’ultimo spazio di questo universo, il più tradizionale e ‘antico’: il mondo della classica. Ne è nato un nuovo modo di fare musica e di diffonderla. Parliamo del fenomeno Pod-Casting, ovvero della possibilità di fare musica e diffonderla direttamente in rete, attraverso siti personali e personalizzati. Il termine americano nasce come neologismo dalla fusione di due termini: iPod, conosciutissimo riproduttore di file audio Mp3, e broadcasting, le tradizionali trasmissioni di contenuti audio e video come radio e televisione. Ciò di cui si ha bisogno per fare podcasting è un pc connesso ad internet, un apposito programma (detto client) e un abbonamento presso un fornitore di podcast (i file audio-video). Spesso sia il programma che la fornitura di contenuti è gratuita. In questo modo abbonandosi ad un sito fornitore di file audio e video, si possono scaricare o fruire in tempo reale composizioni da studio o live, interviste, articoli, comprare cd o scambiare idee e impressioni magari direttamente con l’artista. Ogni autore può in questo modo riversare il suo mondo creativo in un sito che ne fa da vetrina, in cui ognuno può affacciarsi. Piano, piano, in questa vetrina altre persone cominceranno ad entrare, ad interagire, a scambiare, cosicché la vetrina diverrà sempre più ricca e attrarrà nuove persone. Da qui chiunque può entrare in rapporto con la musica, con la musica classica, conoscerla attraverso interviste direttamente ascoltabili in rete o scaricabili con il download dal sito di riferimento; ascoltando un concerto on-line eseguito a Berlino direttamente dallo studio di casa a Roma, o scaricando brani di Mozart e di Morricone in una raccolta personale da ascoltare quando si vuole e dove si vuole. E qui sta un’altra grande risorsa di questa tecnologia: la libertà di poter fruire di Musica ovunque e in qualsiasi tempo. Insomma una nuova forma di libertà a portata di mouse. (Flavio Fabbri) C C&opera LASSICA Ottobre Novembre 2007 un ricercatore giapponese operante in California, Susumu Ohno (Beckman Research Institute of the City of Hope, Duarte), ha fatto una scoperta incredibile: Ohno è riuscito a produrre melodie musicali dalla struttura del Dna. Il principio da cui è partito è che la vita è caratterizzata da una moltitudine di ricorrenze, da ripetizioni di moduli. In natura il messaggio genetico genera dunque catene di amminoacidi (proteine) attraverso un codice. Lo stesso messaggio, processato con un codice musicale, genera catene di note che si sistemano nel pentagramma a produrre suoni, musica. Che genere di musica? Una musica tonale, semplice, caratterizzata dalla ricorrenza di un tema musicale dominante e dalle sue variazioni. Qui ricorda Bach, là è limpidamente Chopin. Il ritorno del motivo esprime quella ricorrenza ripetitiva che il Dna dei geni serba nel suo messaggio. Una sequenza genica ad esempio rassomiglia straordinariamente alla versione chimica del ‘Notturno’ op. 55 n°1 di Chopin: la chiave musicale consente di rendere la ripetizione di un modulo chimico in un motivo musicale ritornante, in un ritornello. Possibile che la natura ci rivela una melodia chopiniana che da milioni e milioni di anni teneva serbata nel suo cifrario chimico? Probabilmente sì e quella melodia, discesa dal mondo degli archetipi, ha ispirato il moto delle dita del grande pianista polacco su una tastiera incantata del secolo scorso. La musica, sempre più chiaramente, trascende la nostra dimensione particolare per metterci in contatto con gli elementi originari della vita. E quest’ultima sembra davvero essere nata circondata di note. ENNIO MORR ICONE LA MAGIA DEL CINE MA + di 500 le composizioni scritte da Ennio Morricone come colonne sonore per il cinema. Un Maestro indiscusso, conosciuto e stimato in tutto il mondo, premiato quest’anno con l’Oscar alla carriera a Hollywood, massimo riconoscimento dell’industria del cinema ad un artista. I prossimi 27, 29 e 30 ottobre presso la Sala Santa Cecilia dell’Auditorium di Roma, Morricone eseguirà con l’Orchestra e il Coro dell’Accademia di Santa Cecilia (di cui è Accademico effettivo) le colonne sonore più belle e celebri della storia del cinema con due opere: Voci dal silenzio, contro tutte le guerre, e Musica per il cinema, ovvero i motivi musicali dei film più belli di tutti i tempi. Dal sodalizio artistico con Sergio Leone, agli altri grandi registi, è facile sentire un brivido per l’emozione: Bernardo Bertolucci, Pier Paolo Pasolini, Marco Bellocchio, Roland Joffé, Brian de Palma, Tornatore, Polanski e tanti, tanti altri. La storia di Ennio Morricone, che è storia di tutti noi, passa attraverso le sue melodie e queste sono divenute coscienza collettiva di una magia: il cinema. LUSSURIOSO NYMAN è passato per Roma il grande compositore inglese Michael Nyman per presentare i suoi Sonetti lussuriosi. Un’opera nata per commissione della Biennale di Venezia 2007 dove, accompagnato dalla blasonata Orchestra di Santa Cecilia, Nyman presenta e musica uno dei primi esempi in assoluto di pornografia nella storia della letteratura mondiale, i Sonetti Lussuriosi di Pietro Aretino (1492-1556). Figlio del minimalismo musicale di maestri come Steve Reich e Philip Glass (melodie brevi e semplici, ripetitive o ossessive, con sonorità inusuali di elettronica o musica popolare), il genio anglosassone è divenuto nel tempo uno dei massimi compositori viventi. Sue alcune delle colonne sonore più memorabili del Novecento cinematografico, da quella per L’ultima tempesta di Peter Greenaway, a Lezioni di piano di Jane Campion, a Wonderland di Michael Winterbottom. Un artista completo, incuriosito dallo sperimentalismo e dall’innovazione. C Il poeta del pianoforte hiamato così dagli amici artisti e dagli ammiratori degli ambienti intellettuali ‘romantici’ europei, Frédéric François Chopin, è oggi considerato il più grande compositore polacco e uno dei più grandi pianisti di tutti i tempi. Eseguire Chopin, compositore inquieto e pessimista, significa leggere con attenzione una scrittura musicale tra le più precise e interpretare alcuni dei Lieder del repertorio pianistico mondiale dallo stile perfetto e inimitabile. All’Accademia Filarmonica Romana, il 29 novembre, sarà il grande maestro di pianoforte Aldo Ciccolini (francese di origini italiane) che ci farà rivivere le melodie sognanti dei Notturni, le intime e calde Mazurche, o le Polacche, espressioni queste del più tipico folclore nazionale; come pure le più complesse Sonate, qui presentata quella in Si minore n. 3. Un appuntamento da non perdere per gli amanti delle musiche da pianoforte e di uno dei suoi maggiori esecutori. M E lucevan le stelle… oltissime le repliche della Tosca, opera lirica in tre atti di Giacomo Puccini del 1899, al Teatro Flaiano di Roma a partire dal 1 novembre prossimo e fino a maggio 2008. Per la regia di Rossana Siclari e l’accompagnamento dell’Orchestra della Piccola Lirica, il capolavoro pucciniano è in scena in uno dei teatri storici della Capitale che, sia pure di prestigio, è considerato per le dimensioni ridotte un luogo più intimo e introspettivo, di grande resa musicale soprattutto grazie al nuovo impianto tecnologico e alla cura del disegno audio. Di grande importanza invece l’esecuzione affidata a giovani cantanti selezionati da concorsi, conservatori e scuole di canto, che esprimono nella loro presenza scenica il pieno rispetto della musica e del racconto drammaturgico. Originale anche la compressione temporale in 90 minuti di incantesimi lirici e suggestioni ambientali strettamente legati a riferimenti storici sia tradizionali che inediti rispetto ai libretti. Di nota anche l’impianto scenografico che, partendo dalla tradizione squisitamente teatrale nella tecnica costruttiva, nelle manualità e nei trucchi, vede una ricerca volta espressamente verso una nuova dimensione dello spazio e della sua percezione da parte del pubblico. S Dagli Champs-Élysées arrivano Strauss e Mahler arà l’Aula Magna del Rettorato ad ospitare la prestigiosa Orchestre des Champs- Élysées in arrivo a Roma il 13 e 14 ottobre. Con l’occasione, il direttore e fondatore dell’Orchestre, Philippe Herreweghe e il soprano Carolyn Sampson interpreteranno la sinfonia n. 4 dell’ironico e provocatorio Gustav Mahler e i Lieder Orchestrali del «Re dei walzer» Richard Strauss. Nata dal Théâtre des Champs-Elysées (lo storico teatro parigino su Avenue Montaigne), l’Orchestre si è esibita nei più celebri teatri europei, da Londra a Francoforte, passando per Berlino e Vienna, divenendo nel tempo garanzia di qualità nel rispetto di un vastissimo repertorio classico e romantico della migliore tradizione francese e europea. L’interpretazione dei brani viene eseguita con l’utilizzo di precisi e preziosi strumenti d’epoca. CALLAS ASSOLUTA. DIVINA, ECCESSIVA, MORTALE. M aria Callas è stata la voce femminile più bella e affascinante dei nostri tempi. Divinità musicale ‘assoluta’ e frivola, fragile ragazza mondana. Una donna che divenne presto leggenda e che in occasione del trentennale della sua morte (16 settembre 1977) torna a rivivere più che mai grazie al documentario di Philippe Kohly, Callas Assoluta, presto disponibile in dvd per la Bim con il Corriere della Sera. Un documentario emozionante e commovente, presentato in anteprima mondiale alla 64a Mostra del Cinema di Venezia, in cui il regista francese ripercorre le tappe fondamentali della vita della Callas, dalla natia New York degli anni 30 alla Grecia sotto l’occupazione fascista, passando per l’Italia anni 50 della Dolce Vita fino ai giorni parigini degli anni 70. Immagini profonde, regalate, rubate, testimonianze di una vita sempre divisa a metà tra successi mondiali e amori drammatici. Dal matrimonio col facoltoso industriale veronese Giovan Battista Meneghini all’amore infinito e tragico durato tutta la sua vita per l’armatore greco Aristotele Onassis. La Signora dell’Opera e del Canto rivive così nelle immagini eterne di un film, sconsolata hybris moderna e immensa voce che attraversa luminosa ogni tempo. BMusicAll EYOND a cura di ROMINA CIUFFA BENYC YOND Music In NEW YORK Legendary musicians mix CALIFORNIA Sixemix CANADA Bernadette and The North From Digitalizing three friends with new generations. Worth it? Ireland to Canada, love for her dad MUSICAL INSPIRATION, BOTH OLD AND NEW by DAVE ALLEN ast week I went to hear The Lee Konitz Nonet perform at the Iridium Room in New York. Lee Konitz (in the drawing above) is eighty years old. He has known and worked with many of the legendary figures of jazz starting back in the 1940’s. His sound is still as pure and his lines as clear as they were 50 years ago. Longevity like his would seem rare, except that this week we also happen to have Sonny Rollins performing at Carnegie Hall with Roy Haynes. Sonny Rollins is 77, Roy Haynes is 81. Both artists had a tremendous impact on the development of jazz in the 50’s and 60’s and continue to be energetic performers today. We are fortunate that this concert will be released next year, along with a recently discovered recording of Mr Rollins at Carnegie Hall from 50 years ago. Both concerts feature the trio format of saxophone, bass and drums. This concept was unheard of when Mr Rollins first began experimenting with it in the late 1950’s. The absence of a chordal instrument allowed for more harmonic freedom and a more austere sound, where each note becomes more important than it might have been if interwoven within the fuller sound of a quartet. As if that weren’t enough, we also have the great drummer Paul Motian (in the photo on the left) performing at The Village Vanguard with his trio featuring Bill Frisell and Joe Lovano. Mr Motian is 75, and although he has retired from touring, he plays regular weeklong engagements in New York at The Vanguard, Birdland, and other venues. Mr Motion has several bands, many of them featuring some of the brightest younger talents in New York such as Ben Street, Chris Cheek, Mark Turner, Ben Monder, Steve Cardenas, and Tony Malaby. This is also true of Lee Konitz, whose Nonet features musicians who are all at least 35 years younger then him. This kind of collaboration is beneficial to the music in two directions at once: these younger, upcoming musicians have the experience of working with, and learning from, a legend, and the veteran artist is infused with the energy and ideas of a new generation of players. There are many new recordings worth listening to from these younger musicians. «The Slightest Shift», by the brilliant young pianist and composer Kris Davis, features a modern aesthetic blended with influences from 20th century classical music. The gifted alto saxophonist and composer John O’Gallagher has a new CD called «Abacus» which offers challenging, improvisation-based pieces. Julie Hardy is a singer and composer to watch. Her new CD «The Wish» features a great band and strong compositions that avoid cliche. The recent recording by guitarist Brad Sheoik, «Places You Go», features an inspired use of the trio format of guitar, organ and drums. Any CD which features the magnificent drummer, Tom Rainey, is worth repeated listenings. Between recently discovered recordings of the legendary greats like Sonny Rollins, John Coltrane, and Thelonius Monk, to the many new recording from the prolific young voices on the New York jazz scene, it seems that we have plenty of listening to do. Dave Allen is a jazz guitarist and composer from New York. His new CD «Real and Imagined» is now available from Fresh Sound Records. About his debut album, «Untold Stories», it has been said: «Untold Stories, the debut CD from New York Jazz Guitarist Dave Allen, showcases an exciting and unique player in the mold of Pat Metheny, Ben Monder, Jonathan Kreisberg and Adam Rogers. Monster chops, harmonic resourcefulness, strong melodic sense, seamless group interaction, considerable compositional talent and a kick-ass group of talented players make this CD an electrifying piece of work» (JazzGuitarLife). www.myspace.com/daveallenquartet BEYOND Canada by KARLA COURTNEY as www.daveallenjazz.com Venice Beach, California BEYOND Lee Konitz, 80. Sonny Rollins, 77. Roy Haines, 81. Paul Motian, 75. Jazz as a potion of eternal youth and a mix with the new generation L Ottobre Novembre 2007 S by CINDY MESLEM SIZEMIX LIKE SEISMIC izemix equal to Mike Nissen, Ivan Piesh (DJ Eye) and Jason Hoopes. They met in the Fall of 2000 in Ashland, Oregon, attending Southern Oregon University, Ivan and Mike as Art majors, Jason as a Music major and were brought together by a mutual friend to form a 5 piece band (Varius Ardis). For a year and a half they played in and around the Southern Oregon area. After some trials and errors, Various Ardis disbanded, but the three of them decided to continue playing. They approached their first few sessions together as a chance to «exercise» some of the creative demons that had manifested over the previous year beginning with a clean slate. The momentum of this young collaborative telepathy allowed them to achieve an immediate coherence, even though their early material was purely improvisational. Each of them had begun to explore the possibilities in using digital effects, and each of them was beginning to blur the lines between abstract sound and the «traditional» roles of their chosen instruments. Mike and Jason had digitally expanded their harmonic ranges, Mike’s one well into the bass frequencies and Jason’s one well into the guitar's highest registers. Suddenly, listeners weren't sure which of them was responsible for which sound. Without abandoning the abstractness of their improvised soundscapes, they began to develop their groove-oriented material into more concise statements with written motives, melodies, progressions and samples. They moved comfortably from hip-hop to rock to pure noise and back. They chose the name Sizemix (a play on the word «seismics») being on to something that, at the time, was not being done in our area. with tracks long 20+ minutes. They wanted to pursue their direction of refined groove based music yet retain thier experimental nature and tendencies. Some tracks contain purely improvised sections in the middle of highly composed material.After recording and releasing Found Sound, Sizemix relocated to the Bay Area roughly a year apart from each other, for different reasons. Sizemix is currently in hiatus. Mike is an Art Director at Live Nation and is pursuing music. Ivan has since graduated from X’Pression as Valedictorian and now teaches there. Jason is currently in his second year of study at Mills and perform regularly with a wide variety of projects. The future is open. Cindy Meslem, born and raised in Paris, France, traveled a lot with her mother, so passionated by music that had her daughter listen to all styles of music. After a master in Journalism and working for the French television, she now writes about music. CANADA’S BERNADETTE. AND THE NORTH GOES EAST Good genes, a great voice and a gritty rock band: Bernadette Gernon talks about her life, music and exciting future with band «The North» the daughter of Status Quo front man Francis Rossi (aka the Grand Old Man of Rock and Roll) it would seem that Bernadette has some big shoes to fill. I am happy to report that even at just 157 cm she is doing a damn good job of it. When I first saw Bernadette and The North play at a little deli on the outskirts of Toronto, I really didn’t know what to expect. Her small stature, innocent big blue eyes and flowing blond hair screamed tinkerbell. I questioned whether or not her sound would even reach the end of the stage. But like her excentric father, Bernadette is full of surprises. Citing big names such as Dylan and the Beatles as her influences, Bernadette’s music exudes the raw spirit of these classics but is layered with a characterful and pristine voice – think Cheryl Crow meets Christina Aguilera. Of course, no woman is an island, and her soulful and equally talented band (Neal Lyons, guitar/vocals; the Hodge, bass; Tommy K, guitar/keys; and Greg Lyons, drums) give the show a rich, rock and roll sound that invites comparison to Canadian rock legends such as Neil Young, The Band or Blue Rodeo. Though her crisp voice and strong stage presence seem to be inherited from her father, she spent very little time with him growing up. Born in Ireland, Bernadette moved to Canada at a very young age, only reconnecting with him a few years ago. Her musical passion, however, started much earlier, learning to play guitar at 10 and singing at every opportunity she could. Bernadette and Francis’ relationship has certainly helped her be more focused on her career, with her dad’s experiences in the business providing her with both inspiration and guidance. Francis also helped out by showcasing his stellar guitar skills on her debut, self-titled album, Bernadette. The story behind the formation of the North is equally as whimsical. Bernadette caught Neal Lyons’ eye at a local pub outside of Toronto, and despite their very different musical styles they began to talk business. Neal, with a background in extreme sports and hard rock (he was an exgames gold medalist and guitartist/vocalist in Canada’s Kover), began working with Bernadette occasionally until he and his brother Greg (also from Kover) joined on full-time to form «the North». With the Hodge and Tommy K to follow, the band adopted a fuller, rock sound and began some serious gigging. Now poised to open for Status Quo on their 32-show UK tour beginning November 8, little Bernadette has big plans: «We are really excited to see how this will be. I know Status Quo fans are really loyal and passionate, so I hope to blow them away. (But) I know that it won t be an easy task...». B - with your stunning stage presence, stellar band, solid soloalbum and healthy Canadian touring career, I am sure it will be easier than you think. For more information, including tour dates and how to get her album, check out www.myspace.com/bernadettegernon. Karla Courtney, born and raised in Canada, writes from Melbourne, Australia, where the alternative music on offer rivals the likes of Toronto's Broken Social Scene and Feist. Trained pianist with a passion for music of all kinds, she’s the editor of 3 magazines. SYMBOLIC JEWELRY ARGENTO 925 PODIATO OLLETTINI OLLETTINI WWW .COLLETTINI .NET Music In BEYMusicAll OND Ottobre Novembre 2007 FRANCE Winter Family A church in the centre of Paris, not a group but an expe- SPAIN Euro Trash Girl AUSTRALIA 67 Special Interviewing Indie Rock in Valencia the drummer of the Australian band rience of childhood bedtime stories BEYONDParis WINTER FAMILY BEYOND Australia by SCOTT DRUMMOND 67 SPECIAL It’s a chilly Tuesday night as I settle into my chair in the empty Public Bar on the northern fringes of Melbourne’s CBD. There’s a regular game of poker going on in the back room, and among the punters is Bryan Dochstader, bassist with the 67 Special... A crypt in Paris for Ruth and Xavier, in a journey to the very depths of the self JEN CARSWELL a soft hum echoes against the vaulted ceilings and chipping frescos in the crypt of St Suplice, a church in the centre of Paris. A piano, organ, harmonium, and arm chair patiently await, like the rest of us, the arrival of Winter Family. This duet comprised of Israeli Ruth Rosenthal and French Xavier Klaine was formed in Jaffa in 2004 and since then has been performing in similar such venues in New York, Europe, and the Middle East. Winter Family is not simply a group, but an experience, at once reassuring and terrifying. The sound is a combination of melodic spoken-word texts in English and Hebrew against sparse hypnotic music. A deep feminine voice recites words and creates images reminiscent of childhood bedtime stories. With a haunting melody continually playing like a broken gramophone, it quickly becomes evident that what we are entering is not a dream but a nightmare. «I was born in the spring, that’s why it took me so long to find my real family, my true family, my winter family» is both the first line from the title track and an example of Ruth’s beautifully intricate and elegantly perplexing poetry. Her texts explore the worst of what human beings are capable of doing to one another: violence, pride, suffering, uncertainty, death. The message is at times clear and direct while others ambiguous and abstract. One song fills the room with gunfire as a mother waits for a son who will never return, while another paints the world from the point of view a slug. The political and the philosophical are interwoven, often accentuated by the ironic and the absurd. This melancholy music constructs a universe steeped in darkness. Light exists only blindingly and in bursts. The journey is not however to the outreaches of the galaxy but to the very depths of the self. It is an introspective look and according to Ruth ‘a gift’ to be interpreted differently and independently by each individual. Winter Family’s debut album was released in September with their second album well under way. The follow up to I Was Born In Spring is apparently fuller-sounding, more accessible, and darker. The group will be performing at the Horse Hospital in London on November 10th and are constantly adding dates and locations. With few influences and fewer contemporaries, this unique duet promises nothing but facilitates a musical sojourn that goes beneath and beyond the majority of indie bands. Left with goosebumps and shivers, they should not be missed. BEYONDSpain Vicente Martinez is the managing director of Zebra Records & Tabalet Editorial Publishing, a Spanish label with artists and bands as Nice Man & The Bad Boys (UK), The Mockers (US), Euro-Trash Girl (ES) or Siwel (ES). A EURO EUROTRASH TRASHGIRL GIRL KISS KISSAWAY AWAY THE THERAIN RAIN ning of a new listening. surprising new album by EuroTrash Girl, which confirms them definitely as one of best indie rock bands in the country. Passionate about the most genuine American sounds, Kiss Away The Rain is the logical result of an excellent songwriting skill (songs like So What About You?, Beauty (dis)connection, No Time To Stall become pieces for compulsive listening) and a superb sound, both accurate and rich (the album has been recorded and produced by Luis Martínez). Simple and sincere, the songs have been created from feeling. They are aimed at showing life and making you an accomplice to their plots, like in Radar Love, a precious surprise in an album whose allenveloping last piece, Stay Overnight claims to be the begin- The Valencian quintet are at their best moment, confident and capable of creating hypnotic atmospheres of elegant rock and of injecting magic into the songs that Judit Casado sings in an incomprehensibly unique way. It’s difficult to explain how her voice conveys such intimate emotions, with an adhesive groove that boosts the melody from the centre of the Earth to infinity with the euphoria of rock and the temperance of country–punk. But the response to this fact can be found in a band which is well-oiled and perfectly solid, and also able to embody and express with energy any sound atmosphere. The time has come to say goodbye to the rain and to welcome a new sun. by VICENTE MARTINEZ MARCO it’s a chilly Tuesday night as I settle into my chair in the empty Public Bar on the northern fringes of Melbourne’s CBD. There’s a regular game of poker going on in the back room, and among the punters is Bryan Dochstader, bassist with Melbourne five piece the 67 Special. He’s agreed to take time out of his game of Texas hold’em to chat about the band’s new album, The Devil May Care, and as events on the table take a turn for the worse, he seems grateful for the interruption. Fresh off the back of gigs in New South Wales, the 67 Special have been touring their new 12-track LP up and down the East coast. The band has played a range of venues, from Melbourne’s Corner Hotel to Bendigo’s Golden Vine, and they’re equally at home bringing their music to the fans in rural areas as those in the city. «That’s kinda why you do it. You can make money at the big shows in the metropolitans and then you go out to the smaller regional areas, which are usually less populated. They’re less attended but it’s more for the fans that are out there that can’t get into the city, you know, to play for them.» We’d initially agreed to meet soon after the album launch at the Corner Hotel on August 10th, but a combination of the packed touring schedule and other decidedly un-Rock ‘n’ Roll reasons had delayed our interview. It’d been a couple of weeks since the Corner gig, but Bryan was quick to recall the band’s feelings that night. «Yeah, it was a good show. Although there was a really good vibe it was just one of those things where we really got nervous. I usually never get nervous, apart from once before playing Rove and that sort of thing, but that show just felt like a really important one and we Scott Drummond wanted it to is a freelance wri- go well so ter from the UK, badly.» living and working Nerves? in Melbourne, Casting my Australia. There memory he writes regular reviews and fea- back to that tures for a num- night at the ber of print publi- Corner, nercations and edits vous woulthe music blog dn’t be the ‘For People Who word I’d use Can’t Read’. to describe the band’s polished performance. Ash Santilla (lead vocals) delivered his trademark combination of in-yourface rock vocals and Jagger-esque strut faultlessly as he swigged his way through a bottle of red. Either side of Santilla, Gavin Campbell (lead guitarist) tore through intricate solos and Dochstader pumped out propulsive bass lines effortlessly, covering the flanks from foldbacks to amps. Louis Macklin (keyboards) and Ben Dexter (drums) drove the rest of the bluesy rock rhythm, a sound the 67 Special have made their own. «Nerves?» «Not the debilitating kind. Three beers and a couple of cigarettes, then you’re fine. Those kind of nerves.» Dochstader’s nonchalant, laid back explanation belies the difficulties the band has faced in the last few years, but also hints at their resilience and determination to succeed. Soon after the release of their debut album, The World Can Wait, their record label, Festival Mushroom, was bought out by the l a r g e r Wa r n e r Music Australia, throwing a spanner in the album’s promotional works. «That had a horrible effect on us. We were getting ready to go overseas where we’d gotten a lot of attention. It coincided with about a month after we’d released the album so we’d put in all this promotion and got the ball rolling. Then the wind just came out of our sails and we were left drifting with no help from the media. We were so close to breaking into something great and the timing was really good too because Rock ‘n’ Roll was hitting a decent stride.» The band were suddenly faced with the collapse of the momentum they had worked so hard to build up behind their debut release, but characteristically could only see one way to go - forward. «As soon as that started happening we just began writing the next album. We decided it wasn’t going to phase us. We just kept going, and after 6 months we thought we had the second album. We had 12-14 songs that were really good but we just decided they weren’t good enough. We worked another three months and wrote another six songs, so by then we had 20 songs. OK, so break that down to ten and you’ve got a good album, right? Nah, not nearly good enough. So we just kept on writing.» And so it is that The Devil May Care finally came to be. 12 triple-distilled cuts that showcase not only the band’s straight-up Rock ‘n’ Roll roots (singles Sold Your Little Sister for a Red Motor Car, Killer Bees, and Shot at the Sun) but also their willingness to mix other musical flavours in service of the perfect blend. The haunting Running from the Man is reminiscent of the Doors’ Riders on the Storm, whilst the slow tempo and jazzy It’s Not Like You blends roots-reggae with one of Macklin’s soulful keyboard solos. «At the end of the day if we look at a song and its value, that’s got absolutel y nothing to do with the genre. If it’s a g o o d s o n g then you can take it and get a polka band to do it and it’ll still be a good song. You give it to a reggae band and if it’s a good song, you’ll still hear that.» As Bryan excuses himself to return to his poker game and our interview comes to an end, one thing seems clear: whatever the new album’s title suggests, the 67 Special’s approach to their music is anything but cheerfully reckless. This is a band that understands the deceptively simple recipe for success in this business: write a bunch of great songs, deliver a killer live show every time, add just a pinch of good old fashioned luck, stir and serve. And judging by the way the crowd at the Corner ate up the live show, the 67 Special seem to be getting the balance just right. Ppop&rock OPCK a cura di VALENTINA GIOSA Music In TUXEDOMOON Suonano la musica del A TOYS ORCHESTRA I campani FIERA C’è diavolo, quella che fa paura alla Chiesa. dell’indie-rock si addormentato col Perché è un intervallo di quarta aumentata. carillon e sognano in technicolor campani A Toys Orchestra nascono nel 1998 dalle ceneri della band Mesuild, dopo la partecipazione alla compilation Soniche Avventure e la vincita del concorso Gruppo Soniche del 2000 indetto da Sony/Fridge, nel giugno 2001 pubblicano il primo album dal titolo Job (Fridge). Nel 2003 partecipano e vincono il concorso nazionale per le etichette indipendenti MusicalBox di Urbino. Nell’autunno dello stesso anno la band lascia la Fridge per passare alla Urtovox Records e comincia a lavorare a Cuckoo Boohoo, album pubblicato nell’ottobre 2004, considerato una delle rivelazioni della stagione 2005-2006. L’ultimo lavoro della band (marzo 2007) si intitola Technicolor Dreams, album maturo e raffinato che dimostra uno stile personalissimo oramai consolidato dove ballate, carrillon di pianoforte, sognanti arrangiamenti orchestrali, suoni morbidi e chitarre tipicamente «indie-rock» disegnano uno scenario fantastico di intimismo, romanticismo e magia. 13/10 Circolo degli Artisti Info 06 Terrorizzano col tritono, scappano dall’America e, metà muti (metà no), conquistano l’Europa Q I uando ci si trova davanti a gruppi come i Tuxedomoon è difficile limitarsi a parlare semplicemente di musica. La band formata da Blaine L. Reininger, Steven Brown e Peter Principle a San Francisco, con il supporto tecnico dell’artista video Tommy Tadlock, è riuscita con un’eccellente visionarietà ad abbracciare teatro, cinema, danza, letteratura, dando vita a una vera e propria multiarte. Probabilmente la «multimedialità» dei nostri giorni è proprio il momento migliore per apprezzare pienamente il ritorno dei Tuxedomoon che con l’uscita del nuovo album Vapour Trails festeggiano ben 30 anni di carriera. La band californiana è stata senza dubbio una delle realtà più originali e innovative della stagione new-wave ma, a differenza dei gruppi dell’epoca è riuscita ad andare ben 5 Musical Box N ati nel 1993 con l’intento di riproporre le straordinarie atmosfere dei concerti dei Genesis nel loro periodo d’oro degli anni 70, i Musical Box sono l’unica cover band ad aver ottenuto la licenza di riprodurre The Lamb Lies Down On Brodway da Peter Gabriel in persona. Uno studio attento di coreografie, trucco, maschere, effetti speciali, luci e a una grande padronanza tecnica. Tutto esaurito per i Musical Box, che si cimenteranno con Foxtrot il 9 novembre e con Selling England By The Pound il 10. 9- 10/11 Gran Teatro Info 06 37353588 H 21 oltre un’estetica puramente musicale. I Tuxedomoon cominciano a farsi strada durante la fine degli anni 70 suonando in diverse esposizioni accompagnando le performances degli Angels of Light e divengono presto celebri per i loro spettacoli sperimentali e avanguardistici in cui mescolano sapientemente musica avantgarde-rock, classica e sintetica, melodie tipiche del dark, voci spettrali e sussurrate, atmosfere decadenti, coinvolgenti shows che tanto ricordano gli psicodrammi del vecchio teatro espressionista (basti pensare che la band, venne inizialmente coadiuvata da alcuni esponenti della scena teatrale locale fra cui in particolare il mimocantante Winston Tong). In un’intervista Reinenger ha addirittura affermato di aver conosciuto gente che era completamente «terrorizzata» dai loro show, ovvia conseguenza del fatto che gran parte dei brani del trio californiano erano costruiti con il «tritono», intervallo di quarta aumentata bandito dalla Chiesa ai tempi del Medioevo perché considerato «la musica del Diavolo». Cresciuti in piena epoca post-punk ma, decisamente lontani da ogni forma di «americanismo», i Tuxedomoon sono costretti a partire per l’Europa stabilendosi prima ad Amsterdam e poi a Bruxelles. Ed è proprio in Europa a metà degli anni 80 che la loro popolarità cresce a dismisura, in particolare con l’uscita di Half-Mute, probabilmente il disco che meglio fotografa l’unicità della band. Il nuovo tour dei Tuxedoomon, che per l’occasione hanno scelto di eseguire oltre ai nuovi Quando pubblicammo il nostro primo album, una buona fetta della critica ufficiale trovò scandaloso che la chitarra uscisse da un sampler!», afferma il cantante-compositore Franz Treichler, chitarrista fondatore del trio svizzero, Al Comet (campionatori) e Bernard Trontin (batteria). Rock, elettronica e sperimentazione sono gli ingredienti di questa band, una delle più influenti sulla scena musicale europea (basti pensare a Chemical Brothers, Nine Inch Nails, Prodigy) che festeggia con l’uscita del nuovo album ben vent’ anni di carriera. Gli Young Gods tornano con Super Ready/Fragmenté, summa dei lavori dell’ultima decade della band, segnata dallo straordinario Tv Sky (1992), Only Heaven (1998) e Music for Artificial Clouds (2004). Giunta al tredicesimo capitolo, la band ha proseguito la strada della ricerca e della sperimentazione dando nuova veste alle sonorità elettroniche che in Super Ready/Fragmenté si uniscono alla new-wave e all’hard rock, aprendo le porte a un’atmosfera tipicamente industrial che non dispiacerebbe agli appassionati di Ministry o Killing Joke. 18/10 Circolo degli Artisti Info 06 70305684 H 21 20.70 uscito ad agosto, pubblicato dalla Young God Records, il nuovo album dell’americano Michael Gira We are Him. Da tutti conosciuto come fondatore e coleader degli Swans, straordinaria band di avant-garde rock attiva fino ad alcuni anni fa, Gira è stato impegnato negli ultimi tempi per lo più come produttore di altri musicisti o come co-autore di diversi progetti sperimentali fra cui The Body Lovers e Angels of Light. We are Him vanta la collaborazione di prestigiosi musicisti fra cui Christoph Hahn (Swans, Angels Of Light), Bill Riefli (REM, Ministry, Robert Fripp, Robyn Hitchcock), Julia Kent (Antony and The Johnsons), Steve Moses (Alice Donut). Amore, desiderio, perdita, sesso, tradimento, amarezza sono i temi che accompagnano da sempre un artista «completo» e sui generis, capace di coinvolgere l’ascoltatore senza aver bisogno di abbellimenti e inutili orpelli. Come ha affermato Seth Olinsky (Akron/Family): questo non è «indie rock», questa è «autentica musica americana», o come dice Gram Parsons «American Cosmic Music». 17/10 è Circolo degli Artisti Info 06 70305684 H 21 brani anche una rielaborazione in chiave «cameristica» dei loro due capolavori (il già citato HalfMute e Desire, nato da ua colonna sonora composta per un balletto di Maurice Bejart), partirà proprio dall’Italia. Sarà una buona occasione per apprezzare ancora una volta una band che risulta ad oggi profondamente attuale, classica e sperimentale, minimale e multimediale, in bilico fra la «ricchezza dell’esperienza» e «l’incoscienza del nuovo». PERCHÉ VI SI RIUNISCONO TUTTI. QUELLI CHE SONO EMERGENTI E QUELLI CHE LI FARANNO EMERGERE 40 è « MICHAEL GIRA FAENZA. CHE FA RIMA CON EMERGENZA GIOSA YOUNG GODS quella di Faenza TUXEDOMOON IN INTERVALLO TRITONO A TOYS ORCHESTRA 70305684 H 21 Ottobre Novembre 007 giunta all’undicesima edizione la più grande rassegna discografica e di musica indipendente italiana, ospitata dalla Fiera di Faenza (24-25 novembre, anteprima il 23). Il Meeting Etichette Indipendenti e delle autoproduzioni 2007 si conferma nuovamente come un momento fondamentale per la scena musicale indipendente, con live di qualità, dibattiti, convegni e premiazioni. Ben 250 gli artisti previsti per live e show, 300 stand presenti con oltre 200 realtà indipendenti, 50 media partner del settore ed oltre 60 festival per emergenti. La manifestazione è un vero e proprio tesoro per tutti i talenti emergenti del panorama musicale italiano che possono qui trovare l’occasione di incontrare discografici italiani e stranieri, conoscere e farsi conoscere, trovare contatti per accedere ad un mercato discografico minore ma sempre in fermento e lontana dalle frequenti manipolazioni delle majors ma anche un modo per addentrarsi nella nuova scena indipendente ed emergente italiana e capire quale direzione sta prendendo il districato panorama musicale. Tra gli appuntamenti fissi del M.E.I., il PIMI (Premio Italiano per la Musica Indipendente), che premierà gli album preferiti da una giuria di critici musicali garantita dai giornalisti Federico Guglielmi, Daniel Marcoccia, Enrico Deregibus, Valerio Corzani, John Vignola e Fabrizio Galassi. Il miglior disco indipendente (che negli anni precedenti è stato vinto da Assalti Frontali, Afterhours, Nada e Yuppi) sarà uno tra i migliori 20 album indipendenti dell’ultima stagione, selezionato fra Nada, Avion Travel, Tetes de Bois, Virginiana Miller, Tre Allegri Ragazzi Morti, Ginevra Di Marco, Teatro degli Orrori, Jennifer Gentle, Ivana Gatti e Gianni Marroccolo, Etherea+Uochi Toki, Moltheni, Rudy Marra, Port Royal, Melody Fall, A Toys Orchestra, Giardini di Miro’, Dente, Atletico Defina, Ardecore e Piccola Bottega Baltazar. «Questi venti album–dice Giordano Sangiorgi, organizzatore del M.E.I.–sono il meglio di quanto espresso dalla nuova scena indipendente nel nostro Paese, alcuni dei qualisono stati ai primi posti delle classifiche di vendita ufficiali. Mi auguro che questi e tutte le altre produzioni indipendenti italiane possano ispirare gli organizzatori dei grandi festival musicali, con la possibilità di ospitare queste bands e dar loro la visibilità che meritano». Già noti i primi vincitori del Pimi 2007: ai Diaframma andrà il premio per la miglior autoproduzione, i Giardini di Mirò sono il miglior gruppo indipendente dell’anno, Moltheni il miglior solista, i Tetes de Bois hanno realizzato il miglior tour, la Radiofandango è l’etichetta dell’anno, Giulio Favero (Teatro degli Orrori, Super Elastic Buble Plastic, One Dimensional Man) e Giovanni Gandolfi ( Disco Drive), i migliori produttori artistici e discografici dell’anno. Tra le rivelazioni indie rock i Canadians, il Teatro degli Orrori, gli LnRipley. Nell’indiepop, invece, The Second Grace, Vanilla Sky e Khorakhanè. Fondamentale lo spazio dedicato alla musica internazionale, il M.E.I. International, che, a partire dalla scorsa edizione, ha portato alla fiera più di cinquanta operatori stranieri e sta proseguendo per allargare i contatti e consolidare gli scambi con realtà musicali a livello mondiale attraverso un accordo con il Ministero del Commercio con l’Estero. Oltre alle produzioni musicali indipendenti italiane, che spazieranno dall’indie-rock alla nuova musica d’autore, dal nuovo pop al neofolk, dal reggae all’hip-hop, dall’elettronica la punk, dal jazz al blues, dallo ska al metal, il M.E.I. accoglierà band da oltre 17 Paesi: Inghilterra, Francia, Germania, Svizzera, Irlanda , Spagna, Svezia, Olanda, Portogallo, Russia, Grecia, Lettonia, Slovenia, Danimarca e Lussemburgo. Tra le novità di quest’anno, oltre alla presenza di tutte le produzioni indies nei tre padiglioni della fiera - insieme ai tre tendoni per i live - spicca sicuramente la presenza di Suono Italia, con il meglio della produzione artigianale nazionale di strumenti musicali in un padiglione del Palazzo delle Esposizioni, in centro a Faenza, che porterà una grande attenzione da parte del mondo della musica colta (jazz e contemporanea) cui si aggiunge il progetto della valorizzazione delle musiche regionali con la presenza di festival e operatori del settore. Presente anche una sezione World, dove saranno realizzati showcases, dibattiti e tavole rotonde legate al genere: un passo importante che copre un vuoto di attenzione nei confronti di questo settore così dinamico e ricco. Music In Ottobre Novembre 007 LISA GERRARD Incanta, ammalia, seduce. Incarna. TONY LEVIN Il pionere della Chapman Stick, l’inventore della «funk fingers». Decisamente, un Sick Man. TONY LEVIN ato a Boston nel giugno del ‘46, Tony Levin è sicuramente uno dei più grandi bassisti degli ultimi tempi grazie al sempre più raro connubio di tecnica e passione. Il suo groove inconfondibile ha accompagnato diversi artisti mondiali come Peter Gabriel, King Crimson, Yes, Liquid Tension Experiment, Pink Floyd, John Lennon, Dire Straits, Joan Armatrading, Alice Cooper, Seal, David Bowie, Carly Simon, California Guitar Trio, Sarah McLachlan, Kevin Max, Paul Simon, Michael Schenker Group ed ha collaborato con numerosi artisti italiani come Vasco Rossi, Alice, Claudio Baglioni, Raf, Eros Ramazzotti, Ron e Fossati (per cui firma il brano L’Abito Della Sposa contenuto in Macramè). Levin è stato pioniere dell’uso della Chapman Stick e del contrabbasso elettrico, e inventore di una nota tecnica chiamata «funk fingers». Il musicista americano ha da poco annunciato il suo nuovo album da solista che prende il nome proprio dalla sua tecnica Sick Man, registrato in collaborazione con Scott Schorr (batteria, percussioni e tastiere), Chris Albers (chitarra acustica) e Tim Dowe (batteria). 23/10 n LISA GERRARD TUTTA DI U N FIATO DREAM THEATER Stazione Birra Info 06 79845959 H 21.30 opo la memorabile esibizione del Gods of Metal dove la band statunitense ha regalato al pubblico dell’Idroscalo di Milano uno dei loro capolavori assoluti, nonché un caposaldo del progressivemetal, Image and Words, i Dream Theater tornano in Italia con il Chaos in Motion World Tour 2007/2008, che paritirà da Bologna per proseguire per Roma, Andria, Milano e Padova. Protagonista della nuova tournée è l’ultimo lavoro della band, Systematic Chaos, ennesima dimostrazione che sicuramente i Dream Theater ci sanno fare ma forse l’ispirazione di dischi, come il già citato Image and Words e Metropolis Part II, è un po’ lontana. Il Chaos in Motion World Tour 2007/2008 che vedrà la band accompagnata da un altro dei gruppi più influenti della scena metal degli ultimi tempi, i Symphony X, sarà un appuntamento da non perdere sia per i numerosi affezionati che per chi vuole godersi un bel concerto all’insegna dell’hard rock. Palalottomatica - Ex d Palaeur Info 199128800 H 20 15+dp G APOCALYPTICA li Apocalyptica (attualmente: Eicca Toppinen, Paavo Lötjönen e Perttu Kivilaakso) nascono nel 1990 a Helsinki dopo essersi laureati all’Accademia Sibelius, il più prestigioso conservatorio finlandese. Appassionati e ispirati dalla musica heavy metal, quattro violoncellisti si dedicano al riarrangiamento dei brani più celebri dei Metallica donando loro una veste del tutto nuova, sognante e a tratti magica. Debuttano nel 1996 con Plays Metallica By Four Cellos, disco composto da otto brani che furono quasi uno shock per molti amanti del genere metal. Dopo l’album Cult e l’uscita di uno dei componenti dal gruppo gli Apocalyptica decidono di inserire un batterista, Mikko Siren che indubbiamente, sia sul disco che dal vivo ha conferito più potenza alla loro musica. Si intitola World Collipse l’ultimo lavoro della band finlandese, album dove compaiono illustri ospiti come Till Lindemann dei Rammstein (che interpreta la versione tedesca della celebre Heroes di David Bowie), Cristina Scabbia dei Lacuna Coil, il cantante degli Slipknot Corey Taylor e Dave Lombardo degli Slayer. 11/11 Circolo degli Artisti Info 06 70305684 H 20 23 Zucchero d opo 71 concerti in Italia e in Europa, le tre repliche in Arena (tutte esaurite) e dopo aver attraversato Sudamerica, Canada, Stati Uniti per oltre 50 concerti, fra cui anche una data nella prestigiosa Carnagie Hall il 28 settembre, dove ha festeggiato i suoi 52 anni, ed una in occasione del Columbus Day l’8 ottobre a New York, il Fly Tour di Zucchero torna nei palasport in Italia cominciando da Roma. Adelmo Fornaciari, in arte Zucchero, bluesman italiano per eccellenza, ha portato per il mondo la sua ultima fatica intitolata Fly che ha visto la collaborazione di Ivano Fossati e Jovanotti, album di undici tracce, fra cui spicca il tormentone radiofonico Il Kilo, ormai canticchiato da tutti. È prevista per novembre l’uscita del doppio cd The Best Of che conterrà 35 brani, con quattro inediti e varie cover prese degli anni 80. Intanto il musicista emiliano ha rivelato che gli piacerebbe molto poter fare un duetto virtuale con Pavarotti, sulle note del Miserere, ma ha paura della reazione del pubblico «perché non so come la prenderebbe». 13-14/11 Palalottomatica - Ex Palaeur Info c Info 06 79845959 H 21.30 EDITORS Si chiama Smith, come Robert. Per lui The End Has A Start. Vero, se Start vuol dire primo posto nelle classifiche UK. Dopo aver incantato e sedotto l’intera platea milanese ad aprile, Lisa Gerrard, cantante musicista e compositrice australiana, ex Dead Can Dance, voce unica e inconfondibile, ultraterrena e senza tempo, torna a Roma il 6 novembre a seguito della pubblicazione di The Best of Lisa Gerrard, che ripercorre gran parte della sua carriera. Difficile non restare completamente ammaliati dal fascino della Gerrard: volto d’angelo, voce carezzevole che sfiora l’infinito e tanta musicalità nell’anima. Dopo i lunghi studi di canto classico iniziati da bambina, l’ex Dead Can Dance ha proseguito con passione e dedizione la sua ricerca musicale attingendo con il tempo ad influenze tra loro lontanissime che l’hanno portata ad esprimersi in un linguaggio talvolta inventato o ad utilizzare lingue antiche come il latino, il gaelico e l’aramaico. Questa apertura all’universalità le ha permesso di spaziare dal gotico degli esordi alla world music, dalla new age alla musica sacra fino a dedicarsi magistralmente alla composizione di colonne sonore per cui ha ottenuto diversi importanti riconoscimenti. Dopo la lunga ed intensa parentesi cominciata nel 1981 con i Dead Can Dance (una delle band più influenti della corrente gotica degli anni 80 insieme a Bauhaus, The Cure, Joy Division, Siouxie and the Banshees, Sisters of Mercy), la Gerrard intraprende la carriera solistica nel 1995 guadagnandosi l’attenzione di un pubblico certamente meno di nicchia. L’estetica prettamente dark degli esordi viene infatti con il tempo contaminata dalle diverse culture con cui la musicista australiana entra in contatto ma la forte attitudine mistica di Lisa rimarrà senza dubbio una costante. Dopo Mirror Pool, il suo primo album da solista, la Gerrard pubblica Duality nel 1988, lavoro che sancisce l’inizio di un’importante collaborazione con Peter Bourke, uno fra i maggiori compositori attuali di colonne sonore. Insieme a Bourke firma infatti le musiche di Insider - Dietro la verità e Alì (premiati per due Golden Globe) e insieme a Hans Zimmer quelle de Il Gladiatore (2000), con cui vince un Golden Globe e riceve una nomination per il premio Oscar. Questi riconoscimenti faranno si che Ennio Morricone la voglia con sé per realizzare le musiche di Fateless (2006). Lisa Gerrard incarna alla perfezione l’attitudine del musicista contemporaneo autentico che, nello scenario multimediale e frenetico dei nostri giorni, dove il concetto di «nuovo» è in perenne transizione e riscrittura, non può più essere legato all’idea di «genere» musicale ma può soltanto reinventarsi e sperimentare. Ha senso ancora oggi parlare di rock, jazz o blues? O forse si può solo imitarli, guardare indietro, al vecchio e rielaborarli? Bisognerebbe allora usare un’altra prospettiva, quello della colonna sonora, divenuta oramai elemento imprescindibile che accompagna ogni piccolo istante della vita, sempre e ovunque. Questo articolo è stato scritto tutto di un fiato da Valentina Giosa. 36 a 4O apitanati da Ed Wynne, chitarrista e mente del gruppo, gli Ozric Tentacles (denominazione che viene fuori da una rosa di fantasiosi nomi per un’ipotetica marca di cereali psichedelici per la prima colazione), nascono nel 1983 e si ritagliano una sempre più numerosa fetta di pubblico grazie a uno stile accattivante che fonde psichedelia, elettronica, riff di chitarra hard rock, un basso prettamente funky e sonorità spesso etniche, arabeggianti o ambient. Gli Ozric Tentacles hanno affrontato negli anni molteplici cambi di formazione, in cui l’unica costante è rappresentata proprio da Ed Wynne. Pungent Effulgent è stata la loro prima registrazione ufficialmente distribuita da un’etichetta discografica nel 1989. Fino ad allora infatti, nessuno dei loro lavori aveva ancora visto la distribuzione ufficiale e il gruppo disponeva solo di nastri autoprodotti durante le numerosissime esibizioni live. Divenuti oramai leggenda dell’underground inglese, ad oggi gli Ozric hanno inciso ben 20 album. Attualmente sono in studio per registrare il loro nuovo album. 2 /11 Stazione Birra Ppop&rock OPCK 199128800 H 21 30-55 Porcupine Tree a prog-rock band inglese Porcupine Tree torna in Italia per promuovere con un nuovo tour l’ultimo album, Fear Of A Blank Planet. Primo appuntamento al Teatro Tendastrisce di Roma, mentre il bis sarà concesso a Milano. È una storia curiosa quella della formazione britannica che, partendo dalla passione comune per le sonorità psichedeliche dei primi Pink Floyd e il progressive di Yes, King Crimson, Genesis, e passando per il grunge che tanto ispirerà Steven Wilson, (autore di tutti i brani perlomeno fino all’ uscita di Stupid Dream - 1999), è riuscita a creare una sorta «space-progressive». Semi-sconosciuti in patria, dove si trovano a «subire» il primato di gruppi assai meno originali, come Oasis, Prodigy e compagnia, i Porcupine Tree trovano successo in Italia, in in particolare a Roma, dove anche grazie alla promozione dell’emittente Radio Rock, sono riusciti a creare una nutrita colonia di fan. I Porcupine Tree avranno uno special guest d’eccezione: gli Anathema, deliziosa band di Liverpool che riesce a fondere melodie eleganti e sonorità piu’ aggressive. L 17/11 Teatro Tendastrisce Info 06 45496305 349 6692455 H 20 31.05 EDITORS Italia per due imperdibili date gli Editors, considerati tra i migliori gruppi della scena neo-wave britannica. Il quartetto di Birmingham sarà a Roma e a Bologna per presentare il nuovo e già acclamato An End Has A Start. Tom Smith (chitarra e voce), Chris Urbanowicz (chitarra), Ed Lay (batteria) e Russell Leetch (basso) si conoscono all’Università di Stafford, vicino Birmingham. Nel 2003 danno vita agli Editors, nel 2004 firmano il loro primo contratto discografico con l’etichetta indipendente Kitchenware e l’anno successivo dopo un intenso tour in madrepatria, pubblicano in tiratura limitata il singolo di debutto Bullett, esaurito in un solo giorno che anticiperà l’uscita di dell’album di debutto The Back Room, disco di platino in UK. An End Has A Start affonda le radici nel post-punk e nella new-wave inglese più oscura ed emotiva, ma non si tratta di un lavoro completamente dark, come sottolinea il leader Tom Smith, perché esso è anche il frutto di due anni di tour, due anni frenetici e eccitanti spesi in mille posti diversi tra persone di ogni tipo. E l’energia di quel periodo si riversa inevitabilmente sui brani che compongono questo secondo album. An End Has A Start ha scalato le classifiche inglesi e ha raggiunto il primo posto subito dopo l’uscita. 21/11 Piper in Info 06 8555398 — 347 0928416 18 euro+d.p. EAND DGBACK E a cura di CORINNA NICOLINI Music In Ottobre Novembre 007 NERVOSO CABARET Urlacci KONONO N. 1 Non un nuovo BLUEBEATERS Sono quelli di Palma, punk, chitarre metal, groove no- profumo, ma il ritmo selvaggio quelli che portano a spasso un cane e i ritmi wave e fiati jazzistici della gente povera del Congo dei negri portoricani di New York KONONO N. 1, LA SAVANA RODRIGO & GABRIELA odrigo e Gabriela, ovvero Messico e Irlanda andata e ritorno. Questo duo di chitarristi inizia a collaborare in molti progetti di natura Metal tra cui i Tierra Acida. Spinto dall’esigenza di nuove sonorità parte per l’Irlanda e approda a Dublino dove ha l’onore di aprire i concerti di Damien Rice. Lì parte la carriera musicale vera e propria che li fa registrare l’album d’esordio Re-Foc e soprattutto il secondo, Tamacun. Sotto la supervisione prestigiosa e sapiente del produttore John Leckie (Stone Roses, Verve, Radiohead, Kula Shaker), Rodrigo e Gabriela tirano fuori un disco unico. Nasce un suono in cui si mischia la tradizione messicana, simbolo di melodia e calma, con la frenesia del mondo moderno. Le chitarre di Rodrigo sono la parte virtuosa del lavoro e sono valorizzate dal tappeto ritmico di Gabriela, che prende in prestito l’ossatura del flamenco ma la attualizza in un approccio più rock. La parte live di questo strano duo è la più forte e sembra che l’apice di questo viaggio tra Messico e Irlanda sia la rivisitazione di “Starway to Heaven”, a dimostrazione che i due non hanno dimenticato il loro passato metal. Chiunque sia interessato alla fusione degli estremi non può perdersi Rodrigo y Gabriela. 22/11 Stazione della Birra R D rista prendendo le sembianze del rock. Sul palco è tutta una festa. Si suona, si balla, si canta, si crea, ci si reinventa con un entusiasmo quasi adolescenziale. Si assiste rapiti alla stralunata Kule Kule. Ci si diverte con Masikuku e ci si lascia travolgere da Ungundi Wele Wele mentre i percussionisti eccitati si uniscono alle voci del gruppo. Quando un progetto vale davvero può partire anche dalle terre più antiche e lontane ma riesce ad arrivare. La stampa di tutto il mondo ha subìto il fascino di Konono n.1 e ha tessuto le sue lodi. Il BB3 World Music Award 2007 li ha eletti vincitori. Persino un’artista del calibro di Bjork li ha voluti ospitare nel brano Hope, dell’album Volta. E l’Orchestra di Piazza Vittorio ha dato loro appuntamento in alcune date del suo tour. Portano in giro la musica della gente più povera della terra. E anche se sotto le loro scarpe non c’è più la sabbia fangosa del Terzo Mondo assistendo ai loro live si riesce quasi a sentirla addosso. CORINNA NICOLINI Dalla savana alla metropoli, portano in giro la musica della gente più povera della terra alla savana alla metropoli congolese Kinshasa fino ai palchi prestigiosi di tutto il mondo. Questo il viaggio di Konono n. 1, il gruppo di apertura di Meet in Town, la rassegna che tutti gli anni porta nelle sale prestigiose dell’Auditorium i nomi più importanti della scena elettronica mondiale. Una musica dai sapori rurali e urbani. Una contaminazione che sa di storia, la storia dell’Africa. Quella terra che oggi ricorda un po’ le descrizioni della Londra di Charles Dickens o le città francesi di Emile Zola e nella quale il ritmo della musica non ha mai smesso di battere. Ma neanche le forme più pure dell’arte possono sfuggire all’evoluzione e all’industrializzazione. Sarà un male? Forse no. E un live di Konono n.1 ce lo sa dimostrare. Il progetto nasce da Mingiedi, un virtuoso del likembé, strumento tradizionale africano, composto da lamelle metalliche fissate ad una cassa risonante. Si sa, la musica ha per natura una fun- zione sociale e per perseguirla deve parlare il linguaggio del suo popolo. Per questa ragione quella che può definirsi un’orchestra di ispirazione tradizionale ha dovuto elettrificare i propri strumenti e adeguarsi ad una comunità ormai fortemente urbanizzata. E lo ha fatto mischiando sapientemente alla fantasia e alla cultura ogni tipo di materiale di recupero. È così che i tre likembè che compongono il gruppo si elettrificano e il loro suono si propaga grazie all’aiuto di microfoni costruiti con vecchi magneti di automobili. Tre voci calde si appoggiano su percussioni tradizionali che tengono il tempo intrecciandosi a casse fatte di scarti industriali e meccanici. Tre ballerini si muovono in una danza primordiale e coinvolgente sulle note diffuse da un sound system dotato di grandi megafoni risalenti all’epoca coloniale. Un’atmosfera ipnotica fa da sfondo così ad un groove che scuote. I ritmi africani si lasciano attraversare dall’elettronica più estrema e rumo- BLUEBEATERS E IL BOOGALOO DEI NUYORICANS INTERVISTA A FERDI IL BATTERISTA STEFANO CUZZOCREA T NERVOUS CABARET sound per una band è tutto. È la propria anima, il proprio segno distintivo. Lo sanno bene i Nervous Cabaret che trasferiscono nel loro suono il Melting Pot tipico di Brooklyn. Elys Khan, frontman e leader del progetto, butta nel calderone della sua musica melodie tradizionali pakistane, urlacci punk, chitarre metal, groove no-wave e fiati jazzistici come se fosse il più normale dei procedimenti artistici. Il risultato è stupefacente. I Nervous sono fondamentalmente un collettivo aperto in cui entrano ed escono liberamente musicisti che spesso hanno già progetti propri in parallelo ma sentono l'esigenza di apportare qualcosa. Citare la lineup attuale è simbolico della loro filosofia e del viaggio musicale che si affronta ad un loro concerto. Non uno ma due batteristi (Brian Geltner e Greg Wiz), un basso elettrico (Matt Moranti), un coronet (Fred Wright), un sax baritono (Don Undeen) e ovviamente voce e chitarra acustica (Elys Khan). Aggiungiamo che ognuno di loro utilizza nel live svariati oggetti che producono differenti e inconsueti suoni. Si prevede mare mosso al Circolo degli Artisti. 15/11 Circolo il Degli Artisti ornano i BlueBeaters. Giuliano Palma e la sua band pubblicheranno il loro nuovo disco a metà ottobre, terzo album ufficiale del gruppo se si esclude quello realizzato dal vivo, e uscirà ancora una volta per l’etichetta V2. Il sound è sempre caratterizzato da una rilettura in chiave bluebeat di canzoni già edite. La curiosità è troppa. Abbiamo incontrato Ferdi, il batterista dei B.B., per capire meglio come sarà Boogaloo. Il boogaloo è un genere fatto di soul e r&b impregnati di ritmi latini, il vostro suono ha preso un’altra direzione? In realtà il genere è sempre quello. Solo che il boogaloo, ovvero un misto di generi portato dai neri portoricani a New York, mischia anche il rythm&blues e il rock&roll al mambo e al calipso, inventandosi una soluzione ritmica meticcia, come quella dello ska, ma ancora più colorita. Noi abbiamo un approccio che resta legato alla musica giamaicana, ma adesso ci abbiamo aggiunto anche un’altra prospettiva, mischiandoci ancora qualcos’altro. I pezzi sono comunque arrangiati alla nostra maniera, la base è sempre ska e rocksteady, anzi il loro lato più nostalgico: il bluebeat. Come nasce il nuovo album? Abbiamo iniziato a pensare al disco subito dopo il tour. A gennaio ci siamo presi una pausa dai palchi, quindi abbiamo deciso di chiuderci in studio per preparare i nuovi brani. Siamo partiti con dei provini, con calma, con un po’più di tempo rispetto al solito; in genere i nostri pezzi nascevano direttamente sul palco, per The Album e Long Playing è stato così. Questa volta la preparazione è stata più lunga. Abbiamo avuto un bel po’ di tempo in più per pensare a come rapportarci ai brani che sono entrati a far parte del nostro repertorio. In realtà, poi, sia le cose fatte di fretta che quelle registrate con più preparazione, come è successo per il nuovo disco, si assomigliano, nel senso che la nostra attitudine musicale è sempre quella. Naturalmente questa volta il fonico ha potuto lavorarci meglio, ha avuto un ruolo meno marginale, come la produzione del resto, a cui si sono dedicati Giuliano Palma e Fabio Merigo. Il nostro suono adesso è ancora meno grezzo, più pop. Possiamo definire Boogaloo un disco più radiofonico dei precedenti. Nel disco, insolitamente, c’è anche un brano scritto da voi... C’è un pezzo strumentale. È il pezzo più boogaloo del disco, si ispira a quell’atmosfera portoricana di New York in atto nei tardi anni Sessanta. Il cantato resta un elemento marginale del brano, c’è solo qualche linea di voce. The Marvin Boogaloo è una traccia originale, registrata in una sola mattinata, abbiamo deciso di tenerla perché ci è piaciuta da subito. Del resto, va a coprire anche un vuoto, nel senso che nei dischi precedenti avevamo incluso più pezzi strumentali, questa volta avevamo già troppo materiale per farlo, quindi una composizione di questo tipo, addirittura nostra, era in linea con le prerogative degli album precedenti ed è risultata azzeccata. Music In EAND DGBACK E Ottobre Novembre 007 ONE LOVE HI PAWA L’intervista a DIDATTICA Il Saint Louis apre il MYSPACE GENERATION Sono quelli che DJ Miss Kittin, Duccio, uno dei Dj che animano la scena 32esimo anno accademico a più di 1400 conquistano le dita oltre che il cuore. Anche in soft-fetish electroclash reggae italo-romana allievi e li avvia alla professione artistica Albania. Quelli tipo Luca Bussoletti SAINT LOUIS TRENTADUESIMO ATTO R s arà un inverno caldo. Meteorologi a parte, ci penserà il reggae ad alzare la temperature. Un’altra stagione infuocata della rassegna intitolata Top A Top ha già aperto i battenti, ancora una volta al Brancaleone. Il giovedì romano continua a suonare in levare, affidando la consolle a One Love Hi Pawa. «Eravamo un gruppo di persone che amavano la musica reggae e, nei primi anni Novanta, ci trovavamo nel circuito dei centri sociali ed è qui che abbiamo organizzato le prime feste. Con il quartiere San Lorenzo di contorno, il 32 come punto di ritrovo, Radio Onda Rossa per colonna sonora e le serate chiamate Tortuga al Forte Prenestino quale nostro punto di partenza. Era il periodo delle Posse e usciva una cassetta autoprodotta, in cui alcuni di noi cantavano in italiano sulle strumentali giamaicane. Avevamo un sogno: costruire un impianto come nella tradizione della musica giamaicana», ci racconta Duccio, uno dei dj di O.L.H.P. Ne è passato di tempo da allora, oggi la loro prospettiva ha già fatto tanta strada, come ci spiegano loro stessi: «Abbiamo costruito quell’impianto, già da un po’, e continuiamo ad occuparci di musica reggae, la diffondiamo in vari modi, e abbiamo diverse attività legate a questo ambito: c’è il nostro negozio, aperto qui a Roma nel novantasei, in cui vendiamo dischi. Ci occupiamo di distribuzione di vinili e cd tramite una nostra apposita società in Giamaica, creata lì tre anni dopo il negozio. Abbiamo una piccola etichetta discografica con cui produciamo reggae italiano e internazionale. Poi, c’è la nostra attività di sound system che ci porta a suonare in giro per il mondo». Tra Asia, America e Europa, isole comprese, One Love Hi Pawa riesce ancora fare una tappa settimanale a Monte Sacro ogni giovedì. La rassegna intitolata Top A Top è un nodo tra Italia e Giamaica, in cui suonano ospiti provenienti da ogni parte del mondo, ma legati ad un minimo comune denominatore: il reggae. Brancaleone significherà Rufino e Bonifax, Black Scorpio, i giapponesi Mighty Grownd, gli africani Sciasciamani, Alborosie, Perfect. Un programma rovente. Un sound che brucia di passione per il reggae. Sarà un inverno molto caldo. Non c’è dubbio. (Stefano Cuzzocrea) iapre il sipario del Saint Louis College Of Music, che dal 1976 offre a più di 1400 allievi corsi di diploma per tutti gli strumenti, con possibilità di specializzazione jazz, rock e blues. Una vera e propria fucina di giovani talenti e nuove proposte che si realizzano professionalmente negli anni anche attraverso la partecipazione a Festival come Umbria Jazz o Villa Celimontana, o rassegne di musica leggera come il Festival di Sanremo o il premio Tenco. Un dipartimento del Saint Louis è interamente dedicato alla promozione di giovani artisti sul territorio nazionale: formazione musicale professionale, produzione e pubblicazione di Cd originali e agenzia artistica per i nuovi talenti costituiscono un collaudato iter di avviamento alla professione, aldilà di falsi miti e pseudoscuole televisive che declassano una seria professione (quella didattica) a un mero e superficiale spettacolo circense. Meritano menzione alcuni corsi particolari come il diploma di Composizione e Musica da Film, con il M° Gianluca Podio e il M° Ferdinando Nazzaro, un quinquennio di studi di armonia, contrappunto, composizione su computer e orchestrazione con un taglio moderno e finalizzato all’inserimento in un contesto lavorativo. Notevoli sbocchi professionali offre il corso biennale di Tecnico del Suono, un mestiere indispensabile in un mondo sempre più multimediale, oltr il 60 per cento dei diplomati trova lavoro nei due anni successivi presso studi di registrazione, auditorium, studi televisivi o radiofonici. Fra i nuovi insegnanti che arricchiranno da questo anno accademico il già nutrito corpo docenti formato da 74 professionisti troviamo il trombettista Andy Gravish, il percussionista Giovanni Imparato, il batterista Agostino Marangolo che si occuperà del ruolo del batterista in studio di registrazione, il chitarrista gipsy-jazz Salvatore Russo e un rientro importante, Amedeo Tommasi, pianista e compositore che torna ora con un moderno corso di Analisi e riar- monizzazione degli standard Jazz. È stato appena avviato per la prima volta in Italia il corso di diploma in vibrafono jazz, con il M° Andrea Biondi, da diversi anni vibrafonista dell’orchestra di Ennio Morricone. Per chiudere le ultime due novità riguardano l’introduzione di una specializzazione di diploma in Arrangiamento e Song-writing, un campo prezioso mai esplorato che apre nuove strade professionali nel mondo della musica leggera d’autore e il corso di musical con M° Maria Grazia Fontana. Il Saint Louis conferma la propria identità, ormai punto di riferimento per la didattica in Italia, una struttura che ogni anno si rinnova, si aggiorna in base alle esigenze del mercato professionale proiettandosi con fermezza in un contesto europeo senza però perdere la propria caratteristica fondamentale, il rapporto umano, professionale e didattico che si crea con e fra gli allievi. Non a caso è la prima ed unica in Italia ad aver conseguito la presa d’atto del Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca e ad essere accreditata e autorizzata per i corsi di formazione professionale riconosciuti nella Comunità Europea. ITALIANI A TIRANA R itorna Salento Musica E Parole, l’evento che offrirà il palcoscenico a cinque cantautori della cosidetta My-Space Generation: Luca Bussoletti (nella foto), Roberto Casalino ed i salentini NicCo Verrienti, Ka Bizzarro e Giulia Led. Un cast importante ed una novità. Oltre alla serata del 14 ottobre nel centro storico di Lecce presso il Road 66, Notas Music Factory esporta il talento italiano nella vicina Albania. Questi giovani artisti, veri e propri fenomeni in internet, registrano migliaia di contatti nei loro «space» e girano in lungo ed in largo la nazione. Notas Music Factory, con il supporto dell’Imaie che ha creduto fortemente nell’iniziativa, ha portato questo collettivo di cantautori a Tirana per un concerto-evento il 12 ottobre in un Palazzetto dei Congressi che si preannuncia già tutto esaurito. Ubix Rock il BONDE DO ROLE l mondo dell'elettronica fa dell'innovazione e della ricerca il proprio fine supremo. A volte, però, la ricerca si spinge così in avanti da tornare indietro fino alle nostre origini. È il caso curioso e riuscitissimo dei brasiliani Bonde Do Role, che mischiano la loro musica tradizionale con la dance e l'elettronica più accattivante. Il terzetto proviene dal sud del loro paese, Curtiba, e il loro nome, che dal portoghese si traduce in “crew del Role”, cita il bar in cui si sono formati sia come band che come ragazzi di strada. Ma di strada ne hanno fatta tanta: possono vantare, infatti, di essere stati scoperti da Diplo, uno tra i nomi più potenti della musica elettronica a stelle e strisce. Proprio per la sua etichetta, la Mad Decent, è uscito il loro primo album ufficiale intitolato “Bonde Do Role With Laser”. La serata al Circolo degli Artisti si prevede calda e movimentata. Non a caso i Bonde Do Role sono definiti dalla critica i re del Baile-Funk e chiunque sia stato ad un loro live giura che si tratta di un'esperienza quasi tattile. I 29/10 Circolo Degli Artisti freepress Ubix organizza una festa Rock in cui si esibiranno quattro tra le band più importanti del settore. Domenica 11 novembre al Jailbreak ci saranno gli Endorphyn, i This Void Inside, i Glassmode e soprattutto i Belladonna. Questi ultimi sono la band italiana numero uno su Myspace dove stanno collezionando numeri impressionanti: 300 mila visite alla loro pagina e oltre 53 mila fan registrati. I ragazzi sono di Roma ma la loro musica li ha portati ad oltrepassare spesso i confini italiani. Il 23, 24 e 25 novembre per esempio saranno a Londra per suonare al prestigiosissimo festival Erotika in apertura allo show della controversa spogliarellista Dita Von Teese di fama mondiale. Il loro ultimo video, Mystical Elisian Love, è stato girato interamente a Berlino ed è soprattutto negli Stati Uniti che si trovano i loro fan. Il concerto avrà un ingresso di 5 euro e si prospetta come una lunga marcia di due ore di puro rock energico a spasso tra la sensualità del genere e l’atmosfera gotica che aleggerà in tutta la sala. MISS KITTIN dj donna vanno molto di moda, sono cool. Questo però non significa che siano tutte uguali e con lo stesso spessore artistico. C'è chi si è buttata nel trend improvvisandosi e chi è una vera e propria stella. La francese Miss Kittin appartiene alla seconda categoria, forse anche perché ha iniziato la sua attività a metà degli anni Novanta quando, a fare le dj, di donne non c'erano. Al secolo Caroline Hervè, oggi trentunenne, svolta la sua carriera incontrando Michel Amato, alias The Hacker, che la porta al successo e a grandi collaborazioni con nomi del calibro di Felix Da Housecat, Detroit Grand Pubhas, Sven Vath e Golden Boy. Miss Kittin è una delle regine incontrastate del club-culture internazionale. Il suo è un genere che è stato definito electro-clash, cioè la rivisitazione degli anni Ottanta in chiave techno-d'n'b, e parte del successo è dovuto proprio ai live in cui spicca, sotto ai ritmi incalzanti, la sua immagine soft-fetish che la rende inconfondibile. 27/10 Brancaleone le J A&ZbluZes a cura di ROSSELLA GAUDENZI Music In Ottobre Novembre 2007 BACALOV: DEL CINEMA, DEL CASO E DELLA NOIA LUIS BACALOV L’intervista al mostro sacro argentino. Ma anche un po’ romano. MAX ROACH Il re delle bacchette passa in cavalleria. Muore e i media italiani se lo scordano. Luis Enriques Bacalov, quello del Postino, che ha consegnato al mondo colonne sonore, jazz e tango, è diventato quello che è oggi per puro caso, dice, senza fatica. Ma col grande istinto di un innamorato L uis Enriquez Bacalov: inseriamo su un qualsiasi motore di ricerca queste due parole chiave e si apriranno migliaia di pagine a soddisfare le nostre curiosità sulla biografia di uno dei maggiori pianisti, compositori, direttori dorchestra, maestri del tango contemporaneo di tutti i tempi. Che immediatamente la nostra memoria collega alla celeberrima vittoria dell’Oscar come miglior colonna sonora del ‘94 del film Il Postino. Questo mostro sacro della musica non nasce esattamente a Buenos Aires, bensì in una sorta di periferia che lui stesso paragona alla banlieu parigina, quartieri al di fuori del raccordo della magalopoli argentina, il 30 agosto del 1933. A casa si vuole che studi il pianoforte, e Luis lo fa talmente bene da far poi ricadere su di sé la pretesa di diventare un pianista classico di professione. A questo punto non ci sta. E dato che il suo animo argentino fa sì che abbia una propensione connaturata per la musica a trecentosessanta gradi, e non solo per un determinato modo di far musica che lo inchiodi allo studio accademico fino allo sfinimento e all’alienazione - questo avrebbe significato per lui diventare un pianista classico si è fatto guidare da un istinto che lo ha portato nella nostra Europa. Anni Cinquanta: trascorre tre o quattro anni a Parigi. Dopodiché approda nella Città Eterna nella quale vive ormai da oltre quarantanni. Perché Roma? Non ci sono sentimentalismi alla base di questa scelta. Ma il caso, elemento talmente ricorrente nella vita di Luis Bacalov da poterlo considerare un suo tratto distintivo. Si trovava allora a Parigi, studiava composizione e suonava musica leggera per vivere; un amico, can- tante venezuelano, gli parla di un contratto trimestrale molto ben pagato per andare a suonare a Roma. È estate, l’idea può essere allettante quando puoi lavorare e contemporaneamente far trascorrere delle vacanze fuori dall’usuale a tua moglie e ai tuoi due bambini, quindi si accetta con entusiasmo, e la villeggiatura si prospetta suddivisa tra Capri, Rimini e Roma. A fine settembre si sta per chiudere la parentesi dell’esperienza musicale italiana. Quando, il giorno prima di rientrare in Francia, un musicista conosciuto a Roma chiede a Luis di fare un provino per un artista già noto all’epoca: Claudio Villa. Quel giorno non avevo realmente nulla da fare. Le valige erano pronte. Attendevo la partenza, dovevo in qualche modo ammazzare la noia. Inutile dire che il provino sia andato straordinariamente bene, e che per la famiglia Bacalov si prospetta la possibilità di una vita maggiormente agiata, perché il compenso di 30 mila lire al giorno, a fine anni Cinquanta, è realmente un compenso da capogiro. C’è un clima perfetto in Italia, in quegli anni. Dobbiamo fare uno sforzo di immaginazione per ricrearla, l’Italia del boom economico e della ricrescita degli anni tra la fine dei Cinquanta e i primi dei Sessanta; eppure la scelta di rimanere viene fatta anche in base ad un confronto con una Francia impegnata nella guerra in Algeria che sta divenendo sempre più xenofoba. Roma ha l’aspetto di una piccola città di provincia, se confrontata con la cosmopolita, imperialistica ed arrogante Parigi. E quale spazio dedica alla musica la Roma di quegli anni? Sebbene attiva in misura inferiore rispetto ad una città come Milano, e sebbene nei quartieri centrali dopo le ore 23 ci fosse il nulla, quasi un vero e proprio coprifuoco, la realtà musicale romana era in fermento e soprattutto si capiva che era in crescita. Il jazz negli anni Sessanta era vitale, me lo testimoniava Gato Barbieri, del quale ero molto amico. Ma per Luis Bacalov è ormai giunto il tempo dellincontro con il cinema. Egli ha avuto la fortuna di scrivere musica da film quando il cinema italiano era il cinema, avendo il privilegio di conoscere e lavorare con i migliori registi di tutti i tempi: Pierpaolo Pasolini, Federico Fellini, Elio Petri, Ettore Scola, Francesco Rosi, Damiano Damiani. Egli stesso lo definisce un momento artisticamente non più ripetibile. Un elemento di grande dinamismo, a quei tempi, era rappresentato dalla forza del Pci: l’80 per cento dei cineasti era di sinistra, di cui il 50 per cento comunisti; la fine del grande sogno e la caduta del muro di Berlino ha causato la fine della spinta creativa ed ha portato un profondo senso di smarrimento nella vita di molti. Tutto da allora è un po più tiepido, edulcorato. Tra le ultime fatiche, in qualità di compositore di musiche da film, Luis Bacalov può vantare il contributo ad un film solido, sostanzioso: Hotel Meina di Carlo Lizzani, che narra la prima strage di ebrei in Italia presso Baveno da parte delle SS. Film fuori concorso a Venezia, che ha ricevuto una ovazione in piena regola, dieci minuti ininterrotti di applausi. Parallelamente il lavoro per la televisione: uscirà a breve per la Rai un film in due puntate sulla vita di Caravaggio. Forse il miglior lavoro televisivo che abbia fatto in vita mia. Tra i musicisti grandi autori di colonne sonore, ha parole di forte stima e ammirazione per Ennio Morricone, che conosce da quando ha iniziato a lavorare per la Rca. Nonostante si frequentino poco, è un amico ed un maestro, avendogli fatto capire come funzionino i meccanismi della creazione musicale per il cinema. Tra i giovani, è probabilmente Piovani il compositore che più degli altri ha arricchito validamente il panorama delle colonne sonore. Due parole sul tango, altra grande passione. Si potrebbe dire che l’amore per il tango gli argentini ce l’hanno nel sangue, eppure per Bacalov è sopraggiunto in età adulta, verso i quarantacinque anni; ha scritto due opere di tango e al momento lavora ad un quartetto insieme a Giovanni Tommaso. Preferisce ribadire che gli argentini sono musicalmente onnivori. Hanno la capacità di spaziare senza rimanere ancorati a binari fissi; chissà che proprio grazie a questa visione della vita, la sorte non abbia voluto tendergli la mano. Nella mia vita professionale, tutto, ma proprio tutto, è avvenuto per caso. È stato il destino a venirmi a bussare. Non cè stata fatica, mi sono sempre trovato al posto giusto nel momento giusto. ROSSELLA GAUDENZI I BRADIPI SIAMESI E ALTRE STORIE M Max Roach muore e i media lo ammazzano ax Roach è morto a New York il 16 agosto a 83 anni. Mi scuseranno i lettori il fatto personale: l’ho appreso mentre ero in Francia, la radio nazionale ha dato l’informazione in apertura del notiziario, la tv idem. La famiglia della quale ero ospite, non straordinariamente edotta in fatto di cultura musicale, lo conosceva bene, almeno di nome. Da noi, le agenzie di stampa hanno battuto la notizia di rimbalzo in modo piuttosto sciatto. I guru del giornalismo musicale italiota, i soliti noti, forse fiaccati dal sole agostano e vacanziero si sono limitati a tradurre e a far collage dei pezzi dei loro ben più bravi e informati colleghi stranieri (leggi l’Independent, come il New York Times, come El Paìs, e potremmo continuare). I tiggì nazionali, che pure beneficiano in agosto della pausa della politica per dispensarci trite notizie su come idratarci dopo il mare, sulle dosi di frutta e verdura da ingurgitare, sulla curiosa storia dei cuccioli di bradipo siamesi nati in Indonesia, hanno ignorato del tutto la notizia della scomparsa di un gigante della musica, prima ancora che del jazz. Perché? Ma Max Roach non ha sempre riempito i teatri di tutta Europa, Italia compresa, ogni volta che si è affacciato per regalarci la sua musica? È o non è unanimemente riconosciuto dalla sedicente critica come una pietra miliare del jazz (cioè della più vitale e innovativa musica del Novecento), cofondatore dell’hard bop, rivoluzionario per eccellenza nel drumming e innovatore dell’impianto ritmico jazzistico? Quindi, più che da un necrologio - e quando si parla di arte non ci piace parlare di morte - è per una volta forse il caso di iniziare a parlare di un grande che scompare a partire dal silenzio delle idee, dalla desertificazione culturale che sempre più dilaga nei media nostrani che pretendono di informarci, dalla dolosa ignoranza editoriale che si abbatte su tutto ciò cui non è ricondotta una funzione economicamente produttiva immediatamente evidente (pensare costa fatica). La carriera lunghissima di Maxwell Roach inizia al fianco di Bird nei locali della 52a strada a NYC ed ha attraversato da protagonista cinquant’anni di musica afroamericana; una carriera che non ha snobbato incursioni nelle nuove tendenze hip hop e in avanguardistici progetti multimediali nel corso degli anni Ottanta. Sarebbe, peraltro, ingrato voler identificare una tappa piuttosto che un’altra come più significativa di un artista che ebbe modo di dichiarare, a proposito della propria visione musicale: «Non si può scrivere lo stesso libro due volte. Nonostante io abbia partecipato a situazioni musicali storiche, non potrei tornare indietro e farlo di nuovo. Penso di andare da una crisi artistica ad un’altra e questo mantiene la mia vita interessante». Ciò che non si può però ignorare è la nuova concezione con la quale egli intese, nel contesto di un ensamble musicale, la batteria, la cui funzione trasformò da subordinata a melodico solista, a funzione organica e lirica sempre al servizio della musica prodotta. Attentissimo all’armonia e allo sviluppo del linguaggio musicale, Roach diede uno statuto autonomo alla batteria in grado di dialogare con gli altri strumenti conferendo loro una forza e una «spinta» nella fase improvvisativa straordinariamente rilevante. Da allora il bop, meglio il be bop suonato da Gillespie e Parker, non fu più lo stesso. Si riempì di uno swing nuovo ed aggressivo (che un’etichetta contestata battezzò hard bop) in cui confluirono gli elementi ritmici più propri del funk, del rhythm and blues e del soul, unitamente al ricorso ai tempi dispari e al largo uso di poliritmie in grado di muovere le intere fondamenta armoniche dell’esecuzione. Ma la musica si ascolta e sa comunicare emozionando, per cui il consiglio non può essere se non quello di prendere qualcuna delle registrazioni storiche di Roach (Birth Of The Cool di Davis, tutte le registrazioni con lo storico quintetto con Clifford Brown, We insist! Freedom Now Suite, Drums Unlimited, ad esempio), e capire perché con l’hard bop il jazz tornò a essere musica da ballo, sempre presente nei juke box di Harlem e nelle radio popolari. Quelle i cui editori capivano davvero cosa la musica popolare, meglio la musica tout court, fosse. di PAOLO ROMANO Music In J A&ZbluZes Ottobre Novembre 2007 L’EDITORIALE DI STEFANO MASTRUZZI I sottobicchieri italiani firmati da Giovanni Allevi e «DIRITMI» Movimenti che si battono per far EUROPA Cè qualcosa di più fuori l’Italia. Luigi Einaudi e il miracolo del peer-to-peer Investimenti e jazz accessibile ascoltare la musica anche al Legislatore «TOSTO» UNA LEGGE PER I MUSICISTI SOTTOBICCHIERI (SOLO) ITALIANI segue dalla prima pagina (...) D evo dire che la colonna sonora da lui composta per il film Luce Dei Miei Occhi era di per sé un discreto commento all’azione anche se basato su un unico spunto tematico per l’intero film; un po’ ripetitivo, ma almeno in quel caso c’era una storia da seguire che distraeva dalla musica. Ma la moda del momento è Giovanni Allevi che blasonate firme giornalistiche, e questo è grave, continuano a definire un grande jazzista. Questo signore non improvvisa una nota - meno male - e certamente non può essere definito un jazzista; con questo, a parte sottolineare un’erronea collocazione stilistica, non voglio certo declassare il suo lavoro solo perché non va considerato un jazzista, anzi. Molti musicisti, con la scusa di fare jazz, ci ammorbano con infinite improvvisazioni sensa senso, un fluire continuo di note che denota l’incapacità di «fermare» una melodia, di «scriverla» nel senso più creativo del termine. Da un punto di vista compositivo nei dischi di Allevi troviamo, a differenza di quello di prima, alcuni spunti originali che potrebbero e dovrebbero essere sviluppati, ma si tratta sempre di ben poche note in un mare di fragranze stucchevoli già sentite. Però ci sa fare con la gente, la affascina con i suoi monologhi e con l’aneddotica della genesi mistica dei suoi brani. E si sa che quando un pubblico non riesce a distinguere una rapsodia di Brahms dalla suoneria di un cellulare, sarà proprio quello stesso pubblico ad andare in visibilio e in lacrime quando l’artista racconterà di come una melodia sia giunta dal cielo alla sua mente attraverso l’autobus che lo portava a casa in una malinconica giornata di pioggia. E se riuscirà anche a piangere mentre esegue quella melodia dal vivo, e vi assicuro che ci riesce, sarà l’apoteosi consacrante. C’è proprio da piangere. Aldilà dei casi specifici, è sintomatico che in Italia certi fenomeni privi di spessore alcuno si impongano senza motivo; sembra di assistere all’entusiasmo di genitori e parenti che applaudono la poesia recitata dal nipotino di quattro anni, che ha da poco imparato a parlare. Ma se la musica non ce la insegnano nelle scuole, perché la scuola ne è priva dalle elementari alle superiori, se escludiamo quelli che la amano, se la studiano e se la conquistano per conto proprio, agli altri, diguni, sembrerà sempre geniale il primo cretino che suona dieci note in fila; se poi questo musico si atteggerà ad artista maledetto si griderà al miracolo e allora Pippo Baudo lo inviterà in televisione e il personaggio assurgerà immeritatamente a successi immediati. Ma provate a esportare questi fenomeni tutti italiani all’estero, perlomeno in certi paesi dove la musica la si conosce davvero e dove non è possibile bluffare troppo a lungo. «Popolo italiano, apri le orecchie e ascolta la musica, non solo quella che propone il palinsesto televisivo di prima serata o che trionfa a piene pagine sui giornali; anche i giornalisti possono sbagliare… le sale da concerto e i live club sono il posto ideale per coltivare una coscienza autonoma dell’emozione musicale». È vero che il gusto e l’esperienza personale sono il primo filtro con cui ciascuno approccia l’arte, ma c’è una sostanziale differenza fra apprezzare qualcosa che altri non gradiscono (de gustibus) e prendere un abbaglio per scarsa conoscenza in materia. Esistono tanti bluff nel campo artistico, ma è anche giusto che ci siano e che trovino spazio in un mondo intellettualmente libero; possiamo solo augurarci che un giorno abbiano esattamente la collocazione e la considerazione che meritano. Non finirò mai di ringraziare la tecnologia e l’mp3 in particolare - stasera ho potuto valutare la musica prima di comperarla -, fortunatamente in Italia la Cassazione non lo considera reato in assenza di un fine di lucro; ciò mi ha evitato un incauto acquisto di alcuni compact disc che comunque avrei potuto sempre usare come sottobicchieri. Stefano Mastruzzi La Creato un Comitato e un Manifesto per colmare il vuoto legislativo: la legge 1967 è tutta inadeguata a gestire la promozione della musica THE WILLIE DIXON SONGBOOK a non perdere questo tributo a Willie Dixon, il «gigante buono del blues» nato nel Mississippi nel lontano 1915 e scomparso nel 92. Prolifico e corpulento songwriter, oltre ad essere stato contrabbassista, poeta di strada, produttore, arrangiatore, talent scout con il quale, consapevoli o no, quando si parla di blues ci si va ad imbattere. Autore di circa 250 pezzi, tra cui Hoochie Coochie Man, My Babe, Whola Lotta Love ed altri celebri brani. Ma non è tutto: ha ispirato gruppi rock della levatura dei Cream (Spoonful), Doors (Back Door Man), Led Zeppelin (I Cant Quit You Babe). Verrà questa sera interpretato da un quartetto di casa al Big Mama: Lello Panico, Luca Trolli, Mick Brill, Franco Vinci. Lello Panico (chitarra), D Mick Brill (basso), Luca Trolli (batteria), Franco Vinci (chitarra) 10/10 Big Mama INFO 06 5812551 H 22.30 musica, pur essendo parte integrante della nostra storia e della nostra identità nazionale, è poco conosciuta e per niente praticata. Due esempi chiariscono bene questa contraddizione. La forte tradizione culturale della musica italiana, dicevamo: ho un amico tedesco che ha imparato litaliano attraverso l’Opera e per telefono mi dice: «Spero che verrai tosto a Berlino» oppure «Stasera avevo un grande desio di pizza»; d’altra parte, l’analfabetismo musicale di ritorno per noi italiani: le nostre scuole di perfezionamento musicale sembrano riservate a giapponesi e americani (scuole utili e attraenti evidentemente, ma non abbastanza per gli italiani). Da tempo alcuni professionisti del settore si sono posti questo problema: «La musica è benessere, è qualità della vita, è socializzazione, è arte, è piacere». Ed è un argomento che in Italia ha un grosso vuoto legislativo se si pensa che la legge che disciplina la materia ormai ha 40 anni. Per questo, riunitisi in un comitato, si sono fatti promotori di un Manifesto nel quale ripercorrono le aspettative del settore in materia di promozione, formazione, diffusione della musica in tutti i suoi aspetti, nonché delle condizioni di quanti vi operano. Trovato un primo riferimento politico nella Commissione politiche giovanili del Comune di Roma, il comitato sta cercando di mantenere viva una pressione democratica, sia attraverso un dibattito serrato sulle proposte di legge depositate in Parlamento, sia attraverso la mobilitazione di coloro che sono interessati, con concerti ed eventi. All’Auditorium Teresa De Sio, Avion Travel, Grazia Di Michele, Mimmo Locasciulli, l’Orchestra di Roma e del Lazio, Simone Cristicchi, Giovanna Marini hanno chiuso la Festa del Diritto alla Musica. «Le aspettative sono reali», ci dice Tonino Tosto, uno dei membri del comitato, che presto incontrerà Pietro Folena (nella foto), presidente della commissione Cultura della Camera, «perché la legge del 1967 è del tutto inadeguata a gestire la promozione della musica. Pensiamo ai fenomeni che scaturiscono dall’uso delle nuove tecnologie: da un recente sondaggio commissionato presso le biblioteche romane si è evidenziato che i giovani scaricano da Internet una quantità di musica enorme, fino a costruire archivi di files che in cd riempirebbero intere stanze. Se c’è gente che scarica musica, vuol dire che la musica è un bisogno individuale e ne va garantita l’accessibilità; bisogna considerare, però, che è anche professione per autori ed esecutori». Educazione, nuove forme di reclutamento degli insegnanti, agevolazioni fiscali, riforma della Siae e del diritto d’autore, costituzione di spazi idonei, perché, continua Tosto, «la musica non è una modalità espressiva solitaria, ma collettiva, e necessita di luoghi di condivisione»: sono queste le richieste del Comitato, che va allargando i consensi e il raggio d’azione: partito da Roma, infatti, sta preparando iniziative analoghe a Milano e Napoli, fino a coinvolgere i vari Festival musicali sparsi per la penisola. Forse si potrebbe pensare anche a un livello sovranazionale: in fondo la musica è il linguaggio più «contaminato» e un confronto con la legislazione degli altri Paesi europei a riguardo non potrebbe che rafforzarne il suo carattere universale. di NICOLA CIRILLO Brussels, la musica che smuove i fedeli GEGÉTELESFORO& GROOVINATORS ossiamo liberamente definirlo il jazz vocalist italiano più quotato ed apprezzato a livello internazionale, appassionato cultore della black music con grande capacità di spaziare tra blues, jazz, funk. Alla quale può aggiungere l’esperienza di chi con il pubblico ci sa fare, collaudata da anni ed anni divisi tra televisione, radio, palcoscenici sparsi per il mondo. Doppio concerto a Roma per presentare l’ultima fatica, l’album Love And Other Contradictions, ricco della voce dell’ottima Mia Cooper, vocalist di New Orleans e testimone di una svolta decisa, in questo disco, verso la musica nera. Una band talentuosa, i Groovinators (Bottini, Deidda, Zeppetella, Surace) scelti con cura per un repertorio di brani nuovi di forte impronta funk (da essere paragonati all’opera migliore degli Earth, Wind & Fire) e tre nuovi arrangiamenti: una splendida versione bossa nova di Rule Of Thumb di John Scofield, Here But I’m Gone di Mayfield e un’avvincente Air Mail Special di Benny Goodman. GeGè Telesforo (vocals, per- P cussioni), Mia Coopers (vocals), Max Bottini, (basso), Fabio Zeppetella (chitarra), Marcello Surace (batteria), Alfonso Deidda (pianoforte, tastiere, sax alto & soprano, vocals) 10-11/10 Casa del Jazz INFO 06 704731 15 Mentre in Italia sembra impensabile rendere accessibile il jazz al popular, nel nord Europa crescono festival competitivi che investono nella musica, destinati ad essere temibili rivali dei classici luoghi del jazz senza una lira di ROSSELLA GAUDENZI il cuore dell’Europa ama fortemente il jazz. L’ho toccato con mano quest’anno, a fine maggio, quando ho avuto la fortuna di visitare Bruxelles, assistere al concerto della Dave Matthews Band e godermi qualche appuntamento della Dodicesima Edizione della Brussels Jazz Marathon. E non è mai troppo tardi per discuterne, perché ci sono numeri che parlano ancora e inequivocabilmente chiaro: una piovosa tre giorni di concerti tra le quattro grandi piazze della città (Grand-Place, Sablon, SainteCatherine, Place Fernand Cocqplein) e una cinquantina di locali tra bar, caffè, club, alberghi. Un totale di 125 concerti, oltre 450 musicisti e più di 250 mila spettatori. Non paganti. Perché la nordica Bruxelles mostra una forte apertura nei confronti della musica e la capacità coraggiosa di sapervi investire. Il ritorno c’è: dal debutto ad oggi il pubblico è in crescita e si può ormai parlare di un evento che attira spettatori internazionali, non più soltanto europei. La scelta musicale di questa manifestazione - a ragione definita densa - è assai ampia, spaziando dal Traditional al Modern Jazz, dal Blues al Rock ai ritmi latini. Non solo: ci si muove agilmente per la città grazie agli speciali autobus che intensificano le corse; quindi si può saltellare da un capo all’altro di Bruxelles, passando da un palco all’aperto che ospita una Big Band ad un interno dove ci attende un piccolo gruppo d’avanguardia, nei tempi ragionevoli di una maratona vera e propria. L’inaugurazione dell’ultima edizione è stata affidata al vernissage della mostra Jazz Is Female di Cédric de Lièvre; a seguire tre grandi concerti sulle grandi piazze, per terminare nelle medesime piazze tre notti dopo. Questi sono dati. Ma si può, e a mio avviso si dovrebbe, parlare della bellezza della capitale belga durante la Brussels Jazz Marathon. Delle piazze strabordanti di persone che si muovono tra bianchi tavolini di plastica e gente, gente ovunque: viuzze affollate; ristoranti, bistrot, caffè zeppi; ombrelli aperti e richiusi decine di volte al giorno ad aumentare il colore di una città che non faccio fatica ad immaginare grigia e mesta per la maggior parte dell’anno. Una rassegna musicale di grande qualità può significare molto per una capitale europea che non si chiama Roma, Parigi o Londra. Se un evento nato per il pubblico di un genere musicale specifico è realmente ben confezionato, vince la sfida e diviene, con il passare degli anni, un importante appuntamento fisso, di sempre più ampio respiro. Che la musica muova masse insospettabili di fedeli è ormai fatto assodato. Che una determinata musica muova masse insospettabili di fedeli è stata una piacevolissima sorpresa. Il concerto più avvincente a cui abbia assistito è stato quello festoso della Daniel Romeos Band con Rosario Giuliani quale special guest. A Roma, il nostro artista verrà ospitato allAlexanderplatz, alla Casa del Jazz, all’Auditorium. Perché qui la musica jazz è musica jazz e sembra impensabile renderla più accessibile, da farla diventare popular. Peccato. J A&ZbluZes Music In JOE ZAWINUL Sono uno zingaro ma muoio a casa mia FUGA A TRE In tempi come questi la fuga è l’unico mezzo per mantenersi vivi JOE ZAWINUL: LO CHAGALL DELLA MUSICA Ottobre Novembre 2007 CONCERTI Arrivano anche Ribot dal New Jersey e Fonseca da Cuba BISEO-SANTJUST QUARTET l punto di forza del quartetto è rappresentato dalla presenza del clarinetto solista di Gianni Sanjust, elemento sfruttato all’insegna della raffinatezza e del pianoforte sognante di Riccardo Biseo. Il repertorio vuole proporre i classici del jazz, affidati a musicisti di fama internazionale e grande esperienza. Si può definire un concerto per tutti, con brani scelti in un ventaglio che va dagli anni Venti ad oggi, arrangiati con gusto e con quella linearità che li rende comunque riconoscibili. Gianni Sanjust (clarinetto), I Riccardo Biseo (pianoforte), Giorgio Rosciglione (contrabbasso), Lucio Turco (batteria) 20/10 Charity Caf INFO 06 47825881 H 22 TOLLAK&LELLOPANICOBLUESBAND J randi nomi. Tollak Ollestad, eccellente armonicista e pianista, è dotato di una vocalità strepitosa che ne fa un importante interprete delle sonorità blues, soul e funk, già al fianco di artisti come Al Jarreau, Billy Idol e Natalie Cole. Di casa al Big Mama, il chitarrista Lello Panico può vantare un tocco invidiabile, un’ottima tecnica ed una resa dal vivo sempre gioiosa, valorizzata da un forte feeling che lo lega al batterista Luca Trolli. Ormai collaudato, il quartetto (Tollak, Panico, Trolli e Puglisi) è garante di un concerto carico e coinvolgente. Tollak (voce, armonica, tastiere), Lello Panico g di PAOLO ROMANO oe Zawinul è morto nella sua Vienna proprio dove era nato settantacinque anni fa, il 7 luglio del 1932, dopo aver fatto del viaggio, della conoscenza delle culture etnomusicali sparse nel mondo, senza confini e pregiudizi, il proprio segno distintivo: «Sono uno zingaro da sempre - ha detto una volta -, ho avuto una vita fortunata e sono felice». Merito, forse, delle sue origini meticce che facevano confluire in lui sangue ungherese, ceco e rom, merito anche di quella Vienna così ancora fortemente mitteleuropea; fatto sta che Zawinul ha saputo, con le sue immancabili coppole coloratissime e i suoi occhi curiosi ed ironici, deviare un affluente di quel grande fiume carsico che è il jazz per dare vita al primo e più convincente esempio di musica fusion. Un’infanzia quella di Joe (all’anagrafe, Josef Erich) all’insegna di spostamenti coatti determinati dai bombardamenti della guerra, per poi finire giovanissimo talento, polistrumentista, affascinato dalla musica classica, popolare, folk e dai nuovi suoni doltreoceano - ad esibirsi nelle basi americane sparse qua e là per l’Europa (e qui, gli storici sapranno collocare l’importanza di quella presenza militare e la diffusione dei cosiddetti V-disc per l’affermazione e la diffusione del jazz nel vecchio continente). Joe non si è mai accontentato di un linguaggio convenzionale, fosse esso classico o jazzistico, sempre alla ricerca piuttosto di un canone diverso di espressività. E la storia ha riservato a questo grande il talento e la fortunata congiuntura di trovarsi al fianco di Davis al momento della lavorazione di quella pietra miliare che sarebbe diventato In A Silent Way, brano scritto dallo stesso Zawinul. Sedotto dalle potenzialità dell’elettronica applicate alla musica (e non viceversa), seppe da subito trovare una nuova coniugazione alla fusione tra rock e musica afroamericana, che consolidò nel 1971 con i suoi Weather Report fondati insieme a Wayne Shorter. Il suono delle sue tastiere diventava spesso etereo, visionario e quasi metafisico in contrasto con una ritmica potentissima ed esplosiva. Una sorta di Chagall della musica, come ha sottolineato molto acutamente il Downbeat non molto tempo fa. Mercy Mercy Mercy, Birdland, Black Market sono solo alcune tra le sue più note composizioni. La sua intuizione più importante fu probabilmente quella che per trovare nuovi suoni, nuove energie interne alla musica, non era più sufficiente ascoltare con curiosità tutta la world music, ma occorreva viaggiare e nel viaggio trovare giovani - spesso giovanissimi - musicisti che lo potessero affiancare nella scrittura, nell’arrangiamento e nell’esecuzione dei nuovi album. È in questo fermento sperimentale che nacque nel 1988 un album splendido e complesso come The Immigrants, con la formazione in continuo cambiamento dei Syndacate. Il primo tour fu un successo superiore alle aspettative e gli consentì di continuare a portare avanti il proprio laboratorio musicale. Il lavoro con lo Zawinul Syndacate si ascolta in album dai titoli più che significativi: Brown Street, Dialects, My People, fino all’ultimo Faces And Places. Quest’ultima fatica con i Syndacate, pubblicata da pochi mesi e che - per chi ha avuto la fortuna di esserci - ha presentato in uno degli ultimi concerti a Villa Celimontana a Roma lo scorso luglio, s’inserisce proprio nel solco di quest’ininterrotta ansia di ricerca. Faces And Places è il frutto - come ha raccontato lo stesso Zawinul in una lunga intervista al NYT - di un viaggio lunghissimo attraverso la Tunisia, la Nuova Caledonia, l’India e la Russia, e che riassume, in splendidi brani come Tower Of Silence o Rooftops Of Vienna, lo spirito malinconico e fresco insieme con il quale questo eterno ragazzo si è sempre rivolto con divertimento, curiosità ed umiltà alla musica e al suo mondo. c lasse 75, cubano dalla rapida ascesa, il pianista Roberto Fonseca (Robertico per i suoi conterranei) deve la sua notorietà al fortunato incontro con la band del Buena Vista Social Club e poco meno di dieci anni fa già affiancava nomi del calibro di Herbie Hancock, Wayne Shorter e Michael Brecker. All’interno del ciclo di concerti Solo dell’Auditorium, presenta Zamazu, il quarto album solista con il quale si consacra finalmente come tale. Il titolo del disco nasce da un gioco di parole della nipotina e dà efficacemente l’impronta all’opera, fondendo funky, soul e jazz. La tradizione cubana che incontra il jazz in un gioco di contrasti: calore ed improvvisazione, spiritualità e ritmi ballabili. Il tutto impreziosito dal contributo di Carlinhos Brown, Toninho Ferragutti, Vicente Amigo, Orlando Chachaíto Lopez, Manuel Guajiro Mirabal. Questa sera, a tu per tu con il pubblico dell’Auditorium. Roberto Fonseca pianoforte. 21/11 Auditorium Parco della Musica Teatro Studio INFO 199.109.783 H 21 15 RIICCCCAARRDDOO F FOONNSSEECCAA R (chitarra e cori), Francesco Puglisi (basso), Luca Trolli (batteria e cori) 3/11 Big Mama INFO 06 5812551 H 22.30 MARC RIBOT esibizione in Solo dell’eclettico chitarrista del New Jersey è un’occasione da non lasciarsi scappare qualora se ne vogliano assaporare l’inimitabile tocco e le caratteristiche stilistiche. Noto ai più per la lunghissima collaborazione con John Zorn con il quale ha fondato il movimento della Radical Jewish Culture, ha suonato accanto ai più interessanti musicisti americani: Arto Lindsay, Don Byron, Evan Lurie, Sun Ra Arkestra, Bill Frisell. Oltre ai quindici anni di sodalizio con Tom Waits. Ha manifestato interessi musicali disparati e esplicitato numerosi lavori da solista avvicinandosi alla musica cubana, al free jazz e alle colonne sonore. 6/11 Auditorium Parco della Musica Biglietteria l’ 199.109.783 Sala Petrassi LA LA FUGA FUGA PERFETTA PERFETTA R igorosamente, quella che si fa in trio. «Viaggio nell’arte dell’improvvisazione», che vuole ritrovarne le origini risalendo al remoto canto gregoriano per giungere al Free Jazz, a noi storicamente più vicino ma non per questo più facilmente decodificabile. Fuga A Tre, per l’appunto: è la prima edizione di una rassegna che prevede otto eventi musicali ospitati presso la Sala Trevi di Vicolo del Puttarello, in collaborazione con il Gruppo Cremonini, con il patrocinio della provincia di Roma ed il sostegno Imaie la Scaramuccia Srl. Si inizia il 5 novembre e si chiudono i battenti il 12 per alternare appuntamenti di musica world, elettronica, etno-jazz, classica, folk-jazz e popolare; presenze iraniane, romane, campane, svedesi, lombarde, lucane e pugliesi. Filo conduttore della manifestazione sarà il linguaggio dell’improvvisazione, altalenando tra scrittura ed «imprevedibilità», con il fine ultimo di solleticare curiosità e creatività in chi ascolta. La prima serata ci cala nelle terre iraniane, con il concerto Sarawantamburi d’Iran di un trio di musicisti dalle diverse origini culturali magicamente comunicanti tra loro: Mohssen Kasirossafar, Simonetta Imperiali, Luigi Marino. Il mondo che contamina il jazz con la musica elettronica ci presenta il progetto di prossima pubblicazione Slow Food Music 3: piano (Francesco D’Errico), contrabbasso (Daniele Esposito) e batteria (Salvatore Tranchini) in linea con l’idea di una musica da masticare e gustare con la dovuta lentezza. Apre il terzo appuntamento il blues dei Serpente Nero, per lasciare poi spazio al trio Berg-GwissPirozzi con il Lutte Berg Ensemble che darà vita ad una felice commistione musicale Svezia-Italia densa di chiaroscuro, di fredde atmosfere nordiche, di calore nostrano. Nel concerto Goldberg InJazz Suite si viaggia nel tempo: progetto, arrangiamenti e pianoforte di Francesco Venerucci, Alessandra D’Andrea al flauto e ottavino, Daniele Basirico al basso elettrico e contrabbasso. Partiamo da Bach e Mozart per tornarvi, dopo esserci persi fino a raggiungere il tango 15 argentino. In apertura di serata, il trio Free Jazz del pianista Lorenzo Di Lorenzo. Ambientazioni lucane di folk-jazz per il concerto del trio di Rocco De Rosa: piano, fiati (Pasquale Laino) e percussioni (Antonio Franciosa). La rassegna si conclude con l’esplorazione delle tradizioni balcaniche nel concerto Balkan Free del trio che fa capo al pugliese Carlo Cossu affiancato da Angelo Olivieri (tromba) e Antonio Iasevoli (chitarra). Settimana ghiotta dunque, quella di Fuga A Tre: al bando gli accostamenti scontati ed ovvi, per far posto a eventi di qualità per tutti i gusti. Si vuole mantenere alto il livello di concentrazione del pubblico, affinché venga rapito dal valore culturale della contaminazione musicale e sospeso, trasportato, dall’arte dell’improvvisazione che da sempre fugge ogni sorta di conformismo. Viene in mente una frase celebre: «In tempi come questi la fuga è l’unico mezzo per mantenersi vivi e continuare a sognare» (Henri Laborit). Music In Ottobre Novembre 2007 PETER PAN IL MUSICAL Quello che vola. Quello che preferisce un’isola che non c’è alla nostra. Le interviste a Peter Pan, Capitan Uncino e Spugna, tutti malati della stessa sindrome. PETER PAN DA PINOCCHIO A PETER PAN AL PASSO MANUEL FRATTINI DI FRED ASTAIRE lo spettacolo più visto nella stagione teatrale invernale 2006-2007, con più di 135 mila spettatori e con un tour estivo su piazze e grandi spazi aperti di tutta Italia. Ritorna, per la stagione 2007-2008, Peter Pan il Musical, capolavoro nato dalla penna di James Matthew Barrie: una produzione totalmente italiana di ATI Il Sistina in collaborazione con Teatro Delle Erbe-Officine Smeraldo, che vede sul palco un cast d’eccezione di 25 artisti, per l’innovativa regia di Maurizio Colombi. Manuel Frattini è Peter Pan che, insieme a Claudio Castrogiovanni (Capitan Uncino), Alice Mistroni (Wendy), Riccardo Peroni (Spugna), una Trilly laser e un numeroso corpo di ballo, canta lo storico concept-album Sono Solo Canzonette di Edoardo Bennato, ri-arrangiato in versione musical, insieme al nuovo singolo Che Paura Che Fa Capitan Uncino, composto ad hoc dall’artista per l’occasione. Il tutto coordinato dal direttore artistico Arturo Brachetti. Per il regista Maurizio Colombi «Peter Pan Il Musical è uno spettacolo di ispirazione volutamente cartoonistica», un musical in cui gli attori volano attaccati a fili (purtroppo visibili: volutamente?). Manuel Frattini, artista completo, danzatore, cantante e attore, ha trovato nel Musical il canale d’espressione a lui più congeniale. È già stato Pinocchio, è già stato un fratello dei sette per le sette spose, un ballerino di Chorus Line e ha cantato sotto la pioggia; ha aperto una piccola bottega degli orrori, tributato a George Gerwshin come farebbe un americano a Parigi e ha debuttato come protagonista assoluto in un musical da lui stesso ideato, Musical, Maestro!. Chi Peter Pan e chi Manuel Frattini? «Chi è Peter Pan e chi sono io, dura da dire. Io sono molto Peter Pan, da sempre soggetto alla sindrome. In questo caso gioca a mio favore e il ruolo riesce alla perfezione (modestamente) anche un po’ per questa grazia: il bimbo che è in me verrà sempre fuori nel bene e nel male perché obblighi e responsabilità sono un casino. Insomma, mi scordo di pagare le bollette e faccio tutti questi macelli qui». Cos il Musical per te? ˙Dico sempre di essere cresciuto al tempo di Fred Astaire, con la grande passione per il Musical e tutti i film che c’erano all’epoca, negli anni Cinquanta, l’Hollywood dei tempi: cose che da piccolo m’incantavano forse ancora di più dei cartoni animati, quando di solito a quell’età gli altri guardavano programmi da è UNCINO CLAUDIO CLAUDIO CASTROGIOVANNI CASTROGIOVANNI è passato pure per Gerusalemme cantando e ballando, quando ha fatto il Musical Jesus Christ Super Star, e ha conosciuto la first lady argentina Evita Peròn. Nella finzione, ovviamente, ma le ha ballate tutte, anche Grease mentre si laureava in Legge e girava film come Malena o Terra Rossa. Sarà che la vita lo ha incattivito, ma ora Claudio Castrogiovanni ha un uncino conficcato al posto della mano. Tu che sei il suo nemico numero uno, hai la sindrome di Peter Pan? «Sono bimbo da tanti anni e resto tale. È un’era in cui tutti ad avanzare verso la vecchiaia non ci si abitua, e allora rifacimenti e cure estetiche: non siamo disposti ad abbracciare l’avanzare del tempo inesorabile. Il personaggio di Uncino in realtà non vuole diventare grande, ma è già grande e, nonostante intorno il tempo sia immobile, solo lui invecchia nell’Isola che non c’è. Uncino è vecchio anche come spirito, l’unico che avverte veramente inesora- MUSICALL TIC TAC Come batte l’orologio dentro un coccodrillo bimbo. Sono cresciuto con questa grande passione non invano perché ho potuto incontrare la compagnia della Lancia, che è una pioniera nel genere Musical in Italia. Da lì ho promesso che non si libereranno più di me». Cosa ne pensi di programmi come Amici? «Dovendo essere onesto, avrei partecipato volentieri a un programma di questo tipo se fosse esistito negli anni della mia formazione artistica. So che si tratta di una scelta molto personale, ma è comunque un’esperienza importante che garantisce una vetrina e delle possibilità di un certo tipo. Solo bisogna fare attenzione quando si esce da lì, perché ‘oltre’ c’è la giungla: oggi la tendenza è faticare poco per avere un grande successo e credere che nel momento in cui la gente ti riconosce per strada coincida con quello in cui si è arrivati. Non è così che vanno le cose: devi essere riconosciuto per quello che sei e quello che sai fare, la popolarità è solo una conseguenza. Rischio così di gettare un po’ di fumo negli occhi a chi vuole fare questo mestiere, ma è chiaro che un programma televisivo non può essere un’accademia che prepara a questo mondo, anche per il sol fatto che nove mesi non sono sufficienti per prepararsi». Insegneresti in trasmissione? «Sono già stato giurato in tre puntate, Garrison ed io abbiamo una conoscenza di tanti anni e sì, insegnerei ad Amici, perché credo sia l’unico programma in questo momento che dia un po’ di danza, altrimenti molto penalizzata in televisione. Queste trasmissioni almeno stanno avvicinando i giovani ad appassionarsi anche alla danza. Canti Edoardo Bennato. Chi pi Peter Pan fra di voi? «Tra me e lui c’è una bella lotta. Lui è laureato in ‘peterpanologia’, io ho la sindrome di Peter Pan. È stato una grande esperienza per me passare da un gruppo storico come quello dei Pooh, di cui ho interpretato le musiche nel Musical Pinocchio, a un grande cantautore che ha segnato la storia della canzone italiana. Questo Peter Pan, poi, non ha avuto vincoli: di solito i Musical arrivano in Italia preconfezionati con un bel pacchetto all’interno del quale hai musica, coreografie ed altro, mentre questo ci ha lasciato la possibilità di inserire la colonna sonora di Bennato all’interno della storia. Che chiaramente calza a pennello». Musical nel cassetto di Frattini? «Cresciuto al passo di Fred Astaire amo il Tip Tap, lo Swing, tutto un genere che un po’ manca in Italia. Vorrei ballare Astaire, che nei suoi film è stato legato a grandiosi musicisti: sarebbe questa anche l’occasione per riascoltare bellissimi motivi». Pinocchio o Peter Pan? «Sempre un bambino sono. Comunque scenicamente potrebbero avere la stessa età con delle differenze fondamentali: Pinocchio bambino ingenuo, curioso, un po’ sprovveduto, bugiardo, che vuole crescere; Peter Pan leader, capetto, che di crescere non ci pensa minimamente. Durante Pinocchio ho sempre detto che il Peter Pan che era in me aiutava Pinocchio ad uscire, quest’anima bambina che ho tirava fuori il mio burattino di legno. Ora invece sono più Peter Pan, io e lui siamo faccia a faccia. Ma se mi rifiuto di crescere, come di fatto faccio, allora sì, mi sento più Peter Pan». ROMINA CIUFFA TIC TAC P a cura di ROMINA CIUFFA Our Guest: Silvia Pietropaoli DI ROMINA CIUFFA robabilmente James Matthew Barrie nei giardini di Kensington, quando giocava con Peter, il più piccolo dei cinque figli della vedova Llewellyn-Davies per cui venne anche accusato di pederastia, non aveva in mente una Wendy con spiccato accento ferrarese (quello di Alice Mistroni), o una madre che scivola nel romano; né tantomeno che Spugna dovessere perdere colpi (e riprendersi da grande attore quale è Riccardo Peroni) a causa del pessimo audio al Teatro Sistina di Roma. Fortuna che il Peter napoletano Bennato urla «ciurma» e non fa solo canzonette, che l’interpretazione artistica multidimensionale di Manuel Frattini rende questo folletto degno della nomea di Musical dell’anno, e che la calda voce modulata di Claudio Castrogiovanni permette di credere a Capitan Uncino almeno quanto ci crede un vecchio, di quelli che sanno cosa vuol dire invecchiare così come lo sa lui, che ha paura del tempo. E allora il coccodrillo ha ingoiato una sveglia solo per riportare il vecchio alla realtà, dire che sì, s’invecchia, sì, si muore, sì, ti uccido quando voglio, sì, tic tac tic tac. Bambini che non crescono mai, sono questi gli italiani mammoni e tic tac, sono gli irresponsabili e tic tac, sono i figli di papà, e tic tac, sono i papà, tic tac, sono quelli che si suicidano volando dalla finestra della stanza da letto perché non c’è stato tempo per starli a sentire, troppe cose da fare e tic e tac, e tic tac, coloro che non vengono ascoltati dalla famiglia quando hanno da dire qualcosa, tic tac, ma io, tic tac, eppure, tic tac, secondo me, tic tac, volevo dire che, tic tac, sì però, tic tac, ma-però, tic tac, quelli che hanno dentro un nodo troppo grosso da sciogliere, quelli che scappano, quelli che non riescono più a sfidare, e tic tac, il tempo passa e l’uncino arruginisce, tic tac, l’ombra di Peter Pan si fa più grossa, e tic tac, più grossa, e tic tac, più grossa che quasi fa paura, a quei bambini che non sanno più a chi confidarsi, tic tac, a chi raccontare una storia, tic tac, da chi farsela raccontare, tic tac, le loro paure, tic tac, disegnare senza essere malinterpretati, tic tac, usati, tic tac, violati, tic tac, confusi, tic tac tanto quanto un coccodrillo, tic tac tanto quanto l’insensibilità degli adulti, tic tac tanto quanto chi si vanta di non essere mai cresciuto ma è fin troppo grande, tic tac quanto chi si vanta di essere cresciuto ma poi ruba, copia, incolpa, marina. E tic tac, tic tac a Rignano e Brooklyn, tic tac in Africa, tic tac dallo psicologo, e tic tac, l’ombra è grossa, tic tac, più grossa, tic tac, un gioco di luci puntate addosso e più grossa, tic tac, e Peter Pan è una favola, una sindrome, tic tac, e Uncino è la verità, un ferro appuntito, e tic tac, è la notte che sta fuori dal letto, e tic tac. E drin. P PE ER RO ON NII U UG GU UA AL LE E S SP PU UG GN NA A SPUGNA S O N O O N O N S O N O SONO O NON SONO RICCARDO PERONI IIL LC CA AP PIIT TA AN NU UN NC CIIN NO O bile lo scorrere del tempo raccontato dalla metafora del coccodrillo, che è il tempo che passa». Il Musical in Italia: non suona strano? «C’è stata indubbiamente un’evoluzione del pubblico, che ora è più disposto ad accettarlo come genere musicale. Peter Pan è uno spettacolo che riesce a non far pesare troppo gli stacchi tra il cantato e il recitato. Qui però non c’è la stessa educazione del pubblico anglosassone, poché non abbiamo ancora ricevuto spazio reale rispetto alla produzione: non possiamo competere con gli investimenti che si fanno in America o in Inghilterra». Sei d’accordo con la televisione? «I programmi di oggi hanno l’unico merito di avvicinare il pubblico a questo tipo di spettacolo, ma la scuola non si fa in televisione, si fa in una scuola con un corpo insegnante bravo e non con gente improvvisata che arriva e dice due cose, non con maestri che si esibiscono come gli alunni». Accetteresti una «docenza televisiva»? «Mai». Ci sono soldi in Italia per il Musical? «Iniziano ad esserci ma è zona riservata ancora ai cosiddetti ruoli: purtroppo, mentre in America anche il secondario ha uno stipendio settimanale che è dignitosissimo, qui in Italia i ballerini non percepiscano grosse cifre nonostante gli incassi elevati. Nel nostro Peter Pan i soldi ci sono, perché ha incassato moltissimo essendo stato il più visto d’Italia. Cosa condividi con Uncino? «Il fatto che sia un bastardo. È talmente divertente fare Capitan Uncino che non potevo desiderare di meglio». Cosa faresti se avessi un uncino al posto della mano? «Starei molto attento nei movimenti». E se non avessi una mano? «Troverei un modo: ci sono persone molto forti che cercano di affrontare la vita con degli handicap e lo fanno in maniera abituale. È il nostro cervello che ci porta a razionalizzare e la voglia di vivere che comunque fa andare avanti. Con essa puoi continuare anche se hai una molecola in meno. Ci vuole molto amore per la vita, ed averne può aiutare - anche senza avere nessun handicap - a trovare un motivo». L ui è stato Mammolo (in Biancaneve) e Joker (in Batman), o meglio, le loro voci e quelle di moltissimi altri. Ma oltre al doppiaggio Riccardo Peroni ha un curriculum che non finisce più, e che non finisce né con Annie and I di Woody Allen, né tantomeno con Spugna. E, nemmeno a farlo apposta, si chiama di cognome come una birra. Conosci Spugna? «Mi diverte moltissimo e si può dire che sono cinquant’anni che lo studio, perché la sera a cena si brinda... Mi piace questo modo fuori le righe, più fantastico di fare teatro su un personaggio come Spugna. Va bene così, per il bambino che è in me che è sempre in agguato. Spugna in realtà è più un bambinone, un bambino in un adulto nell’Isola dei bambini». Hai fatto di tutto nella tua vita artistica. Ora ci sono programmi che insegnano ad essere multidimensionali proprio come te. «Mi fanno orrore. Non si impara assolutamente nulla, ho visto i loro spettacoli e ‘ballicchiano’, ‘canticchiano’ e ‘reciticchiano’ male. Quella non è una scuola vera, i giovani dimenticano che il pubblico italiano era abituato alla commedia musicale, all’operetta, e che i teatri si riempivano. Il nostro Peter Pan sta riempiendo tutti i teatri e il nostro pubblico non è inferiore agli altri, nemmeno al pubblico di Brodway o di Londra, che ne sa molto di teatro. In Italia non c’è ancora un’alta scuola del Musical ma si sta formando. A prescindere dal fatto che qualitativamente i prodotti siano buoni o cattivi, è grave quando le scuole non legittimano lo sbaglio, ed esser guardati da mille telecamere che giudicano continuamente non lascia la libertà di sbagliare. Questo è l’errore principale: non insegnare a mettersi in gioco».