Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l.

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Sommario
Approfondimenti
Compatibilità elettromagnetica: l’attuazione della direttiva 2014/30/UE
di Antonio Oddo
417
Il difficile rapporto tra committente e coordinatore per l’esecuzione
di Giuseppe Semeraro
425
La sicurezza sul lavoro secondo la Corte Europea dei diritti dell’uomo
di Alessio Scarcella
431
VDR in pratica
I rischi da esposizione a formaldeide
di Giuseppina Paolantonio
439
Inserto
Sicurezza alimentare: il caso di un’azienda lattiero-casearia
di Patrizia Cinquina e William Rossi
Legislazione
Professionisti antincendio: nuovi termini per il mantenimento dell’iscrizione negli elenchi ministeriali
D.M. Interno 7 giugno 2016
Termini per l’adeguamento antincendio degli edifici scolastici
D.M. Interno 12 maggio 2016
448
449
Prassi
Classificazione degli articoli pirotecnici in ‘‘libera vendita’’
Ministero dell’Interno - Circolare 18 maggio 2016, n. 6251
Resistenza al fuoco: chiarimenti sulla predisposizione del fascicolo tecnico
Ministero dell’Interno - Circolare 21 giugno 2016, prot. n. 7765
Lavori sotto tensione: chiarimenti sul rinnovo dell’autorizzazione
Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali - Circolare 7 luglio 2016, n. 38
451
453
455
Giurisprudenza
Rassegna della Cassazione penale
a cura di Raffaele Guariniello
Individuazione del datore di lavoro a prescindere dallo specifico adempimento e permesso di
lavoro in appalti interni
Cass. Pen., sez. IV, 2 maggio 2016, n. 18200
Mancanza del CPI tra D.Lgs. n. 139/2006 e D.P.R. n. 151/2001
Cass. Pen., sez. III, 6 giugno 2016, n. 23292
Obblighi del datore di lavoro distaccante tra Cassazione e Commissione Interpelli
Cass. Pen., sez. III, 23 giugno 2016, n. 26166
Contrasti interpretativi in tema di delega di funzioni
Cass. Pen., sez. III, 24 giugno 2016, n. 26434
Maltrattamenti sul luogo di lavoro alla prova della c.d. ‘‘para-familiarità’’
Cass. Pen., sez. V, 28 giugno 2016, n. 26766
Igiene & Sicurezza del Lavoro n. 8-9/2016
457
458
459
460
461
415
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Sommario
Interpelli
Rassegna interpelli
a cura di Pierluigi Rausei
Distacco e sorveglianza sanitaria
462
Ministero del Lavoro, 12 maggio 2016, n. 8
Valutazione dei rischi
462
Ministero del Lavoro, 12 maggio 2016, n. 9
Impianti tecnici e amianto
463
Ministero del Lavoro, 12 maggio 2016, n. 10
Casi e Questioni
465
ISL risponde
Finanziamenti
Finanziamenti per la sicurezza
466
a cura di Bruno Pagamici
Norme UNI
469
Giugno 2016
REDAZIONE
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Igiene & Sicurezza del Lavoro n. 8-9/2016
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Approfondimenti
Sicurezza elettrica
Compatibilità elettromagnetica:
l’attuazione della direttiva
2014/30/UE
Antonio Oddo – Avvocato
Portata e conseguenze del recepimento
della direttiva sulla compatibilità
elettromagnetica
tori) che degli “utilizzatori” (datori di lavoro, dirigenti, preposti e lavoratori) di materiali, apparecchiature e sistemi elettrici nei luoghi di lavoro.
il completamento della triade elettrico-elettronica
è arrivato con il D.Lgs. 18 maggio 2016, n. 80 (1)
che ha recepito nell’ordinamento italiano la Direttiva 2014/30/UE sulla compatibilità elettromagnetica. Essa fa parte del nutrito gruppo di direttive
europee (2) che hanno modificato l’assetto legislativo precedente, con importanti ripercussioni in
particolare per la disciplina della sicurezza dei materiali elettrici e di taluni fenomeni anch’essi elettrici o elettronici.
A questo riguardo sono stati infatti già trattati,
sempre su questa Rivista, sia la portata e le conseguenze della nuova Direttiva 2014/34/UE sugli “apparecchi e sistemi di protezione destinati ad essere
utilizzati in atmosfera potenzialmente esplosiva” (3)
che, da ultimo, l’impatto del D.Lgs. 19 maggio
2016, n. 86 sulla previgente legislazione italiana
(legge 791/77, D.Lgs. 626/96 e D.Lgs. 277/97) per
la sicurezza del materiale elettrico disciplinato dalla
Direttiva “Bassa Tensione” (4), con tutto quanto
ne consegue, in particolare, per gli obblighi e le responsabilità sia degli “operatori economici” (fabbricanti e loro rappresentanti, importatori e distribu-
È tempo, dunque, di completare la triade elettrica
della nuova legislazione europea con la valutazione della portata e degli effetti del D.Lgs. 80/2016
di modifica del D.Lgs. 194/2007 per la disciplina
dei requisiti di “compatibilità elettromagnetica”
che sono propri di “apparecchi”, “componenti”,
“impianti mobili” (5) ed “impianti fissi” (6), sempre
secondo le puntuali definizioni di legge che assumono una rilevanza determinante per l’applicazione di questa disciplina speciale.
Tale esigenza nasce dal fatto che la conformità a
quest’ultima disciplina si richiede nella gran parte
dei casi di “marcatura CE” non soltanto per “apparecchiature” e “macchine elettriche” ma anche di
“macchine” nel senso più lato che deriva dalle definizioni previste dalla Direttiva 2006/42/CE. A
quest’ultimo riguardo, infatti, la “Guida” della
Commissione europea “all’applicazione della direttiva macchine 2006/42/CE” include (7) la direttiva
sulla compatibilità elettromagnetica tra le “diretti-
(1) G.U., Serie Generale, 25 maggio 2016 n. 121, Supplemento ordinario.
(2) A. Oddo, Le nuove direttive UE per la sicurezza del materiale elettrico, ISL, 2014, 10, 445 e ss.
(3) A. Oddo e S. Fondacci Direttiva ATEX: le modifiche sostanziali ed i conseguenti nuovi obblighi di responsabilità, ISL,
2015, 12, 583 e ss.
(4) A. Oddo, Sicurezza del materiale elettrico: l’attuazione
della Direttiva 2014/35/UE, ISL, 2016, 6, 301 e ss.
(5) Gli impianti mobili (tra cui ad esempio, studi mobili per
trasmissioni radio e TV) sono definiti, ex art. 3, comma 1, lett.
b), n. 2 del D. Lgs. 194/2007, a seguito delle modifiche apportate dal D.Lgs. 80/2016, “come combinazione di apparecchi ed
eventualmente altri dispositivi destinata ad essere spostata e utilizzata in ubicazioni diverse”.
(6) Gli impianti fissi sono definiti – ex art. 3, comma 1, lett. c
del decreto individuato alla precedente nota n. 1 - come “una
combinazione particolare di apparecchi di vario tipo ed eventualmente di altri dispositivi, che sono assemblati, installati e destinati
ad essere utilizzati in modo permanente in un luogo prestabilito”.
Costituiscono esempi di “installazioni fisse”, secondo la Guida ad
hoc per l’applicazione della direttiva sulla compatibilità elettromagnetica della Commissione europea, gli impianti industriali, nonché impianti elettrici, reti di approvvigionamento energetico, reti
di telecomunicazione, reti per TV via cavo, reti di computer, impianti per il trattamento dei bagagli negli aeroporti, impianti luminosi delle piste di decollo, depositi automatici, installazioni di
macchine nelle piste di pattinaggio sul ghiaccio, stazioni con turbine a vento, impianti di assemblaggio delle automobili, stazioni
di pompaggio dell’acqua, impianti di trattamento dell’acqua, infrastrutture stradali, impianti di condizionamento dell’aria.
(7) II ed. giugno 2010, pag. 74.
Igiene & Sicurezza del Lavoro 8-9/2016
Portata ed effetti del D.Lgs. 80/2016 per
le modifiche al D.Lgs. 194/2007
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Approfondimenti
ve che possono essere d’applicazione alle macchine, in aggiunta alla direttiva macchine, per i pericoli non disciplinati dalla direttiva macchine”.
Nuova legislazione e responsabilità
per l’apposizione della marcatura CE
In particolare verranno ora esaminate le conseguenze dell’entrata in vigore della nuova legislazione per le responsabilità derivanti dall’apposizione
della marcatura CE sulle apparecchiature elettricoelettroniche e sulle macchine.
Più precisamente, la “Guida” sopra citata afferma (8) che la Direttiva qui ora in esame “si applica
alle macchine dotate di elementi elettrici o elettronici che possono generare o essere interessate da
perturbazioni elettromagnetiche. La DCEM disciplina gli aspetti di compatibilità elettromagnetica
relativi al funzionamento delle macchine”.
Se è pur vero, pertanto, che la cosiddetta “Direttiva EMC” (secondo acronimo spesso utilizzato per
individuare la direttiva sulla compatibilità elettromagnetica fin dal 1989, con la direttiva
89/336/CEE) disciplina essenzialmente il “funzionamento” delle macchine relativamente alle parti
elettriche ed elettroniche, tuttavia l’esperienza dei
contenziosi sia penali che civili dimostra che talune disfunzioni di natura elettromagnetica possono
influire negativamente e pericolosamente anche
sulla sicurezza stessa delle macchine. Inoltre, occorre tenere presente che l’apposizione della marcatura CE su un prodotto elettrico e/o meccanico comporta automaticamente l’attestazione e “dichiarazione” (spesso impropriamente e confusivamente
definita “certificazione”), sotto la responsabilità del
fabbricante, di piena conformità di tale prodotto
alle disposizioni di tutte le direttive pertinenti ed
applicabili. Da qui, pertanto, la conseguenza secondo cui ove il prodotto medesimo non risultasse effettivamente conforme, in particolare, ai requisiti
di sicurezza e di funzionalità (specie nel caso della
“Direttiva EMC”) fissati dalle Direttive di cui si attesta la piena osservanza, si commetterebbe un reato di falso.
Un tale illecito di natura penale sussisterebbe tutte le volte in cui si dovesse riscontrare la diversità
tra le caratteristiche del prodotto “dichiarate” e attestate dal “fabbricante” - in quanto normativamente previste, per di più in modo cogente, da una
(8) “Guida” della Commissione europea “all’applicazione
della direttiva macchine 2006/42/CE”, II ed. giugno 2010, pag.
75.
(9) V. per la giurisprudenza Cass. Pen., 26/10/2012, n. 5068
e Cass. Pen. 21/4/010, n. 27704.
(10) V., per quest’ultimo aspetto, Cass. Pen. 25/3/2010, n.
418
parte, e - dall’altra parte, le caratteristiche realmente esistenti per il prodotto medesimo, con la
conseguenza di responsabilità penali che possono
integrare, a seconda dei casi, il reato di “frode nell’esercizio del commercio” (consumato o semplicemente tentato) ex art. 515 del Codice Penale (9)
o, anche, di “vendita di prodotti industriali con segni mendaci” ex art. 517, o ancora, di “vendita o
acquisto di cose con impronte contraffatte di una
pubblica autenticazione o certificazione” (10)ex art.
40.
Da qui, pertanto, l’ulteriore conseguenza che anche
l’eventuale non conformità alle disposizioni della
Direttiva sulla compatibilità elettromagnetica (e,
per lo Stato italiano, al D.Lgs. 194/2007, come modificato dal D.Lgs. 80/2016) comporta – per i numerosissimi prodotti elettrici e/o elettronici e/o
meccanici la cui marcatura CE (e relativa “dichiarazione di conformità”) sia riferita anche a questa
Direttiva - che la “commercializzazione” (lato sensu: consegna, vendita o, comunque, messa in circolazione dei prodotti stessi) di tali prodotti integra
gli estremi di varie figure di reato (ex art. 515, 517
o 470 del Codice Penale), che si collocano a seconda delle modalità, nel quadro dei “delitti contro l’industria ed il commercio” o della “falsità in
sigilli o segni di autenticazione, certificazione o riconoscimento”.
Il vastissimo campo di applicazione
e le esclusioni esplicite o implicite
Anche da qui, pertanto, l’importanza di conoscere
ed applicare debitamente la direttiva 2014/30/UE
ed il relativo decreto italiano di recepimento alla
luce delle più recenti modifiche che abbracciano
nel proprio campo di applicazione una serie vastissima di “dispositivi” (singoli o combinati), di componenti o “sottounità”, di impianti mobili e di impianti fissi (11) di tipo elettrico e/o elettronico, secondo precise definizioni che sono contenute nello
stesso corpo normativo e che consentono, in tal
modo, di circoscrivere con sufficiente precisione il
suddetto campo di applicazione. Naturalmente,
tutte le suddette apparecchiature costituiscono oggetto della disciplina europeo-comunitaria e nazionale – coerentemente con le finalità, la funzione e
l’utilità della disciplina stessa - soltanto se ed in
24696.
(11) Tutte le apparecchiature qui sopra individuate sono accuratamente definite dall’art. 3 della stessa Direttiva e del
D.Lgs. 194/2007, come modificato dal D.Lgs. 80/2016, alle
lett. a), b) e c) dell’art. 3, comma 1.
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quanto siano in grado di generare significative perturbazioni elettromagnetiche oppure se caratterizzate da un funzionamento che può subire gli effetti
di tali “perturbazioni”, sempre secondo definizioni
fornite in modo puntuale e completo dal testo normativo, con riferimento ad ogni aspetto del “fenomeno” elettrico considerato (12).
A circoscrivere ulteriormente, in negativo, il medesimo campo di applicazione del decreto italiano
di recepimento della relativa direttiva concorrono
anche le esplicite “esclusioni” elencate dall’art. 1,
comma 2 e comma 3 del decreto risultante dalle
ultime modifiche con riferimento alle “apparecchiature radio terminali e di telecomunicazione, ai
“prodotti aeronautici”, agli “apparecchi ed impianti
fissi costruiti per uso militare”, ai “kit di valutazione su misura per professionisti destinati ad essere
utilizzati unicamente in strutture di ricerca e sviluppo a tali fini”.
Esclusioni intrinsecamente connesse
alla natura ed alle caratteristiche
delle apparecchiature
Alle suddette “esclusioni” espressamente individuate dal legislatore in relazione a specifiche categorie
di prodotti si aggiungono tutte le altre riguardanti
– sul piano generale – apparecchiature comunque
intrinsecamente irrilevanti in quanto non significative ai fini di una utile disciplina del fenomeno
della compatibilità elettromagnetica (sempre come
definito ex lege, art. 3, lett. d). Appartengono alla
categoria qui ora considerata le apparecchiature
che, per natura loro propria e per le caratteristiche
fisiche che le connotano e le contraddistinguono,
sono incapaci di generare o contribuire a generare
emissioni elettromagnetiche che possano compromettere il regolare funzionamento di altre apparecchiature, oppure che sono tali da poter funzionare
senza subire “deterioramenti” che superino la soglia
di “accettabilità” capace di compromettere la regolarità dell’uso cui le apparecchiature medesime sono destinate (13).
(12) V., a questo riguardo, in particolare, le definizioni non
soltanto di “compatibilità elettromagnetica” ma anche di “perturbazione elettromagnetica”, di “immunità” e di “ambiente
elettromagnetico” che sono contenute, rispettivamente, alle
lett. d), e) f) ed h) dell’art. 3 del D.Lgs. 194/2007 come modificato dal D.Lgs. 80/2016.
(13) A questo riguardo si possono fornire, secondo le “Guide” emanate dalla Commissione europea, nel 2007 e nel
2010, esempi riguardanti, tra l’altro: - cavi e cablaggi, accessori per i cavi considerati separatamente; - apparecchiature contenenti solamente carichi resistivi senza alcun dispositivo di
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Requisiti essenziali e procedure
di valutazione della conformità
Sotto questo aspetto del campo di applicazione oggettivo, in quanto riguarda i prodotti che sono oggetto della disciplina in esame, dunque, così come
sotto l’aspetto dei “requisiti essenziali” di compatibilità elettromagnetica sia “generali” che “specifici”
per gli impianti fissi di compatibilità elettromagnetica (v. art. 7 ed All. 1 del decreto risultante dalla
ultime modifiche) e delle “procedure di valutazione
della conformità” (v. art. 9 ed All. II e III del medesimo decreto), fatta salva la parte modificata che
riguarda il sistema di “accreditamento” e le prescrizioni relative agli “organismi notificati” (v. artt. da
14 a 14 sexies) che intervengono per la procedura
prevista dall’All. III al decreto, il D.Lgs. 80/2016
non presenta importanti e “sostanziali” modifiche
rispetto alla previgente disciplina del D.Lsg
194/2007 con il quale era stata attuata la direttiva
2004/108/CE. Da qui, infatti, la scelta del legislatore italiano di non abrogare il D.Lgs. 194/2007 e di
apportare, invece, con il nuovo decreto, modifiche
direttamente sul testo previgente, mediante innesti
trapiantati nei punti che hanno richiesto gli adattamenti conseguenti all’attuazione (necessariamente “fedele”) della nuova direttiva 2014/30/UE.
Non è utile in questa sede commentare quanto sia
stata opportuna una tale scelta di tecnica legislativa che si distacca da quella adottata per il recepimento di altre direttive dello stesso periodo che ha
comportato, invece, l’adozione di testi legislativi
con i quali si è integralmente abrogata la legislazione previgente (14), così come nel caso del decreto
di recepimento della direttiva 2014/35/UE sui materiali elettrici a “bassa tensione” (v., ancora, nota
precedente).
Le modifiche: dalla immissione
sul mercato alla messa a disposizione
delle apparecchiature
È invece utile, in questa sede - e per le finalità informative che si perseguono - rimarcare come in
realtà la nuova Direttiva recepita nell’ordinamento
passaggio automatico: stufa domestica senza interruttore, termostati, ventola; - batterie ed accumulatori; - cuffie, altoparlanti senza amplificazione; - lampade portatili senza circuiti
elettronici attivi; - apparecchi di protezione che producono unicamente disturbi di breve durata nel caso di cortocircuiti o in
situazioni anormali del circuito e che non includono componenti elettronici attivi quali fusibili ed interruttori di circuito,
senza parti elettroniche a componenti attivi”.
(14) V, in particolare, su questa Rivista il relativo commento
qui richiamato alla nota n. 3.
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italiano sia stata oggetto – secondo deliberata e
motivata scelta del legislatore comunitario - di “rifusione” e non già di semplice “codificazione” (15)
della disciplina previgente, con la conseguenza che
le “modifiche” introdotte devono ritenersi di natura “sostanziale”, così come, peraltro, si evidenzierà
puntualmente qui di seguito, analizzandone portata
e conseguenze per i soggetti destinatari di nuovi
obblighi e di eventuali sanzioni
Infatti, in primo luogo, la nuova disciplina – a differenza della precedente - non riguarda più soltanto, la “immissione sul mercato” o la “messa in servizio” delle apparecchiature, bensì, in modo molto
più ampio, l’intera “messa a disposizione” sul “mercato” stesso - , con conseguente coinvolgimento
nella portata legislativa degli obblighi – e delle
sanzioni conseguenti alla violazione di tali obblighi
– che riguardano ormai tutti gli anelli della catena
economico-commerciale, produttiva e distributiva
– e, quindi, tutti gli operatori economici, ossia,
sempre ex lege (v. art. 3 e comma 1 lett. da h quater
ad h octies del D.Lgs. 80/2016 con il quale è stato
modificato il D.Lgs. 194/2007), la catena che si
sviluppa dal “fabbricante” al “distributore” , passando attraverso “importatore” e “rappresentante
autorizzato”. La portata contenutistica dei suddetti
obblighi è dimensionata e proporzionata – coerentemente con il nuovo modello legislativo che accomuna le direttive europee qui richiamate nelle note n. 1, 2, e 3 - secondo l’effettivo ruolo che ciascun “operatore economico” può e deve svolgere
nell’ambito della propria posizione (e, quindi, dei
propri poteri e doveri) per assicurare la conformità
alle disposizioni di legge. Risulta infatti improntata
a questo modello legislativo di nuova generazione
tutta la specifica disciplina che è stata prevista, rispettivamente per “fabbricanti”, “rappresentanti
autorizzati”, “importatori” e “distributori”, dagli
artt. da 7 bis a 7 septies del D.Lgs. 194/2016 come
modificato dal D.Lgs. 80/2016. Anche a quest’ultimo riguardo assume grande rilevanza il nuovo sistema delle “definizioni” (v. in particolare le modifiche introdotte nell’art. 3 dalla lett. h bis alla lett. i
nonies), con il risultato di contribuire a determinare l’effettiva portata del nuovo campo di applicazione della legge, procedendo in particolare dalla
nozione di “messa a disposizione” a quella di “marcatura CE”.
(15) Secondo “glossario” tecnico infatti “la rifusione dei testi legislativi implica l’adozione, in occasione di nuove modifiche apportate ad un atto di base, di un atto giuridico nuovo
che, integrando queste modifiche, abroga l’atto di base. Contrariamente alla codificazione, la rifusione presuppone modifi-
420
Le sanzioni amministrative e pecuniarie
ed i rispettivi destinatari
Per quanto riguarda, poi, le sanzioni, il legislatore
delegato ha ritenuto, nonostante la portata sostanziale delle “modifiche” introdotte rispetto al campo
di applicazione soggettivo che era proprio della
precedente disciplina, di lasciare immutata la disposizione (art. 15) relativa alle sanzioni che sono
di natura amministrativa e pecuniaria e che risultano essere poste a carico di fabbricanti, importatori,
distributori, commercianti in genere, nonché installatori. Tali sanzioni distinguono tra ipotesi (più
gravi) di sanzioni amministrative e pecuniarie per
la non conformità (originaria o indotta successivamente) ai requisiti essenziali di compatibilità elettromagnetica (v. comma 1), da una parte, e dall’altra parte, ipotesi (meno gravi) di violazione della
disciplina prevista sotto svariati profili di “marcatura” obbligatoria, di documentazione e comportamentali in genere.
Queste ultime sanzioni sono a loro volta variamente graduate in modo decrescente e sono poste a carico di fabbricanti, importatori, distributori, commercianti a qualsiasi titolo, nonché di “installatori”
per le ipotesi (v. comma2 e comma 3 dello stesso
art. 15) di prodotti che, seppure sostanzialmente
conformi ai requisiti essenziali di compatibilità
elettromagnetica, tuttavia risultano essere privi di
marcatura CE, di “documentazione tecnica” e della
“dichiarazione di conformità”. Altre sanzioni –
sempre amministrative e pecuniarie – riguardano
(v. comma 4 dell’articolo medesimo) la particolare
fattispecie della “installazione” degli impianti fissi
nel caso di assenza della “prescritta documentazione” (secondo la disciplina specifica di questa categoria di “impianti” che risulta dal testo modificato
del D.Lgs. 194/2007), nonché (v. comma 5 sempre
dello stesso articolo) l’apposizione aggiuntiva sul
prodotto di “marchi” che possono portare confusione rispetto al significato ed alla valenza giuridica
della marcatura CE. A queste ipotesi si aggiungono
ancora (v. comma 6 ancora dell’articolo suddetto)
quelle relative alla “promozione di pubblicità” per
apparecchiature comunque non conformi alle prescrizioni legislative, nonché, quelle altre (v. comma 7 dell’articolo qui per ultimo citato) relative a
modifiche che siano state apportate – “per uso personale” – ad apparecchiature già “marcate CE” e
che di carattere sostanziale. Al tempo stesso consente di avere
una visione di insieme in ordine ad un determinato settore legislativo. Il nuovo atto giuridico è pubblicato nella Gazzetta Ufficiale (serie L).
Igiene & Sicurezza del Lavoro 8-9/2016
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che abbiano comportato la conseguenza negativa
della “mancata conformità” ai requisiti essenziali di
compatibilità elettromagnetica. Alle suddette sanzioni principali di natura amministrativa e pecuniaria si possono accompagnare (v. comma 8 dell’art. 15 con il quale si conclude la lunga articolazione della disposizione sulle sanzioni) per le medesime violazioni, a seconda dei casi e delle reazioni
del trasgressore, altre sanzioni accessorie e/o cautelari quali il “sequestro”, il “ritiro” e/o la “confisca”
delle apparecchiature.
Le nuove sanzioni per la non conformità
formale
Ma c’è di più, secondo quanto imposto dal nuovo
modello legislativo che è stato introdotto dalla Decisione 768/2008/CE e che impronta tutte le Direttive europee (ed i nuovi Regolamenti europei) di
nuova generazione a partire dal 2011. Infatti, si aggiunge con il decreto di modifica un nuovo “capitolo” di sanzioni che riguarda specificamente le
ipotesi di non conformità formale riguardanti le
violazioni degli obblighi per la corretta “apposizione della marcatura CE” secondo il “principi generali” stabiliti dall’art. 30 del Regolamento (CE) n.
765/2008 (16), per la corretta compilazione della
dichiarazione di conformità (secondo l’art. 9 e
l’All. IV del D.Lgs. 194/2007 come modificato dal
D.Lgs. 80/2016), per la disponibilità e la completezza della “documentazione tecnica” (secondo
l’art. 9, comma 1, lett. b), e gli All. II e III al decreto medesimo), per la corretta, completa e veritiera fornitura di tutte le “informazioni” previste e
disciplinate dall’art. 7 bis, comma 6 dell’art. 7 quater, comma 3, con riferimento a tutte le indicazioni
(in lingua italiana) relative alla completa identificazione ed alla sicura reperibilità e rintracciabilità
del fabbricante e dell’importatore. Ancora, le ipotesi di violazioni sanzionabili per la “non conformità formale” riguardano, con previsione di portata
generale e residuale, il corretto adempimento di
tutti gli obblighi (in gran parte non previsti dalla
legislazione previgente) che fanno capo, rispettivamente, ai fabbricanti ed agli importatori per i rispettivi adempimenti riferibili ai requisiti essenziali
di compatibilità elettromagnetica ed ai comportamenti da praticare sul piano sia industriale e com(16) Si tratta, com’è noto, (v. articoli su questa Riv. qui citati
alle note 1, 2 e 3 – di “principi” generali che disciplinano l’apposizione della marcatura CE imponendone l’uso corretto e
sanzionandone ogni possibile abuso che possa sminuirne l’importanza ed il significato giuridico per le finalità di legge, e che
possa, anche indurre elementi di confusione sul mercato, con
effetti dannosi per gli interessi pubblici e per quelli degli opera-
Igiene & Sicurezza del Lavoro 8-9/2016
merciale che documentale. Questi ultimi obblighi
riguardano la documentazione tecnica, la dichiarazione di conformità, la marcatura CE, la identificabilità e rintracciabilità del prodotto, la “conformità
della produzione di serie” a tutti i requisiti di legge,
il monitoraggio sul mercato successivamente all’
“immissione sul mercato” stesso, e, conseguentemente, se del caso, l’ “adozione di provvedimenti”
di “ritiro” e/o di “richiamo” dal suddetto mercato,
la “collaborazione” con le autorità competenti alle
azioni di controllo e vigilanza, nonché l’adozione
di tutte le “misure correttive” eventualmente necessarie. Qualora sia posta in essere anche una sola
di queste violazioni di legge riconducibili a “non
conformità formali”, l’autorità nazionale competente per il controllo e la vigilanza sul mercato (il
Ministero dello Sviluppo economico) intima all’
“operatore economico interessato” di far cessare la
condotta trasgressiva e, nel caso di permanenza
della condotta illecita, applica misure volte al divieto o alla limitazione della commercializzazione
degli apparecchi.
Le nuove procedure di controllo
e vigilanza sul mercato e le misure
correlate
Le nuove procedure di controllo e vigilanza sul
mercato consistono nei provvedimenti della pubblica autorità, le misure correttive, le conseguenze
della non conformità, le misure di ritiro e/o richiamo dal mercato di tutte le apparecchiature che
non risultino “conformi”, la misura del “fermo” degli impianti fissi.
Risulta altresì profondamente modificato, sempre,
in applicazione del “modello” legislativo imposto
dalla Decisione n. 768/2800/CE e dalla disciplina
risultante dal Regolamento (CE) n. 765/2008, il
quadro delle procedure di legge attuabili per il
controllo e la vigilanza sul mercato a livello nazionale (v. art. 12) ed a livello europeo per il mercato
unico (v. art. 13), nei confronti di apparecchi che
possono presentare “rischi” e nei confronti dei quali devono, pertanto, essere svolti accertamenti e
valutazioni che investono la verifica di conformità
a tutte le disposizioni del D.Lgs. 194/2007 come
modificato dal D.lgs. 80/2016. Nel caso di esito negativo di queste “verifiche”, si impongono, sempre
tori economici concorrenti sul mercato stesso, così da comportare un obbligo dei legislatori nazionali riguardante le specifiche sanzioni da prevedere ed applicare per ogni forma di
comportamento scorretto in materia di omissione o di abuso
della marcatura CE (per le sanzioni applicabili secondo l’ordinamento italiano, v. ante, pagg. … e note nn. …).
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all’operatore economico interessato, tutte le “misure correttive” che risultino essere necessarie affinché il prodotto non conforme” sia reso “conforme”
alle prescrizioni legislative, entro un termine ragionevole e proporzionato alla natura del rischio presentato dal caso specifico oggetto di “valutazione”.
Qualora le suddette “misure correttive” non fossero
adottate in modo adeguato e tempestivo dall’ “operatore economico interessato”, le competenti autorità nazionali eserciterebbero il potere-dovere di
adottare, fatta salva l’applicazione delle sanzioni
pecuniarie di cui all’art. 15 qui in precedenza analizzate, “tutte le opportune misure provvisorie per
proibire o limitare la messa a disposizione degli apparecchi sul mercato nazionale, per ritirarli da tale
mercato o per richiamarli, nel rispetto delle garanzie partecipative e di contraddittorio previste dalla
legge 7 agosto 1990, n. 241, e successive modificazioni, ed a cura e spese del soggetto destinatario
del provvedimento. Nel caso di impianto fisso le
autorità competenti provvedono ad adottare le opportune misure cautelari ed il fermo amministrativo dell’impianto. Il Ministero dello sviluppo economico informa immediatamente la Commissione
e gli altri Stati membri di tali misure”.
La “clausola di salvaguardia” dell’unione:
portata e conseguenze
Nei casi in cui le non conformità alle disposizioni
di legge qui sopra individuate non siano limitate al
territorio nazionale, si fa luogo ad un procedimento
europeo-comunitario che investe - secondo rispettive competenze e nell’eventuale contraddittorio
tra tutte le parti interessate - lo Stato membro della U.E. che abbia adottato i provvedimenti di divieto o di limitazione del commercio dei prodotti,
gli operatori economici interessati, la Commissione
europea e tutti gli altri Stati membri. Questa “procedura di salvaguardia dell’Unione” può comportare, a seconda dei casi, o la “revoca” di una “misura”
di divieto o di limitazione del commercio che sia
ritenuta – al termine ed all’esito della procedura
stessa – “ingiustificata”, oppure, nel caso opposto
di misura “giustificata”, il “ritiro” sia dal mercato
nazionale e “domestico” che, nei casi di estensione
oltre il territorio nazionale, anche dal mercato di
altri Stati membri o dell’intera Unione europea.
(17) Sentenza 5 luglio 2007, in causa C-321/07 che richiama le sentenze 11 giugno 1987 in causa C-14/86, 8 ottobre
1987 in causa C-80/86, 26 settembre 1996 in causa C-168/95,
3 maggio 2005 in cause riunite C-387/02 e C-403/02.
422
Termine di entrata in vigore del nuovo
decreto e disciplina transitoria
L’entrata in vigore in Italia della nuova disciplina
è stata prevista – ex art. 4 del D.Lgs. 80/2016 – per
il giorno successivo a quella della pubblicazione
sulla Gazzetta Ufficiale del 25 maggio e, dunque,
dal 26 maggio (2016).
È stata inoltre prevista (ex art. 14 sexies, lett. dd)
del decreto sopra citato) una “disposizione transitoria” che fa salve, in quanto possono essere “messe a
disposizione” del mercato o “messe in servizio” anche successivamente, le apparecchiature oggetto
della direttiva 2004/108/CE purché “immesse sul
mercato” prima del 20 aprile 2016 conformemente
alla medesima direttiva 2004/108/CE ed alle relative disposizioni di attuazione”.
Questa disposizione contiene un “vizio di fondo”
nella misura in cui pretenda di esigere nei confronti dei “singoli” (imprese e cittadini) una conformità legislativa in una data prevista dalla Direttiva
(appunto, il 20 aprile) anteriormente alla data di
entrata in vigore delle disposizioni nazionali (il 26
maggio come qui già indicato), poiché la Corte di
Giustizia della UE ha già precisato che “… inoltre
il principio della certezza del diritto osta a che le
direttive possano, di per se stesse, creare obblighi
in capo ai singoli. Le direttive non possono quindi
essere fatte valere in quanto tali dallo Stato membro contro singoli” (17).
A tale riguardo non si può dunque, in questa sede,
che rinviare alle argomentazioni e conclusioni già
esposte in un precedente articolo (18), per tutto
quanto riguarda la “inesigibilità” da parte dell’autorità di uno Stato membro di obblighi che non siano stati espressamente previsti da una legge entrata
in vigore prima del fatto commesso, sia esso un illecito penale (v. art. 25 della Costituzione ed art.
1 del Codice Penale) o illecito amministrativo (v.
art. 1 della legge 689/1981) e che siano previsti
soltanto da una Direttiva comunitaria non ancora
recepita ed attuata nell’ordinamento nazionale e,
quindi, non direttamente applicabile nei confronti
dei “singoli” (19).
Ne deriva, in conclusione, che le autorità nazionali
dello Stato italiano potranno esigere gli obblighi
previsti dal D.Lgs. 194/2007, così come modificato
dal D.Lgs. 80/2016, soltanto a partire dalla data di
entrata in vigore del decreto legislativo nazionale
che recepisce ed attua nell’ordinamento italiano la
(18) A. Oddo, Sicurezza del materiale elettrico: l’attuazione
della Direttiva 2014/35/UE, ISL, 2016, 6, 304 e ss.
(19) Sentenza 5 luglio 2007, in causa C-321/07 cit.
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direttiva 2016/30/UE, ossia dal 26 maggio 2016 per
effetto dell’art. 4 del D.Lgs. 80/2016 con il quale si
stabilisce la data di entrata in vigore delle disposizioni del medesimo decreto legislativo.
In definitiva, secondo quanto più volte affermato
dalla Corte di Giustizia della UE, gli Stati membri
ritardatari rispetto ai termini imposti da una Direttiva - e, quindi, inadempienti ai propri obblighi comunitari - non possono fare valere, nei confronti
dei “singoli”, obblighi, termini e scadenze temporali che essi non abbiano a propria volta rispettato
ponendo in essere puntualmente nel proprio ordinamento disposizioni legislative e/o regolamentari
di recepimento delle Direttive stesse, così come,
nel caso qui ora d’interesse, si è verificato per lo
Stato italiano che ha pubblicato (il 25 maggio
2016) un decreto legislativo di recepimento della
Direttiva con evidente ritardo rispetto alla scadenza comunitaria (del 19 aprile 2016, per quanto riguarda il termine della pubblicazione che deve necessariamente precedere il termine di entrata in vigore della disciplina normativa da applicare).
Le conseguenze per gli operatori
È opportuno, a questo punto, dopo la ricostruzione
del testo del D.Lgs. 194/2007, alla luce delle modifiche apportate dal D.Lgs. 80/2016, valutare se, in
materia di compatibilità elettromagnetica, la nuova disciplina delle apparecchiature elettriche ed
elettroniche – dispositivi, componenti o sottoinsiemi, impianti mobili ed impianti fissi – risulti essere
mutata in modo sostanziale o se, invece, si tratti di
ritocchi soltanto formali per compiacere qualche
giurista o i “burocrati” di Bruxelles.
Si tratta, in definitiva, di valutare se abbia avuto
ragione il legislatore comunitario ad intervenire
con una “rifusione” - ed una conseguente abrogazione del testo normativo previgente, sulla Direttiva 2004/108/CE, in considerazione del carattere
importante (“sostanziale”) delle modifiche, o se,
invece, abbiano avuto ragione i numerosi commentatori nostrani che, da vari pulpiti ed in qualità di “giuristi” improvvisati (sempre numerosi ed
attivi nel settore della “legislazione tecnica”, così
come in altri settori) hanno sostenuto che si trattava, in definitiva, di modifiche “di poco conto” e di
pure formalità di scarso interesse per gli operatori
del settore elettrico.
Fabbricanti, importatori e distributori
L’esposizione già svolta ci consente, infatti, di rispondere a questo interrogativo per indirizzare correttamente gli “addetti ai lavori” in qualità di fab-
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bricanti, importatori ed utilizzatori delle apparecchiature elettriche, considerando debitamente anche gli stessi installatori.
Procedendo nell’ordine si deve dunque prendere
atto della realtà secondo cui la nuova disciplina
normativa non deriva soltanto dall’attuazione della
Direttiva 2014/30 ma anche dal Regolamento
(CE) 765/2008 e dalla applicazione del modello
legislativo previsto dalla Decisione 768/2008/CE,
con la conseguenza che i fabbricanti delle apparecchiature sono soggetti a tutti i nuovi obblighi previsti dagli artt. 7 bis e ss., che sono stati qui descritti in precedenza e che, in caso di violazione,
comportano non soltanto l’applicazione delle sanzioni amministrative e pecuniarie elencate, come
nel sistema previgente, negli otto commi dell’art.
15, ma anche delle sanzioni che sono connesse a
violazioni anche semplicemente “formali”, con la
ulteriore conseguenza, nonostante tale carattere
apparentemente riduttivo, di comportare – in caso
di violazione – il “ritiro” ed il “richiamo” delle apparecchiature dal mercato (v., oltre agli artt. 7 bis
e ss., anche gli artt. 13 bis e 15 del decreto risultante dalle ultime modifiche). A quest’ultimo riguardo, occorre precisare come tra le ipotesi che
possono comportare i suddetti effetti interdittivi o
limititativi della commercializzazione dei prodotti
sul mercato rientrino tutte quelle che riguardano
le “informazioni” da apporre sulle (numerosissime!)
apparecchiature elettriche e/o elettroniche soggette
alla disciplina sulla compatibilità elettromagnetica,
secondo il vastissimo campo di applicazione già qui
in precedenza delineato, con riferimento, in particolare, a tutte le “indicazioni” che (ex artt. 7 bis e
7 quater) riguardano la “identificazione” e “rintracciabilità” sia dell’apparecchiatura che del suo fabbricante. Gli effetti sanzionatori - per la violazione
di questi obblighi nel caso di assenza, falsità o incompletezza delle informazioni fornite - riguardano
il fabbricante, l’importatore ed il distributore (v.
artt. 13 bis, lett. g) in relazione agli obblighi sanciti, per quanto di rispettiva competenza, ex artt. 7
bis e 7 quater. Inoltre, una non conformità formale
– con gli effetti qui già descritti in precedenza – riguarda non soltanto i casi di “non compilazione”
ma anche quelli di compilazione “non corretta”
della “dichiarazione di conformità” che si verificheranno puntualmente se non si prende atto della
modifica (sia pure formale, ma non meno obbligatoria e sanzionabile in caso di violazione) che ha
investito anche le modalità di compilazione di questa “dichiarazione” la cui struttura è ora disciplinata dall’art. 9 bis e dall’ All. IV al D.Lgs. 194/2007,
come modificato dal D.Lgs. 80/2016, in attuazione
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non soltanto dalla direttiva 2014/30/UE ma anche
dalla Decisione 768/2008/CE.
Misure cautelari sugli impianti fissi
Particolare rilievo assumono anche le nuove sanzioni che possono riguardare specificamente gli impianti fissi, nei confronti dei quali e nei casi di
mancata adozione delle “misure correttive” di
eventuali non conformità (v. artt. 12, 13 e 15) rispetto agli obblighi disciplinati dal decreto e qui
prima descritti, “le autorità competenti provvedono ad adottare le opportune misure cautelari ed il
fermo amministrativo dell’impianto”.
Si tratta evidentemente di conseguenze non da poco sul piano tecnico, economico e commerciale, se
solo si considera che rientrano nella categoria degli
impianti fissi – come già qui rilevato in precedenza
- anche gli impianti industriali e, quindi pure le linee di produzione potenzialmente di grandi dimensioni.
Importatori e distributori
Anche gli importatori ed i distributori, quali titolari - per quanto di rispettiva competenza – dei nuovi obblighi ex artt. 7 quater e 7 quinquies del decreto sono destinatari delle sanzioni previste ex artt.
15, commi 1, 2, 3 ed 8 che riguardano, com’è noto,
la immissione sul mercato, la commercializzazione,
e la distribuzione di apparecchiature non conformi
alle prescrizioni del decreto. Ma c’è di più, perché
tanto gli uni quanto gli altri, in qualità di “operatori economici interessati”, possono essere destinatari anche di provvedimenti di ritiro o di richiamo
dal mercato eventualmente adottati dalle competenti autorità (v. artt. 12, 13 e 13 bis) nel caso di
mancata adozione delle misure correttive necessarie per eliminare le non conformità accertate a seguito delle procedure previste dal nuovo decreto
secondo le disposizioni legislative qui da ultimi individuate.
Installatori
Qualcuno (sempre nel vasto mondo dei giuristi improvvisati e dei commentatori frettolosi) vorrebbe
escludere gli installatori del novero dei soggetti destinatari di obblighi e sanzioni previsti dalle direttive di prodotto, ed, in particolare, dal recepimento
della Direttiva sulla compatibilità elettromagnetica, ma la realtà è ben diversa. Infatti, le sanzioni
amministrative e pecuniarie previste dall’art. 15 sono sempre indirizzate non soltanto a chi immette
sul mercato, commercializza e distribuisce apparec-
424
chiature non conformi alle prescrizioni del decreto,
ma anche a chi installa tali apparecchiature.
Ancora, ed in modo più grave, la sanzione ex art.
15, comma 4 del D.Lgs. 194/2007 (come modificato dal D.Lgs. 80/2016) è indirizzata, con riferimento a non conformità relative ad impianti fissi, proprio – ed esclusivamente - ai suddetti installatori,
fatte salve sempre le conseguenze commerciali, civili e risarcitorie che possono derivare, a carico dei
responsabili, dal “fermo” di tali impianti.
Portata e riflessi della nuova disciplina
sugli utilizzatori di apparecchiature
Fatto salvo quanto qui sopra precisato per gli installatori di apparecchiature ed impianti fissi e per
gli utilizzatori anche “a titolo personale” (v. sanzione ex art. 15, comma 7 nel caso di “modifiche” che
incidono su “requisiti di protezione”), nonché, ancora, fatto salvo tutto quanto è da puntualizzare in
modo importante per la posizione di responsabilità
della “persona” o delle “persone responsabili” degli
impianti fissi(v. art. 5), per il resto gli utilizzatori
di apparecchiature ed impianti fissi non sono
espressamente e direttamente contemplati nel novero dei soggetti titolari di obblighi e dei soggetti
destinatari di eventuali sanzioni secondo il D.Lgs.
194/2007. Tuttavia, non si possono a questo riguardo non considerare anche i riflessi della disciplina
legislativa in esame pure sugli utilizzatori professionali di apparecchiature ed impianti fissi soggetti alla disciplina sulla compatibilità elettromagnetica,
se si considerano gli obblighi dei “datori di lavoro
(e dei “dirigenti”) di assicurare la conformità delle
“attrezzature di lavoro” messe a disposizione dei
“lavoratori” sotto ogni aspetto delle discipline legislative e regolamentari di recepimento delle direttive di prodotto che possono incidere sulla tutela
della “salute” e della “sicurezza” dei lavoratori stessi. A tale riguardo occorre considerare, infatti, in
particolare, la non facile e netta separabilità e scindibilità tra la “funzionalità” elettrico-elettronica
delle “attrezzature di lavoro”, da una parte, e dall’altra parte, la “sicurezza” delle apparecchiature
stesse.
Peraltro, e seppure di riflesso rispetto a quanto già
prima descritto – non si vede come gli utilizzatori
professionali di impianti fissi possano non considerarsi “interessati” a provvedimenti inibitori adottabili dalle autorità competenti anche con un “effetto” di “fermo impianti” che può riguardare – come
già qui rilevato sotto altro profilo riguardante i soggetti responsabili - impianti industriali ed intere linee di produzione.
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Sicurezza nei cantieri
Il difficile rapporto
tra committente
e coordinatore per l’esecuzione
Giuseppe Semeraro – Ingegnere, Coordinatore CTER INAIL Direzione Regionale Marche
Premessa
Il D.Lgs. 81/2008 (c.d. “Testo unico della sicurezza
del lavoro” o, più brevemente, TUSL), in coerenza
con la c.d. “Direttiva Cantieri” (92/57/CEE), affida
un ruolo di grande rilievo al «committente» di lavori edili o di ingegneria civile al fine di tutelare la
salute e la sicurezza dei lavoratori. I sui compiti, in
termini di qualità e quantità, sono stabiliti dalla
legge (art. 92 del TUSL) e chiariti dalla giurisprudenza (1). Meno noti sono il ruolo e la conseguente responsabilità del «committente» – nelle pubbliche amministrazioni, del «responsabile del procedimento» che è chiamato ex lege allo svolgimento
del ruolo di «responsabile dei lavori» ai sensi dell’art. 89 del TUSL – per eventuale violazione dell’art. 93, comma 2, del TUSL, cioè qualora ometta
di verificare il corretto adempimento degli obblighi
del coordinatore per l’esecuzione.
La domanda che a riguardo è legittimo porsi è la
seguente: il sistema di aggiudicazione al prezzo più
basso dei servizi tecnici di coordinamento della sicurezza, specificatamente di quelli durante l’esecuzione dei lavori, può indirettamente influire negativamente sull’azione del coordinatore per l’esecuzione e in ultima analisi sul livello di salute e sicurezza del cantiere? Proviamo ad analizzare meglio
la questione.
La legislazione sul ruolo del committente
Tralasciando il ruolo del committente dalla fase
della progettazione all’affidamento dei lavori, in
quanto non oggetto di questa analisi, nella fase
dell’esecuzione il committente è chiamato dalla
legge ad attuare diverse azioni tese a accertare indi-
rettamente il livello di sicurezza in cantiere e a
contrastare le situazioni di patologia prevenzionistica in cantiere. Ciò avviene fondamentalmente
mediante la verifica dell’operato del coordinatore
per l’esecuzione (CSE) in cantiere.
La legislazione (art. 93, comma 2 del TUSL), infatti, stabilisce che: «La designazione del coordinatore per la progettazione e del coordinatore per l’esecuzione dei lavori, non esonera il committente o
il responsabile dei lavori dalle responsabilità connesse alla verifica dell’adempimento degli obblighi
di cui agli articoli 91, comma 1 [sui compiti del
CSP], e 92, comma 1, lettere a), b), c), d ed e).»
Si tratta, in sostanza, di verificare il corretto adempimento degli obblighi principali dei coordinatori
per la sicurezza (CSP e CSE), e nello specifico, relativamente al coordinatore per l’esecuzione, di verificare che costui compia le attività definite dalla
norma:
«a) verifica, con opportune azioni di coordinamento e controllo, l’applicazione, da parte delle imprese esecutrici e dei lavoratori autonomi, delle disposizioni loro pertinenti contenute nel piano di sicurezza e di coordinamento di cui all’articolo 100 ove
previsto e la corretta applicazione delle relative
procedure di lavoro;
b) verifica l’idoneità del piano operativo di sicurezza, da considerare come piano complementare di
dettaglio del piano di sicurezza e coordinamento di
cui all’articolo 100, assicurandone la coerenza con
quest’ultimo, ove previsto, adegua il piano di sicurezza e di coordinamento di cui all’articolo 100,
ove previsto, e il fascicolo di cui all’articolo 91,
comma 1, lettera b), in relazione all’evoluzione dei
lavori ed alle eventuali modifiche intervenute, va-
(1) In particolare, v. Cass. pen., Sez. III, 23 aprile 2010, n.
15640; Cass. pen., Sez. IV, 17 agosto 2011, n. 32142 e Cass.
pen., Sez. IV, 7 aprile 2014, n. 15484.
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lutando le proposte delle imprese esecutrici dirette
a migliorare la sicurezza in cantiere, verifica che le
imprese esecutrici adeguino, se necessario, i rispettivi piani operativi di sicurezza;
c) organizza tra i datori di lavoro, ivi compresi i lavoratori autonomi, la cooperazione e il coordinamento delle attività nonché la loro reciproca informazione;
d) verifica l’attuazione di quanto previsto negli accordi tra le parti sociali al fine di realizzare il coordinamento tra i rappresentanti della sicurezza finalizzato al miglioramento della sicurezza in cantiere;
e) segnala al committente o al responsabile dei lavori, previa contestazione scritta alle imprese e ai
lavoratori autonomi interessati, le inosservanze alle
disposizioni degli artt. 94, 95, 96 e 97, comma 1, e
alle prescrizioni del piano di cui all’articolo 100,
ove previsto, e propone la sospensione dei lavori,
l’allontanamento delle imprese o dei lavoratori
autonomi dal cantiere, o la risoluzione del contratto. Nel caso in cui il committente o il responsabile
dei lavori non adotti alcun provvedimento in merito alla segnalazione, senza fornire idonea motivazione, il coordinatore per l’esecuzione dà comunicazione dell’inadempienza alla Azienda Unità Sanitaria Locale e alla Direzione Provinciale del Lavoro territorialmente competenti…»
Tale verifica deve avvenire non necessariamente
mediante accessi in cantiere, quanto attraverso un
sistema di comunicazione con il CSE che permetta
di avere conoscenza passo passo del livello di sicurezza in cantiere e al tempo stesso di saggiare l’idoneità del servizio reso dallo stesso coordinatore. Il
carente controllo esercitato dal committente nei
confronti del coordinatore per l’esecuzione è motivo di una propria autonoma responsabilità, che
può essere aggravata da quelle derivanti dalle violazioni alle norme antinfortunistiche nei cantieri e
anche dalle conseguenze che queste possono determinare.
Nel caso, poi, il committente sia destinatario di segnalazioni da parte del CSE riguardanti violazioni
ripetute in cantiere, in attuazione all’obbligo di cui
all’art. 92, comma 1, lett. e) del TUSL, riportato
in precedenza, egli è chiamato ad adoperarsi al fine
di far cessare le situazioni di rischio che perdurando potrebbero determinare danni ai lavoratori. I
provvedimenti, in questo caso, sono di sospensione
e allontanamento delle imprese esecutrici e/o dei
lavoratori responsabili dei fatti, fino al ripristino
delle normali condizioni di lavoro. Il mancato intervento del committente nel far cessare tali situazioni determina una propria responsabilità oggetti-
426
va sulle conseguenze che da queste possono derivare.
La giurisprudenza sul ruolo
del committente
È, dunque, chiaro il ruolo del committente di garante del rispetto delle norme in materia di tutela
della salute e della sicurezza. Ruolo che determina
una vera e propria autonoma posizione di garanzia
nei confronti dei lavoratori.
A riguardo, la giurisprudenza di merito ha consolidato il profilo di responsabilità del committente in
merito agli obblighi che allo stesso provengono dal
TUSL.
In relazione al ruolo di garante nella fase di esecuzione, la Cassazione così si è espressa in una sentenza di condanna del committente (in concorso
con CSE e l’impresa esecutrice dei lavori) per un
infortunio occorso ad un lavoratore mentre eseguiva lavori su di una copertura in assenza di ogni presidio sia collettivo che individuale: «Al committente, dunque, non è attribuito dalla legge il compito di verifiche solo “formali”, bensì di eseguire
controlli sostanziali e decisivi su tutto quanto riguarda i temi della prevenzione, della sicurezza del
luogo di lavoro e della tutela della salute e del lavoratore e di accertarsi, inoltre, che i coordinatori
adempiano agli obblighi sugli stessi incombenti in
tale materia. …» (Cass. pen., Sez. IV, 2 aprile
2015, n. 14012).
Il rapporto biunivoco committente-CSE
La tutela della salute e sicurezza dei lavoratori nei
cantiere edili o di ingegneria civile poggia su un sistema di controllo gerarchico:
— il primo livello di controllo è a carico del datore di lavoro delle imprese affidatarie ed esecutrici e
dalla sua organizzazione (dirigenti e preposti) al fine di accertare le condizioni di sicurezza nel cantiere e lo stato di attuazione dei piani di sicurezza.
Questo controllo viene svolto in cantiere senza soluzione di continuità (Cass. pen., Sez. IV, 14 gennaio 2010, n. 1490);
— il secondo livello di controllo è compito del
CSE e si esplica attraverso attività in grado di evitare ogni vuoto di controllo e coordinamento in
qualunque fase di lavoro (Cass. pen., Sez. III, 23
aprile 2010, n. 15640 e Cass. pen., Sez. IV, 17 agosto 2011, n. 32142);
— il terzo livello di controllo afferisce al committente il quale lo esplica sull’effettivo svolgimento
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del ruolo del coordinatore e quindi indirettamente
sul livello di sicurezza in cantiere;
— il quarto ed ultimo livello di controllo è ad opera degli organi di vigilanza competenti per territorio.
Con riferimento al ruolo biunivoco tra committente e coordinatore, è del tutto ovvio che le limitazioni disposte direttamente o indirettamente dal
primo sul secondo possono determinare cadute nel
livello prevenzionistico attuato in cantiere. Per
esempio, tutte le azioni del committente che incidono sulla qualità della prestazione del CSE possono determinare una diminuzione del sistema di
controllo e quindi un abbassamento del livello di
tutela della salute e della sicurezza durante l’esecuzione dei lavori.
L’aggiudicazione al massimo ribasso
della prestazione professionale di CSE
Ciò avviene anche mediante la contrazione dei
compensi per lo svolgimento del ruolo di CSE, che
di fatto può costituire, senza alcuna scusante per il
coordinatore, la premessa per possibili carenze di
controllo e coordinamento in cantiere. In sostanza,
il committente in tale evenienza può essere ritenuto concausa dell’abbassamento del livello di controllo sul cantiere per meri motivi economici. Se i
costi della sicurezza, d’altronde, non sono ribassabili per le imprese, per gli stessi motivi non dovrebbero esserlo anche nei confronti dei professionisti.
In effetti, per molti il compenso per i coordinatori
rappresenta il costo per la sicurezza nei servizi tecnici di ingegneria e architettura.
Quindi, l’aggiudicazione della prestazione del CSE
sarebbe corretto e coerente che avvenisse con le
regole previste nell’affidamento dei lavori e degli
altri servizi. Al tempo stesso, l’aggiudicazione al
prezzo più basso dovrebbe essere evitata anche per
gli appalti di servizi tecnici fino a 40.000 euro, per
i quali il nuovo codice dei contratti pubblici vi
consente il ricorso (art. 95, comma 3, lett. b),
D.Lgs. 50/2016).
D’altronde, il committente sia pubblico che privato non dovrebbe avere alcun interesse nell’abbassare l’azione prevenzionistica del CSE, poiché, come
spiegato in precedenza, egli stesso è autonomamente responsabile se questa non è coerente con quanto stabilito dalla legge, in quanto vien meno al dovere di verificarla.
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L’aggiudicazione con l’offerta
economicamente più vantaggiosa
della prestazione professionale di CSE
L’aggiudicazione mediante l’offerta economicamente più vantaggiosa rappresenta sicuramente una
spinta verso l’innalzamento della qualità della prestazione professionale del coordinatore per la sicurezza (sia in fase di progettazione sia in quella in
esecuzione), se opportunamente calibrata. Allo
scopo, gli elementi premiali da prendere in considerazione devono essere opportunamente individuati e ponderati in relazione all’oggetto del contratto dell’appalto dei lavori.
Con riferimento esclusivo al ruolo del CSE, gli elementi che potrebbero essere presi in considerazione
come premiali sono:
• le modalità di organizzazione del sistema di controllo dell’attuazione dei piani di sicurezza, quali:
— frequenza massima in cantiere da parte del CSE
(comunque non inferiore a quella strettamente necessaria a coprire, in base al cronoprogramma del
PSC, tutte le fasi di lavoro);
— frequenza dei sopralluoghi da parte di eventuali
collaboratori tra un sopralluogo e l’altro fatto direttamente dal coordinatore, loro qualifica;
• le modalità di organizzazione del sistema di coordinamento tra gli operatori economici operanti in
cantiere, quali:
— immissione di un nuovo operatore economico
in cantiere, previa verifica del POS e autorizzazione da parte del committente;
— periodicità delle riunioni di coordinamento;
• le modalità di comunicazione tra coordinatore e
committente, quali:
— rapporto scritto periodico (settimanale, quindicinale, ad ogni sopralluogo …), inviato al committente, sulle attività di controllo e coordinamento e
sul livello di sicurezza in cantiere;
— tenuta e messa a disposizione del registro di
coordinamento cartaceo o informatizzato.
La capacità, invece, di svolgere il ruolo di coordinatore rientra tra i requisiti di ammissione alla procedura di affidamento della prestazione. Mentre in
Francia esistono tre livelli di coordinatori, in ragione dell’esperienza e della tipologia di opere o lavori
da eseguire, in Italia la legge non fa distinzioni tra
coordinatori in riferimento alla specifica qualificazione ed esperienza. Tuttavia, secondo il nuovo codice dei contratti pubblici i requisiti di idoneità
professionale devono essere «attinenti e proporzionati all’oggetto dell’appalto» (art. 83, comma 1,
lett. a) e comma 2, D.Lgs. 50/2016); mentre i re-
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quisiti sulle capacità tecniche e professionali devono considerare l’esperienza necessaria per eseguire
l’appalto (art. 83, comma 1, lett. c) e comma 6,
D.Lgs. 50/2016).
Va infine rammentato che le stazioni appaltanti
devono mettere obbligatoriamente a disposizione
dei concorrenti (potenziali CSE) ogni elemento
che consenta loro di formulare l’offerta. Quindi, almeno il progetto dei lavori, comprensivo del piano
di sicurezza e coordinamento. Ciò non sempre avviene.
Conclusioni
Nei paragrafi precedenti è stato messo in rilievo
come l’azione del coordinatore per l’esecuzione ai
fini della tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori in cantiere possa essere condizionata dal
committente.
Lo scopo era dare una risposta alla questione posta
in premessa: il sistema di aggiudicazione al prezzo
più basso dei servizi tecnici di coordinamento della
sicurezza, specificatamente di quelli durante l’esecuzione dei lavori, può indirettamente influire negativamente sull’azione del coordinatore per l’esecuzione e in ultima analisi sul livello di salute e sicurezza del cantiere? (2)
Ora, se la risposta alla domanda è affermativa, si
deve porre inevitabilmente anche la questione dell’eventuale corresponsabilità oggettiva del committente nell’instaurarsi di situazioni di non conformità alle norme prevenzionistiche in cantiere, per carenza di controllo da parte del coordinatore per l’esecuzione.
In altri termini, la domanda precedentemente posta può essere formulata nel seguente modo: l’aggiudicazione al prezzo più basso con forti ribassi,
tanto da rendere palese a priori la possibile “incapacità/indisponibilità” del CSE a svolgere efficacemente le sue funzioni, senza che ciò costituisca per
costui alcun alibi, può rappresentare per se stessa
una responsabilità oggettiva anche del committente?
(2) Nello specifico molti ritengono che il sistema di aggiudicazione al prezzo più basso del servizio tecnico connesso con
la prestazione professionale di coordinatore per la sicurezza
sia iniquo a confronto con l’analogo metodo di aggiudicazione
nell’appalto dei lavori. Ciò in considerazione del fatto che tale
servizio, rappresentando la quota della sicurezza nei servizi
tecnici, non dovrebbe essere assoggettato ad alcun ribasso di
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La questione in realtà non avrebbe più ragione di
essere posta nei casi in cui la stazione appaltante
decidesse di procedere all’affidamento dell’incarico
di coordinatore per l’esecuzione mediante l’offerta
economicamente più vantaggiosa, anche per gli
importi inferiori a 40.000 euro per i quali il nuovo
codice dei contratti pubblici prevede la possibilità
dell’aggiudicazione al massimo ribasso (3). In alternativa, nel caso in cui il criterio sia il prezzo più
basso, è necessario che la stazione appaltante proceda almeno alla verifica di congruità dell’offerta,
eliminando quella ritenuta anomala.
In un caso concreto, riferito ad un appalto di servizi tecnici per conferire un incarico di coordinatore
per l’esecuzione aggiudicato con ribasso del 75%
dell’importo di 9.000,00 euro posto a base di gara,
la stazione appaltante avrebbe potuto accertare
che, anche nell’ipotesi di cantiere ideale o modello
– cioè del cantiere che a ogni sopralluogo del coordinatore non presenti alcuna non conformità, tanto da non richiedere ulteriori sopralluoghi del CSE
oltre quelli standard previsti, che non ha necessità
di adeguamenti o aggiornamento del PSC in corso
d’opera ecc. – il compenso orario del coordinatore
per l’esecuzione ammonterebbe a soli 19,00 euro
(pari a 2.400 euro per 126 ore teoriche minime stimate per la prestazione), meno del costo dell’operaio comune. Avrebbe così potuto facilmente accertare che l’offerta era da considerarsi chiaramente «anomala» e doveva di conseguenza essere
esclusa. D’altronde, il risparmio ad ogni costo del
compenso del coordinatore per l’esecuzione, come
si diceva in precedenza, può rappresentare un problema per la stessa stazione appaltante, chiamata
per il tramite responsabile del procedimento a controllare che l’azione del coordinatore per l’esecuzione sia efficace ai fini prevenzionistici.
Naturalmente, ancora più negativa è in genere la
situazione nell’ambito dei lavori privati, dove è
possibile registrare, salvo casi particolari, compensi
per incarichi di coordinatore per l’esecuzione del
tutto sproporzionati al reale impegno richiesto e alle connesse responsabilità.
gara, al pari degli oneri della sicurezza nell’esecuzione del contratto di appalto dei lavori.
(3) Il nuovo Codice dei contratti pubblici prevede la possibilità, tra l’altro, di procedere all’aggiudicazione mediante l’offerta economicamente più vantaggiosa (cosiddetta offerta qualità/prezzo) ad invarianza di prezzo (art. 95, comma 7, D.Lgs.
50/2016).
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Tabella 1 – Elenco delle attività richieste dal disciplinare di gara al CSE
Attività richieste
Verifica PSC e relative procedure di lavoro (almeno un sopralluogo ogni due settimane)
Verifica idoneità POS
Adeguamento PSC all’effettivo andamento lavori
Verifica idoneità tecnico-professionale imprese
Emissione verbali preliminari
Emissione verbali di coordinamento
Verbali di sopralluogo
Predisposizione liste di controllo
Verifica per RLS
Segnalazioni al Committente/RUP
Sospensione per pericolo grave ed imminente
Comunicazione al DL per SAL
Qualunque altra attività necessaria
Tabella 2 – Analisi delle attività richieste dal disciplinare di gara al coordinatore per l’esecuzione
Attività contemplate dal disciplinare di gara
N.
Durata
(ore)
Viaggio
(ore)
Totale
ore
1
Verifica PSC e relative procedure di lavoro (come richiesto, almeno un sopralluogo
ogni due settimane):
13
2
1
39
2
Verifica idoneità POS (ipotesi minima di due imprese per ogni cantiere)
6
3
—
18
3
Adeguamento del PSC all’effettivo andamento lavori (2 volte per ogni cantiere)
6
2
—
12
4
Verifica idoneità tecnico-professionale imprese (non conteggiato in quanto non è un
obbligo del CSE ma del RUP)
0
0
—
0
5
Verbali preliminari (si prevede una sola riunione per ogni cantiere)
3
2
—
6
6
Verbali di coordinamento (si prevede una sola riunione per ogni cantiere)
3
2
—
6
7
Verbali di sopralluogo (si prevede un verbale ad ogni sopralluogo)
13
1
—
13
8
Predisposizione liste di controllo (si prevede la predisposizione di una lista per ogni
sopralluogo)
13
2
—
26
8
Verifica per RLS (non quantificato)
0
0
—
0
9
Segnalazioni al Committente/RUP (nell’ipotesi di cantiere modello, nessuna segnalazione)
0
0
—
0
10
Sospensione per pericolo grave ed imminente (nell’ipotesi di cantiere modello, nessuna segnalazione)
0
0
—
0
11
Comunicazione al DL per SAL (verifica contabilità costi della sicurezza)
6
1
—
6
12
Altre (nell’ipotesi di cantiere modello, non considerate)
0
0
—
0
Totale (ore)
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Normativa e giurisprudenza dell’Unione Europea
La sicurezza sul lavoro
per la Corte Europea
dei diritti dell’uomo
Alessio Scarcella – Consigliere della Corte Suprema di Cassazione e docente
presso le Scuole di Specializzazione per le Professioni Legali delle Università
degli Studi di Firenze e Siena
La prevenzione infortuni nell’ottica
europea: premessa
Il miglioramento delle condizioni di vita e lavoro
venne previsto dal Trattato di Roma attraverso
l’armonizzazione dei sistemi sociali e il riavvicinamento delle disposizioni regolamentari. Con il c.d.
“Atto Unico Europeo” l’armonizzazione venne elevata a obiettivo da realizzare attraverso una più
stretta collaborazione tra i diversi Paesi. Sin dal testo originario del 25 marzo 1957 del Trattato di
Roma – istitutivo della Comunità Economica Europea – è stato posto nell’art. 117 il principio fondamentale di politica sociale della necessità del miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro
della mano d’opera, in una prospettiva di parificazione dei trattamenti nel progresso. Quali strumenti per il conseguimento di tale obiettivo erano indicati dalla medesima norma l’armonizzazione dei
sistemi sociali e il ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative. Lo
stesso testo originario del Trattato sollecitava nell’art. 118 l’impegno degli Stati membri a una stretta collaborazione nel campo sociale, tra l’altro nei
settori della sicurezza sociale, della protezione contro gli infortuni e le malattie professionali, dell’igiene del lavoro.
L’Atto Unico Europeo del febbraio 1986, inserendo nel testo del Trattato l’art. 118A, ribadiva la
necessità della collaborazione tra gli Stati per migliorare la tutela della sicurezza e della salute dei
lavoratori, fissando espressamente l’obiettivo di
una armonizzazione tra i diversi sistemi. Tutti questi principi erano stati poi ripetuti nell’accordo a
undici contenuto nel protocollo sulla politica sociale, allegato al Trattato di Maastricht (7 febbraio
1992) che tuttavia, a causa della mancata sottoscrizione della Gran Bretagna, non modificava su
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questi punti il trattato istitutivo della Comunità.
L’attuazione di tali precise linee di indirizzo ha trovato davanti a sé l’ostacolo di una diversità e disparità notevole di sistemi e di protezione nei Paesi
della Comunità. Si è dovuto fare i conti con l’impossibilità di far gravare improvvisamente sulle
economie più deboli il peso di un alto livello di
protezione sociale. Al tempo stesso, la mancanza di
uniformità di trattamenti e di costi può comportare
la lesione delle regole di concorrenza e di parità tra
le imprese comunitarie, di cui negli artt. 85 e seguenti del Trattato. Per contemperare le indicate
opposte esigenze, procedendo sulla strada dell’evoluzione dell’ordinamento comunitario in senso non
solo economico ma anche sociale, con l’Atto Unico del 1986 era stato aggiunto al Trattato l’art.
118 A, con cui veniva prevista l’adozione mediante direttiva di prescrizioni minime applicabili progressivamente, tenendo conto delle condizioni e
delle normative tecniche esistenti in ciascuno Stato membro. Le difficoltà indicate spiegano la natura asistematica degli interventi normativi comunitari e la loro settorialità. Il complesso delle norme
comunitarie in materia di tutela del lavoro è imponente, ma parziale, in quanto rivolto soprattutto
all’igiene e alla prevenzione, e anche in tali settori
in modo frammentario, almeno fino alla direttiva
quadro n. 89/391/CEE del 12 giugno 1989. Tale direttiva delinea per la prima volta, sulla base anche
del nuovo art. 118A inserito nel Trattato, un complesso organico di misure rivolte a promuovere il
miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori durante il lavoro. Nei settori appartenenti
alla previdenza sociale più propriamente detta, invece, gli interventi normativi comunitari si sono
sostanzialmente limitati alla complessa regolamentazione della circolazione dei lavoratori all’interno
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della Comunità. A distanza di oltre venti anni dal
Trattato sull’Unione europea e di oltre trenta dall’introduzione dell’art. 118A, non si può fare a meno di riconsiderare, nell’ottica dell’armonizzazione
e del ravvicinamento delle legislazioni e dei sistemi, la previdenza sociale e, in seno ad essa, più specificatamente l’assicurazione contro gli infortuni
sul lavoro e contro le malattie professionali. Ai fini
della soddisfazione di tale esigenza appare di importanza fondamentale il confronto tra sistemi ed
esperienze nazionali, soprattutto tra Stati tra loro
più vicini per cultura e tradizioni giuridiche, quali
la Francia, la Germania e l’Italia.
Tale confronto costituisce il primo passo per un
Ravvicinamento delle legislazioni e per l’adozione
in merito di principi comuni.
La normativa europea sul tema
della sicurezza e salute e i rapporti
con l’ordinamento interno
L’adattamento del diritto interno al diritto dell’Unione Europea riguarda anzitutto i trattati comunitari.
L’adattamento a tutti i trattati che hanno segnato,
nel tempo, le tappe successive del processo d’integrazione europea, dal Trattato istitutivo della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio del
1951 fino al Trattato di Lisbona del 2007, è sempre intervenuto in Italia mediante ordine di esecuzione in forma di legge ordinaria. L’esigenza di una
legge di revisione costituzionale è stata esclusa sulla base del fondamento costituzionale della partecipazione dell’Italia al processo di integrazione europea, ravvisato fin dal 1951 nell’art. 11 della Costituzione, che consente, in condizioni di parità con
altri Stati, le limitazioni di sovranità necessarie a
un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia
fra le nazioni. In conseguenza di ciò, l’Italia ha accettato le limitazioni della sovranità legislativa derivanti dall’art. 288 del Trattato sul funzionamento
dell’Unione Europea (già art. 249 del Trattato sulla Comunità Europea), che stabilisce la diretta applicabilità nell’ordinamento interno, senza ulteriori
procedimenti di adattamento, dei regolamenti comunitari. La legge 16 aprile 1987, n. 183, sul coordinamento delle politiche riguardanti l’appartenenza dell’Italia alle Comunità Europee e l’adeguamento dell’ordinamento interno agli atti normativi
comunitari, ha costituito uno dei primi provvedimenti diretti a definire meccanismi, procedure e
organi destinati a svolgere un ruolo chiave nell’attuazione del diritto comunitario.
432
La successiva legge 9 marzo 1989, n. 86, contenente norme generali sulla partecipazione dell’Italia al
processo normativo comunitario e sulle procedure
di esecuzione degli obblighi comunitari, ha affidato
a uno strumento periodico di intervento, la c.d.
“Legge Comunitaria” annuale, il compito di garantire la corretta e tempestiva attuazione degli obblighi comunitari derivanti da direttive e da sentenze
di condanna in procedimenti d’infrazione.
La legge n. 86/1989 è stata sostituita dalla legge 4
febbraio 2005, n. 11, che ha confermato la Legge
Comunitaria annuale come strumento nel quale sono contenute le disposizioni necessarie per adeguare
l’ordinamento interno al diritto comunitario, previa
verifica dello stato di conformità del medesimo. Resta infine la possibilità di provvedere all’attuazione
degli obblighi comunitari mediante leggi ad hoc.
Il trasferimento di competenze dallo Stato all’Unione Europea comporta anche il primato del diritto dell’Unione sulle norme di diritto interno contrastanti, precedenti e successive, quale ne sia il
rango, anche costituzionale. Il diritto della UE prevale in ragione della sua natura particolare e in
conseguenza del carattere esclusivo della competenza comunitaria. La preminenza del diritto della
UE non è tuttavia concepita come produttiva di
effetti assoluti nell’ordinamento interno, nel senso
che essa renderebbe nullo o abrogato il diritto interno in contrasto con il diritto comunitario. Tale
conflitto deve essere risolto mediante la non applicazione del diritto interno incompatibile, senza doverne attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante procedimenti costituzionali. L’obbligo di applicare una norma comunitaria a preferenza
di una norma interna contrastante opera in presenza non soltanto di regolamenti comunitari, ma anche di altre norme comunitarie aventi effetti diretti. Quando la norma comunitaria non sia direttamente applicabile né produca effetti diretti, la norma interna contrastante deve essere interpretata in
modo da renderla conforme a quella comunitaria.
Allorché il contrasto fra norma interna e norma
comunitaria non è superabile in via interpretativa,
spetta a ciascuno Stato membro porre in essere
una diversa normativa conforme agli obblighi comunitari. Fintanto che ciò non avviene, il diritto
della UE rende esperibile il procedimento di infrazione davanti alla Corte di Giustizia e l’azione davanti ai giudici nazionali per far valere la responsabilità dello Stato membro inadempiente.
Il principio della conformità dell’attività legislativa
statale e regionale agli obblighi comunitari è stato
ribadito dall’art. 117, comma 1, Cost., come rifor-
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mato dalla legge costituzionale n. 3/2001, mentre
la Corte Costituzionale ha definitivamente accolto
tale impostazione dei rapporti tra diritto comunitario e diritto interno nella sentenza Granital del
1984, nella quale ha affermato che il diritto interno e il diritto comunitario devono coordinarsi secondo la ripartizione di competenza voluta dai
Trattati comunitari, nel senso di assicurare la prevalenza degli atti comunitari direttamente applicabili. La successiva giurisprudenza costituzionale ha
chiarito che tale principio si applica anche alle statuizioni risultanti dalle sentenze interpretative della Corte di Giustizia della UE (sentenza 113/23
aprile 1985), dalle sentenze di inadempimento e
dalle norme dei Trattati comunitari alle quali deve
riconoscersi efficacia diretta (sentenza 389/11 luglio 1989) e, infine, dalle direttive aventi effetti diretti (sentenza 64/2 febbraio 1990). Se la norma
non è direttamente applicabile e non produce effetti diretti, il contrasto della legge con la norma
comunitaria non dà luogo alla disapplicazione del
diritto interno contrastante: resta in questo caso la
possibilità di trarre dall’art. 11 una ragione di illegittimità costituzionale della stessa legge.
La giurisprudenza della UE: principi
Uno dei pilastri del rapporto tra giurisprudenza dell’Unione Europea e diritto interno è rappresentato
dal c.d. “obbligo di interpretazione conforme”,
consistente nell’obbligo gravante sul giudice nazionale (e su ciascun interprete del diritto nazionale)
di prendere in considerazione tutte le norme del
diritto interno ed utilizzare tutti i metodi di interpretazione ad esso riconosciuti per addivenire ad
un risultato conforme a quello voluto dall’ordinamento comunitario. Esso discende dal principio di
leale collaborazione tra gli organi e gli Stati dell’Unione Europea. Consiste, in estrema sintesi, nell’interpretare il diritto interno nazionale conformemente a quello comunitario e assicura il continuo
adeguamento del primo al contenuto ed agli obiettivi dell’ordinamento comunitario. È attraverso
questo obbligo che gli atti privi di efficacia diretta
(1) Corte di Giustizia delle Comunità Europee (Lussemburgo) (Grande Sezione) sentenza 16 giugno 2005. Procedimento
C105/03. Gli artt. 2, 3 e 8, n. 4, della decisione quadro del Consiglio 15 marzo 2001, 2001/220/GAI, relativa alla posizione della vittima nel procedimento penale, devono essere interpretati
nel senso che il giudice nazionale deve avere la possibilità di
autorizzare bambini in età infantile che, come nella causa principale, sostengano di essere stati vittime di maltrattamenti a
rendere la loro deposizione secondo modalità che permettano
di garantire a tali bambini un livello di tutela adeguato, ad
esempio al di fuori dell’udienza e prima della tenuta di que-
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possono assumere rilevanza all’interno dei singoli
ordinamenti nazionali, in quanto possono “suggerire” al giudice una interpretazione conforme al loro
disposto. Secondo una tesi, esso sarebbe uno degli
elementi dell’acquis comunitario.
Nella nota sentenza 16 giugno 2005, relativa al
procedimento C-105/03 (1), si affermò che l’obbligo sussisteva anche per le decisioni quadro nell’ambito del terzo pilastro dell’Unione Europea (Giustizia e Affari Interni). Il giudice è dispensato da tale
obbligo solo se non ha alcun margine di discrezionalità nell’interpretare la norma nazionale, in caso
contrario deve preferire quella più vicina a quella
comunitaria. Se l’atto è una direttiva l’obbligo
scatta solo dopo l’entrata in vigore della medesima.
Inoltre, se da tale interpretazione può scaturire un
aggravamento della responsabilità penale dell’individuo questa è vietata tout court (costituirebbe una
violazione del principio generale del favor rei).
In quest’ambito interpretativo, la Corte di Giustizia ha un ruolo determinante nella fissazione dei
canoni ermeneutici del diritto sovranazionale, da
ricondurre essenzialmente all’ex art. 164 CEE (ruolo da esercitare principalmente rispetto ai principi
generali di supremazia, effetto diretto, garanzia delle quattro libertà fondamentali, divieto di discriminazione, tutela dei diritti fondamentali, obbligo di
collaborazione fra gli Stati membri e istituzioni). I
giudici nazionali, quindi, sono tenuti a interpretare
le norme prodotte dal proprio ordinamento in base
ai principi del diritto comunitario e non solo in
base alle norme nazionali. La rilevanza ermeneutica delle direttive comunitarie, dunque, non è più
ristretta alla normativa interna di attuazione delle
stesse, ma si estende fino a influenzare le lacune
normative (casi in cui la normativa non esista ovvero non sia direttamente applicabile).
La giurisprudenza CEDU e i rapporti
con il diritto interno
Il tema dei rapporti tra la CEDU (2) e ordinamento interno e dunque, del rango della Convenzione
nel nostro ordinamento (3), ha generato un acceso
st’ultima.
(2) Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il
4 novembre 1950, ratificata dall’Italia con legge 4 agosto
1955, n. 848. Testo coordinato con gli emendamenti di cui al
Protocollo n. 11 (firmato a Strasburgo l’11 maggio 1994, entrato in vigore il 1° novembre 1998) e al Protocollo n. 14 (entrato
in vigore il 1° giugno 2010).
(3) Butturini, La tutela dei diritti fondamentali nell’ordinamento costituzionale italiano ed europeo, Napoli, 2009.
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dibattito in dottrina e in giurisprudenza, almeno fino all’intervento della giurisprudenza costituzionale nel 2007, successivamente rimessa in discussione
in seguito all’entrata in vigore del Trattato di Lisbona. L’importanza della soluzione del tema del
rango della Convenzione europea nell’ordinamento
italiano deriva proprio dalla notevole portata evolutiva della CEDU con riferimento ad ogni settore
del diritto interno.
Sul punto sono intervenute due sentenze della
Corte Costituzionale 22 ottobre 2007, la n. 348 e
la n. 349.
La Consulta, al fine di risolvere il problema del
rango della CEDU nell’ordinamento interno ha
analizzato alcune disposizioni della Costituzione
che si occupano dei rapporti tra lo Stato italiano e
gli ordinamenti e gli organismi internazionali, e in
particolare, gli artt. 10, 11 e 117 Cost. (quest’ultimo riformato dalla legge costituzionale n. 3/2001).
L’art. 10 sancisce l’obbligo di conformazione dell’ordinamento italiano «alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute.»
Tale locuzione è stata intesa dalla Consulta pacificamente riferita alle norme del diritto internazionale consuetudinario, per le quali soltanto la Costituzione dispone l’adattamento automatico; ne
consegue che non possono ritenersi incluse anche
le norme contenute in Trattati bilaterali o plurilaterali, di diritto internazionale pattizio, categoria
cui appartengono le norme CEDU. Sicché la Corte, sotto un primo versante, esclude che il tema del
rango della CEDU nel nostro ordinamento possa
essere risolto tramite il richiamo all’art. 10 della
Costituzione.
La Consulta esclude altresì che la questione possa
essere definita in base al richiamo alla norma di
cui all’art. 11 della Costituzione. Tale disposizione
sancisce l’adesione dello Stato italiano, consentendo alla limitazione della propria sovranità, alle organizzazioni internazionali che abbiano come scopo
quello di assicurare il perseguimento della pace e
della giustizia fra le Nazioni. I giudici della Corte
Costituzionale ritengono infatti che l’art. 11 della
Costituzione non possa disciplinare il rapporto tra
l’ordinamento interno e la CEDU, perché aderendo a tale Convenzione, l’Italia non ha acconsentito ad alcuna limitazione di sovranità a favore della
CEDU. Sicché la giurisprudenza costituzionale ha
identificato nell’art. 117, comma 1, Cost. la norma
che contiene le disposizioni che regolano il rapporto tra ordinamento interno e Convenzione europea
per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. La disposizione in questione
sancisce che il legislatore interno deve rispettare i
vincoli derivanti «dagli obblighi internazionali», ai
quali vengono ricondotti gli obblighi che promanano dall’adesione alla CEDU.
L’art. 117 della Costituzione è un esempio di «rinvio mobile ad una fonte» (4), poiché esso è integrato dalle norme CEDU, le quali rappresentano
delle «norme interposte», che trovano la loro collocazione nella gerarchia delle fonti interne a metà
strada tra norme di rango ordinario e norme della
Costituzione, in quanto sono dotate di una maggiore forza di resistenza rispetto alle leggi ordinarie,
ma sono comunque gerarchicamente inferiori alle
norme costituzionali.
In virtù di tale ricostruzione alla CEDU viene attribuito un duplice ruolo: da una parte essa diviene
parametro interposto per vagliare la legittimità costituzionale delle norme interne; dall’altra essa rappresenta un criterio per l’interpretazione costituzionalmente orientata delle disposizioni interne.
Il giudice italiano quindi, prima di sollevare la questione di legittimità costituzionale di una norma
interna per contrarietà alle disposizioni previste
dalla CEDU, deve intraprendere la via dell’interpretazione convenzionalmente e, dunque di conseguenza, costituzionalmente orientata, assegnando
alla disposizione il significato che la renda non incompatibile con la Convenzione e, ai sensi del richiamo di cui al comma 1, dell’art. 117, con la Costituzione.
Qualora tale via interpretativa non sia percorribile,
il giudice deve sollevare la questione di costituzionalità della norma interna per contrarietà rispetto
alle disposizioni della CEDU.
L’esito cui si perviene nel risolvere la questione del
rango della CEDU e dei rapporti della stessa con
l’ordinamento interno, diverge da quello cui si è
giunti con riferimento al «diritto comunitario»
(rectius: «diritto dell’Unione Europea»), per il quale si ritiene operi direttamente l’art. 11 della Costituzione, che determina l’adesione alle organizzazioni sovranazionali, quali in specie, l’Unione Europea, accettando limitazioni di sovranità.
Da ciò consegue che, qualora la norma interna sia
confliggente con il diritto comunitario, si disappli-
(4) Novelli, Fonti nel diritto nazionale ed europeo a confronto
nel dialogo tra le corti supreme, in Diritto e Giurisprudenza 2012,
2, 100.
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ca (e cioè non si applica, poiché la norma interna
viene considerata tamquam non esset), in virtù del
principio di «primazia del diritto comunitario»,
senza ricorrere all’intervento della Corte Costituzionale.
La giurisprudenza CEDU in materia
prevenzionistica
Gli interventi della Corte di Strasburgo (5) sul tema della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro non
sono invero molti.
L’occasione è quindi utile per fare il punto della situazione circa l’atteggiamento che la Corte e.d.u.
ha assunto con riferimento alla disciplina prevenzionistica lato sensu intesa, che comprende, da un
lato, sia la «salute sul lavoro» che la «sicurezza nel
contesto lavorativo» (6).
Sul tema più strettamente inerente alla «salute sui
luoghi di lavoro», si registrano tre interventi della
giurisprudenza della Corte e.d.u.: a) la sentenza
Eternit c. Francia, 27 marzo 2012; b) la sentenza
Howald Moor e altri c. Svizzera dell’11 marzo 2014;
c) la sentenza Dolopoulos c. Grecia, 17 novembre
2015.
Per quanto, invece, concerne la «sicurezza sui luoghi di lavoro», si segnalano invece due sole decisioni: a) la sentenza Vilnes e altri c. Norvegia, 5
dicembre 2013; b) la sentenza Brincat e altri c.
Malta, 24 luglio 2014.
Esaminiamole partitamente.
Le pronunce CEDU sulla «salute
nei luoghi di lavoro»
Muovendo anzitutto dall’analisi della giurisprudenza sulla «salute sul lavoro», viene in rilievo la decisione emessa dalla Corte e.d.u. nel caso Eternit c.
Francia deciso il 27 marzo 2012.
Il caso riguardava l’equità del procedimento in una
controversia tra la nota società Eternit e una compagnia assicurativa circa la natura professionale di
una malattia contratta da un ex dipendente. In
particolare, la questione riguardava la mancata risposta da parte del datore di lavoro – rispetto a
quanto avvenuto alle richieste dell’Health Insurance Office – di consentire l’accesso di una compagnia assicuratrice alle cartelle cliniche dell’ex dipendente. La società ricorrente lamentava di non
(5) Per assicurare il rispetto degli impegni derivanti alle Alte
Parti contraenti dalla Convenzione e dai suoi Protocolli (CEDU),
è istituita una Corte europea dei Diritti dell’Uomo, denominata
“Corte e.d.u.”. Essa funziona in modo permanente.
(6) Tutte le decisioni qui commentate, si noti, sono tratte
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aver avuto accesso agli accertamenti sanitari su cui
si era basata la diagnosi di malattia professionale
dell’ex dipendente, così privando la compagnia assicuratrice privata di qualsiasi possibilità di contestare efficacemente la decisione secondo cui la malattia era collegata al rischio lavorativo. La Corte
e.d.u. ha ritenuto in quel caso il ricorso irricevibile
(manifestamente infondato). Ha rilevato, in particolare, che l’Health Insurance Office non aveva
beneficiato di alcun vantaggio sostanziale rispetto
alla società assicuratrice nel procedimento, in
quanto i servizi amministrativi dell’Ufficio sanitario pubblico non avevano avuto accesso agli atti
sanitari richiesti dalla società assicuratrice. La Corte ha pertanto concluso che il principio della parità delle armi era stato in questo caso rispettato.
Altra decisione assunta in materia riguardava il caso Howald Moor e altri c. Svizzera, deciso l’11 marzo 2014, e investe un tema assai delicato, quella
quello della rilevanza della prescrizione sul tema
delle malattie professionali. Il caso riguardava un
lavoratore cui era stato diagnosticato nel maggio
2004 un mesotelioma pleurico maligno (un tumore
maligno molto aggressivo) causato dalla sua esposizione all’amianto nel corso della sua attività lavorativa negli anni 1960 e 1970. Morì nel 2005. I ricorrenti, la moglie e le due figlie, si erano lamentate soprattutto del fatto che il diritto di accesso ad
un tribunale era stato violato, poiché i tribunali
svizzeri avevano respinto le loro richieste di risarcimento danni contro il datore di lavoro del defunto
e le autorità nazionali, in quanto nelle more era intervenuta la prescrizione. In considerazione delle
circostanze eccezionali nel caso di specie, la Corte
e.d.u. ha ritenuto che la decisione di intervenuta
prescrizione aveva limitato l’accesso dei ricorrenti
alla giustizia, fino al punto di determinare la violazione dell’art. 6, § 1 (diritto ad un processo equo)
della Convenzione. Nonostante la CEDU avesse
manifestato la convinzione che la norma giuridica
in materia di prescrizione aveva perseguito uno
scopo legittimo, vale a dire la certezza del diritto,
si osservava, tuttavia, che l’applicazione sistematica
della disciplina in tema di prescrizione nei confronti dei soggetti portatori di malattie che non
possono essere diagnosticate se non dopo molti anni il verificarsi degli eventi scatenanti, privava di
fatto quelle persone della possibilità di far valere i
dai factsheet periodicamente elaborati dalla stessa Corte e.d.u.
In particolare, per quanto qui di interesse, si rinvia al factsheet
riguardante il tema dei work related rights, reperibile all’indirizzo http://www.echr.coe.int/Documents/FS_Work_ENG.pdf.
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propri diritti dinanzi ai giudici. La Corte e.d.u. ha
pertanto ritenuto che nei casi in cui fosse stato
scientificamente provato che una persona non poteva sapere di non essere affetto da una certa malattia, tale circostanza doveva essere presa in considerazione nel calcolo del termine di prescrizione.
Terzo e ultimo caso affrontato dalla Corte e.d.u. in
materia, infine, più recente, è il caso Dolopoulos c.
Grecia del 17 novembre 2015.
Il caso riguardava le circostanze in cui il direttore
della filiale di una banca aveva contratto una malattia psichiatrica e una grave depressione, che, a
suo avviso, erano state causate in parte da atteggiamenti consistiti in vero e proprio mobbing lavorativo da parte dei suoi manager. Il ricorrente aveva addotto la violazione del dovere dello Stato di tutelare
i lavoratori che si trovavano nella sua situazione
contro il rischio di contrarre una malattia professionale. L’uomo aveva fatto riferimento in particolare
al fatto che la sua malattia non era stata considerata
come tale dall’Ispettorato del lavoro, lamentandosi
inoltre dell’archiviazione della sua denuncia da parte della Procura della Repubblica per il fatto che le
malattie psichiatriche non risultavano incluse nella
lista delle malattie professionali.
La Corte e.d.u. ha dichiarato in quel caso il ricorso
irricevibile in quanto manifestamente infondato. I
giudici di Strasburgo hanno osservato, in particolare, che, nonostante il fatto che le malattie psichiatriche non fossero state incluse dal legislatore greco
nella lista delle malattie professionali, il ricorrente
aveva avuto comunque dei rimedi a sua disposizione per poter denunciare il peggioramento del suo
stato di salute mentale sul posto di lavoro e, eventualmente, per ottenere il risarcimento del danno
non patrimoniale. La Corte e.d.u. ha rilevato che
il ricorrente aveva fatto uso di quei rimedi, come
dimostrato dal fatto che i relativi procedimenti
erano attualmente pendenti al momento della decisione del ricorso davanti alla Corte di Strasburgo.
Quest’ultima ha pertanto concluso che le autorità
greche non erano venute meno al loro dovere di
proteggere il benessere fisico e mentale del ricorrente né a quello di assicurare il diritto di questi al
rispetto della sua vita privata.
Le pronunce CEDU sulla «sicurezza
nei luoghi di lavoro»
Per quanto riguarda la decisioni della Corte di
Strasburgo sul tema della «sicurezza nel contesto
lavorativo», si segnalano, come detto due sole (ma
significative) decisioni.
436
La prima è quella che ha risolto il caso Vilnes e altri c. Norvegia del 5 dicembre 2013.
Il caso riguardava le denunce presentate da ex palombari divenuti disabili a seguito delle immersioni
nel Mare del Nord eseguite per conto delle compagnie petrolifere durante il periodo “pionieristico”
di ispezione dei fondali marini per la ricerca degli
idrocarburi (dal 1965 al 1990). Tutti i ricorrenti
lamentavano che la Norvegia non fosse riuscita ad
adottare misure appropriate per proteggere la salute
dei palombari durante lo svolgimento dell’attività
lavorativa eseguita nel Mare del Nord che, secondo la prospettazione di tre dei ricorrenti, in particolare era causata dalla precarietà ed inefficienza
delle strutture utilizzate per l’esecuzione delle prove. Tutti avevano anche sostenuto che lo Stato
non fosse riuscito a fornire loro delle informazioni
adeguate sia sui rischi relativi all’immersione in acque profonde sia sulla stessa procedura di immersione.
La Corte e.d.u. ha dichiarato in questo caso che vi
era stata una violazione dell’art. 8 (diritto al rispetto della vita privata) della Convenzione, a causa
dell’incapacità delle autorità norvegesi di garantire
ai ricorrenti la ricezione di informazioni essenziali
che consentissero loro di valutare i rischi per la salute e le conseguenze derivanti dall’uso di procedure di decompressione rapida. La Corte e.d.u. ha
inoltre affermato che non vi era stata alcuna violazione dell’art. 2 (diritto alla vita), o dell’art. 8 della
Convenzione per quanto riguardava il resto delle
doglianze riguardanti l’incapacità delle autorità di
impedire che la salute e la vita dei palombari venisse messa in pericolo, aggiungendo che non vi
era stata alcuna violazione dell’art. 3 (divieto di
trattamenti inumani o degradanti) della Convenzione.
Questo caso assume particolare importanza perché
integra la giurisprudenza della Corte in materia di
accesso alle informazioni ai sensi degli artt. 2 e 8
della Convenzione, in particolare nella parte in cui
stabilisce l’obbligo per le autorità di garantire che i
dipendenti ricevano le informazioni essenziali che
consentano loro di valutare i rischi professionali
per la salute e sicurezza.
L’altro caso esaminato dalla Corte e.d.u. sul tema
della sicurezza sui luoghi di lavoro è il caso Brincat
e altri c. Malta del 24 luglio 2014.
Il caso riguardava alcuni lavoratori di un cantiere
navale addetti alle riparazioni che erano stati esposti all’amianto per svariati decenni a partire dal
1950 ai primi anni 2000, che aveva provocato la
contrazione di patologie correlate all’amianto. I ri-
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correnti si lamentavano in particolare della morte
di alcuni loro parenti deceduti a causa della esposizione all’amianto e dell’incapacità del governo
maltese di proteggerli dalle conseguenze fatali derivanti dall’esposizione.
La Corte e.d.u. ha rilevato in questo caso che vi
era stata una violazione dell’art. 2 (diritto alla vita)
della Convenzione per quanto riguardava la posizione dei ricorrenti i cui parenti erano deceduti, ed
una violazione dell’art. 8 (diritto al rispetto della
vita privata e familiare) della Convenzione e.d.u.
per la parte restante dei ricorrenti. Si è riscontrato
in particolare che, in considerazione della gravità
della minaccia costituita dall’esposizione all’amianto, e nonostante il margine di manovra (c.d. “margine di apprezzamento”) lasciato agli Stati membri
nel decidere come gestire tali rischi, il governo
maltese non era riuscito ad adempiere il proprio
obbligo positivo ai sensi della Convenzione, di legiferare o di assumere altre concrete misure al fine
di garantire che i ricorrenti fossero adeguatamente
protetti e informati circa i rischi per la loro salute
e la loro vita. In effetti, almeno dai primi anni
1970, il governo maltese era a conoscenza o avrebbe dovuto essere consapevole che i lavoratori addetti ai cantiere di riparazione delle navi avrebbero
potuto soffrire delle conseguenze derivanti dalla
esposizione all’amianto, eppure non aveva assunto
alcuna iniziativa per contrastare tale rischio fino al
2003.
Considerazioni conclusive
Questa breve e sintetica rassegna sulle decisioni ad
oggi intervenute nella materia della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro da parte della giurisprudenza di Strasburgo rende l’idea dei settori di intervento su cui i giudici dei diritti umani sono stati
chiamati a decidere.
Come visto, le decisioni adottate dalla Corte europea dei diritti umani attengono prevalentemente
settori quali l’esposizione al rischio amianto ma si
spingono anche su settori diversi. Particolarmente
interessante è però la consueta opera di “responsabilizzazione” che la Corte di Strasburgo pone in essere nei confronti degli Stati aderenti alla Convenzione, rimarcando l’esistenza di obblighi motivi di
intervento dello Stati rispetto alla salvaguardia del-
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la salute e sicurezza dei lavoratori, pena, a seconda
del casi, la violazione del diritto alla vita ex art. 2
della Convenzione e.d.u. (in caso di decessi legati
all’attività lavorativa) o del diritto all’unità familiare ex art. 8 della Convenzione (nei casi di ricorsi
intentati dai familiari di lavoratori rimasti vittime
di infortuni o, più frequentemente, di patologie
professionali legate allo svolgimento dell’attività
lavorativa), con un’attenzione particolare anche
alla rapidità ed efficienza dello Stato – attraverso i
suoi organi giurisdizionali – verso la repressione dei
fatti causativi di tali infortuni. Non a caso, infatti,
la Corte di Strasburgo, come visto, stigmatizza
quelle decisioni che vanificano il diritto a vedersi
risarciti i danni derivanti dalla violazione della
normativa antinfortunistica ed in materia di igiene
del lavoro, nel caso in cui intervenga la “mannaia”
della prescrizione.
Il tema, dunque, assume grande interesse per il nostro ordinamento, purtroppo spesso alle prese con
il tema della prescrizione che sovente interviene
bloccando iniziative risarcitorie sacrosante in materia.
Va peraltro riconosciuta al nostro legislatore particolare attenzione al tema della prevenzione infortuni, dimostrata dal raddoppio del termini di prescrizione per i reati di lesioni colpose ed omicidio
colposo correlati alla violazione della normativa
antinfortunistica, attenzione peraltro ribadita anche dai recente interventi legislativi di depenalizzazione di inizio anno 2016 (D.Lgs. n. 7/2016 e
D.Lgs. n. 8/2016) che, nel trasformare una serie di
violazioni contravvenzionali in illeciti amministrativi, hanno invece escluso dalla depenalizzazione
propria le violazioni antinfortunistiche, tra cui
quelle “normate” dal D.Lgs. n. 81/2008.
Resta, ovviamente, immutato il tema dell’osservanza degli obblighi imposti dal rispetto della Convenzione e.d.u., proprio di tutti gli Stati aderenti, cui
il nostro Paese non può sottrarsi proprio per la particolarità del nostro sistema. È ben vero che i rimedi previsti dall’ordinamento interno sono in linea
di massima efficaci e adeguatamente riparatori, ma
ciò non toglie che sul tema, soprattutto, per quanto concerne il settore delle malattie professionali –
vero “tallone d’Achille” del nostro ordinamento –
rappresenta un serio problema da affrontare.
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VDR in pratica
Sostanze pericolose
I rischi da esposizione
a formaldeide
Giuseppina Paolantonio (*) – Consulente e formatrice in igiene e sicurezza del
lavoro
La formaldeide, composto estesamente utilizzato in diversi ambiti produttivi, dal 1° gennaio
è classificata ufficialmente come cancerogena in Unione Europea. Se dunque prima considerare la formaldeide cancerogena era una scelta di chi effettuava la valutazione del rischio –
attenendosi al noto principio di fare riferimento a fonti autorevoli e non solo alla classificazione UE –, ora si pone l’immediata necessità di aggiornamento delle procedure di gestione del
rischio.
Introduzione
Il regolamento (UE) n. 605/2014 del 5 giugno
2014 rappresenta il sesto adeguamento al progresso
tecnico e scientifico (ATP) del regolamento CLP
n. 1272/2008 relativo alla classificazione, all’etichettatura e all’imballaggio delle sostanze e delle
miscele. La sua entrata in vigore, inizialmente prevista al 1° aprile 2015, era poi stata prorogata con
regolamento n. 491/2015 al 1° gennaio di quest’anno, proprio a causa del portato di alcune riclassificazioni ivi contenute.
In modo particolare, tra le varie modifiche apportate all’allegato VI del CLP (contenente le classificazioni ed etichettature armonizzate in ambito
UE), vi è quella che riguarda la formaldeide in soluzione acquosa (CAS 50-00-0) che acquisisce la
categoria Carc. 1B (probabile cancerogeno), con la
relativa hazard phrase “H350: può provocare il cancro”, mentre prima era considerata Carc. 2 (sospetto cancerogeno). Oltre a questa importante acquisizione, le evidenze scientifiche hanno condotto a
definire la formaldeide anche sospetto mutageno
(H341: sospettato di provocare alterazioni genetiche) per la sua capacità di alterare il corredo genetico nelle cellule germinali, potendo così condurre
allo sviluppo di patologie ereditarie nei soggetti
esposti.
In realtà, questa modifica nella classificazione della
formaldeide era sollecitata e attesa da tempo in base alle evidenze scientifiche che, pur non pienamente concordi, indicavano da tempo la medesima
strada; già nel 2004 l’autorevole IARC – International Agency for Research on Cancer – aveva
classificato la formaldeide come cancerogena del
gruppo 1 (agenti cancerogeni accertati) per la sua
azione complessiva sulle vie respiratorie superiori e
sulle cellule sanguigne.
La nuova classificazione della formaldeide richiedeva il tempestivo di aggiornamento della valutazione dei rischi (VdR) e delle conseguenti misure gestionali entro il termine tassativo di 30 giorni (art.
29 del D.Lgs. n. 81/2008) dal 1° gennaio 2016.
Ora la VdR inerente l’esposizione a questa sostanza
ricade nell’ambito di applicazione del Titolo IX,
Capo II del D.Lgs. n. 81/2008 (c.d. “Testo unico
della sicurezza del lavoro” o, più brevemente,
TUSL) inerente la protezione da agenti cancerogeni e mutageni, che prevede una metodologia di valutazione molto più rigorosa di quella delineata per
il “comune” rischio chimico.
(*) [email protected].
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Tabella 1 – Confronto di classificazione ed etichettatura per la formaldeide in base al 6° ATP
Nota: Come si può notare, gli elementi visivi dell’etichetta (simboli e dicitura) non vengono modificati nell’etichetta a norma del CLP, ciò a causa
dei criteri di etichettatura. Poiché l’etichetta costituisce un importante mezzo di comunicazione dei pericoli e, in genere, si pone più attenzione ai
simboli che ai contenuti, sarà dunque ancora più importante erogare l’adeguata informazione agli operatori esposti; peraltro, con la completa entrata in vigore dei nuovi criteri di classificazione ed etichettatura (lo scorso 1° giugno), avrebbe già dovuta essere effettuata un’appropriata formazione
in merito.
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Caratterizzazione del rischio espositivo
La formaldeide ha una molecola piuttosto leggera,
dunque la sua tendenza a generare vapori è elevata:
a temperatura ambiente (20°C) e pressione normale, in un ambiente chiuso si può raggiungere molto
rapidamente una contaminazione elevata. La densità dei vapori relativa all’aria è 1,03: ciò significa
che i vapori della sostanza si miscelano perfettamente con l’aria, senza stratificarsi in una direzione
preferenziale.
L’assorbimento avviene prevalentemente attraverso le vie respiratorie.
La tossicità acuta del composto è elevata: come
tutte le aldeidi, è dotata di potere irritante e allergizzante per la cute e le mucose e l’intossicazione
acuta può determinare una grave sindrome broncoostruttiva con tosse e dispnea intensa accompagnata da bruciore oculare e irritazione cutanea. L’inalazione, inoltre, può indurre anche edema polmonare a causa delle proprietà fortemente aggressive
sul tessuto polmonare.
Tabella 2 – Effetti dell’esposizione acuta a formaldeide
Effetti riscontrabili
Concentrazione (mg/m3)
Percezione dell’odore (soglia olfattiva)
0,06 – 1,2
Irritazione degli occhi
0,01 – 1,9
Irritazione della gola
0,1 – 3,1
Sensazione pungente agli occhi e al naso
2,5 – 3,7
Tollerabilità per la lacrimazione
5 – 6,2
Lacrimazione forte che perdura per un’ora
12 – 25
Edema, infiammazioni, polmoniti
37 – 60
Morte
60 – 125
Il fatto che la soglia olfattiva sia notevolmente inferiore rispetto alle concentrazioni correlate agli effetti più gravi non è in sé sufficiente a scongiurare
i rischi, sia per un effetto di assuefazione olfattiva
comune a tutte le sostanze chimiche, sia perché gli
effetti riscontrati possono insorgere con ritardo: in
seguito ad esposizione segnalata è infatti fortemente raccomandato un periodo di riposo dall’attività
di lavoro, sotto osservazione medica.
È evidente che occorra instaurare un sistema di monitoraggio delle concentrazioni aerodisperse; per
quanto concerne i valori limite, ACGIH (ente di riferimento autorevole, i cui orientamenti sono recepiti nel contratto collettivo della Chimica) definisce
un solo valore pari a 0,3 ppm (0,37 mg/m3), valore
definito come “ceiling” che, dunque, non dovrebbe
mai essere raggiunto in alcun momento dell’attività
di lavoro, neanche occasionalmente: ciò tiene conto
dell’elevata tossicità acuta della formaldeide.
Non sono invece definiti, allo stato attuale, valori
limite di riferimento in ambito europeo (OEL) – né
in ambito italiano –, ma la maggior parte dei valori
definiti dai singoli Stati membri si attesta tra 0,37 e
0,6 mg/m 3 ; una proposta del comitato europeo
SCOEL (Scientific Committee for Occupational Exposure Limits) del novembre 2015 suggerisce di definire un OEL a breve termine (STEL) di 0,6 ppm e un
OEL a lungo termine (TWA) di 0,3 ppm (1).
L’esposizione protratta anche a basse dosi (1ppm)
può comunque indurre lesione delle mucose nasali
di carattere infiammatorio – meccanismo che se ripetuto può condurre all’instaurarsi di alterazioni
nel funzionamento del tessuto che possono nel
tempo portare allo sviluppo di tessuti neoplastici.
La formaldeide è inoltre sensibilizzante sia per la
cute che per l’apparato respiratorio: si tratta di
un’azione tossicologica di tipo probabilistico, per la
quale quindi non è possibile definire una affidabile
dose soglia di esposizione; l’esposizione deve essere
mantenuta ai minimi livelli possibili.
L’intossicazione cronica è caratterizzata da bronchite, asma bronchiale e sindromi simil-asmatiformi, irritazione oculare persistente, dermatite allergica per contatto.
Gli effetti probabilistici a lungo termine riguardano
lo sviluppo di cancro nasofaringeale, un tumore ra-
(1) Attualmente la proposta dello SCOEL è alla consultazione delle parti sociali; in seguito la Commissione effettuerà una
valutazione di impatto socioeconomico e alla fine del percorso
(approssimativamente nell’arco di 12 mesi) una proposta di
legge verrà portata al Parlamento e Consiglio europeo, per
giungere all’approvazione definitiva di valori limite per la formaldeide in ulteriori 6 mesi circa.
440
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ro nei paesi sviluppati: su questo punto la IARC
ha concluso per una sufficiente evidenza di cancerogenicità in base ai dati epidemiologici disponibili
sull’uomo. Vi sono invece ad oggi limitate, ma non
assenti, evidenze di cancerogenicità per il tumore
delle fosse nasali e paranasali e una evidenza forte
ma non sufficientemente conclusiva rispetto allo
sviluppo di leucemie.
Patologie riconducibili a esposizione
a formaldeide
Il D.P.R. n. 1124/1965 inerente le patologie professionali tabellate per come aggiornato dal D.M. 9
aprile 2008 indicava già questo agente come porta-
tore di tumori (voce 43a, tumori del nasofaringe) e
di patologie ostruttive delle vie respiratorie, oltre
che di dermatiti; mentre il D.M. 11 dicembre 2009
riguardante l’obbligo da parte del Medico di denuncia della patologia contratta da soggetti esposti
(come da art. 139 D.P.R. n. 1124/1965), considera
la formaldeide in modo particolare alle voci seguenti dell’allegato 4:
— lista I (malattie la cui origine lavorativa è di
elevata probabilità, gruppo 6 voce 40 (tumori del
nasofaringe);
— lista II (malattie la cui origine lavorativa è di limitata probabilità), gruppo 6 voce 09 (tumori delle
cavità nasali, tumori dei seni paranasali, leucemie).
Tabella 2 – Malattie professionali tabellate ascrivibili a esposizione a formaldeide denunciate all’INAIL
(2010-2014)
Patologia
2010
2011
2012
2013
2014
43. Malattie da aldeidi
1
1
4
(Costruzioni)
4
(Industria chimica;
Costruzioni; Industrie
manifatturiere)
1
(Industria
alimentare)
Dermatite allergica
da contatto
2
(Sanità)
1
(Industrie
manifatturiere)
2
(Industria
della pelle)
0
1
Dermatite irritativa
da contatto
0
1
(Sanità)
0
0
1
(Industrie
manifatturiere)
Trachebronchite
1
0
0
0
1
(Costruzioni)
Asma bronchiale
0
2
0
3
(Industrie
manifatturiere)
1
(Sanità)
2
(Sanità, Industrie
manifatturiere)
1
(Industria tessile)
0
0
1
(Industria tessile)
6
6
6
Tumori del nasofaringe
Altre malattie da aldeidi
Totale
6
Fonte: Banca dati statistica INAIL. Sebbene la numerosità dei casi non sia irrilevante, appare significativa la loro distribuzione nei diversi settori.
Processi dove la formaldeide è in uso
La formaldeide è una sostanza che si può definire
ubiquitaria: non solo viene diffusamente utilizzata
in molti processi di lavoro in ambito industriale e
non, ma si ritrova anche in ambiente interno in
quanto rilasciata da numerosi materiali e può inoltre formarsi come prodotto di idrolisi di altre sostanze, di degradazione termica e nella combustio-
Igiene & Sicurezza del Lavoro 8-9/2016
ne (è ad esempio presente nel fumo di sigaretta e
nei fumi dalla cottura di alimenti). Sorgenti di
emissione comuni includono le emissioni dal traffico veicolare, i materiali da costruzione, tappeti e
tessili, rivestimenti, vernici e pitture; in genere si
può ritenere che i livelli espositivi in ambito civile
esterno siano contenuti, mentre in ambiente interno possono raggiungere entità considerevoli.
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Figura 1 – Presenza di formaldeide in diversi materiali
Legenda
UF resine urea-formaldeide
PF resine fenolo-formaldeide
MF resine melammina-formaldeide
POM poliossimetileni
MDI metilen-bis(difenil isocianato)
BDO butandiolo
PFA paraformaldeide
L’esposizione occupazionale a formaldeide è estremamente estesa: IARC nel 2004 cita una stima di
più di un milione di lavoratori esposti a formaldeide nell’Unione Europea. Sempre secondo IARC,
elevati livelli di esposizione acuta sono riscontrati
per patologi e lavoratori della carta; livelli inferiori
si possono riscontrare nella manifattura di fibre vetrose, di abrasivi, nell’industria della gomma e nell’industria chimica. Esposizioni estremamente varie
si possono osservare nella produzione di resine e
plastiche.
Tabella 3 – Presenza di formaldeide nei processi di lavoro
Settore
Lavorazione
Modalità
Industria chimica
Sintesi della formaldeide
In genere processi a ciclo chiuso o comunque provvisti di elevati standard tecnologici per il contenimento dei vapori in produzione, trasporto e stoccaggio
Preparazione di formulazioni a base di formaldeide
Processi cui standard tecnologici possono essere molto variabili, spesso le carenze si riscontrano negli elementi comportamentali (es. Misure igieniche)
Formulazione di pitture e vernici
Processi cui standard tecnologici possono essere molto variabili, alcune realtà hanno dimensioni artigianali e di conseguenza la dotazione
impiantistica è molto semplice, con ciclo aperto e inadeguatezza delle
aspirazioni; spesso le carenze si riscontrano negli elementi comportamentali (es. Misure igieniche)
Produzione di resine fenoliche
Stampaggio per compressione a temperature tra 100°c e 170°c; processi i cui standard tecnologici possono essere molto variabili, elevata
formazione di fumi
Industria della plastica
Produzione di resine amminiche
Produzione di resine epossidiche
Produzione di resine ureiche
442
Igiene & Sicurezza del Lavoro 8-9/2016
Gli inserti di
IPSOA
ISL Igiene & Sicurezza del Lavoro n. 8-9 Agosto-Settembre 2016
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IGIENE
& SICUREZZA
DEL LAVORO
Mensile di aggiornamento giuridico e di orientamento tecnico
Rivista mensile Anno XX – Agosto-Settembre 2016 – Direzione
L9LKHaPVUL:[YHKH7HSHaaV- 4PSHUVÄVYP(ZZHNV
8-9/2016
INSERTO
SICUREZZA ALIMENTARE:
IL CASO DI UN’AZIENDA
LATTIERO-CASEARIA
Patrizia Cinquina e William Rossi
Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l.
Sommario
Introduzione .......................................................................................................................
III
Quadro di riferimento normativa europea
Il Libro Bianco sulla sicurezza alimentare ......................................................................................
III
L’Autorità alimentare europea (EFSA)..........................................................................................
IV
Nuovo quadro giuridico ...........................................................................................................
IV
Sistemi di controllo ................................................................................................................
IV
Informazione ai consumatori.....................................................................................................
V
Regolamento (CE) n. 852/2004 ................................................................................................
V
Principali novità introdotte dal Regolamento (CE) n. 1169/2011 .........................................................
VI
Normativa nazionale
R.D. 27 luglio 1934, n.1265 e legge 30 aprile 1962, n. 283 .............................................................
VIII
D.P.R. 26 marzo 1980, n. 327 .................................................................................................
VIII
D.P.R. 14 luglio 1995.............................................................................................................
IX
D.Lgs. 6 novembre 2007, n. 193...............................................................................................
IX
Infortuni e malattie professionali
Infortuni .............................................................................................................................
XIII
Infortuni sul lavoro nel settore lattiero-caseario ...............................................................................
XIV
Malattie professionali .............................................................................................................
XIV
Industria alimentare: valutazione e prevenzione...................................................................
XV
Caso studio del comparto: azienda lattiero-casearia
Fasi di lavorazione.................................................................................................................
XVI
Rischio biologico....................................................................................................................
XVIII
Rischio da sovraccarico biomeccanico degli arti superiori nei processi di caseificazione industriale....................
XIX
Rischio microclimatico nei caseifici ..............................................................................................
XX
Formazione del personale........................................................................................................
XXI
Bibliografia..........................................................................................................................
XXII
MILANOFIORI ASSAGO, Strada 1, Palazzo F6, Tel. 02.82476.090
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Inserto
Sicurezza alimentare: il caso di
un’azienda lattiero-casearia
Patrizia Cinquina e William Rossi – Consulenti per la Sicurezza
Introduzione
L’industria alimentare è il settore che ci rappresenta meglio nel mondo e quello che ha investito di più in sostenibilità, anticipando uno dei temi affrontati nell’EXPO
2015. Fa meglio di altre punte di diamante del made in
Italy come auto, tessile, calzature e arredo. Include la
trasformazione di prodotti dell’agricoltura, della silvicoltura e della pesca in alimenti commestibili per l’uomo o per gli animali. È organizzata in attività riguardanti diversi tipi di prodotti di carne, pesce, frutta e ortaggi,
grassi e oli, lattiero-caseari, granaglie, panetteria e farinacei, altri prodotti alimentari e mangimi per animali.
La sicurezza alimentare rappresenta un interesse primario della popolazione e coinvolge in modo trasversale e
con differenti ruoli le istituzioni, i consumatori, i produttori e il mondo scientifico.
Per garantire la sicurezza degli alimenti occorre considerare tutti gli aspetti della catena alimentare come un
unico processo, a partire dalla produzione primaria fino
alla vendita o erogazione di alimenti al consumatore.
La legislazione alimentare comunitaria ha attribuito la
diretta responsabilità agli operatori del settore alimentare, che devono garantire ciò che commercializzano e,
inoltre, ha introdotto l’impiego di uno strumento preciso
che è l’analisi del rischio.
Il primo documento ufficiale in cui si parla di analisi
del rischio (risk analysis) e della sua applicazione nel
campo della sicurezza alimentare risale al 1995
(FAO/WHO, 1995).
Il documento che, tuttavia, costituisce il punto di riferimento essenziale di tutte le esperienze di valutazione
del rischio (risk assessment) è pubblicato dalla Codex
Alimentarius Commission (FAO/WHO, 1999) Principles and guidelines for the conduct of microbiological
risk assessment in cui si è cercato di standardizzare e
raccogliere in un unico schema le metodologie proposte
dai diversi organismi.
In ambito comunitario, i concetti di risk analysis e risk
assessment sono stati introdotti con il Regolamento
(CE) n. 178/2002 del 28 gennaio 2002 e l’analisi del rischio è diventato, quindi, uno strumento fondamentale
Igiene & Sicurezza del Lavoro 8-9/2016
per valutare i problemi e per prendere delle decisioni in
ambito alimentare.
Il processo di analisi del rischio è fondamentale per le
basi scientifiche delle norme del Codex Alimentarius,
sviluppato per proteggere la salute dei consumatori.
È anche grazie a questa base scientifica che il Codex
rappresenta per il WTO/OMC (World Trade Organization) il punto di riferimento internazionale per gli standard di sicurezza alimentare.
Quadro di riferimento normativa europea
Il Libro Bianco sulla sicurezza alimentare
Il principio ispiratore del Libro Bianco sulla sicurezza
alimentare (12 gennaio 2000, COM/99/0719 def. Non
pubblicata sulla GUUE) è che la politica della sicurezza
alimentare deve basarsi su un approccio completo e integrato; ciò significa che esso deve considerare l’intera
catena alimentare: dai campi alla tavola. Il Libro Bianco
sulla sicurezza alimentare contiene un insieme di misure
volte a completare e modernizzare la legislazione dell’Unione europea in materia di igiene degli alimenti,
con l’obiettivo di:
— renderla più coerente, comprensibile ed elastica;
— consentirne una migliore applicazione;
— aumentare la trasparenza per migliorare la sicurezza
alimentare.
Le crisi che hanno investito l’alimentazione umana e
animale (BSE, diossina, mozzarelle blu) hanno evidenziato importanti carenze nella concezione e nell’applicazione della regolamentazione alimentare europea nel
settore; ne è seguito un dibattito che ha stimolato la
Commissione a includere la promozione della sicurezza
alimentare tra le priorità per i prossimi anni.
Il Libro bianco sulla sicurezza alimentare rappresenta
un momento essenziale in questa strategia e contiene un
insieme di misure che consentono di organizzare la sicurezza alimentare in modo più coordinato e integrato,
mediante:
• la creazione di una Autorità alimentare europea autonoma (EFSA) incaricata di
a) elaborare pareri scientifici indipendenti su tutte le
questioni attinenti alla sicurezza alimentare,
III
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Inserto
b) raccogliere ed analizzare informazioni sui rischi potenziali o emergenti,
c) instaurare un dialogo permanente con il pubblico,
mediante la gestione di sistemi di allarme rapido e la
comunicazione dei rischi;
• un quadro giuridico migliorato, in grado di coprire tutti gli aspetti connessi ai prodotti alimentari, “dai campi
alla tavola”;
• una maggiore armonizzazione dei sistemi di controllo
a livello nazionale;
• un dialogo con i consumatori e le altre parti coinvolte.
Prima di presentare questi quattro aspetti in modo più
particolareggiato, la Commissione formula i principi generali sui quali dovrebbe vertere la politica europea in
materia di sicurezza alimentare:
— una strategia globale, integrata, che si applica a tutta
la catena alimentare;
— una definizione chiara dei ruoli di tutte le parti coinvolte nella catena alimentare (produttori di alimenti per
animali, operatori agricoli e operatori del settore alimentare, Stati membri, Commissione, consumatori);
— la rintracciabilità degli alimenti (destinati agli esseri
umani e agli animali) e dei loro ingredienti;
— la coerenza, l’efficacia e il dinamismo della politica
alimentare;
— l’analisi dei rischi (compresa la valutazione, la gestione e la comunicazione dei rischi);
— l’indipendenza, l’eccellenza e la trasparenza dei pareri scientifici;
— l’applicazione del principio di precauzione nella gestione dei rischi.
L’Autorità alimentare europea (EFSA)
Nel processo di realizzazione dell’analisi dei rischi svolgono un ruolo particolarmente significativo la raccolta,
l’analisi e la comunicazione delle informazioni sui rischi
potenziali nell’alimentazione umana e animale.
Le attività da migliorare riguardano:
1) i sistemi di controllo e sorveglianza e di allarme rapido;
2) la ricerca in materia di sicurezza alimentare;
3) la collaborazione scientifica, l’appoggio analitico e la
formulazione di pareri scientifici;
4) la garanzia di una informazione rapida e facilmente
accessibile per i consumatori.
Per raggiungere questi obiettivi, la Commissione ha previsto la creazione dell’Autorità alimentare europea autonoma, incaricata della valutazione scientifica e della comunicazione, in stretta collaborazione con le agenzie e
le istituzioni scientifiche nazionali.
L’Autorità, istituita con il Regolamento (CE) n.
178/2002, ha sede a Parma e deve diventare il punto di
riferimento scientifico per l’Unione in materia di sicurezza alimentare.
Essa è chiamata a formulare pareri scientifici indipendenti su tutti gli aspetti della sicurezza alimentare, a raccogliere e analizzare le informazioni necessarie, gestire
i sistemi di allarme rapidi, comunicare e dialogare con i
consumatori, realizzare reti con le agenzie nazionali e
gli organismi scientifici.
IV
Nuovo quadro giuridico
Nonostante la vasta legislazione (sia verticale che orizzontale) in tema di produzione primaria di prodotti agricoli e di produzione industriale di preparati alimentari,
si registrano ampie divergenze nella gestione delle situazioni specifiche.
Le parti interessate, inoltre, non sono impegnate con
chiarezza a fornire con rapidità l’allarme in presenza di
rischi potenziali, facendo perdere all’Unione la capacità
di reagire in modo efficiente alle crisi alimentari.
La Commissione prevede di rimediare a questa situazione proponendo un insieme coerente e trasparente di norme in materia di sicurezza alimentare che avranno lo
scopo di definire principi comuni, identificare la sicurezza alimentare come principale obiettivo del diritto
comunitario e fornire il quadro generale per i settori non
coperti da norme armonizzate specifiche.
Il nuovo quadro giuridico proposto riguarderà i vari
aspetti della catena alimentare:
a) gli alimenti per animali, in relazione ai seguenti temi:
— impiego di materiali e di prodotti specifici;
— valutazione, autorizzazione ed etichettatura degli alimenti;
— approvazione degli impianti di produzione e misure
di controllo;
— creazione di un sistema di allarme rapido;
b) la salute e il benessere degli animali attraverso il rafforzamento della lotta contro le zoonosi, l’ESB e altre
encefalopatie spongiformi trasmissibili, l’integrazione
dei problemi di benessere degli animali nella politica
alimentare;
c) l’igiene delle derrate alimentari attraverso il rifacimento di tutte le disposizioni giuridiche esistenti per garantire coerenza e chiarezza nell’insieme della catena di
produzione alimentare;
d) i limiti di contaminanti e di residui di pesticidi e di
farmaci veterinari negli alimenti;
e) l’autorizzazione e l’etichettatura dei nuovi alimenti;
f) gli additivi, gli aromi, l’imballaggio e la ionizzazione
delle derrate alimentari;
g) la possibilità di adottare misure di salvaguardia nelle
situazioni di urgenza;
h) il processo di decisione in materia di alimentazione
(quest’ultimo dovrà essere razionalizzato e semplificato
per garantirne rapidità e trasparenza).
Sistemi di controllo
Poiché le ispezioni della Commissione, in collaborazione con l’Ufficio alimentare e veterinario (UAV), hanno
messo in evidenza lacune nei sistemi nazionali di controllo, la Commissione prevede di ristrutturare in modo
esauriente le disposizioni in materia di controllo, in modo da garantire che tutte le maglie della catena di produzione alimentare possano formare oggetto di controlli
effettivi.
Anche se la responsabilità primaria per il rispetto delle
disposizioni legislative appartiene agli operatori economici, le autorità nazionali sono incaricate di vigilare sull’effettivo rispetto delle norme di sicurezza da parte degli operatori; la progettazione di sistemi armonizzati di
controllo a livello europeo potrebbe contribuire a un rafforzamento dell’omogeneità e della qualità dei controlli.
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Inserto
Per questo, la definizione del quadro comunitario dei sistemi di controllo, proposta dalla Commissione fonda su
tre elementi basilari:
— definizione di criteri operativi su scala comunitaria;
— formulazione di orientamenti comunitari in materia
di controllo;
— migliore collaborazione amministrativa nella concezione e nella gestione dei sistemi di controllo.
La Commissione si interroga sulla necessità di attivare
competenze supplementari, in appoggio alle procedure
d’infrazione in corso, quando i controlli rivelano una significativa mancanza di rispetto delle disposizioni comunitarie.
Informazione ai consumatori
• Comunicazione
La comunicazione dei rischi dovrebbe essere interattiva
e implicare dialogo e ritorno delle informazioni di tutti
gli interessati; ciascuna fase decisionale dovrebbe essere
totalmente trasparente.
Le preoccupazioni dei consumatori dovrebbero essere
prese in considerazione:
— consultando il grande pubblico su tutti gli aspetti di
sicurezza alimentare;
— fornendo un quadro di discussione tra gli esperti
scientifici e i consumatori;
— facilitando il dialogo transnazionale tra i consumatori
su scala europea e mondiale.
La Commissione prefigura una strategia sempre più
proattiva per la comunicazione dei rischi inevitabili per
i gruppi più vulnerabili (donne incinte, bambini, anziani,
persone colpite da immunodeficienza.
• Etichettatura
Norme vincolanti in materia di etichettatura devono
consentire ai consumatori di scegliere i generi alimentari
con consapevolezza.
Oltre alla codificazione della direttiva relativa all’etichettatura, la Commissione intende attuare un’estensione dell’obbligo di citare i componenti di un prodotto alimentare a tutti i suoi ingredienti (e non solo a quelli che
costituiscono almeno il 25% del prodotto finale).
La Commissione esaminerà anche la possibilità d’introdurre nel diritto comunitario disposizioni specifiche relative alle “informazioni funzionali” (es. gli effetti benefici di un alimento sulle funzioni corporali normali) e le
“informazioni nutritive” (es. quelle che descrivono la
presenza, l’assenza o il livello nutritivo contenuto in un
alimento o il suo valore rispetto a prodotti alimentari
analoghi).
L’informazione dei consumatori dovrebbe estendersi al
di là della composizione biologica, chimica e fisica degli alimenti, coprendone anche il valore nutritivo; la
Commissione presenterà proposte volte a stabilire criteri
per gli alimenti dietetici, gli integratori alimentari e gli
alimenti arricchiti.
• Dimensione internazionale
Gli alimenti importati destinati all’uomo ed agli animali
devono soddisfare esigenze sanitarie per lo meno equivalenti a quelle applicabili alla produzione interna della
Comunità; il livello di sicurezza dei prodotti esportati
dalla Comunità dovrebbe essere almeno equivalente a
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quello richiesto per i prodotti immessi sul mercato comunitario.
Nel quadro dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC), la Comunità dovrà perseguire le sue iniziative volte a stabilire norme internazionali che consentano ai Paesi membri di mantenere livelli elevati di sanità
pubblica in materia di sicurezza alimentare.
La Commissione valuterà la possibilità di concludere
nuovi accordi bilaterali relativi al riconoscimento dell’equivalenza delle misure sanitarie con Paesi terzi e con
Paesi vicini (Norvegia, Svizzera, Andorra) e sottolineando l’importanza dell’approvazione dell’Acquis comunitario in materia, da parte dei Paesi candidati.
• Piano d’azione
Il piano d’azione in materia di sicurezza alimentare, allegato al Libro Bianco, stabilisce l’elenco delle ottantaquattro proposte legislative che dovrebbero essere approvate entro la fine del 2002 per dar seguito al Libro
Bianco e il calendario corrispondente.
In merito al Libro Bianco sulla sicurezza alimentare
quanto sopra riportato è stato condiviso anche dal Consiglio Nazionale dei Consumatori e degli Utenti
(CNCU), che ha espresso un complessivo parere positivo con le dovute precisazioni in merito a:
— istituzione di un apposito corpo ispettivo al servizio
dell’Autorità alimentare europea (EFSA);
— procedure per la rintracciabilità da applicare anche
per il comparto agricolo;
— attenzione anche per il comparto alimentare delle bevande;
— eccessiva enfasi per la sanificazione degli alimenti;
— insufficiente approfondimento della sicurezza nutrizionale degli alimenti.
Regolamento (CE) n. 852/2004
Un elemento innovativo introdotto dalla normativa europea (art. 6 del Regolamento CE n. 852/2004) è costituito dalla procedura di notifica o registrazione di tutte le
imprese alimentari.
La registrazione è finalizzata alla programmazione dell’attività di vigilanza; lo scopo di tale procedura è permettere alle autorità competenti di conoscere il numero,
l’ubicazione e la tipologia degli stabilimenti alimentari,
per eseguire i controlli ufficiali ogni qualvolta giudicato
necessario.
Ciascun gestore, la cui impresa debba iniziare l’attività
di preparazione e somministrazione alimentare, deve
presentare al Comune di appartenenza un’autocertificazione utilizzando la modulistica della DIA (Dichiarazione inizio attività), fornita dagli uffici comunali competenti.
La DIA deve essere presentata nei seguenti casi:
— apertura di nuova attività;
— modifica del ciclo produttivo;
— ampliamento dell’attività esistente;
— trasferimento di attività;
— cambio di gestione (ragione sociale).
La notifica deve essere accompagnata da una planimetria aggiornata dei locali adibiti alla manipolazione alimentare e da una relazione tecnica, che specifichi le caratteristiche degli impianti, le modalità del ciclo produttivo e la descrizione dei prodotti finali (con particolare
V
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Inserto
riferimento all’approvvigionamento di acqua potabile,
allo smaltimento dei residui solidi e liquidi, alle emissioni in atmosfera e alla stesura del piano di autocontrollo).
A seguito della presentazione della notifica non è prevista, da parte dell’Ufficio competente, l’emissione di alcun nulla osta sanitario, ma soltanto una presa d’atto e
l’attivazione di procedure interne per la elaborazione e
archiviazione delle informazioni ricevute.
Le attività di produzione, trasformazione, trasporto, magazzinaggio, somministrazione e vendita alimentare non
sono quindi più soggette al rilascio dell’autorizzazione
sanitaria sancita dall’art. 2 della legge n. 283/1962) e la
registrazione non è subordinata all’ispezione preventiva
da parte del personale tecnico dell’Azienda USL territoriale.
Le realtà produttive già in possesso di autorizzazione ai
sensi della normativa precedente, non devono inoltrare
nuova comunicazione, ma saranno registrate d’ufficio
dai servizi preposti, sulla base dei dati precedentemente
acquisiti.
Presupposto della DIA è che, al momento della presentazione della comunicazione, il titolare dichiari che la
struttura possiede i requisiti igienico-sanitari prescritti
dal Regolamento (CE) n. 852/2004.
Nell’ambito delle attività di controllo ufficiale, saranno
gli incaricati dei Dipartimenti di Prevenzione delle
Aziende USL a verificare la rispondenza di quanto autocertificato nella DIA; nel caso di dichiarazioni mendaci,
si è perseguibili a sanzioni penali previste dall’art. 76
del D.P.R. n. 445/2000 per i reati di falsità in atti e uso
di atto falso.
L’obbligo della formazione professionale per tutto il
personale addetto alla preparazione e somministrazione
degli alimenti (compresi i Responsabili HACCP), è stato notevolmente ribadito dal Regolamento (CE) n.
852/2004 e dalle diverse disposizioni regionali italiane,
che hanno previsto l’abolizione del rinnovo/rilascio delle tessere sanitarie ed hanno prescritto il coinvolgimento
diretto del personale, attraverso una periodica e comprovata educazione sanitaria.
Premessa importante sancita dalla normativa, è che l’applicazione delle procedure basate sui principi del sistema HACCP implica la collaborazione e l’impegno pieni
da parte di tutti gli addetti.
Secondo il cap. XII dell’Allegato II del Regolamento
(CE) n. 852/2004, l’imprenditore alimentare deve garantire che i propri dipendenti abbiano ricevuto idonea formazione circa:
— l’igiene alimentare, con particolare riguardo alle misure di prevenzione dei pericoli igienico-sanitari connessi alla manipolazione alimentare;
— l’applicazione delle misure di autocontrollo correlate
allo specifico settore produttivo ed alle mansioni svolte
dal lavoratore stesso.
L’obiettivo è che ciascun incaricato conosca e comprenda i vari rischi insiti in tutta la filiera alimentare e come
tali pericoli possono essere prevenuti o minimizzati, tramite una corretta prassi igienica.
Gli addetti alla manipolazione degli alimenti devono,
quindi, ricevere una specifica formazione in materia di
igiene personale e di buone pratiche di lavorazione
VI
(GMP) ed essere sottoposti a valutazione esterna, circa
il grado di apprendimento delle conoscenze impartite.
Il potenziamento dei controlli di vigilanza ufficiale prevede, infatti, che gli organi preposti alle visite ispettive,
prendano visione e verifichino la congruità della documentazione allegata nel registro di autocontrollo, compresa quella relativa alle iniziative formative svolte (attestato di frequenza, test di verifica).
In conclusione possiamo affermare che lo strumento sicuramente necessario per garantire la sicurezza alimentare resta comunque la formazione e l’addestramento
del personale impiegato nella manipolazione di alimenti,
a condizione che tale percorso educativo non sia teorico
e rituale, bensì privilegi gli aspetti operativi e pratici
correlati alle singole mansioni.
Principali novità introdotte dal Regolamento
(CE) n. 1169/2011
Il 13 dicembre 2014 è entrato in vigore il Regolamento
(CE) n. 1169/2011, con l’eccezione dell’art. 9 relativo
alla tabella nutrizionale che sarà obbligatoria a partire
dal 13 dicembre 2016.
Il Regolamento (UE) n. 1169/2011 relativo alla fornitura
di informazioni sugli alimenti ai consumatori aggiorna e
semplifica le norme precedenti sull’etichettatura degli
alimenti. Lo scopo di tale innovazione è quello di tutelare ulteriormente la salute dei consumatori ed assicurare
una informazione chiara e trasparente.
Il nuovo regolamento armonizza la materia dell’etichettatura degli alimenti; il legislatore chiede che vengano
fornite informazioni chiare e precise circa la composizione degli alimenti in modo da consentire al consumatore finale una scelta consapevole e sicura.
La suddetta normativa garantisce ai soggetti con allergie
ed intolleranze alimentari una corretta informazione in
merito agli allergeni presenti negli alimenti preimballati,
in quelli sfusi, in quelli imballati sui luoghi di vendita o
preimballati per la vendita diretta.
Le nuove norme riguardano anche la somministrazione
diretta di alimenti cucinati, freschi, sfusi nella ristorazione collettiva e/o pubblica; per i prodotti alimentari in
vendita al dettaglio e all’ingrosso (negozi, supermercati,
fornitori, ecc.) esiste da anni l’obbligo di indicare in etichetta la presenza di sostanze allergeniche (D.Lgs. n.
114/2006): in questi casi il nuovo Regolamento prevede
comunque un’indicazione più chiara per il consumatore,
attraverso un tipo di carattere chiaramente distinto dagli
altri ingredienti elencati, per esempio per dimensioni,
stile, colore di sfondo.
Il Regolamento (UE) n. 1169/2011 si applica agli alimenti destinati:
— al consumatore finale;
— alla collettività (qualunque struttura, es. ristorante,
mensa, veicolo ecc. in cui sono preparati alimenti destinati al consumo immediato da parte de consumatore finale);
— dalla collettività al consumatore finale.
Nell’Allegato II del suddetto Regolamento sono scritte
le sostanze o prodotti che provocano allergie o intolleranze:
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1. Cereali contenenti glutine, cioè: grano, segale, orzo,
avena, farro, kamut o i loro ceppi ibridati e prodotti derivati, tranne:
a) sciroppi di glucosio a base di grano, incluso destrosio
(1);
b) maltodestrine a base di grano (1);
c) sciroppi di glucosio a base di orzo;
d) cereali utilizzati per la fabbricazione di distillati alcolici, incluso l’alcol etilico di origine agricola.
2. Crostacei e prodotti a base di crostacei.
3. Uova e prodotti a base di uova.
4. Pesce e prodotti a base di pesce, tranne:
a) gelatina di pesce utilizzata come supporto per preparati di vitamine o carotenoidi;
b) gelatina o colla di pesce utilizzata come chiarificante
nella birra e nel vino.
5. Arachidi e prodotti a base di arachidi.
6. Soia e prodotti a base di soia, tranne:
a) olio e grasso di soia raffinato (1);
b) tocoferoli misti naturali (E306), tocoferolo D_alfa naturale, tocoferolo acetato D_alfa naturale, tocoferolo
succinato D_alfa naturale a base di soia;
c) oli vegetali derivati da fitosteroli e fitosteroli esteri a
base di soia;
d) estere di stanolo vegetale prodotto da steroli di olio
vegetale a base di soia.
7. Latte e prodotti a base di latte (incluso lattosio), tranne:
a) siero di latte utilizzato per la fabbricazione di distillati alcolici, incluso l’alcol etilico di origine agricola;
b) lattiolo.
8. Frutta a guscio, vale a dire: mandorle (Amygdalus
communis L.), nocciole (Corylus avellana), noci (Juglans regia), noci di acagiù (Anacardium occidentale),
noci di pecan (Carya illinoinensis (Wangenh.) K. Koch),
noci del Brasile (Bertholletia excelsa), pistacchi (Pistacia vera), noci macadamia o noci del Queensland (Macadamia ternifolia), e i loro prodotti, tranne per la frutta
a guscio utilizzata per la fabbricazione di distillati alcolici, incluso l’alcol etilico di origine agricola.
9. Sedano e prodotti a base di sedano.
10. Senape e prodotti a base di senape.
11. Semi di sesamo e prodotti a base di semi di sesamo.
12. Anidride solforosa e solfiti in concentrazioni superiori a 10 mg/kg o 10 mg/litro in termini di SO2 totale
da calcolarsi per i prodotti così come proposti pronti al
consumo o ricostituiti conformemente alle istruzioni dei
fabbricanti.
13. Lupini e prodotti a base di lupini.
14. Molluschi e prodotti a base di molluschi.
Tabella 1 –Normativa UE
Regolamento CEE n. 2092/1991 del Consiglio del 24 giugno 1991, (Metodo di produzione biologico di prodotti agricoli e alla indicazione
di tale metodo sui prodotti agricoli e sulle derrate alimentari)
Regolamento CEE n. 3457/1992 della Commissione del 30 novembre 1992 (Modalità di esecuzione concernenti il certificato di controllo
previsto per le importazioni nella Comunità in provenienza dai paesi terzi dal regolamento CEE n. 2092/1991 del Consiglio relativo al
metodo di produzione biologico di prodotti agricoli e alla indicazione di tale metodo sui prodotti agricoli e sulle derrate alimentari)
Regolamento CEE n. 1804/1999 del 19 luglio 1999 (che completa, per le produzioni animali, il regolamento (CEE) n. 2092/1991 relativo
al metodo di produzione biologico di prodotti agricoli e alla indicazione di tale metodo sui prodotti agricoli e sulle derrate alimentari)
Regolamento CE n. 1073/2000 della Commissione del 19 maggio 2000 (Modifica il regolamento. CEE n. 2092/1991 del Consiglio relativo al metodo di produzione biologico di prodotti agricoli e all’indicazione di tale metodo sui prodotti agricoli e sulle derrate alimentari)
Regolamento CE n. 2000/1760 del Parlamento europeo del 17 luglio 2000 (che istituisce un sistema di identificazione e di registrazione
dei bovini e relativo all’etichettatura delle carni bovine e dei prodotti a base di carni bovine, e che abroga il regolamento (CE) n. 820/97
del Consiglio)
Regolamento CE n. 2000/1825 della Commissione del 25 agosto 2000 (recante modalità di applicazione del Regolamento (CE) n.
1760/2000 del Parlamento europeo e del Consiglio per quanto riguarda l’etichettatura delle carni bovine e dei prodotti a base di carni
bovine)
Regolamento (CE) n. 178/2002 del 28 gennaio 2002 (che stabilisce i principi e i requisiti generali della legislazione alimentare, istituisce
l’Autorità europea per la sicurezza alimentare e fissa procedure nel campo della sicurezza alimentare)
Direttiva n. 16/2002/CE del 20 febbraio 2002 (sull’uso di taluni derivati epossidici in materiali e oggetti destinati a venire a contatto con i
prodotti alimentari)
Direttiva n. 72/2002/CE del 6 agosto 2002 (relativa ai materiali e agli oggetti di materia plastica destinati a venire a contatto con i prodotti alimentari)
Direttiva n. 19/2004/CE del 1ş marzo 2004, (relativa ai materiali destinati a venire a contatto con i prodotti alimentari)
Regolamento CE n. 852/2004 del 29 aprile 2004 (sull’igiene dei prodotti alimentari)
Regolamento CE n. 853/2004 del 29 aprile 2004 (che stabilisce norme specifiche in materia di igiene per gli alimenti di origine animale)
Regolamento CE n. 854/2004 del 29 aprile 2004 (che stabilisce norme specifiche per l’organizzazione di controlli ufficiali sui prodotti di
origine animale destinati al consumo umano)
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VII
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Regolamento CE n. 882/2004 del 29 aprile 2004 (relativo ai controlli ufficiali intesi a verificare la conformità alla normativa in materia di
mangimi e di alimenti e alle norme sulla salute e sul benessere degli animali)
Direttiva 2004/41/CE (relativa ai controlli in materia di sicurezza alimentare e applicazione dei regolamenti comunitari nel medesimo settore)
Regolamento CE n. 1935/2004 del 27 ottobre 2004, (riguardante i materiali e gli oggetti destinati a venire a contatto con i prodotti alimentari e che abroga le direttive 80/590/CEE e 89/109/CEE)
Regolamento CE n. 2073/2005 del 15 novembre 2005, (sui criteri microbiologici applicabili ai prodotti alimentari)
Regolamento CE n. 2074/2005 del 5 dicembre 2005 (recante modalità di attuazione relative a taluni prodotti di cui al regolamento (CE)
n. 853/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio e all’organizzazione di controlli ufficiali a norma dei regolamenti del Parlamento europeo e del Consiglio (CE) n. 854/2004 e (CE) n. 882/2004, deroga al regolamento (CE) n. 852/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio e modifica dei regolamenti (CE) n. 853/2004 e (CE) n. 854/2004)
Direttiva 2006/42/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 17 maggio 2006 relativa alle macchine e che modifica la direttiva
95/16/CE (rifusione).
Regolamento REACH n. 1907/2006 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 18 dicembre 2006 concernente la registrazione, la valutazione, l’autorizzazione e la restrizione delle sostanze chimiche (REACH), che istituisce un’agenzia europea per le sostanze chimiche,
che modifica la direttiva 1999/45/CE e che abroga il regolamento (CEE) n. 793/93 del Consiglio e il regolamento (CE) n. 1488/94 della
Commissione, nonché la direttiva 76/769/CEE del Consiglio e le direttive della Commissione 91/155/CEE, 93/67/CEE, 93/105/CE e
2000/21/CE (Registration, Evaluation, Authorisation and Restriction of Chemicals).
Regolamento CE n. 2023/2006 del 22 dicembre 2006 (sulle buone pratiche di fabbricazione dei materiali e degli oggetti destinati a venire a contatto con prodotti alimentari)
Regolamento CE n. 394/2007 del 12 aprile 2007 (recante modifica dell’allegato I del regolamento CEE n. 2092/91 del Consiglio)
Regolamento CE n. 1020 del 17 ottobre 2008 (che modifica gli Allegati II e III del regolamento (CE) n. 853/2004 del Parlamento europeo
e del Consiglio che stabilisce norme specifiche in materia di igiene per gli alimenti di origine animale e il regolamento (CE) n.
2076/2005 per quanto riguarda la marchiatura d’identificazione, il latte crudo e i prodotti lattiero-caseari, le uova e gli ovoprodotti e taluni prodotti della pesca)
Regolamento (CE) n. 1272/2008 del Parlamento europeo e del Consiglio del 16 dicembre 2008 relativo alla classificazione, all’etichettatura e all’imballaggio delle sostanze e delle miscele che modifica e abroga le direttive 67/548/CE e 1999/45/CE e che reca modifica al
regolamento (CE) n.1907/2006.
Regolamento (CE) , n. 453/2010 del 20 maggio 2010 (recante modifica del regolamento (CE) n. 1907/2006 del Parlamento europeo e
del Consiglio concernente la registrazione, la valutazione, l’autorizzazione e la restrizione delle sostanze chimiche (REACH)).
Regolamento (UE) n. 1169/2011 del 25 ottobre 2011 (relativo alla fornitura di informazioni sugli alimenti ai consumatori, che modifica i
regolamenti (CE) n. 1924/2006 e (CE) n. 1925/2006 del Parlamento europeo e del Consiglio e abroga la direttiva 87/250/CEE della Commissione, la direttiva 90/496/CEE del Consiglio, la direttiva 1999/10/CE della Commissione, la direttiva 2000/13/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, le direttive 2002/67/CE e 2008/5/CE della Commissione e il regolamento (CE) n. 608/2004 della Commissione)
Normativa nazionale
R.D. 27 luglio 1934, n.1265 e legge 30 aprile
1962, n. 283
Il primo riferimento è la Carta Costituzionale della nostra Repubblica, che all’articolo 32 riconosce il diritto
fondamentale alla salute per l’individuo e la collettività:
“La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”.
Dalle limitate disposizioni presenti nel Regio Decreto n.
1265 del 27 luglio 1934 (c.d. “Testo Unico delle Leggi
Sanitarie”, T.U.LL.SS.), la legge 30 aprile 1962 n. 283
(Disciplina igienica della produzione e della vendita delle sostanze alimentari e delle bevande e successive modifiche e integrazioni) ha rappresentato una vera normativa quadro nel settore a prevalente carattere igienico-sanitario, essendo stata la prima a porre le basi per una tutela organica della salute pubblica, individuando i requisiti igienici che devono essere rispettati da una azienda
alimentare e le caratteristiche che un prodotto deve avere per essere considerato idoneo per uso alimentare.
VIII
La legge, ancora in vigore, sottolinea la necessità di tutelare la salute pubblica attraverso la vigilanza sulla produzione e commercio degli alimenti destinati al consumo umano.
D.P.R. 26 marzo 1980, n. 327
Il D.P.R. 26 marzo 1980 n. 327 (Regolamento di esecuzione della legge 30 aprile 1962, n. 283, e successive
modificazioni, in materia di disciplina igienica della
produzione e della vendita delle sostanze alimentari e
delle bevande, e successive modificazioni in materia di
disciplina igienica della produzione e della vendita delle
sostanze alimentari e delle bevande) raccoglie le successive modifiche alla legge del 1962 e amplia il concetto
di igiene alimentare, introducendo importanti novità:
— la definizione delle caratteristiche e dei ruoli della
vigilanza igienico-sanitaria;
— le caratteristiche igieniche di macchine, locali e impianti;
— i requisiti igienici del personale;
— le norme relative alle autorizzazioni sanitarie;
— l’uso di additivi e coadiuvanti tecnologici;
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— le modalità di prelievo dei campioni destinati al controllo;
— le precauzioni da adottare durante il trasporto degli
alimenti.
za, durante l’esecuzione del trasporto, all’arrivo) e, ad
esclusione del trasporto terrestre, riceve l’assistenza e la
piena collaborazione dei vettori alla partenza e all’arrivo.
D.P.R. 14 luglio 1995
Il D.P.R. 14 luglio 1995 (Atto di indirizzo e coordinamento alle Regioni per la elaborazione dei piani di controllo ufficiale degli alimenti e delle bevande, in applicazione dell’art. 8 del D.Lgs. n. 123/1993), fornisce alle
Regioni criteri uniformi per la definizione delle modalità del controllo ufficiale degli alimenti e stabilisce che
le verifiche ufficiali devono essere dirette ad accertare
che le operazioni nelle diverse fasi della produzione,
preparazione, trasformazione, conservazione, commercializzazione e somministrazione siano eseguite correttamente sotto il profilo igienico-sanitario, seguendo le
procedure dell’analisi dei rischi e della individuazione
dei punti critici.
Quindi, non solo controllo sul prodotto finito e sugli
ambienti in cui avviene la lavorazione, ma anche e soprattutto, controllo sul processo di lavorazione, sulla sistemazione e modalità di utilizzazione degli ambienti e
delle attrezzature.
Tale obiettivo viene perseguito attraverso:
— un regolare controllo secondo azioni e frequenze definite con piani di lavoro predisposti annualmente dalle
Aziende USL, che devono essere elaborati sulla base
delle priorità individuate, delle risorse disponibili, dell’affidabilità dei sistemi di verifica posti in essere dalle
imprese e dei risultati acquisiti, evitando sporadicità e
disomogeneicità di intervento;
— una maggiore qualificazione dell’operatività e dei
contenuti dell’azione sanitaria, in modo che l’attività di
controllo si esplichi secondo procedure e modalità tecnicamente efficienti finalizzate non solo ad individuare i
problemi, ma anche a far adottare le misure più idonee
per la loro rimozione;
— l’attuazione di programmi di controllo rivolti prioritariamente ai settori maggiormente rappresentati nelle
varie realtà territoriali.
I controlli sono di due tipi:
1) controlli regolari, con carattere sistematico e inseriti
in una programmazione generale;
2) controlli straordinari, quando si sospetta che i prodotti non siano conformi alle disposizioni per la prevenzione dei rischi per la salute pubblica, per la tutela degli interessi dei consumatori, compresa la corretta informazione, e per assicurare la lealtà delle transazioni commerciali.
Entrambi i controlli sono eseguiti senza preavviso e secondo i programmi predisposti dagli organismi di controllo.
Sia per i controlli regolari che per quelli straordinari,
l’intervento deve essere commisurato all’obiettivo perseguito.
Per il trasporto delle sostanze alimentari la vigilanza
può essere esercitata in qualsiasi momento (alla parten-
D.Lgs. 6 novembre 2007, n. 193
Il decreto stabilisce che ai fini dell’applicazione dei regolamenti (CE) 852/2004, 853/2004, 854/2004 e
882/2004, e successive modificazioni, per le materie disciplinate dalla normativa abrogata di cui all’art. 3, le
Autorità competenti sono il Ministero della salute, le
Regioni, le Province autonome di Trento e di Bolzano e
le Aziende unità sanitarie locali, nell’ambito delle rispettive competenze.
L’art. 3 del decreto ha abrogato i seguenti provvedimenti:
a) art. 2, comma 2, lettera z), artt. 12, 15, 27, 28 e 29
del D.P.R. 10 settembre 1982, n. 889;
b) D.P.R. 17 maggio 1988, n. 194; restano abrogati i
commi 1, 2, 3, 4, e 5 dell’art. 55 del R.D. 20 dicembre
1928, n. 3298;
c) D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 530, ad eccezione dell’art. 20;
d) D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 531;
e) D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 537; restano abrogati gli
artt. 50, 51, 52, 53, 54, 55, commi 6, 7 ed 8, 56, 57 e 58
del R.D. 20 dicembre 1928, n. 3298;
f) D.P.R. 30 dicembre 1992, n. 558;
g) D.P.R. 30 dicembre 1992, n. 559; restano abrogati gli
artt. 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 13, 13-bis e 14 e l’allegato A) del D.P.R. 10 agosto 1972, n. 967;
h) D.Lgs. 4 febbraio 1993, n. 65;
i) D.Lgs. 3 marzo 1993, n. 123, ad eccezione degli artt.
4 e 2, comma 3;
l) D.Lgs. 18 aprile 1994, n. 286; restano abrogati gli articoli da 4 a 6, da 8 a 12, da 14 a 16, da 18 a 28, 33, 34,
37 e da 39 a 49 del R.D. 20 dicembre 1928, n. 3298; resta abrogato l’art. 7 della legge 29 novembre 1971, n.
1073; restano abrogati gli articoli da 1 a 11 del D.P.R.,
10 settembre 1991, n. 312;
m) D.P.R. 17 ottobre 1996, n. 607;
n) D.P.R. 14 gennaio 1997, n. 54, ad eccezione degli
artt. 19, 26 e dell’allegato C), capitolo I, lettera A), punti 4 e 7;
o) D.Lgs. 26 maggio 1997, n. 155;
p) D.Lgs. 26 maggio 1997, n. 156;
q) D.P.R. del 10 dicembre 1997, n. 495; restano abrogati
gli articoli da 1 a 25 del D.P.R. 8 giugno 1982, n. 503, e
gli allegati al decreto medesimo;
r) D.P.R. 3 agosto 1998, n. 309; rimane abrogato il
D.P.R., 1° marzo 1992, n. 227;
s) articolo 2 della legge 30 aprile 1962, n. 283.
L’art. 4 ha introdotto disposizioni sulle macellazioni
d’urgenza al di fuori del macello.
L’art. 5 ha portato modifiche alla normativa in materia
di scambi e importazioni.
L’art. 6 dispone una serie di sanzioni collegate alle disposizioni del regolamento (CE) n. 853/2004.
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Tabella 2 – Normativa nazionale vigente e abrogata
REGIO DECRETO LEGGE 15 ottobre 1925, n. 2033 (Repressione delle frodi nella preparazione e nel commercio delle sostanze agrarie e
dei prodotti agrari)
REGIO DECRETO 1ş luglio 1926, n. 1361 (Regolamento per l’esecuzione del regio decreto 15 ottobre 1925, n. 2033, convertito in legge
con la legge 18 marzo 1926, n. 562, concernente la repressione delle frodi nella preparazione e nel commercio di sostanze di uso agrario e di prodotti agrari)
REGIO DECRETO 27 luglio 1934, n. 1265 (T.U.LL.SS - Testo unico leggi sanitarie)
LEGGE 30 aprile 1962, n. 283 (Modifica degli artt. 242, 243, 247, 250, e 262, del T.U. delle leggi sanitarie approvato con regio decreto
27 luglio 1934, n. 1265: “Disciplina igienica della produzione e della vendita delle sostanze alimentari e delle bevande”)
LEGGE 26 febbraio 1963, n. 441 (Modifiche ed integrazioni alla legge 30 aprile 1962, n. 283, sulla disciplina igienica della produzione e
della vendita delle sostanze alimentari e delle bevande ed al decreto del Presidente della Repubblica 11 agosto 1959, n. 750)
LEGGE 4 giugno 1967, n. 580 (Disciplina per la lavorazione e commercio dei cereali, degli sfarinati, del pane e delle paste alimentari)
DECRETO MINISTERIALE 21 marzo 1973 (Disciplina igienica degli imballaggi, recipienti, utensili, destinati a venire in contatto con le
sostanze alimentari o con sostanze d’uso personale)
DECRETO MINISTERIALE 3 febbraio 1977 (Regolamento di esecuzione relativo alle varie fasi di conservazione e di commercializzazione
delle carni congelate, emanato ai sensi dell’art. 2 del decreto-legge 17 gennaio 1977, n. 3)
LEGGE 2 maggio 1977, n. 264 (Ratifica ed esecuzione dell’accordo relativo ai trasporti internazionali delle derrate deteriorabili ed ai
mezzi speciali da usare per tali trasporti (ATP), con allegati, concluso a Ginevra il 1ş settembre 1970)
DECRETO MINISTERIALE 20 aprite 1978 (Modalità di prelevamento dei campioni per il controllo ufficiale degli alimenti per gli animali)
DECRETO PRESIDENTE REPUBBLICA 26 marzo 1980, n. 327 (Regolamento di esecuzione della legge 30 aprile 1962, n. 283, e successive modificazioni in materia di disciplina igienica della produzione e della vendita delle sostanze alimentari e delle bevande)
DECRETO PRESIDENTE REPUBBLICA 23 agosto 1982, n. 777 (Attuazione della Direttiva (CEE) n. 76/893 relativa ai materiali e agli oggetti destinati a venire a contatto con i prodotti alimentari)
DECRETO MINISTERIALE 7 gennaio 1984 (Elenco delle sostanze per cui sono prescritte, ai fini del trasporto, specifiche dichiarazioni di
scorta)
DECRETO MINISTERIALE 26 aprile 1985 (Determinazione del numero delle imprese soggette al controllo sistematico delle operazioni
di finanziamento FEOGA, nonché dei criteri per il coordinamento e l’espletamento del controllo stesso)
DECRETO MINISTERIALE 12 marzo 1986 (Approvazione dei “metodi ufficiali di analisi per i mosti, i vini, gli agri di vino, aceti e i sottoprodotti della vinificazione”)
DECRETO MINISTERIALE 21 aprile 1986 (Approvazione dei “metodi ufficiali di analisi per i formaggi”)
LEGGE 7 agosto 1986, n. 462 (Misure urgenti in materia di prevenzione e repressione delle sofisticazioni alimentari - legge di conversione del D.L. 18 giugno 1986, n. 282)
DECRETO MINISTERIALE 24 febbraio 1988, n. 149 (Metodi ufficiali di campionamento e di analisi delle caseine e dei caseinati alimentari)
DECRETO MINISTERIALE 8 novembre 1989, n. 435 (Regolamento concernente i metodi di prelievo ai fini della analisi chimica per il
controllo del latte conservato destinato all’alimentazione umana)
LEGGE 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale)
DECRETO MINISTERIALE 15 dicembre 1990 (Sistema informativo delle malattie infettive e diffusive)
DECRETO LEGISLATIVO 27 gennaio 1992, n. 109 (Attuazione delle direttive (CEE) n. 395/89 e (CEE) n. 396/89, concernenti l’etichettatura, la presentazione e la pubblicità dei prodotti alimentari)
LEGGE 19 febbraio 1992, n. 142 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee (legge comunitaria per il 1991)
DECRETO MINISTERIALE 26 marzo 1992 (Attuazione della decisione (CEE) n. 180/91, concernente la fissazione di metodi di analisi e
prova relativi al latte crudo e al latte trattato termicamente)
DECRETO LEGISLATIVO 16 febbraio 1993, n. 77 (Attuazione della direttiva 90/496/CEE del Consiglio del 24 settembre 1990 relativa all’etichettatura nutrizionale dei prodotti alimentari)
DECRETO LEGISLATIVO 3 marzo 1993, n. 123 Attuazione della direttiva 89/397/CEE relativa al controllo ufficiale dei prodotti alimentari
(abrogata ad eccezione degli articoli 4 e 2, comma 3)
DECRETO MINISTERIALE 16 dicembre 1993 (Individuazione delle sostanze deteriorabili, alle quali si applica il regime di controlli microbiologici ufficiali)
LEGGE 25 gennaio 1994, n. 82 (Disciplina delle attività di pulizia, di disinfezione, di disinfestazione, di derattizzazione e di sanificazione)
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DECRETO LEGISLATIVO 19 settembre 1994, n. 626 (Attuazione delle direttive 89/391/CEE, 89/654/CEE, 89/655/CEE, 89/656/CEE,
90/269/CEE, 90/270/CEE, 90/394/CEE, 90/679/CEE, 93/88/CEE, 95/63/CE, 97/42, 98/24 e 99/38 riguardanti il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori durante il lavoro)
DECRETO LEGISLATIVO 17 marzo 1995, n. 220 (Attuazione degli artt. 8 e 9 del regolamento CEE n. 2092/1991 in materia di produzione
agricola ed agroalimentare con metodo biologico)
DECRETO PRESIDENTE REPUBBLICA 14 luglio 1995 (Atto d’indirizzo e coordinamento alle Regioni e Province Autonome sui criteri uniformi per l’elaborazione dei programmi di controllo ufficiale di alimenti e bevande)
DECRETO LEGISLATIVO 26 maggio 1997, n. 155 (Attuazione delle direttive 93/43/CEE e 96/3/CE concernenti l’igiene dei prodotti alimentari)
DECRETO LEGISLATIVO 26 maggio 1997, n. 156 (Attuazione della direttiva 93/99/CEE concernente misure supplementari in merito al
controllo ufficiale dei prodotti alimentari)
DECRETO MINISTERIALE 7 luglio 1997, n. 274 (Regolamento di attuazione degli articoli 1 e 4 della legge 25 gennaio 1994, n. 82, per la
disciplina delle attività di pulizia, di disinfezione, di disinfestazione, di derattizzazione e di sanificazione)
DECRETO PRESIDENTE REPUBBLICA 19 novembre 1997, n.514 (Regolamento recante disciplina del procedimento di autorizzazione alla produzione, commercializzazione e deposito di additivi alimentari, a norma dell’art. 20, comma 8, della legge 15 marzo 1997, n. 59)
DECRETO LEGISLATIVO 31 marzo 1998, n. 114 (Riforma della disciplina relativa al settore del commercio, a norma dell’articolo 4, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59)
DECRETO MINISTERIALE 8 ottobre 1998 (Modificazioni alle appendici 2 e 3 del decreto del Presidente della Repubblica del 14 luglio
1995 contenente l’atto di indirizzo e coordinamento alle regioni e province autonome sui criteri uniformi per l’elaborazione dei programmi di controllo ufficiale degli alimenti e bevande)
DECRETO MINISTERIALE 4 ottobre 1999, n. 439 (Regolamento recante modificazioni al regolamento di attuazione degli artt. 1 e 4 della
legge 25 gennaio 1994, n. 82, concernente la disciplina delle attività di pulizia, disinfezione, disinfestazione, derattizzazione e sanificazione, adottato con decreto ministeriale 7 luglio 1997, n. 274)
DECRETO PRESIDENTE REPUBBLICA 14 dicembre 1999, n. 558 (Regolamento recante norme per la semplificazione della disciplina in
materia di registro delle imprese, nonché per la semplificazione dei procedimenti relativi alla denuncia di inizio di attività e per la domanda di iscrizione all’albo delle imprese artigiane o al registro delle imprese per particolari categorie di attività soggette alla verifica di
determinati requisiti tecnici).
DECRETO LEGISLATIVO 21 dicembre 1999, n. 526 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle
Comunità europee - Legge comunitaria 1999)
DECRETO LEGISLATIVO 30 dicembre 1999, n. 507 (Depenalizzazione dei reati minori e riforma del sistema sanzionatorio, ai sensi dell’articolo 1 della legge 25 giugno 1999, n. 205)
DECRETO LEGISLATIVO 25 febbraio 2000, n. 68 (Attuazione della direttiva 97/4/CE, che modifica la direttiva 79/112/CEE, in materia di
etichettatura, presentazione e pubblicità dei prodotti alimentari destinati al consumatore finale)
DECRETO LEGISLATIVO 18 maggio 2001, n. 228 (Orientamento e modernizzazione del settore agricolo, a norma dell’articolo 7 della
legge 5 marzo 2001, n. 57)
DECRETO LEGISLATIVO 2 febbraio 2002, n. 25 (Attuazione della direttiva 98/24/CE sulla protezione della salute e della sicurezza dei lavoratori contro i rischi derivanti da agenti chimici durante il lavoro)
LEGGE 7 marzo 2003, n. 38 (Disposizioni in materia di agricoltura)
DECRETO MINISTERIALE 28 marzo 2003, n. 123 (Regolamento recante aggiornamento del decreto ministeriale 21 marzo 1973, concernente la disciplina igienica degli imballaggi, recipienti, utensili destinati a venire in contatto con le sostanze alimentari o con sostanze
d’uso personale - Recepimento delle direttive 2001/62/CE, 2002/16/CE e 2002/17/CE)
DECRETO LEGISLATIVO 23 giugno 2003, n. 181(Attuazione della direttiva 2000/13/CE concernente l’etichettatura e la presentazione
dei prodotti alimentari, nonché la relativa pubblicità)
DECRETO LEGISLATIVO 20 febbraio 2004, n. 51 (Attuazione della direttiva n. 2002/111/CE relativa a determinati tipi di zucchero destinati all’alimentazione umana)
DECRETO LEGGE 24 giugno 2004, n. 157 (Disposizioni urgenti per l’etichettatura di alcuni prodotti agroalimentari, nonché in materia di
agricoltura e pesca)
DECRETO LEGISLATIVO 8 febbraio 2006, n. 114 (Attuazione delle direttive 2003/89/CE, 2004/77/CE e 2005/63/CE in materia di indicazione degli ingredienti contenuti nei prodotti alimentari)
DECRETO MINISTERIALE 17 febbraio 2006 (Passata di pomodoro. Origine del pomodoro fresco)
LEGGE 11 marzo 2006, n. 81 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 10 gennaio 2006, n. 2, recante interventi urgenti per i settori dell’agricoltura, dell’agroindustria, della pesca, nonché in materia di fiscalità d’impresa)
LEGGE 2 aprile 2007, n. 40 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 31 gennaio 2007, n. 7, recante misure urgenti
per la tutela dei consumatori, la promozione della concorrenza, lo sviluppo di attività economiche e la nascita di nuove imprese)
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DECRETO MINISTERIALE 18 aprile 2007, n. 76 (Regolamento recante la disciplina igienica dei materiali e degli oggetti di alluminio e di
leghe di alluminio destinati a venire a contatto con gli alimenti)
DECRETO MINISTERIALE 25 settembre 2007, n. 217 (Regolamento recante aggiornamento del decreto ministeriale 21 marzo 1973,
concernente la disciplina igienica degli imballaggi, recipienti, utensili destinati a venire a contatto con le sostanze alimentari o con sostanze d’uso personale)
DECRETO MINISTERIALE 9 ottobre 2007 (Norme in materia di indicazioni obbligatorie nell’etichetta dell’olio vergine ed extravergine di
oliva)
DECRETO LEGISLATIVO 6 novembre 2007, n. 193 (Attuazione della direttiva 2004/41/CE relativa ai controlli in materia di sicurezza alimentare e applicazione dei regolamenti comunitari nel medesimo settore)
DECRETO MINISTERIALE 12 dicembre 2007, n. 270 (Regolamento recante aggiornamento del decreto 21 marzo 1973, recante la disciplina degli imballaggi, recipienti, utensili destinati a venire in contatto con le sostanze alimentari o con sostanze d’uso personale)
DECRETO LEGISLATIVO 9 aprile 2008, n. 81 (Attuazione dell’articolo 1 della Legge 3 agosto 2007, n. 123 in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro)
DECRETO DEL MINISTERO DEL LAVORO E DELLA PREVIDENZA SOCIALE del 9 aprile 2008 (Nuove tabelle delle malattie professionali
nell’industria e nell’agricoltura)
DECRETO LEGISLATIVO 28 luglio 2008, n. 145 (Attuazione della direttiva 2006/121/CE, che modifica la direttiva 67/548/CEE concernente il ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative in materia di classificazione, imballaggio ed etichettatura delle sostanze pericolose, per adattarle al regolamento (CE) n. 1907/2006 concernente la registrazione, la valutazione, l’autorizzazione e la restrizione delle sostanze chimiche (REACH) e istituisce un’Agenzia europea per le sostanze chimiche)
DECRETO LEGISLATIVO n. 106 del 3 agosto 2009 (Disposizioni integrative e correttive del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, in
materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro)
DECRETO LEGISLATIVO 14 settembre 2009, n. 133, entrato in vigore dal 9 ottobre 2009, disciplina le sanzioni penali ed amministrative
applicate per il mancato adempimento degli obblighi sanciti da REACh.
CONFERENZA STATO-REGIONI accordo 29 aprile 2010, n. 59 (Accordo tra il Governo, le regioni e le province autonome relativo a “Linee-guida applicative del regolamento n. 852/2004/CE del Parlamento europeo e del Consiglio sull’igiene dei prodotti alimentari”)
DECRETO LEGISLATIVO 27 gennaio 2010, n. 17 (Attuazione della direttiva 2006/42/CE, relativa alle macchine e che modifica la direttiva
95/16/CE relativa agli ascensori)
DECRETO LEGISLATIVO 27 ottobre 2011, n. 186 (Disciplina sanzionatoria per la violazione delle disposizioni del regolamento (CE) n.
1272/2008 relativo alla classificazione, all’etichettatura e all’imballaggio di sostanze e miscele, che modifica ed abroga le direttive
67/548/CEE e 1999/45/CE e che modifica il regolamento (CE) n. 1907/2006)
LEGGE 8 novembre 2012, n. 189 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 13 settembre 2012, n. 158, recante disposizioni urgenti per promuovere lo sviluppo del Paese mediante un più alto livello di tutela della salute)
DECRETO MINISTERIALE 17 luglio 2013 (Informazioni obbligatorie a tutela del consumatore di pesce e cefalopodi freschi e di prodotti
di acqua dolce, in attuazione dell’articolo 8, comma 4, del decreto-legge 13 settembre 2012, n. 158, convertito, con modificazioni, dalla
legge 8 novembre 2012, n. 189)
LEGGE 30 ottobre 2014, n. 161 (Disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea
- Legge europea 2013-bis)
Tabella 3 – Prassi
MINISTERO SANITÀ ordinanza 11 ottobre 1978 (Limiti di cariche microbiche tollerabili in determinate sostanze alimentari e bevande)
MINISTERO SANITÀ circolare 11 marzo 1992, n. 10 (Direttive e raccomandazioni in merito alla presenza di larve di Anisakis nei pesci)
MINISTERO INDUSTRIA circolare 28 aprile 1994, n. 3343
MINISTERO INDUSTRIA circolare 22 giugno 1994, n. 3342 (Norme per la sicurezza degli impianti)
MINISTERO INDUSTRIA circolare 22 settembre 1997, n. 3470
MINISTERO INDUSTRIA circolare 25 novembre 1997, n. 3428
MINISTERO INDUSTRIA circolare 29 maggio 1998, n. 3444
MINISTERO SANITÀ circolare 7 agosto 1998, n. 11 (Applicazione del decreto legislativo 26 maggio 1997, n. 155, riguardante l’igiene
dei prodotti alimentari)
MINISTERO INDUSTRIA circolare 20 dicembre 1999, n. 3475
XII
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MINISTERO INTERNO circolare 16 giugno 2000, n. 3 (Importazioni di prodotti “da agricoltura biologica” da Paesi terzi: art. 11, regolamento CEE n. 2092/1991 - art. 6, commi 2 e 3, del D.Lgs. n. 220/1995 - Iter procedurale)
MINISTERO INDUSTRIA circolare 5 dicembre 2000, n. 3502
MINISTERO POLITICHE AGRICOLE circolare 4 aprile 2002, n. 1 (Regolamento (CE) n. 473/2002 della Commissione del 15 marzo 2002
che modifica gli Allegati I, II e IV del regolamento (CEE) n. 2092/91 del Consiglio relativo al metodo di produzione biologico di prodotti
agricoli e all’indicazione di tale metodo sui prodotti agricoli e sulle derrate alimentari e che stabilisce norme dettagliate per quanto concerne la trasmissione di informazioni sull’impiego dei composti di rame)
MINISTERO SALUTE ordinanza 26 agosto 2005 (Misure di polizia veterinaria in materia di malattie infettive e diffusive dei volatili da cortile)
MINISTERO SALUTE ordinanza 10 dicembre 2008 (Misure urgenti in materia di produzione, commercializzazione e vendita diretta di latte crudo per l’alimentazione umana)
MINISTERO SALUTE circolare 17 febbraio 2011, n. 4379 (chiarimenti concernenti alcuni aspetti del Reg. CE n. 853/2004 in materia di
vendita e somministrazione di preparazioni gastronomiche contenenti prodotti della pesca destinati ad essere consumati crudi o praticamente crudi)
MINISTERO SALUTE circolare 17 febbraio 2011, n. 4380 (chiarimenti in merito all’art. 5 della Legge n. 283/1962, presenza di Anisakis)
MINISTERO SALUTE circolare 6 febbraio 2015 (Riguardante le indicazioni sulla presenza di allergeni negli alimenti forniti dalle collettività (Reg. UE 1169/2011)
medio del comparto manifatturiero (26,4 indennizzi per
1.000 addetti, contro 25,8).
Sono oltre 2.000 i casi denunciati nel 2013 dai lavoratori stranieri (un infortunio su cinque) in calo del 18% rispetto al 2009; per l’80% hanno coinvolto gli extracomunitari, tra cui marocchini (17%), albanesi (8%) e indiani (6%), mentre tra i comunitari i romeni (12%).
Infortuni e malattie professionali
Infortuni
L’industria alimentare si distingue, purtroppo, sul versante infortunistico: nel 2013 ha registrato oltre 10.000
denunce (in diminuzione del 25% rispetto al 2009), confermandosi al terzo posto (11%) per numerosità e presentando un indice infortunistico superiore di quello
Tabella 2 – Infortuni denunciati nell’industria alimentare (COD. ISTAT – ATECO 2007 “C 10”) per
comparto (2009-2013)
2009
2010
2011
2012
2013
Var. %
2013/2009
Carni
3.953
4.027
4.008
3.452
3.169
–19,8
Pesce
198
195
183
168
155
–21,7
1.174
1.158
1.069
891
803
–31,6
266
227
217
175
150
–43,6
2.375
2.257
2.129
1.966
1.735
–26,9
306
296
253
239
221
–27,8
Prodotti da forno e farinacei
3.869
3.754
3.462
3.176
2.818
–27,2
Zucchero, cacao, tè, omogeneizzati
1.222
1.179
1.098
970
905
–25,9
284
253
242
232
226
–20,4
TOTALE (*)
13.833
13.486
12.816
11.422
10.306
–25,5
di cui femmine
4.343
4.338
4.064
3.653
3.273
–24,6
COMPARTI
Frutta e ortaggi
Oli e grassi
Latte, formaggi e gelati
Cereali
Alimentazione per animali
(*) Totale comprensivo dei casi indeterminati
Fonte: INAIL (banca dati statistica aggiornata al 31 ottobre 2014)
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trasporto. Circa 200 gli infortuni annui dei nati all’estero con in testa indiani, marocchini e albanesi che da soli
contano poco meno del 40% delle denunce degli stranieri. Un terzo degli infortunati è donna, mentre il 45%
ha un’età compresa tra i 35 e i 49 anni.
Un terzo degli infortuni è determinato da una contusione, un quarto da lussazioni.
La colonna vertebrale e mano le parti del corpo più frequentemente coinvolte (32% dei casi), perché più esposte e sollecitate nell’attività lavorativa.
L’82% degli infortuni si verifica nel Nord.
Infortuni sul lavoro nel settore lattierocaseario
Per quel che riguarda gli infortuni sul lavoro del settore
caseario sono state 1.633 le denunce nel 2013, in calo
del 12,7% rispetto al 2012 e di ben il 27,4% nell’ultimo
quinquennio; essi rappresentano, inoltre, il 16% di quelli delle industrie alimentari.
Pochissimi i casi mortali: 3 denunce nel 2013 e 4 nel
2012.
L’85% degli infortuni è in occasione di lavoro e solo un
centinaio di questi vede coinvolto l’uso di un mezzo di
Tabella 3 – Infortuni denunciati nell’industria lattiero casearia, trattamento igienico e conservazione del
latte (COD. ISTAT – ATECO 2007 “C 10.51”) per ripartizione geografica (2009-2013)
RIPARTIZIONE GEOGRAFICA
2009
2010
2011
2012
2013
Var. %
2013/2012
Var. %
2013/2009
Nord-Ovest
1.430
1.299
1.259
1.117
977
–12,5
–31,7
Nord-Est
435
441
429
429
366
–14,7
–15,9
Centro
129
134
105
106
94
–11,3
–27,1
Sud
173
179
148
139
134
–3,6
–22,5
Isole
83
87
75
79
62
–21,5
–25,3
Italia
2.250
2.140
2.016
1.870
1.633
–12,7
–27,4
Fonte: INAIL (banca dati statistica aggiornata al 31 ottobre 2014)
fessionali (D.M. 9 aprile 2008), individua in tali tipologie le vere protagoniste del fenomeno tecnopatico nel
nostro Paese.
A livello territoriale, è il Sud l’area geografica maggiormente colpita, con il 146,9 %, le Isole 54,5% delle denunce presentate, seguita dal Centro (37%), e da un notevole decremento con il –30,9 % nel Nord-Ovest e con
un leggerissimo decremento –1% nel Nord-Est.
Una sessantina l’anno le denunce di malattie professionali, il 5% circa di tutte quelle delle industrie alimentari.
Malattie professionali
L’Industria alimentare italiana, seconda industria manifatturiera del Paese dopo quella metalmeccanica, ha visto crescere negli ultimi anni il numero delle malattie
professionali denunciate all’INAIL.
Nel solo quinquennio 2009-2013, le tecnopatie sono aumentate di ben il 17.6% (da 944 a 1.110 casi), identificando nelle malattie del sistema osteo-articolare, dei
muscoli e del tessuto connettivo la tipologia di maggior
riscontro.
Tale dato appare in linea con la tendenza generale che,
dall’emanazione delle nuove tabelle delle malattie pro-
Tabella 4 – Malattie professionali denunciate nell’industria alimentare (COD. ISTAT – ATECO 2007 “C
10”) per ripartizione geografica (2009-2013)
2009
2010
2011
2012
2013
Var. %
2013/2009
Nord-Ovest
110
81
103
93
76
–30,9
Nord-Est
578
777
726
598
572
–1,0
Centro
127
144
157
173
174
37,0
Sud
96
133
187
239
237
146,9
Isole
33
63
58
51
51
54,5
TOTALE
944
1.198
1.231
1.154
1.110
17,6
RIPARTIZIONE
GEOGRAFICA
Fonte: INAIL (banca dati statistica aggiornata al 31 ottobre 2014)
XIV
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Industria alimentare: valutazione e
prevenzione
Nel settore alimentare comune a tutte le tipologie di imprese è l’obbligo di assicurare la sicurezza e l’igiene
dell’alimento in ogni fase della sua produzione (trasformazione, confezionamento, distribuzione, deposito, vendita, somministrazione) attraverso l’applicazione di procedure igienico sanitarie pertinenti e di un programma
sistematico di autocontrollo (Regolamento CE n.
852/2004).
Benché la trasformazione di alimenti e bevande avvenga
in ambienti rigorosamente controllati, il settore non è
esente da rischi per quanto riguarda la salute e sicurezza
dei lavoratori.
La sicurezza degli alimenti è assicurata da un’idonea
pulizia e manutenzione delle linee di produzione, ma
durante queste fasi i lavoratori possono essere esposti a
sostanze pericolose, come disinfettanti, lubrificante o all’ammonica usata nei sistemi di refrigerazione.
Nell’industria alimentare, polveri e farine di cereali rappresentano un rischio sia per la salute che per la sicurezza. Sono causa di asma bronchiale e altre patologie respiratorie o della cute, sia in quanto direttamente responsabili di irritazione, sensibilizzazione o allergia, sia
per la possibile presenza di batteri, muffe, infestanti
(acari, insetti) e inquinanti chimici (conservanti, insetticidi, fungicidi). In alcune situazioni di spazio confinato,
la diminuzione dell’ossigeno per fermentazione dei prodotti stoccati e la formazione di gas tossici possono provocare asfissia ed intossicazioni.
Inoltre, se si verificano determinate condizioni, le polveri possono essere responsabili di esplosioni e incendi a
seguito di innesco (cariche elettrostatiche, scintille elettriche, superfici calde ecc.).
Il rischio di esplosione può derivare sia dalla formazione di nubi che da strati pericolosi di polvere ed è influenzato da vari fattori tra cui ad esempio la granulometria, la concentrazione di polveri nell’aria che deve
essere all’interno di un determinato campo di esplosività, la presenza di una sufficiente quantità di ossigeno.
La tutela della salute e sicurezza prevede quindi interventi organizzativi, procedurali e tecnici a vari livelli,
tra cui:
— automazione dei processi;
— impianti e attrezzature conformi alle norme vigenti
(es. marcatura CE-Ex);
— aspirazione localizzata;
— manutenzione dei sistemi di estrazione e delle attrezzature;
— corrette procedure di manipolazione e stoccaggio;
— pulizia di macchine e ambienti di lavoro per evitare
pericolosi accumuli di polvere;
— esclusione di fiamme libere, cariche elettrostatiche,
superfici calde, scintille dovute a saldatura, taglio, frizione;
— formazione e informazione dei lavoratori;
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— uso di dispositivi di protezione individuale.
Significativo è il rischio biologico: batteri patogeni, virus e parassiti sono tra i pericoli per la sicurezza microbiologica.
Non sono da trascurare i rischi ergonomici dovuti a movimenti ripetuti o a movimentazione manuale dei carichi. Va, infine, ricordato che le operazioni di manutenzione possono richiedere l’accesso in cisterne, silos, vasche che si configurano come spazi confinati, in cui si
possono riscontrare gas tossici, liquidi e solidi che possono riempire improvvisamente lo spazio, con conseguente carenza di ossigeno.
Raccomandazioni generali sono l’applicazione delle
norme antincendio, una puntuale formazione degli operatori, l’uso dispositivi di protezione durante le fasi di
pulizia e manutenzione, l’applicazione di buone prassi,
controlli medici e, se opportuno, somministrazione di
vaccini.
Tutti i nuovi esercizi di produzione, trasformazione,
confezionamento, deposito, vendita e somministrazione
di alimenti e bevande possiedono i seguenti requisiti
igienici:
— pavimenti continui, realizzati con materiali impermeabili dotati di adeguata resistenza meccanica, sufficientemente lisci da poter essere agevolmente lavati e
disinfettati e muniti, ove necessario, di un dispositivo
per consentire una facile evacuazione delle acque di lavaggio;
— pareti continue, senza tracce di umidità, lisce, intonacate e realizzate in materiale lavabile, disinfettabile, non
assorbente fino a un’altezza minima di metri 2;
— soffitto intonacato e tinteggiato;
— idonei sistemi di ventilazione naturale in tutti i locali
o di sistemi di aerazione artificiale con le modalità e nei
casi consentiti dal Regolamento Edilizio vigente;
— illuminazione naturale e artificiale come prevista da
Regolamento Edilizio;
— dispositivi sulle aperture con l’esterno atti a evitare
la penetrazione di insetti e roditori;
— unità igieniche (e relativi spogliatoi) a uso esclusivo
del personale, ubicate all’interno dell’esercizio e strutturalmente conformi al vigente Regolamento Edilizio;
— reparto o armadietto per il deposito delle attrezzature, dei materiali e dei prodotti di pulizia;
— dotazione di contenitori per i rifiuti solidi con comando di apertura a pedale, con esclusione del loro
smaltimento, anche se triturati, in fognatura;
— disponibilità di acqua potabile proveniente dal pubblico acquedotto;
— sistemi di captazione e aspirazione sui punti di cottura, canalizzati in canne di esalazione a uso esclusivo,
conformi al vigente Regolamento Edilizio;
— vetrine a temperatura controllata, celle frigorifere e
tutte le attrezzature di frigo-conservazione dotate di termometro per la rilevazione della temperatura, possibilmente, a lettura esterna.
XV
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Inserto
Tabella 5 – Principali misure di prevenzione e protezione nell’industria alimentare
Agente di rischio
Misure di prevenzione e protezione
Sostanze pericolose
Sostituzione di sostanze e prodotti pericolosi con altri meno pericolosi. Formazione. Uso di dispositivi di protezione.
Agenti biologici
Adozione di buone prassi. Formazione. Uso di dispositivi di protezione. Controlli sanitari e vaccini.
Polveri
Rispetto della normativa antincendio. Attrezzature elettriche adeguatamente protette. Manutenzione di attrezzature e impianti di ventilazione/aspirazione. Uso di dispositivi di protezione.
Macchine
Progettazione sicura. Rispetto delle istruzioni d’uso.
Spazi confinati
Formazione. Uso di dispositivi di protezione (ad es. respiratori) e sistemi di comunicazione.
Lavoro gravoso
Progettazione ergonomica di macchine e attrezzature. Alternanza di movimenti ripetuti con altre attività non ripetitive. Fruizione di pause e tempi di recupero. Formazione.
Temperature estreme
Regolazione della durata dell’esposizione, prevedendo pause a intervalli regolari. Uso di dispositivi
di protezione personale e indumenti termici. Unità di refrigerazione, congelamento e surgelazione
accessibili essere dotate di vie d’uscita adeguate, porte apribili dall’interno e illuminazione.
Fonte: Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro e fact 52
Caso studio del comparto: azienda lattiero-casearia
Figura 1 – Ciclo produttivo in una industria lattiero-casearia
Fonte: INAIL
Fasi di lavorazione
• Latte in entrata e controlli di processo e prodotto
Il latte e i suoi derivati sono fra gli alimenti più controllati di tutto il settore agroalimentare. L’industria lattiero-casearia, infatti, deve attenersi a rigide regolamentazioni sia italiane che comunitarie, che impongono il monitoraggio di parametri specifici quali temperatura, umidità, durata delle manipolazioni e, soprattutto, condizioni igienico-sanitarie.
XVI
Tali normative stabiliscono una serie di procedure finalizzate a garantire la qualità e la sicurezza per i consumatori. Il processo interessa sia i produttori, sia gli organi deputati al controllo e coinvolge tutte le fasi della filiera, dall’alimentazione del bestiame, alla qualificazione della materia prima e del prodotto derivato, dai controlli sui processi produttivi a quelli delle modalità di
distribuzione e commercializzazione.
La verifica della conformità dei parametri igienico-sanitari del latte in entrata negli stabilimenti è attuata dall’industria direttamente o tramite laboratori esterni collegati.
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Le opportunità di crescita delle imprese del settore lattiero-caseario, quindi, risultano sempre più legate alla
qualità delle materie prime impiegate nella produzione e
alle caratteristiche dell’ambiente in cui operano i vari attori della filiera. D’altro canto, sulla base anche del fatto
che nella moderna concezione dell’alimentazione il consumatore è sempre più proiettato verso la scelta di prodotti che garantiscano salute e qualità, il rispetto dei parametri normativi e il controllo di altri elementi caratterizzanti il processo produttivo e il prodotto che ne deriva, possono divenire, per le imprese, non solo una necessità di produzione, ma anche una strategia di mercato, per garantire e pubblicizzare la qualità dei prodotti a
difesa e/o a potenziamento della propria immagine, serietà e credibilità.
Gli approcci tecnici che stanno alla base dei controlli riguardano principalmente analisi igieniche sulla:
— materia prima e sui prodotti (analisi chimico-fisiche,
microbiologiche, rilevazione di contaminanti ecc.);
— misurazione, controllo e registrazione dei parametri
di lavorazione;
— analisi di tracciabilità e rintracciabilità;
— valutazioni nutrizionali (analisi di acidi grassi, proteine, carboidrati);
— analisi e controlli “on farm” sulla materia prima.
Tutte queste valutazioni, che devono rispettare criteri di
sempre maggiore sensibilità e affidabilità, impongono
indubbiamente l’utilizzo di apparecchiature sofisticate,
possibilmente in grado di ridurre i tempi analitici, con
conseguente aumento dei costi da sostenere da parte delle imprese.
In tale contesto, molto importante per l’industria lattiero
casearia risulta l’investimento in innovativi sistemi di
analisi, che consentano di controllare e verificare la qualità del latte e dei suoi derivati in maniera veloce e affidabile. In particolare, lo sviluppo di sensori integrati per poter monitorare contemporaneamente più indicatori di contaminazione del latte fresco e processato risulta di grande
interesse. La valutazione separata dei vari possibili contaminanti, infatti, è lunga e costosa, e grandi vantaggi si
potrebbero trarre dall’utilizzo di tali tecnologie.
Un altro punto critico è la valutazione della contaminazione da micotossine e da contaminanti ambientali quali
PCB e diossine che, a tutt’oggi, prevede ancora sistemi
di monitoraggio molto costosi e complessi. Per far fronte a queste problematiche, nel mondo industriale di più
grandi dimensioni si è cominciata a percorrere la strada
verso l’impiego di biosensori.
Infine, l’attenzione è anche rivolta verso la possibilità di
applicare il naso elettronico, già utilizzato in altri contesti del settore alimentare, ai formaggi e al monitoraggio
dei parametri del latte fresco.
Gli interessi di ricerca in questo contesto sono principalmente indirizzati verso:
— sviluppo di strumentazioni facilmente igienizzabili e
che garantiscano risparmio energetico;
— adeguamento ai processi lattiero-caseari di tecnologie
innovative già sfruttate in altri settori;
— formazione del personale in materia di controlli e di
utilizzo della strumentazione;
— migliore conoscenza di quelle che sono le norme
igieniche per i consumatori.
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• La proteolisi dei formaggi
La maturazione o stagionatura dei formaggi è la vera fase di tipicizzazione di questi prodotti, durante la quale
si verificano complesse reazioni chimico-fisiche ed enzimatiche legate alle caratteristiche del latte, alla presenza del caglio (una miscela di enzimi) e, soprattutto, all’azione della microflora lattica.
Uno degli aspetti forse più importanti della maturazione
dei formaggi è costituito dalla proteolisi o demolizione
proteica, che consiste nella degradazione della principale
proteina del latte, la caseina, ad opera del caglio, di enzimi proteolitici naturalmente presenti nel latte e dei sistemi enzimatici della microflora del latte e degli starter.
Il processo di proteolisi riguarda a diverso titolo tutti i
formaggi: da quelli freschi, quali la mozzarella, in cui la
proteolisi potrebbe configurarsi come un difetto, o la
crescenza, per arrivare ai formaggi caratterizzati da un
periodo sempre più prolungato di stagionatura. Fra i parametri in grado di influenzare i fenomeni proteolitici vi
sono il contenuto di umidità e proteine del formaggio, il
tipo di microflora presente nel latte e/o aggiunta con gli
innesti, la tecnologia di caseificazione utilizzata che può
inattivare il caglio e attivare la plasmina, la temperatura
e umidità dell’ambiente di conservazione.
L’importanza del processo proteolitico è indissolubilmente legata alla necessità di gestire in maniera opportuna i parametri che lo regolano, tenuto conto del fatto
che essi svolgono un ruolo importante nel determinare
modificazioni della struttura, del sapore e più in generale della “qualità” dei formaggi. Tali modificazioni possono rispecchiarsi sia in un miglioramento che in un
peggioramento del prodotto rispetto agli standard qualitativi desiderati. Fra gli aspetti negativi legati alla proteolisi, si possono citare difetti strutturali, organolettici
oppure la formazione di molecole dannose per la salute
umana, come i precursori delle cosiddette “ammine biogene”. Fra quelli positivi, invece, vi è la possibile formazione di molecole di interesse salutistico quali i peptidi bioattivi, che potrebbero portare a una valorizzazione nutrizionale dei prodotti finali.
Lo studio delle modificazioni enzimatiche coinvolte nella proteolisi e la comprensione della relazione esistente
fra la loro espressione e la qualità del prodotto finale,
costituisce un campo molto vasto da indagare, cui le imprese devono rivolgersi per migliorare i propri prodotti.
In particolare, un punto critico risulta quello di riuscire a
manipolare opportunamente il processo, ai fini di ottenere
prodotti che mantengano le qualità organolettiche desiderate, ma che abbiano anche caratteristiche nutrizionali migliori rispetto ai parametri di sana alimentazione su cui
oggi il consumatore risulta essere sempre più sensibilizzato. Questo aspetto è particolarmente importante non solo
per mantenere le caratteristiche tipiche di un determinato
prodotto, ma anche per la creazione di prodotti innovativi,
favorendo la competitività delle imprese sul mercato.
Sui peptidi bioattivi, per esempio, quali le caseinomorfine o le antitensive, è stata prodotta negli ultimi anni una
notevole letteratura scientifica e le imprese di più grandi
dimensioni, fortemente interessate alla produzione di
alimenti caseari ad elevato valore aggiunto, hanno già
cominciato ad immettere sul mercato prodotti arricchiti
con queste molecole.
XVII
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La possibilità di opportunamente influenzare il processo
proteolitico nei termini desiderati dal produttore passa
inevitabilmente attraverso l’individuazione di tecnologie
innovative. In questo senso, due sono i fronti su cui si
può intervenire:
— governare tipo e quantità degli agenti proteolitici attraverso la selezione oculata di starter con attività nota,
la scelta del tipo di caglio in funzione delle condizioni
di coagulazione del latte e quindi di differente ritenzione
nella cagliata, l’attuazione di trattamenti del latte e/o
della cagliata che possano attivare il plasminogeno e/o
contribuire alla lisi cellulare;
— governare le condizioni di umidità, pH e temperatura
in cui tali enzimi si troveranno ad agire, sia in fase di lavorazione del latte in caldaia che poi successivamente
durante la stagionatura.
• Confezionamento dei prodotti lattiero-caseari
Per quanto concerne la problematica relativa all’idoneità
alimentare del confezionamento, stante la legislazione
vigente a livello comunitario, il rapporto che regola fornitore di imballaggi e utilizzatore finale deve rientrare
negli obblighi stabiliti per legge. Il produttore di imballaggi deve certificare la corrispondenza delle materie
prime e degli eventuali additivi impiegati con gli elenchi delle sostanze ammesse (liste positive). A carico del
produttore di imballaggi, ed eventualmente dell’utilizzatore finale, sono i controlli della inerzia del materiale
e/o del contenitore nei confronti delle matrici alimentari
specifiche, tramite prove di migrazione globale e specifica. Un altro importante aspetto delle interazioni imballaggio/alimento è l’inerzia sensoriale, ovvero la non alterazione del profilo sensoriale dell’alimento ascrivibile
al contatto con il materiale di confezionamento. Questo
aspetto è spesso trascurato, ma in alcuni casi è stato oggetto di contenzioso tra ditta fornitrice e cliente, poiché
non è chiaro di chi sia l’onere delle prove.
Per quanto attiene la contaminazione accidentale, non
risulta possibile stabilire dei limiti, poiché essa dipende
da una serie di variabili legate al materiale di partenza,
agli additivi impiegati, alle tecniche di produzione (laminazione, stampa) del materiale, alle modalità di stoccaggio dello stesso.
Le garanzie che l’utilizzatore finale dell’imballaggio dovrebbe pretendere dal proprio fornitore (ma il condizionale è d’obbligo, poiché non tutte le aziende possiedono
la necessaria “forza”economica a supporto della richiesta) riguardano dunque:
— una certificazione di conformità alla normativa vigente, a livello nazionale e comunitario;
— una certificazione di processo, che attesti la qualità
delle trasformazioni a cui sono sottoposti i materiali di
confezionamento nella realizzazione del prodotto finito.
Per quanto concerne invece lo sviluppo di nuove forme
di confezionamento, il mantenimento della qualità dei
prodotti alimentari confezionati, in senso generale, è sicuramente l’obiettivo primario di chi commercializza
alimenti.
La preservazione della qualità tramite tali tecniche richiede sempre un’elevata qualità igienica dell’alimento
all’atto del confezionamento e il mantenimento di adeguate condizioni di conservazione nella catena distributiva. Per esemplificare, il condizionamento in atmosfera
protettiva di formaggi il cui carico microbico sia elevato
in partenza (o per le caratteristiche intrinseche del prodotto o per contaminazioni e proliferazioni da scarsa cura nel processo produttivo) non potrà che arrecare minimi se non trascurabili benefici durante la conservazione,
indipendentemente dalla atmosfera impiegata e dalla
barriera offerta dai materiali di confezionamento.
Differenti possono essere gli approcci a tale problematica:
1) adozione di pratiche produttive in stabilimento che riducano al minimo le possibili contaminazioni e proliferazioni (una sorta di camera bianca);
2) uno scrupoloso controllo delle temperature in tutte le
fasi produttive e distributive: la temperatura bassa da un
lato amplifica l’effetto conservante delle atmosfere che
contengono anidride carbonica come batteriostatico, dall’altro è essa stessa un fattore non trascurabile di mantenimento della qualità. Tale richiesta dovrebbe essere
estesa anche alle catene distributive, poiché le date di
scadenza riportate in etichetta il più delle volte sono definite in condizioni ottimali di conservazione (e non in
condizioni di abuso). Potrebbe anche essere utile implementare indicatori tempo/temperatura che segnalino il
possibile scadimento del prodotto per somma di abusi di
temperatura subiti nel corso della distribuzione.
Rischio biologico
Le fonti di pericolo biologico sono il latte contaminato,
la superficie del formaggio contaminata da muffe e acari, aerosol provenienti dalle vasche per il trattamento degli scarichi idrici.
I punti critici sono:
— approvvigionamento e stoccaggio del latte;
— analisi in laboratorio del latte;
— stagionatura delle forme;
— trattamento scarichi idrici;
Le vie di esposizione sono:
— inalazione di bioaerosol;
— contatto con superfici e prodotti caseari contaminati.
Gli agenti biologici potenzialmente presenti sono:
Batteri
latte: Micrococchi, Streptococchi, Bacillus (spore), Microbacterium spp. Streptomiceti, Micobatteri, Brucella, Salmonella, Leptospira, Listeria, Clostridium, Yersinia, Staphylococcus aureus, Campylobacter
Funghi
latte: Lieviti, Muffe
formaggio: Aspergilli
aerodispersi (stagionatura delle forme): Penicillum, Candida, Geotricum, Rhodotorula
Artropodi
formaggio: Acari (Glycyphagus domesticus, Acarus siro, Tyrolochus casei)
Fonte: INAIL
XVIII
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Gli effetti sulla salute sono:
1) sensibilizzazione allergica degli addetti, asma e rinite;
2) infezioni da microrganismi patogeni potenzialmente
presenti nel latte (salmonellosi, tubercolosi, brucellosi
ecc.);
3) infezioni da agenti patogeni presenti nell’impianto di
depurazione degli scarichi idrici (epatite A, tetano, tifo,
leptospirosi)
• Prevenzione e protezione
Per ridurre il rischio biologico occorre prestare attenzione ai seguenti aspetti:
— adeguata manutenzione degli impianti di condizionamento dell’aria, per evitare che vi si accumulino muffe;
— contenimento della polverosità;
— periodica sanificazione degli ambienti;
— fornitura individuale dei seguenti DPI: guanti, mascherina, grembiuli;
— periodica pulizia delle forme per evitare l’accumulo
nell’ambiente di acari e miceti, da svolgersi in una zona
di lavoro separata dalle altre;
— profilassi vaccinale (se disponibile);
— adeguata informazione e formazione degli addetti sul
rischio biologico;
— sorveglianza sanitaria per gli addetti al laboratorio di
analisi.
• Monitoraggio ambientale
Principali parametri biologici
da ricercare
Carica batterica mesofila e psicrofila Carica fungina (muffe e
lieviti) Coliformi, Enterococchi,
Staphylococcus spp., Salmonella spp., Brucella spp.
Aspetti correlati da valutare
Microclima, Captazione polveri.
Matrici/substrati ambientali
Aria, superfici, polveri, filtri
condizionatori/captazione polveri.
Fonte: INAIL
Rischio da sovraccarico biomeccanico degli
arti superiori nei processi di caseificazione
industriale
Il rischio ergonomico a carico degli arti superiori nel
settore dell’industria casearia, con particolare riferimento al processo di produzione del pecorino romano.
Le malattie muscolo-scheletriche costituiscono uno dei
problemi più rilevanti tra le malattie professionali: un
fenomeno in costante crescita in tutti i paesi dell’Unione
Europea. E i fattori di rischio più rilevanti sono correlati
all’organizzazione lavorativa e riguardano sforzo muscolare, posture incongrue, ripetitività dei movimenti e
tempi di recupero insufficienti.
Se queste condizioni sono frequenti in molti settori economici, sono particolarmente diffuse nel comparto manufatturiero, delle costruzioni, dell’agricoltura e nell’industria alimentare, dove abbiamo focalizzato l’attenzione sulle attività lavorative nell’industria casearia che
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presentano molti fattori di rischio per l’apparato muscolo-scheletrico.
Nonostante il crescente livello di automazione permangono numerose attività manuali che richiedono frequenti
stazionamenti prolungati in posizione eretta, sforzi di
trazione e di prensione, azioni ripetitive i cui ritmi sono
spesso determinati dai macchinari delle linee di lavoro.
E sotto quest’aspetto il settore dell’industria casearia
ovina merita di essere accuratamente analizzato e valutato, considerata anche la concomitanza di altri fattori
critici di rischio lavorativo quali la movimentazione di
carichi pesanti e lo stesso ambiente di lavoro caratterizzato da un’elevata umidità ambientale, dall’alternanza
di alte e basse temperature nelle diverse aree lavorative,
dalla presenza di pavimenti costantemente bagnati.
Le tecniche sviluppate per valutare il rischio ergonomico si basano su approcci metodologici differenti che
comportano un diverso livello di precisione della stima.
I principali fattori occupazionali considerati sono:
— i movimenti ripetitivi ad alta frequenza;
— la forza esercitata;
— le posture incongrue;
— il recupero insufficiente;
— la compressione di strutture anatomiche;
— le vibrazioni;
— l’uso di strumenti non ergonomici.
In ogni caso non esiste un unico metodo di riferimento,
ma l’adozione di una determinata tecnica deve essere
modulata in funzione degli obiettivi dell’indagine, delle
caratteristiche del lavoro, degli individui che useranno il
metodo, delle risorse disponibili per la raccolta e l’analisi dei dati.
Tra i più diffusi sistemi di valutazione, il metodo OCRA
è il metodo di analisi quantitativo per la valutazione e la
gestione del rischio da movimenti ripetuti degli arti superiori, utilizzato a livello nazionale e internazionale.
Viene analizzato e valutato il rischio ergonomico a carico degli arti superiori per gli addetti al processo di produzione del pecorino romano, applicando il metodo
OCRA per la mappatura del rischio, al fine di individuare le attività che comportano un eccessivo carico
osteoarticolare e suggerire le adeguate misure correttive.
Si è identificato che le aree di lavoro, le postazioni e le
operazioni che possono risultare critiche sotto il profilo
del carico biomeccanico e della conseguente possibilità
di sviluppare patologie osteoarticolari.
Ad esempio con riferimento al:
— settore lavorazione: questo settore è caratterizzato da
un elevato grado di umidità ambientale, dovuta al riscaldamento derivante dalle polivalenti e al vapore che arriva dalla camera di stufatura, e dalla pavimentazione bagnata per via dell’abbondante utilizzo di acqua per le
pulizie delle superfici e degli strumenti di lavoro;
— settore stagionatura: il comparto lavorativo stagionatura (o cantina) comprende le attività che vanno dalla rimozione delle fascere sino alla fine della stagionatura;
— settore confezionamento: in questo settore si attuano
tutte quelle operazioni (movimentazione, cura, porzionatura, confezionamento) finalizzate alla preparazione delle forme di pecorino romano per la vendita.
Si è individuato nel settore confezionamento l’area tecnica con la maggior percentuale (49%) di compiti lavo-
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rativi critici, seguito dal reparto lavorazione con il 43%
dei compiti a rischio sul totale. Il settore cantina, grazie
agli interventi migliorativi degli ultimi anni con l’introduzione di nuove linee semiautomatiche automatiche
per la salatura e il lavaggio delle forme, è il comparto
cui compete la percentuale di rischio minore (8%).
L’introduzione di idonee pause di recupero che permettano agli arti di riposare 10 minuti ogni ora potrebbe abbattere il rischio biomeccanico in maniera consistente.
Oltre l’introduzione di opportune pause semplici interventi di riorganizzazione delle postazioni di lavoro, unitamente alla dotazione di strumenti agevolatori, possono
costituire un’immediata ed efficace azione di abbattimento del rischio. Per esempio, l’introduzione di pavimenti ad altezza variabile nel settore lavorazione consentirebbe agli addetti di operare ai tavoli ad un’altezza
idonea alla loro statura durante le operazioni di manipolazione e rivoltamento forme.
Nel reparto confezionamento l’uso esteso di pancali ad
altezza variabile e vacuum lifter per la movimentazione
delle forme, unitamente all’inserimento di nastri trasportatori, permetterebbe di rendere meno gravose le operazioni di approvvigionamento delle forme alle stazioni di
lavaggio.
Inoltre, necessita di riprogettazione la postazione di cappatura dove, oltre l’impiego di pianali ad altezza variabile e vacuum lifter per l’approvvigionamento delle forme, un tavolo con piano girevole consentirebbe all’operatore di verniciare le forme ad un’altezza congrua e
senza ruotare attorno alla forma.
È infine evidente che a questi interventi tecnologici suggeriti si innesca parallelamente la necessità di formare e
sensibilizzare i responsabili di reparto e gli addetti alle
lavorazioni riguardo la necessità di prevenire l’insorgenza di alterazioni di tipo muscolo-scheletrico attraverso
un approccio integrato che includa anche la riorganizzazione del lavoro con l’adozione di adeguate pause di recupero funzionale e l’utilizzo della rotazione nelle mansioni più impegnative.
Rischio microclimatico nei caseifici
Il rischio microclimatico nei caseifici si ferma sul benessere termico in due particolari ambienti di lavoro
delle industrie agro-alimentari e delle aziende agrozootecniche: caseifici e sale di mungitura.
Spesso quando si affronta il tema della sicurezza sul lavoro si fa riferimento principalmente alla prevenzione
degli infortuni per i lavoratori, infortuni che nel mondo
agricolo sono legati spesso all’utilizzo di macchine e attrezzature. Ma la tutela della sicurezza e salute ha in
realtà a che fare anche con molti altri aspetti, es. il raggiungimento di determinate condizioni di comfort e benessere termico.
Si indica che in molti ambienti di lavoro agricoli ed
agroindustriali, il benessere termico è difficilmente realizzabile, perché l’uomo si trova spesso ad operare all’aperto o in presenza di animali, o in condizioni di temperatura elevata (serre) o molto bassa (celle frigorifere) o
in situazioni in cui i parametri climatici devono essere
tenuti all’interno di determinati intervalli, per garantire
produzioni conformi agli standard di preparazione, di
maturazione e di conservazione dei prodotti.
XX
Diverse indicazioni sulle caratteristiche del benessere
termico, sui fattori che influenzano il microclima e sottolinea che se ad oggi il microclima è un rischio fisico
per il quale il D.Lgs. n. 81/2008 fornisce generiche indicazioni di “adeguatezza” e “benessere”, si può colmare
questa “carenza” con il riferimento a normative tecniche. Queste ultime propongono alcuni indici microclimatici di comfort e/o di stress, indici che permettono di
interpretare le condizioni microclimatiche ambientali integrate con il tipo di attività svolta dagli addetti.
Agli operatori del settore lattiero-caseario è noto come
gradualmente il freddo sia entrato a far parte della vita
di ogni caseificio diventando uno degli strumenti più
preziosi per il raggiungimento di qualificati risultati tecnologici e come la sua indispensabilità si stia sempre
più evidenziando anche nella climatizzazione degli ambienti adibiti alla conservazione e maturazione dei formaggi.
La stagionatura è un complesso di trasformazioni chimico-biologiche estremamente complesse, le cui finalità
sono quelle di conferire ad ogni tipo di formaggio particolare odore e sapore nonché struttura ed aspetto esteriore. Pertanto, al di là delle problematiche legate alle
difficoltà di lavorazione delle materie prime, è indispensabile che i formaggi trascorrano il periodo di stagionatura in ambienti che abbiano caratteristiche tali da garantire quei processi enzimatici che caratterizzano il
complesso di trasformazioni in maturazione.
Ecco, quindi, che nei processi di stagionatura dei formaggi pecorini va sottolineato un ruolo determinante ai
seguenti fattori:
— la temperatura da mantenere in ambiente;
— il grado igrometrico da mantenere in ambiente;
— un adeguato numero di ricambi aria al giorno in ambiente per evitare che la formazione dei prodotti gassosi
durante i processi di maturazione del formaggio non abbiano ad influire negativamente sul prodotto stesso.
Sono presenti le principali norme tecniche in relazione
agli ambienti microclimatici e i principali strumenti di
misura utilizzabili ai fini della valutazione del rischio
microclimatico.
Le norme tecniche sono in relazione alle metodologie di
valutazione negli ambienti severi, con particolare riferimento a:
— modello PHS, il “Predict Heat Strain” (ISO 7933);
— indice WBGT: “la metodologia di valutazione delle
condizioni di lavoro negli ambienti severi caldi è descritta dalla norma UNI EN 27243, che introduce l’indice WBGT (Wet Bulb Globe Temperature)”;
— indice IREQ.
Le industrie agro-alimentari sono caratterizzate da particolari lavorazioni che prevedono la presenza di notevoli
escursioni termiche tra luoghi diversi all’interno degli
stabilimenti, anche in conseguenza della specificità del
ciclo produttivo.
Per esempio, nei caseifici, le fasi della produzione di
formaggi che possono presentare punti critici per la salute dei lavoratori dal punto di vista microclimatico sono:
— la maturazione tramite stagionatura in grotte o in forni;
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— il mantenimento delle caratteristiche organolettiche
tramite l’immagazzinamento nelle celle frigorifere;
— la lavorazione di formaggi freschi e delle ricotte.
Gli addetti che operano all’interno delle aree di stagionatura (grotte) sono soggetti a una esposizione, oltre che
alle basse temperature, soprattutto a un elevato tasso di
umidità relativa.
Innanzitutto le modalità di valutazione del microclima
negli ambienti di lavoro costituiscono la base di partenza per un intervento tecnico, volto a realizzare condizioni di comfort e di benessere per gli addetti.
Tale intervento si articola in quattro fasi:
1) valutazione delle condizioni ambientali del luogo di
lavoro e dei parametri soggettivi dei lavoratori, che conduce all’individuazione del PMV (l’indice PMV, voto
medio previsto, è utilizzato per la valutazione del comfort globale), e quindi alla possibilità di definire il microclima come moderato, severo caldo o severo freddo;
2) calcolo degli indici appropriati in funzione del punto
precedente;
3) eventuale utilizzo di modelli di previsione delle caratteristiche dell’ambiente di lavoro, in funzione dei risultati ottenuti da brevi periodi di rilievo dei parametri
ambientali;
4) proposta progettuale.
Quest’ultima è finalizzata in particolare alla realizzazione di interventi di bonifica, attuabili nei confronti dell’operatore e/o dell’intero ambiente di lavoro. Per esempio è possibile cambiare il vestiario indossato, modificando la sua resistenza termica, e/o il dispendio metabolico, introducendo delle pause nei turni di lavoro o realizzando una rotazione dei compiti. Si può invece intervenire sull’ambiente di lavoro agendo su singole zone
di questo o direttamente sulle sorgenti termiche. L’esposizione al calore prevede l’utilizzo di indumenti leggeri,
se per una particolare lavorazione non è possibile soddisfare tale richiesta si dovrà utilizzare un indumento speciale che non impedisca la sudorazione o che abbia potere isolante adeguato.
Uno degli aspetti sottolineati e che meritano un maggiore approfondimento riguarda l’acclimatazione dei lavoratori alle temperature estreme e alla protezione dagli
sbalzi di temperatura. L’acclimatazione al caldo comporta una serie di adattamenti fisiologici e psicologici
durante le prime due settimane di esposizione. Cautele
aggiuntive dovrebbero essere adottate durante questo
periodo e quando lavoratori in cattiva forma fisica debbono essere esposti a condizioni di stress termico.
In relazione poi alle attività in cella frigorifera quanto
più elevata è la velocità dell’aria e quanto minore la
temperatura nella zona di lavoro, tanto maggiore deve
essere il grado di isolamento degli indumenti protettivi.
Infatti la velocità dell’aria è una significativa concausa
di problemi di ipotermia, e pertanto va sempre mantenuta ai livelli più bassi possibili. Una possibile soluzione
tecnica di facile applicazione è quella di collegare lo
spegnimento dei ventilatori delle celle frigorifere all’apertura delle porte per il passaggio dei muletti.
Generalmente, l’abbigliamento è composto da più capi
e, quindi, da più strati di tessuti diversi tra i quali sono
interposti strati di aria; quando le persone si muovono
quest’aria, insieme a quella che entra attraverso le aper-
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ture dei capi, quali polsini e colletti, entra in movimento
determinando un effetto, noto appunto come pumping
effect. Tale effetto può essere causato anche da elevati
valori di velocità dell’aria, dovuti ad esempio alla presenza di vento, che possono provocare una compressione degli strati di tessuto, riducendone lo spessore con
conseguente variazione sia dell’isolamento termico che
della resistenza evaporativa.
In definitiva le principali indicazioni preventive riguardano:
— l’introduzione di una organizzazione del lavoro che
limiti la durata di permanenza del lavoratore negli ambienti troppo freddi (o troppo caldi);
— l’indossare un abbigliamento idoneo a mantenere la
giusta temperatura corporea e, in situazioni estreme, utilizzare dispositivi di protezione individuale adeguati,
prestando particolare attenzione alla difesa di mani, piedi e testa più sensibili al freddo;
— la limitazione del fenomeno noto come pumping effect.
Formazione del personale
In un contesto come quello del settore lattiero-caseario, che vede i produttori impegnati in un mercato
sempre più competitivo, la creazione e la promozione
di prodotti innovativi, di effetti benefici sulla salute,
delle necessità di particolari categorie della popolazione (allergie, intolleranze, gravidanza, allattamento eccetera) e che rispondano alle attuali normative di sicurezza e qualità, diventa di fondamentale importanza
per potere rimanere sul mercato nel lungo termine. In
tal senso, è emersa da parte delle imprese la necessità
di ampliare le competenze del proprio personale interno, creando dei profili nuovi, multidisciplinari, attenti
agli stimoli innovativi derivanti dal mondo della ricerca, ma anche competenti sugli aspetti sanitari e regolatori che ultimamente stanno assumendo sempre maggiore rilevanza. In questa prospettiva, è necessario intraprendere azioni più articolate per favorire lo scambio di risorse e/o di know-how fra imprese, gruppi di
ricerca, sia del mondo accademico che di quello medico clinico.
In particolare, di grande interesse per le imprese sarebbe
ampliare le proprie strutture con l’aggiunta di personale
competente, in grado di concentrare competenze sia in
ambito meccanico e quindi nella gestione degli impianti,
sia su tematiche legate ai processi, al packaging e alla
nutrizione umana, sia nelle relazioni interne e soprattutto nell’ interfacciarsi meglio con l’ambiente esterno al
quale spesso l’impresa si rivolge per le proprie attività
di ricerca.
In questo contesto, diventa indispensabile da parte dalle
imprese fornire una integrazione e un supporto ai percorsi universitari, tramite l’organizzazione di attività didattico-formative e di tirocini pratico-tecnici da svolgersi direttamente in azienda, anche nell’ottica di accorciare i tempi di entrata a regime dei nuovi assunti. Si pensi
infatti alle numerose imprese dedicate alla produzione
di Parmigiano Reggiano. In questi contesti, la formazione del personale risulta difficilmente praticabile al di
fuori della dimensione aziendale stessa, in quanto spes-
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so non ci si può permettere di concedere il tempo necessario alle risorse interne per seguire percorsi formativi.
Questo pone ulteriormente l’attenzione sulla necessità
di generare una maggiore integrazione fra mondo della
ricerca e mondo non solo delle medio-grandi imprese,
ma anche e soprattutto delle realtà più piccole. La collaborazione attiva con le università, infatti, potrebbe favorire una maggiore informazione degli addetti sulle tecnologie innovative che potrebbero portare a una ottimizzazione delle tecniche di lavorazione tradizionali, attraverso per esempio il risparmio energetico oppure la riduzione dei tempi di lavorazione, con l’effetto principa-
le di rafforzare la competitività del settore e la riduzione
dei costi.
Non solo, ma, come già precedentemente riportato, il
Parmigiano Reggiano è un alimento che presenta notevoli qualità nutrizionali che costituiscono un campo di
indagine ancora aperto. Arrivare a valorizzare questo
prodotto tipico in termini di “alimento funzionale” anche tramite l’adeguata formazione del personale addetto
sia sugli aspetti prettamente nutrizionali sia su quelli
che riguardano le normative europee in materia, fornirebbe una ulteriore spinta competitiva a questa realtà
produttiva.
Tabella – Norme igieniche rischio generico nei luoghi di lavoro
Adeguata informazione ed eventualmente formazione dei lavoratori rispetto delle principali norme igieniche come ad esempio mantenere
una buona igiene personale, lavarsi le mani dopo aver starnutito o tossito o pulito il naso.
Per la disinfezione dell’ambiente e degli oggetti utilizzare prodotti adeguati ad esempio a base di cloro attivo.
Lavarsi le mani dopo aver usato il bagno.
Asciugarsi con salviette monouso.
Gettare le salviette in appositi contenitori.
Circa la regolare pulitura di tutti i luoghi di lavoro verificare periodicamente l’attività svolta dalle ditte appaltatrici dei lavori di pulizia, in
particolare riguardo ai servizi igienici.
mettere a disposizione rubinetti con pedale o con cellula fotoelettrica.
Devono essere segnalati adeguatamente i rubinetti da cui dovesse scorrere acqua non potabile.
rimozione di materiali sporchi o polverosi, nonché la detersione con l’uso oculato di disinfettanti, solo ove necessario; a tal proposito, finita la pulitura, le aree di lavoro vanno fatte areare adeguatamente.
disinfestazione periodica in ambienti di lavoro particolari quali mense, cucine, refettori, giardini, magazzini ed archivi, e comunque dove
necessita, previa pulitura a fondo dei locali e facendo trascorrere un adeguato lasso di tempo prima del rientro dei lavoratori e degli utenti.
allontanare tempestivamente il materiale in disuso accantonato negli ambienti di lavoro, con particolare riguardo al materiale organico.
Imbiancatura degli ambienti di lavoro soprattutto laddove siano presenti danni da infiltrazioni, con presenza di muffa.
Allontanare tempestivamente il materiale in disuso accantonato negli ambienti di lavoro, con particolare riguardo al materiale organico.
Riparare discontinuità dei pavimenti o delle pareti e delle volte che possono divenire ricettacolo di polvere ed insetti.
Evitare il sovraffollamento dei locali attraverso una distribuzione adeguata degli operatori in base anche alle capacità recettive dei vari
ambienti.
Bibliografia
— Regolamento (CE) n. 852/2004, sull’igiene dei prodotti alimentari.
— Regolamento (CE) n. 1169/2011, relativo alla fornitura di informazioni sugli alimenti ai consumatori, che
modifica i regolamenti (CE) n. 1924/2006 e (CE) n.
1925/2006 del Parlamento europeo e del Consiglio e
abroga la direttiva 87/250/CEE della Commissione, la
direttiva 90/496/CEE del Consiglio, la direttiva
1999/10/CE della Commissione, la direttiva 2000/13/CE
del Parlamento europeo e del Consiglio, le direttive
2002/67/CE e 2008/5/CE della Commissione e il regolamento (CE) n. 608/2004 della Commissione.
— Dati INAIL - Aprile 2015.
— Dati INAIL - Maggio 2013.
XXII
— INAIL, Il rischio biologico nei luoghi di lavoro,
Schede tecnico-informative, Edizione 2011.
— D.Lgs. n. 81/2008 “Attuazione dell’articolo 1 della
legge 3 agosto 2007, n. 123, in materia di tutela della
salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro” e s.m.i.
— D.Lgs. n. 155/1997, “Attuazione delle direttive
93/43/CEE e 96/3/CE concernenti l’igiene dei prodotti
alimentari”.
— D.P.R. n. 54/1997,”Regolamento recante attuazione
delle direttive 92/46 e 92/47/CEE in materia di produzione di latte e di prodotti a base di latte”.
— Norma tecnica UNI EN 11228-3:2009 –Ergonomia:
Movimentazione manuale Parte 3: Movimentazione di
bassi carichi ad alta frequenza.
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— Norma tecnica UNI EN 7730:2006 – Determinazione
degli indici PMV e PPD e specifiche per le condizioni
di benessere termico.
— L. Murgia, T. Gallu, T. Marras, M. Bullitta, M. Angius, A. Pazzona, Valutazione del rischio da sovraccarico biomeccanico degli arti superiori nei processi di caseificazione industriale, 2011.
— Il rischio da microclima nei caseifici e nelle sale di
mungitura, a cura di D. Monarca, R. Bedini, M. Cecchi-
Igiene & Sicurezza del Lavoro 8-9/2016
ni, A. Colantoni, S. Di Giacinto, A. Marucci, G. Menghini (Università degli Studi della Tuscia – Laboratorio
Ergolab – Dip. DAFNE – Viterbo) e P.R. Porceddu
(Università degli Studi di Perugia – Dip. Scienze Agrarie e Ambientali), intervento alla giornata di studio “Salute e sicurezza sul lavoro nel comparto zootecnico e caseario”, 26 ottobre 2011.
XXIII
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VDR in pratica
Settore
Lavorazione
Modalità
Industria degli adesivi e
sigillanti
Produzione di colle ureiche
Processi i cui standard tecnologici possono essere molto variabili, alcune realtà hanno dimensioni artigianali e di conseguenza la dotazione
impiantistica è molto semplice, con ciclo aperto e inadeguatezza delle
aspirazioni; spesso le carenze si riscontrano negli elementi comportamentali (es. Misure igieniche)
Industria degli abrasivi
Utilizzo di colle contenenti formaldeide
Incollaggio e pressatura a caldo in genere in impianti a ciclo aperto;
può essere presente compartimentazione ed aspirazione localizzata;
spesso le carenze si riscontrano negli elementi comportamentali (es.
Misure igieniche)
Industria del mobile
Produzione di pannelli in truciolare
mdf, nobilitato
Pressatura a caldo in genere in impianti a ciclo aperto; può essere presente compartimentazione ed aspirazione localizzata ma date le grandi
dimensioni dei pannelli non è di semplice realizzazione
Industria tessile
Impregnazione dei tessuti per la
fissazione dei coloranti
Processo in genere a ciclo aperto ed in temperatura, con aspirazione
localizzata sulle vasche; gli standard tecnologici possono essere molto
variabili, alcune realtà hanno dimensioni artigianali e di conseguenza
la dotazione impiantistica è molto semplice; carenze si riscontrano negli elementi comportamentali (es. Misure igieniche)
Industria del cuoio e delle pelli
Concia
Processo in genere a ciclo aperto ed in temperatura, con aspirazione
localizzata sulle vasche; gli standard tecnologici possono essere molto
variabili, alcune realtà hanno dimensioni artigianali e di conseguenza
la dotazione impiantistica è molto semplice; carenze si riscontrano negli elementi comportamentali (es. Misure igieniche)
Lavorazioni metalmeccaniche
Diversi biocidi (triazine, ossazolidine) possono rilasciare formaldeide
durante l’uso, in funzione della diluizione e del ph
Processo in genere a ciclo aperto, in assenza di aspirazione o con aspirazione configurata per le nebbie oleose
Sanità
Conservazione di pezzi anatomici
(servizi di anatomia patologica)
Appaiono spesso critiche le modalità di trasporto dei campioni e non
sempre la manipolazione avviene sotto aspirazione; non sempre i contenitori sono appropriati
Laboratori
Reagente e solvente
In genere prevede l’operatività sotto cappa; elementi critici possono
essere la manutenzione delle stesse e la conservazione, etichettatura e
trasporto di campioni e scarti
Terziario
Stoccaggio di prodotti che emettono formaldeide
Ambienti le cui caratteristiche di ventilazione possono essere estremamente variegate; non conoscenza della presenza del pericolo
Fonte: www.formacare.org
Valutazione del rischio
La valutazione del rischio cancerogeno o mutageno
deve essere preventiva, quindi effettuata – attraverso una stima – prima dell’inizio dell’attività lavorativa e non solo a produzione già avviata, dove
si procederà invece a una revisione della valutazione – entro il termine di 30 giorni – qualora l’esposizione effettiva si discostasse dalle previsioni iniziali.
Il percorso previsto dal Titolo IX Capo II del
TUSL stabilisce un percorso molto specifico di valutazione del rischio cancerogeno e mutageno, preferibilmente con metodologie di tipo quantitativo.
Per questo tipo di agenti infatti il variare dell’entità del rischio dipende solo dall’intensità dell’esposizione, dal momento che la magnitudo del danno
– l’altro fattore che caratterizza il rischio – è in
questa fattispecie sempre elevata: la normativa richiede quindi per questi agenti una valutazione
particolarmente approfondita e documentata del-
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l’esposizione, o meglio “di tutti i possibili modi di
esposizione, compreso quello in cui vi è assorbimento cutaneo”, ove possibile mediante procedimenti oggettivi di misurazione dei livelli delle
esposizioni sia abituali che anomale.
La quantificazione del livello di esposizione inalatoria può quindi essere effettuata mediante campionamenti ambientali (misura della concentrazione
aerodispersa) e personali (nel caso l’esposizione in
una specifica postazione possa variare a seconda di
particolari modalità di lavoro, ad esempio quanto
l’operatore debba muoversi su più zone di lavoro);
questi dati, rappresentativi di una zona di lavoro
ben definita o di un determinato Gruppo Omogeneo di Esposizione (GOE, ovvero un raggruppamento di lavoratori, realizzato in seguito all’accurata analisi del processo di lavoro, il cui profilo di
esposizione si presume simile), possono poi essere
confermati o meno dagli esiti collettivi dello screening sanitario sul gruppo esposto, e venire conte-
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VDR in pratica
stualizzati al singolo individuo mediante il monitoraggio biologico (2).
Le modalità corrette di esecuzione di un monitoraggio dell’esposizione non verranno qui discusse,
dal momento che sono comuni all’intero capitolo
del rischio chimico (3); è però radicalmente diversa l’impostazione da considerare per l’interpretazione dei dati ottenuti in termini di rischio. Infatti,
una questione delicata e a tutt’oggi aperta è quella
che concerne il criterio con cui interpretare la rilevanza del livello di esposizione a cancerogeni o
mutageni misurato in ambito lavorativo. Se infatti
eticamente non vi è dubbio sul fatto che si debba
tendere al “rischio zero” da agenti cancerogeni o
mutageni, è anche vero che dal punto di vista tecnico questo corrisponde a una “concentrazione zero” che oggi non è costantemente raggiungibile
nemmeno in un sistema a ciclo chiuso. Quindi,
qualora la sostituzione non fosse attuabile, è necessario disporre di valori di riferimento con i quali
confrontare il livello di esposizione misurato, in
modo da comprendere il livello di “rischio residuo”
derivante. Lo standard di riferimento nella fattispecie in esame non può però coincidere tout-court
con il valore limite di esposizione professionale, né
con il corrispondente indicatore biologico: questi
vanno infatti interpretati come valori che non devono mai essere raggiunti, e a maggior ragione
quando riguardano agenti chimici di questo tipo
che come già visto non consentono di definire indicatori di esposizione health-based, ad eccezione
dei “cancerogeni epigenetici” accertati che però sono relativamente pochi (4).
Vi sono attualmente diversi orientamenti in materia.
be risultare inferiore o pari a quello della popolazione generale in quanto quelle lavorazioni devono
essere il più possibile segregate dalle altre zone di
lavoro;
— potenzialmente esposti: il livello di esposizione
ad agenti cancerogeni e/o mutageni risulta superiore a quello della popolazione generale solo per
eventi imprevedibili e non sistematici (es. eventi
incidentali);
— esposti: si tratta degli operatori direttamente addetti alla lavorazione con la sostanza cancerogena/mutagena, il cui livello di esposizione potrebbe risultare sistematicamente superiore a quello della
popolazione generale;
— ex esposti: sono lavoratori che hanno cessato,
per motivi vari, l’attività che li vedeva appartenenti al gruppo degli esposti.
Queste distinzioni sono fondamentali anche per gli
altri aspetti della prevenzione: infatti dall’esame
della legislazione si evince che solo i lavoratori
“esposti” sono sottoposti alla sorveglianza sanitaria.
Rischi: confronto con l’esposizione
della popolazione generale
La valutazione dell’esposizione deve permettere la
classificazione dei lavoratori (5) in fasce di rischio
differenziate:
— non esposti: sono gli operatori non addetti ad
operazioni con agenti cancerogeni/mutageni, il cui
livello di esposizione in ambito lavorativo dovreb-
L’orientamento attualmente prevalente fra i soggetti della prevenzione è quello che definisce l’esistenza di un rischio certamente significativo per la
salute qualora il livello di esposizione in ambito lavorativo superi quello della popolazione generale:
infatti l’esposizione diffusa, per via ambientale o
alimentare, ad agenti cancerogeni o mutageni è attualmente un dato di fatto e costituisce l’esposizione di fondo, il confine – dinamico – del “rischio
accettabile” su cui è possibile misurare ogni contributo aggiuntivo (ferma restando, naturalmente,
l’attenzione che deve essere posta anche nello stabilire strategie di riduzione dell’esposizione della
popolazione generale a cancerogeni o mutageni).
Questo criterio presuppone però la definizione di
valori di riferimento per sostanze cancerogene e
mutagene per la popolazione generale, ed è quindi
utile e praticabile per le sostanze conosciute come
ubiquitarie nell’ambiente di vita (quale è, ad esempio, il benzene) per le quali di fatto tali valori di ri-
(2) Prezioso è il collegamento del dato collettivo con il dato
individuale, ad esempio al fine di riscontrare modalità procedurali errate nel singolo operatore: può essere il caso della delicata operazione di svestizione dai Dispositivi di Protezione Individuale (DPI), che se non correttamente effettuata espone
l’operatore al contatto diretto con le sostanze chimiche ivi depositatesi.
(3) Sia per l’esecuzione dei campionamenti che per l’interpretazione dei dati e la successiva reportistica si farà sempre
riferimento agli standard definiti dalle norme UNI EN 482 (“Atmosfera nell’ambiente di lavoro. Requisiti generali per le pre-
stazioni dei procedimenti di misurazione degli agenti chimici”)
e UNI EN 689 (“Atmosfera nell’ambiente di lavoro – Guida alla
valutazione dell’esposizione per inalazione a composti chimici
ai fini del confronto con i valori limite e strategia di misurazione”).
(4) L’unico ente che opera questa distinzione nel definire i
valori di riferimento è il Deutsche Forschungsgemeinschaft.
(5) Coordinamento Tecnico per la Sicurezza nei Luoghi di
Lavoro delle Regioni e Province autonome, “Linee Guida per
l’applicazione del Titolo VII del Decreto Legislativo n. 626/94 –
Protezione da agenti cancerogeni e/o mutageni”.
VDR Indicazioni ufficiali e loro
interpretazione
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VDR in pratica
ferimento per la matrice aria sono già stati messi a
punto e definiti in normative, sulla base di un approccio di “accettabilità del rischio per la salute” a
partire dalla correlazione stimata (6) fra le concentrazioni di contaminanti cancerogeni e mutageni e
l’eccesso di comparsa di tumori.
Una delle difficoltà insite in questo criterio è determinata dal fatto che i valori di riferimento possono essere condizionati geograficamente, dal momento che il “fondo” espositivo non è ovviamente
omogeneo in ogni zona d’Italia, d’Europa e del
mondo.
Per la formaldeide i valori di riferimento raccomandati si riferiscono sempre alle conseguenze di
tipo deterministico, e non agli effetti cancerogeni.
La World Health Organization nel documento
“Air quality guidelines for Europe” (2000) ha definito un valore limite ponderato su 30 minuti pari a
0,1 mg/m3 (0,08 ppm), inteso come LOAEL (Lowest Observed Adverse Effect Level), ovvero il livello più basso che produce un effetto riscontrabile: al
di sotto di questo valore non dovrebbero verificarsi
fenomeni irritativi a naso e gola, eccetto per i più
sensibili, e si ritiene che tale valore possa essere
protettivo anche verso gli effetti a lungo termine.
Esistono molti altri valori di riferimento, che in generale si collocano tra 0,03 e 0,123 mg/m3; per gli
ambienti indoor esistono le Linee guida canadesi
per gli ambienti residenziali (2006), che indicano
0,123 mg/m3 per periodi di esposizione di 1 ora (effetto critico l’irritazione degli occhi) e 50 μg/m3
per periodi di esposizione di 8 ore (effetto critico
sintomi respiratori per i bambini).Va anche ricordata la Circolare n. 57 del 22 giugno 1983 del Ministero della Salute “Usi della formaldeide – Rischi
connessi alle possibili modalità di impiego” ove si
prevede un valore di 0,1 ppm (0,123 mg/m3) negli
ambienti di vita e soggiorno ove vengano utilizzati
compensati, pannelli truciolati, conglomerati in sughero.
Confronto con valori limite
Il confronto con i valori limite, che come si è detto per i cancerogeni/mutageni non consente di individuare una zona di “esposizione sicura”, può però essere utile per definire fasce di rischio all’interno della categoria degli “esposti”, per il conseguimento di particolari obiettivi progressivi di prevenzione e/o per meglio dimensionare la sorveglianza
sanitaria e il monitoraggio del rischio, in un quadro di buona pratica di igiene industriale.
In funzione del livello di esposizione inalatoria misurato è quindi possibile classificare gli esposti in
“classi di livelli di esposizione”, ad esempio individuando (7):
1) esposti a bassissimi livelli: il livello di esposizione di questa categoria è paragonabile a quello a cui
è esposta la quota di popolazione generale che si
colloca nella coda superiore della curva di distribuzione log-normale; in assenza di valori limite di
esposizione per la popolazione generale, si può assumere che questa situazione corrisponda ad una
esposizione inferiore al 30% del corrispondente valore limite di esposizione professionale ponderato
sul lungo periodo;
2) esposti a bassi livelli: si tratta di lavoratori sicuramente più esposti della popolazione generale e a
ciò corrisponde un livello di esposizione variabile
dal 30% al 50% del valore limite di esposizione
professionale ponderato sul lungo periodo;
3) esposti a più alti livelli: l’esposizione è compresa
nell’intervallo dal 50% al 100% del valore limite
di esposizione professionale sul lungo periodo.
È chiaro che l’obiettivo di questa classificazione
successiva alla valutazione dell’esposizione è come
sempre quello di orientare la riduzione del rischio
attraverso priorità di intervento; infatti il datore di
lavoro deve adoperarsi attivamente, ricorrendo sistematicamente ad adeguate indagini, affinché si
realizzi un continuo spostamento dei lavoratori
verso livelli sempre più bassi di esposizione, con
l’obiettivo di raggiungere il più possibile la condizione di non esposti.
Per le specie chimiche cancerogene e mutagene
per le quali non sia stato ad oggi stabilito un valore
di riferimento applicabile alla popolazione generale, si può affermare che si ha esposizione significativa quando esse siano rintracciabili nell’ambiente
in presenza di una lavorazione che specificamente
le utilizza/produce ed in concentrazioni plausibilmente ad essa riconducibili.
Stante l’impossibilità di definire valori limite di
esposizione che siano health-based per i cancerogeni
e mutageni, un orientamento pratico è di individuare uno standard che equivalga “al più basso valore tecnicamente possibile” per una determinata
condizione di esposizione lavorativa, determinato
(6) AA.VV. (2000), Air quality guidelines for Europe, World
Health Organization, Geneva.
(7) È questa la posizione degli igienisti industriali. Si veda,
per esempio, Cottica D. (2002), La definizione di soggetto espo-
sto: un problema aperto, in atti del Convegno Nazionale “La
prevenzione del rischio cancerogeno nei luoghi di lavoro –
Contenuti e strategie in Italia e nell’Unione Europea”, Pisa, 2022 febbraio 2002
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Confronto con valori guida
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VDR in pratica
Nel TUSL, l’utilizzo di agenti cancerogeni e mutageni nei cicli produttivi è fortemente disincentivato, in quanto soggetto ad una serie di prescrizioni
minime sia di tipo tecnico, che organizzativo e procedurale. Il motivo di tanta severità è strettamente
correlato alle caratteristiche intrinseche del meccanismo di azione degli agenti cancerogeni e mutageni: infatti come visto anche l’esposizione a bassi livelli rende sempre esistente un livello di rischio
che definire “accettabile” è davvero arduo, tenen-
do presente le gravi conseguenze che potrebbero
interessare i soggetti esposti.
L’obiettivo principale del processo valutativo per
questa fattispecie di agenti chimici è quello di raggiungere misure di prevenzione che escludano
quanto più è possibile che ci siano dei lavoratori
esposti e garantiscano che comunque ogni possibile
esposizione sia al livello più basso possibile; nel
TUSL è infatti prevista una precisa gerarchia nelle
misure di prevenzione e protezione da adottare in
presenza di agenti cancerogeni o mutageni:
1) la misura prioritaria risulta l’eliminazione o la riduzione dell’utilizzo della formaldeide mediante la
sua sostituzione completa o parziale (8), o la modifica del tipo di processo di lavoro, o tramite interventi sullo stato fisico che rendano la sostanza meno disperdibile (9) – sempre che ciò sia tecnicamente possibile;
2) in subordine si dovrà ricorrere, per la produzione o l’uso della formaldeide, ad un “sistema chiuso” (10) sempre che ciò sia tecnicamente possibile;
3) se il ricorso ad un sistema chiuso non è tecnicamente possibile, è comunque necessario che il livello di esposizione sia ridotto al minor valore tecnicamente possibile: ciò si può ottenere mediante
la segregazione spazio-temporale dell’attività; misure di protezione collettiva ed individuali; e interventi organizzativi che limitino al minimo le quantità in uso, il numero di esposti e la durata delle
esposizioni.
Nel perseguire il più basso livello di esposizione
tecnicamente possibile, si devono impiegare tutte
le misure preventive tecniche, organizzative e procedurali, applicando con ancora maggior cautela
norme di buona prassi concernenti anche la protezione da agenti chimici. Tra i principali interventi
di prevenzione una volta che la sostituzione o il ciclo chiuso non siano attuabili vi sono:
a) il controllo delle condizioni operative, in modo
particolare della temperatura che risulta un elemento cruciale per aumentare la volatilità della
formaldeide;
b) l’attuazione di misure volte a captare l’inquinante attraverso la collocazione di impianti di aspirazione ed abbattimento, per quanto possibile in
prossimità delle fonti di emissione, e la cui portata
(8) Per la ricerca di sostituti di prodotto o di processo, esistono alcuni interessanti progetti e strumenti; in particolare, si
può fare riferimento ai seguenti siti web che presentano casistudio e tool per la ricerca:
— OECD Substitution and Alternatives Assessment Toolbox
(http://www.oecdsaatoolbox.org/);
— Substitution Support Portal (http://www.subsport.eu/).
(9) Per esempio, l’inclusione in una matrice solida o liquida.
(10) Un “sistema a ciclo chiuso” è un sistema impiantistico
che garantisce la segregazione dell’agente chimico rispetto al-
l’ambiente di lavoro; naturalmente tale segregazione non potrà
essere completa, deve però concedere solo margini molto piccoli di escursione. Inoltre occorre ricordare che anche il miglior
impianto a ciclo chiuso non può garantire una segregazione
assoluta in tutte le operazioni di lavoro in quanto alcune necessitano di modalità operative che aggirano il ciclo chiuso
(un esempio significativo ne è la manutenzione, specificamente considerata a rischio particolare dall’art. 241 del TUSL); in
questi casi gli operatori andranno tutelati attraverso le altre misure stabilite nella gerarchia prevista dal Capo II.
dal livello tecnologico raggiunto da un determinato processo produttivo in un dato comparto.
In letteratura esistono valori limite di questo tipo
definiti dall’ente tedesco Deutsche Forschungsgemeinschaft per cancerogeni genotossici e mutageni
di categoria 1 e 2, i TRK (Technische Richtkonzentration) ed i corrispondenti indicatori EKA per
il monitoraggio biologico dell’esposizione – ma anche prescindendo dalle differenti condizioni produttive dell’Italia non è sempre chiaro a quale
standard tecnologici si riferiscano; sarebbe quindi
necessaria, a scopo di orientamento sia verso coloro che all’interno dell’azienda si occupano di prevenzione sia per gli organismi pubblici di vigilanza,
la pubblicazione di “valori guida tecnologicamente
raggiungibili” attuali rispetto agli odierni standard
tecnologici adottabili nella specifica lavorazione.
Nella stessa direzione si muovono anche i “nuovi”
valori limite DNEL (Derived No Effect Level) messi
a punto per ogni sostanza chimica nell’ambito del
procedimento di Valutazione della Sicurezza Chimica previsto da REACh. Si tratta infatti di valori
di esposizione calcolati in base alle migliori condizioni tecniche, organizzative, procedurali applicabili in un dato Scenario Espositivo (che viene allegato alla scheda dei dati di sicurezza) e rappresentano
dunque una sorta di standard specifico di riferimento – pur se messo a punto dall’industria e non
da autorità di prevenzione. Per questi ultimi valori
si dovrà fare riferimento alla sezione 8 della SDS o
allo Scenario Espositivo allegato, riferiti allo specifico utilizzo.
Gestione del rischio
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VDR in pratica
e velocità di aspirazione tengano conto delle caratteristiche dei vapori emessi (in particolar modo,
temperatura e densità degli stessi);
c) un’adeguata organizzazione del processo che limiti la necessità di apertura dei contenitori di stoccaggio e di produzione, con la conseguente limitazione dei vapori emessi in modo diffuso;
d) sistemi di dispensazione di tipo automatico e sistemi di trasporto/adduzione e di stoccaggio sotto
vuoto;
e) la razionalizzazione degli stoccaggi in produzione, al fine di limitare le quantità presenti che costituiscono un elemento di rischio incidentale/emergenziale rilevante;
f) l’utilizzo di contenitori a tenuta, o aspirati (prestando anche attenzione alla combustibilità dei vapori di formaldeide, che può richiedere una valutazione ATEX dedicata e l’utilizzo di impianti elettrici di protezione appropriata);
g) ove vi sia esposizione, la necessità di utilizzare
idonei dispositivi di protezione individuale costituiti da guanti (eventualmente accoppiati a creme
barriera), autorespiratori o maschere a pieno facciale, occhiali di protezione idonei a limitare l’assorbimento oculare, tute di lavoro resistenti alla
penetrazione di schizzi (11);
h) l’effettuazione di una adeguata formazione e informazione dei lavoratori sui rischi;
i) la messa a punto di adeguate istruzioni operative
per le situazioni ordinarie e per le situazioni che
possono comportare rischi non ordinari (guasti,
sversamenti, interventi di manutenzione);
l) il controllo che tutti i contenitori utilizzati in lavorazione (compresi quegli degli scarti) possiedano
i requisiti tecnici e di etichettatura previsti dalle
vigenti norme;
m) lo stoccaggio del prodotto in locali possibilmente refrigerati o comunque freschi, ventilati, al
riparo da fonti di calore. Il pavimento dovrà essere
impermeabile, tale da non permettere lo spandimento all’esterno. Importante lo stoccaggio separato dagli specifici agenti incompatibili (12), data la
possibilità che possano originarsi reazioni violente
che determinino l’emissione incontrollata di formaldeide e di altri pericolosi prodotti di reazione.
La specificità degli interventi attuabili dipende,
ovviamente, dal tipo di lavorazione svolta e non è
qui possibile entrare nel merito specifico.
Occorrerà in ogni caso adottare le importantissime
cautele igieniche: non fumare, bere o mangiare nei
luoghi di lavoro e disporre opportunamente le aree
dedicate ai momenti voluttuari (quali aree break,
aree fumo); lavare le parti esposte (mani, avambracci, volto) dopo ogni manipolazione, e anche
con l’uso di DPI; effettuare un’accurata pulizia del
posto di lavoro al termine delle attività; provvedere alla conservazione separata di indumenti civili e
di lavoro (questi ultimi dovranno naturalmente essere bonificati a cura del datore di lavoro).
(11) Per la protezione da formaldeide, in modo particolare i
DPI dovrebbero possedere le seguenti caratteristiche: il filtro
dell’apparecchio di protezione delle vie respiratorie deve essere di tipo ABEK (la classe di protezione andrebbe scelta in funzione delle concentrazioni riscontrate) mentre il materiale più
appropriato per i guanti è la gomma butilica con spessore minimo di 0.7 mm (classe di resistenza 6).
(12) Per la formaldeide, si tratta di sostanze acide e basiche
ed agenti ossidanti.
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Misure di screening
Gli esiti del processo di valutazione dell’esposizione
devono essere necessariamente integrati dai risultati della sorveglianza sanitaria effettuata dal Medico
Competente. I dati inerenti i livelli di esposizione
individuale devono essere catalogati a cura del Medico competente nell’apposito Registro degli esposti, oggetto di flussi comunicativi con gli enti preposti al fine di costituire la base di dati necessaria
all’identificazione degli ex esposti e alla programmazione dei successivi interventi a loro tutela; infatti il problema dell’identificazione dei tumori
professionali è reso difficile dal fatto che trattandosi di effetti stocastici, non sono distinguibili salvo
eccezioni da quelli che si manifestano nella popolazione generale, e numerosi sono i determinanti –
oltre a quelli lavorativi – cui i lavoratori possono
essere stati esposti nel corso della loro vita. È quindi necessaria la massima attenzione nell’identificazione dei tumori di possibile origine professionale,
sia ai fini della prevenzione – perché da tale identificazione possono derivare comunque conoscenze
utilizzabili a scopi preventivi – sia ai fini del risarcimento del danno subito dagli ex esposti.
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Legislazione
Prevenzione incendi
Professionisti antincendio:
nuovi termini
per il mantenimento
dell’iscrizione negli elenchi
Con il decreto 7 giugno 2016, il Ministero dell’Interno dispone i nuovi termini da osservare per
gli adempimenti formativi in materia di prevenzione incendi ai fini del mantenimento dell’iscrizione negli elenchi ministeriali di cui all’art. 16 del D.Lgs. n. 139/2006.
D.M. Interno 7 giugno 2016 (Gazz. Uff. 24 giugno 2016, n. 146)
Modifiche al decreto 5 agosto 2011 recante procedure e requisiti per l’autorizzazione e l’iscrizione dei professionisti negli elenchi del Ministero dell’interno di cui all’articolo 16 del decreto legislativo 8 marzo 2006, n. 139
IL MINISTRO DELL’INTERNO
Visto il decreto legislativo 8 marzo 2006, n. 139 recante
«Riassetto delle disposizioni relative alle funzioni ed ai
compiti del Corpo nazionale dei vigili del fuoco, a norma dell’art. 11 della legge 29 luglio 2003, n. 229», e in
particolare l’art. 16, comma 4;
Visto il decreto del Presidente della Repubblica 1° agosto
2011, n. 151 recante «Regolamento recante semplificazione della disciplina dei procedimenti relativi alla prevenzione degli incendi, a norma dell’art. 49, comma 4-quater,
del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con
modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122»;
Visto il decreto del Ministro dell’interno 5 agosto 2011,
recante «Procedure e requisiti per l’autorizzazione e l’iscrizione dei professionisti negli elenchi del Ministero
dell’interno di cui all’articolo 16 del decreto legislativo 8
marzo 2006, n. 139» pubblicato nella Gazzetta Ufficiale
della Repubblica italiana n. 198 del 26 agosto 2011;
Visto il decreto del Ministro dell’interno 7 agosto 2012,
recante «Disposizioni relative alle modalità di presentazione delle istanze concernenti i procedimenti di prevenzione incendi e alla documentazione da allegare, ai
sensi dell’articolo 2, comma 7, del decreto del Presidente della Repubblica 1° agosto 2011, n. 151» pubblicato
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana n. 201
del 29 agosto 2012;
Ritenuto di dover riformulare il comma 1 dell’art. 7 del
decreto del Ministro dell’interno 5 agosto 2011, al fine
di meglio precisare la cadenza temporale dei corsi o seminari di aggiornamento in materia di prevenzione incendi, che i professionisti devono svolgere per il mantenimento dell’iscrizione negli elenchi del Ministero del-
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l’interno di cui all’art. 16 del decreto legislativo 8 marzo
2006, n. 139;
Acquisito il parere favorevole del Comitato centrale
tecnico scientifico per la prevenzione incendi di cui all’art. 21 del decreto legislativo 8 marzo 2006, n. 139;
Decreta:
Art. 1. – Modifiche al decreto del Ministro
dell’interno 5 agosto 2011
1. Il comma 1 dell’art. 7 del decreto del Ministro dell’interno 5 agosto 2011, è sostituito dal seguente:
«1. Per il mantenimento dell’iscrizione negli elenchi del
Ministero dell’interno di cui all’art. 1, i professionisti
devono effettuare ogni cinque anni corsi o seminari di
aggiornamento in materia di prevenzione incendi della
durata complessiva di almeno quaranta ore.
Il termine dei cinque anni decorre:
a) dalla data di iscrizione negli elenchi di cui all’art. 1;
b) dalla data di riattivazione dell’iscrizione stessa in caso di sospensione per l’inadempienza di cui al comma 2;
c) dalla data di entrata in vigore del presente decreto,
per i professionisti già iscritti alla medesima data negli
elenchi di cui all’art. 1.».
Art. 2. – Entrata in vigore
1. Il presente decreto entra in vigore il giorno successivo alla data di pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale
della Repubblica italiana.
Roma, 7 giugno 2016
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Legislazione
Prevenzione incendi
Scadenze per l’adeguamento
antincendio degli edifici
scolastici
Con il decreto 12 maggio 2016, il Ministero dell’Interno disciplina i termini massimi per l’adeguamento antincendio degli edifici scolastici, indicando quando sia necessario presentare il progetto e richiedere la SCIA e quali siano le strutture esentate dall’obbligo
D.M. Interno 12 maggio 2016 (G.U. 25 maggio 2016, n. 121)
Prescrizioni per l’attuazione, con scadenze differenziate, delle vigenti normative in materia di prevenzione degli incendi per l’edilizia scolastica
IL MINISTRO DELL’INTERNO
di concerto con
IL MINISTRO DELL’ISTRUZIONE, DELL’UNIVERSITÀ E DELLA RICERCA
Visto il decreto legislativo dell’8 marzo 2006, n. 139
recante “riassetto delle disposizioni relative alle funzioni ed ai compiti del Corpo nazionale dei vigili del fuoco, a norma dell’art. 11 della legge 29 luglio 2003, n.
229”;
Visto l’art. 10-bis del decreto-legge 12 settembre
2013, n. 104, recante “misure urgenti in materia di
istruzione, università e ricerca”, convertito con modificazioni dalla legge 8 novembre 2013, n. 128, che
prevede che con decreto del Ministro dell’interno, tenendo conto della normativa sulla costituzione delle
classi di cui agli articoli 9, 10, 11 e 12 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica
20 marzo 2009, n. 81, sono definite e articolate, con
scadenze differenziate, le prescrizioni per l’attuazione
delle vigenti disposizioni legislative e regolamentari
in materia di prevenzione degli incendi per l’edilizia
scolastica;
Visto l’art. 4 del decreto-legge 30 dicembre 2015, n.
210, convertito con modificazioni dalla legge 25 febbraio 2016, n. 21, recante “Proroga di termini previsti
da disposizioni legislative”, che prevede che l’adeguamento delle strutture adibite a servizi scolastici alle disposizioni di prevenzione incendi è completato entro sei
mesi dalla data di adozione del decreto ministeriale di
cui al richiamato art. 10-bis del decreto-legge 12 settembre 2013, n. 104, e comunque non oltre il 31 dicembre 2016;
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Visto il decreto del Presidente della Repubblica del 1°
agosto 2011, n. 151 recante “regolamento recante semplificazione della disciplina dei procedimenti relativi alla prevenzione degli incendi, a norma dell’art. 49, comma 4-quater, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78,
convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio
2010, n. 122”;
Visto il decreto del Ministro per i lavori pubblici del 18
dicembre 1975, recante “norme tecniche aggiornate relative all’edilizia scolastica, ivi compresi gli indici di
funzionalità didattica, edilizia ed urbanistica, da osservarsi nella esecuzione di opere di edilizia scolastica”
pubblicato nel supplemento ordinario alla Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana n. 29 del 2 febbraio
1976;
Visto il decreto del Ministro dell’interno del 26 agosto 1992, recante “norme di prevenzione incendi per
l’edilizia scolastica” pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana n. 218 del 16 settembre
1992;
Visto il decreto del Ministro dell’interno del 7 agosto
2012, recante “disposizioni relative alle modalità di presentazione delle istanze concernenti i procedimenti di
prevenzione incendi e alla documentazione da allegare,
ai sensi dell’art. 2, comma 7, del decreto del Presidente
della Repubblica 1° agosto 2011, n. 151” pubblicato
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana n. 201
del 29 agosto 2012;
Ritenuto di dover dare attuazione a quanto previsto dal
richiamato art. 10-bis del decreto-legge 12 settembre
2013, n. 104;
Decreta:
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Legislazione
Art. 1. – Attuazione, con scadenze differenziate, delle
disposizioni di prevenzione incendi di cui al decreto
del Ministro dell’interno del 26 agosto 1992
1. Gli edifici scolastici e i locali adibiti a scuole esistenti
alla data di entrata in vigore del presente decreto sono
adeguati ai requisiti di sicurezza antincendio previsti ai
seguenti punti del decreto del Ministro dell’Interno del
26 agosto 1992, entro i termini temporali di seguito indicati:
a) entro tre mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto tutte le scuole attuano le misure di cui ai
punti: 7.0-8-9.2-10-12;
b) entro sei mesi dall’entrata in vigore del presente decreto:
1) le scuole preesistenti alla data di entrata in vigore
del decreto del Ministro per i lavori pubblici del 18 dicembre 1975, attuano le misure di cui ai punti: 2.4-3.15(5.5 larghezza totale riferita al solo piano di massimo
affollamento)-6.1-6.2-6.3.0-6.4-6.5-6.6-7.1-9.1-9.3;
2) le scuole realizzate successivamente all’entrata in vigore del decreto del Ministro per i lavori pubblici del
18 dicembre 1975 ed entro la data di entrata in vigore
del decreto del Ministro dell’interno del 26 agosto
1992, attuano le misure di cui ai punti: 2.4-3-4-5-6.16.2-6.3-6.4-6.5-6.6-7.1-9.1-9.3;
3) le scuole realizzate successivamente alla data di entrata in vigore del decreto del Ministro dell’interno del
26 agosto 1992 attuano tutte le misure ivi previste;
c) le misure di cui alle lettere a) e b) del presente comma devono comunque essere attuate entro il 31 dicembre 2016.
2. Il progetto di cui all’art. 3 del decreto del Presidente
della Repubblica 1 agosto 2011, n. 151, previsto per le
450
scuole di categoria B e C dell’Allegato I allo stesso decreto, deve indicare le opere di adeguamento ai requisiti
di sicurezza di cui al comma 1, lettere a) e b);
3. Al termine degli adeguamenti previsti al comma 1 e
comunque entro la scadenza del termine del 31 dicembre 2016, deve essere presentata la segnalazione certificata di inizio attività ai sensi dell’art. 4 del decreto del
Presidente della Repubblica 1° agosto 2011, n. 151.
4. Gli edifici scolastici e i locali adibiti a scuole esistenti
alla data di entrata in vigore del presente decreto sono
esentati dall’obbligo di adeguamento qualora siano in
possesso del certificato di prevenzione incendi, in corso
di validità, o sia stata presentata la segnalazione certificata di inizio attività di cui all’art. 4 del decreto del Presidente della Repubblica 1° agosto 2011, n. 151.
5. Per gli edifici scolastici e i locali adibiti a scuole esistenti alla data di entrata in vigore del presente decreto,
per i quali siano in corso lavori di adeguamento al decreto del Ministro dell’interno del 26 agosto 1992 sulla
base di un progetto approvato dal competente Comando provinciale dei vigili del fuoco, deve essere presentata la segnalazione certificata di inizio attività, ai sensi
dell’art. 4 del decreto del Presidente della Repubblica
1° agosto 2011, n. 151, relativa al completo adeguamento antincendio della struttura entro il termine massimo di cui al comma 1, lettera c).
Art. 2. – Entrata in vigore
1. Il presente decreto entra in vigore il giorno successivo alla data di pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale
della Repubblica italiana.
Igiene & Sicurezza del Lavoro 8-9/2016
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Prassi
Prevenzione incendi
Classificazione degli articoli
pirotecnici in “libera vendita”
Con la circolare in oggetto, la Direzione Centrale per la Prevenzione e la Sicurezza Tecnica del
Dipartimento dei Vigili del Fuoco del Ministero dell’Interno ha precisato che la definizione di “articoli pirotecnici declassificati” non è più utilizzabile in quanto tutti i prodotti esplodenti sono ora
classificati nelle tipologie indicate dal D.M. 4 giugno 2014
Ministero dell’Interno – Circolare 18 maggio 2016, n. 6251
D.P.R. 151/11. Allegato I – Att. n. 18: Esercizi di vendita di artifici pirotecnici declassificati in “libera vendila”
con quantitativi complessivi in vendita e/o deposito superiori a 500 kg comprensivi degli imballaggi
MINISTERO DELL’INTERNO
DIPARTIMENTO DEI VIGILI DEL FUOCO, DEL
SOCCORSO PUBBLICO E DELLA DIFESA CIVILE
DIREZIONE CENTRALE PER LA PREVENZIONE E
LA SICUREZZA TECNICA
Giungono a questo Dipartimento richieste di chiarimento in merito agli Esercizi di vendita di artifici pirotecnici declassificati in “libera vendita” con quantitativi
complessivi in vendita e/o deposito superiori a 500 kg
comprensivi degli imballaggi riportati al secondo capoverso dell’attività n. 18 dell’Allegato I al D.P.R.
151/11.
Al riguardo si evidenzia che, a seguito di aggiornamenti
normativi derivanti dal recepimento di direttive comunitarie (cfr. D.Lgs. 58/2010, emanato in attuazione alla
direttiva 2007/23/CE, D.Lgs. 123/15, emanato in attuazione alla direttiva 2013/29/UE) che hanno comportato
modifiche anche al testo unico delle leggi di pubblica
Igiene & Sicurezza del Lavoro 8-9/2016
sicurezza (cfr. D.M. 9 agosto 2011, D.M. 26 novembre
2012 e D.M. 4 giugno 2014), non è più possibile fare riferimento ad artifici pirotecnici declassificati in quanto
tutti i prodotti esplodenti sono ora classificati.
Tutto ciò premesso – nel richiamare anche quanto rappresentalo in merito dall’Ufficio per gli Affari della Polizia Amministrativa c Sociale del Dipartimento della
Pubblica Sicurezza con circolare prot. n. 557/PAS/U/017791/XV.H.8 del 9 dicembre 2015, trasmessa
dalla Direzione Centrale per la Prevenzione e la Sicurezza Tecnica con nota DCPREV prot. n. 15373 del 23
dicembre 2015 – si ritiene, per quanto di competenza,
che gli articoli pirotecnici in “libera vendita”, di cui all’attività specificata al punto 18 cat. B in argomento,
possano attualmente corrispondere alle tipologie indicate dallo stesso D.M. 4 giugno 2014, emanato anche in
considerazione del principio di proporzionalità degli
adempimenti amministrativi.
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Prassi
Prevenzione incendi
Resistenza al fuoco: chiarimenti
sulla predisposizione
del fascicolo tecnico
Con la circolare in oggetto, la Direzione Centrale per la Prevenzione e la Sicurezza Tecnica del
Dipartimento dei Vigili del Fuoco del Ministero dell’Interno fornisce alcuni chiarimenti sulla modalità di predisposizione e redazione del fascicolo tecnico nel settore della resistenza al fuoco
Ministero dell’Interno – Circolare 21 giugno 2016, prot. n. 7765
Chiarimenti sulla modalità di predisposizione del fascicolo tecnico nel settore della resistenza al fuoco
MINISTERO DELL’INTERNO
DIPARTIMENTO DEI VIGILI DEL FUOCO, DEL
SOCCORSO PUBBLICO E DELLA DIFESA CIVILE
DIREZIONE CENTRALE PER LA PREVENZIONE E
LA SICUREZZA TECNICA
Come noto, sia il D.M. 16 febbraio 2007 (allegato B,
punto B.8) che il D.M. 3 agosto 2015 (paragrafo S.2.13)
disciplinano i contenuti del fascicolo tecnico, documento
da predisporre in caso di variazioni di prodotti, elementi
costruttivi o strutturali non rientranti nel campo di applicazione diretta del risultato di prove di resistenza al fuoco.
Premesso quanto sopra, la presente circolare ha il duplice obiettivo di chiarire i casi in cui va previsto il fascicolo tecnico da parte del produttore nonché la modalità
di predisposizione dello stesso.
Quanto al primo aspetto, legato all’obbligo di disposizione, si specifica che le disposizioni citate in premessa
non sono in contrasto con la disciplina più ampia dettata da Regolamento Prodotti da Costruzione (CPR – Regolamento UE n. 305/2011): in caso di prodotti marcati
CE ai sensi del citato CPR, infatti, il fascicolo tecnico
non è necessario.
In tale eventualità, occorre evidentemente osservare integralmente le disposizioni comunitarie vigenti, ivi incluse quelle comprese nella norma INI EN 15725 “Rapporti di applicazione estesa delle prestazioni al fuoco dei
prodotti e degli elementi da costruzione” che, al punto
5.3.1, recita:
“L’applicazione estesa deve essere assicurata dal laboratorio che ha prodotto lo specifico test al fuoco. Se i risultati di prova saranno utilizzati da più di un laboratorio, allora l’applicazione estesa sarà assicurata da uno di questi
laboratori che si consulterà con gli altri laboratori.
Igiene & Sicurezza del Lavoro 8-9/2016
Nota: Quando l’applicazione estesa è intesa per essere
utilizzata ai fini della marcatura, CE, l’intervento di un
Organismo Notificato è obbligatorio.”
Quanto alla modalità di predisposizione, si chiarisce che
il fascicolo può essere fondato su norme EXAP o non.
In caso di ricorso a norme EXAP previste per garantire
la classe di resistenza al fuoco nel campo di applicazione
estesa, il relativo rapporto di classificazione, predisposto
in accordo con la citata norma EN 15725, costituisce
elemento fondamentale del fascicolo tecnico: recando
già gli elaborati grafici del campione ed i criteri di
estensione, il fascicolo sarà quindi completato dal parere tecnico positivo del laboratorio che firma il rapporto
di classificazione estesa.
In caso di ricorso a norme non EXAP, fattispecie possibile solo in assenza delle stesse, vanno applicate le disposizioni ministeriali citate i n premessa. Esse differiscono per le modalità di espressione del parere tecnico
positivo all’estensione che, come appresso specificato, è
formulato:
— da parte del laboratorio di prova che ha prodotto il
rapporto di classificazione su campioni standard in caso
di applicazione del D.M. 16/2/2007;
— da parte di in laboratorio di prova in caso di applicazione del D.M. 3/8/2015. In tale ipotesi, il laboratorio
di prova deve essere autorizzato ad effettuare tutti i test
standard a supporto del parere tecnico.
In ultimo, si chiarisce che la relazione tecnica prevista ai
fini della predisposizione del fascicolo tecnico può essere firmata anche da un professionista abilitato del laboratorio di prova, purché operante nell’ambito delle proprie competenze professionali. In questo caso residuale
non è necessario alcun parere tecnico positivo dell’estensione da parte del laboratorio.
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Prassi
Si allega lo schema che riassume quanto descritto.
454
Igiene & Sicurezza del Lavoro 8-9/2016
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Prassi
Impianti elettrici
Lavori sotto tensione:
chiarimenti sul rinnovo
dell’autorizzazione
Con la circolare 7 luglio 2016, n. 38 il Ministero del Lavoro fornisce chiarimenti operativi sul rinnovo triennale dell’autorizzazione ai lavori sotto tensione, dalle modalità delle istanze alla documentazione a corredo
Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali – Circolare 7 luglio 2016, n. 38
Decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali e del Ministro della salute del 4 febbraio 2011 “Definizione dei criteri per il rilascio delle autorizzazione di cui all’articolo 82, comma 2), lettera c), del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81 e successive modifiche ed integrazioni”. Chiarimenti operativi in materia di rinnovo triennale dell’autorizzazione.
MINISTERO DEL LAVORO
E DELLE POLITICHE SOCIALI
In occasione del rinnovo delle autorizzazioni rilasciate
ai sensi del decreto interministeriale 4 febbraio 2011 e a
seguito delle richieste di chiarimenti pervenute a questa
Amministrazione, acquisito il parere della Commissione
di cui all’Allegato I del citato decreto ministeriale 4
febbraio 2011, si forniscono le indicazioni relative all’“esecuzione di lavori sotto tensione” e alla “formazione
del personale che opera sotto tensione”.
A) Rinnovo dell’autorizzazione all’esecuzione di lavori
sotto tensione alla scadenza del triennio
In attuazione di quanto indicato al punto 1.3.1 dell’Allegato II del decreto 4 febbraio 2011, secondo cui:
“L’autorizzazione ha validità triennale e può essere rinnovata a seguito di apposita istanza da inoltrarsi secondo le modalità di cui al punto 1.1. L’istanza deve contenere esplicita dichiarazione, sottoscritta dal legale rappresentante dell’azienda richiedente secondo la legislazione vigente, relativa alla permanenza di tutte le condizioni che hanno consentito il rilascio dell’autorizzazione”, ai fini del rinnovo dell’autorizzazione all’esecuzione di
lavori sotto tensione alla scadenza del triennio, occorre
presentare istanza al Ministero del lavoro e delle politiche sociali – Direzione Generale della tutela delle condizioni di lavoro e delle relazioni industriali – divisione
III, via Fornovo n. 8, 00192 Roma. L’istanza di rinnovo,
sottoscritta dal legale rappresentante dell’azienda richiedente, dovrà essere prodotta in originale completa della
relativa documentazione (anch’essa datata, timbrata e
firmata dal legale rappresentante), in bollo ai sensi del
d.P.R. n. 642/1972 e successive modificazione, nonché
Igiene & Sicurezza del Lavoro 8-9/2016
riprodotta su supporto informativo (inserita in n. 2 CDRom di uguale contenuto).
Tale istanza dovrà essere inviata anche a mezzo PEC al
seguente indirizzo di posta elettronica certificata: “[email protected]”.
L’istanza dovrà essere corredata dalla seguente documentazione:
a) dichiarazione, ai sensi del d.P.R. n. 44512000, rilasciata dal legale rappresentante dell’azienda richiedente,
da cui risulti che permangono le condizioni che hanno
consentito il rilascio dell’autorizzazione all’esecuzione di
lavori sotto tensione, tra cui il possesso dei requisiti riportati nel decreto 4 febbraio 2011, con particolare riguardo a quelli dell’Allegato II. La dichiarazione deve
essere resa secondo le modalità previste dal d.P.R. n.
44512000, in particolare per quanto riguarda la fotocopia del documento di identità da allegare alla stessa (in
calce alla dichiarazione bisogna indicare il numero del
documento di identità, l’ente che lo ha rilasciato, la data del rilascio e la data di scadenza di validità del documento. Si richiama l’attenzione sulla necessità di allegare una fotocopia del documento di identità pienamente
leggibile);
b) idonea documentazione da cui risulti l’eventuale aggiornamento periodico quinquennale del corso di cui al
punto 2.3 dell’Allegato III del decreto 4 febbraio 2011
rivolto al personale (art. 5 del D.M. 4.2.2011);
c) idonea documentazione da cui risulti la permanenza
delle relative abilitazioni del personale di cui al punto
2.1.3, lettera c), dell’Allegato II del decreto 4 febbraio
2011 (art. 6 del D.M. 4.2.2011);
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Prassi
d) certificazione relativa al sistema di gestione della
qualità (UNI EN ISO 9001:2000) di cui al punto 1.2.1,
lettera c), dell’Allegato II del decreto 4 febbraio 2011
in corso di validità;
e) certificazione relativa al sistema di gestione della salute e sicurezza sul lavoro (BS-OHSAS 18001:2007) di
cui al punto 1.2.1, lettera c), dell’Allegato II del decreto 4 febbraio 2011 in corso di validità;
f) polizza di assicurazione per responsabilità civile di cui
al punto 1.2.1, lettera f), dell’Allegato II del decreto 4
febbraio 2011 in corso di validità.
È opportuno evidenziare che le modifiche delle condizioni e dei requisiti richiesti dal decreto 4 febbraio 2011
devono essere comunicate tempestivamente, a prescindere dal rinnovo triennale, secondo le modalità indicate
al punto 1.3.2 dell’Allegato II dello stesso decreto 4 febbraio 2011, secondo cui: “L’autorizzazione può essere
modificata a seguito di apposita istanza da inoltrarsi secondo le modalità del punto 1.1. L’istanza deve contenere su esplicita dichiarazione, sottoscritta dal legale
rappresentante dell’azienda richiedente secondo la legislazione vigente, l’elenco delle parti modificate e deve
riportare in allegato sii supporto informatico le modifiche apportate. Ai fini della sola archiviazione l’istanza
deve essere accompagnata dalla documentazione di cui
al punto 1.2 aggiornata. La Commissione per i lavori
sotto tensione procede all’istruttoria tecnico amministrativa secondo le modalità previste in fase di autorizzazione.”.
B) Rinnovo dell’autorizzazione alla formazione del
personale che opera sotto tensione alla scadenza del
triennio.
In attuazione di quanto indicato al punto 4.3.1 dell’Allegato III del decreto 4 febbraio 2011, secondo cui:
“L’autorizzazione ha validità triennale e può essere rinnovata a seguito di apposita istanza da inoltrarsi secondo le modalità di cui al punto 4.1. L’istanza deve contenere esplicita dichiarazione, sottoscritta dal legale rappresentante dell’azienda richiedente secondo la legislazione vigente, relativa alla permanenza di tutte le condizioni che hanno consentito il rilascio dell’autorizzazione”, per il rinnovo dell’autorizzazione alla formazione del
personale che opera sotto tensione alla scadenza del triennio, occorre presentare istanza al Ministero del lavoro e
delle politiche sociali – Direzione Generale della tutela
delle condizioni di lavoro e delle relazioni industriali –
divisione III, via Fornovo n. 8, 00192 Roma.
L’istanza di rinnovo, sottoscritta dal legale rappresentante del soggetto formatore richiedente, dovrà essere
prodotta in originale completa della relativa documentazione (anch’essa datata, timbrata e firmata dal legale
rappresentante), in bollo ai sensi del d.P.R. n. 642/1972
456
e successive modificazioni, nonché riprodotta su supporto informatico (inserita in n. 2 CD-Rom di uguale contenuto).
Tale istanza dovrà essere inviata anche a mezzo PEC al
seguente indirizzo di posta elettronica certificata: “[email protected]”.
L’istanza dovrà essere corredata dalla seguente documentazione:
a) dichiarazione, ai sensi del d.P.R. n. 445/2000, rilasciata dal legale rappresentante del soggetto formatore
richiedente, da cui risulti che permangono le condizioni
che hanno consentito il rilascio dell’autorizzazione alla
formazione del personale che opera sotto tensione, tra
cui il possesso dei requisiti riportati nel decreto 4 febbraio 2011, con particolare riguardo a quelli dell’Allegato III. La dichiarazione deve essere resa secondo le modalità previste dal d.P.R. n. 445/2000, in particolare per
quanto riguarda la fotocopia del documento di identità
da allegare alla stessa (in calce alla dichiarazione bisogna indicare il numero del documento di identità, l’ente
che lo ha rilasciato, la data del rilascio e la data di scadenza dì validità del documento. Si richiama l’attenzione sulla necessità di allegare una fotocopia del documento di identità pienamente leggibile);
b) certificazione relativa al sistema di gestione della
qualità (UNI EN ISO 9001:2000) di cui al punto 4.2.1,
lettera c), dell’Allegato III del decreto 4 febbraio 2011
in corso di validità;
c) certificazione relativa al personale docente (da parte
di un organismo di certificazione accreditato ai sensi
della norma UNI CEI EN ISO/IEC 17024) di cui al
punto 4.2.1, lettera d), dell’Allegato III del decreto 4
febbraio 2011 in corso di validità.
Anche in questo caso è opportuno evidenziare che le
modifiche delle condizioni e dei requisiti richiesti dal
decreto 4 febbraio 2011 devono essere comunicate tempestivamente, a prescindere dal rinnovo triennale, secondo le modalità indicate al punto 4.3.2 dell’Allegato
III dello stesso decreto 4 febbraio 2011, secondo cui:
“L’autorizzazione può essere modificata a seguito di apposita istanza da inoltrarsi secondo le modalità del punto 4.1. L’istanza deve contenere su esplicita dichiarazione, sottoscritta dal legale rappresentante del soggetto
formatore richiedente secondo la legislazione vigente,
l’elenco delle parti modificate e deve riportare in allegato su supporto informatico le modifiche apportate. Ai
fini della sola archiviazione l’istanza deve essere accompagnata dalla documentazione di cui al punto 4.2 aggiornata. La Commissione per i lavori sotto tensione
procede all’istruttoria tecnico amministrativa secondo
le modalità previste in fase di autorizzazione.”.
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Giurisprudenza
Rassegna della Cassazione
penale
a cura di Raffaele Guariniello
2 mAGGIO – 28 GIUGNO 2016
INDIVIDUAZIONE DEL DATORE DI LAVORO
A PRESCINDERE DALLO SPECIFICO
ADEMPIMENTO E PERMESSO DI LAVORO
IN APPALTI INTERNI
Cassazione penale sez. IV, 2 maggio 2016 (u.p. 7 gennaio 2016), n. 18200 – Pres. Ciampi – Est. Dovere –
P.M. (Conf.) Delehaye – Ric. G. e altro
Il caso è drammatico: in una raffineria, tre dipendenti di
un’impresa appaltatrice di lavori di bonifica di un impianto
muoiono per asfissia da ridotta concentrazione di ossigeno
in ambiente confinato dopo essere entrati nel serbatoio di
accumulo.
La Sez. IV conferma la condanna del datore di lavoro e del
direttore di stabilimento della s.p.a. committente, imputati
di omicidio colposo al pari del datore di lavoro dell’impresa
appaltatrice.
A) A sua discolpa, il datore di lavoro committente solleva
una prima questione di grande interesse. Sostiene, infatti,
che l’art. 2, comma 1, lettera b), D.Lgs. n. 81/2008 impone
di attribuire la posizione datoriale a colui che esercita i poteri decisionali e di spesa il cui esercizio è necessario ma
anche sufficiente ad evitare il verificarsi dell’evento che si è
realizzato.» E spiega: «l’identificazione della persona fisica
in capo alla quale deve ritenersi costituita la posizione di
garanzia che la legge attribuisce al cd. datore di lavoro si
snoda attraverso i seguenti passaggi cruciali: (i) in primo
luogo, occorre definire quale evento concreto – e quale dinamica – si sia storicamente verificata; (ii) in secondo luogo, bisogna identificare l’esercizio di quale potere avrebbe
effettivamente impedito il verificarsi di quell’evento; (iii) infine, si tratta di individuare la figura aziendale titolare dei poteri che, in tale determinata situazione concreta ed in relazione all’evento occorso nel caso di specie, avrebbe impedito il verificarsi dell’evento stesso, in virtù della titolarità di
poteri decisionali e di spesa idonei a conferirle la responsabilità dell’azienda o di una sua unità produttiva, qualora si
tratti di aziende di grandi dimensioni e con un’articolata
partizione interna di ruoli e funzioni.»
Con lucidità, la Sez. IV ribatte che una simile tesi «è errata,
perché confonde il piano dell’identificazione della posizione
di garanzia (in una dimensione per così dire “statica”) con
quello dell’individuazione della condotta cautelare che si
sarebbe dovuta tenere (dimensione “dinamica” della responsabilità colposa).»
Precisa che, «per quanto le due operazioni possano avere
punti di contatto (come hanno punti di contatto l’obbligo di
diligenza e la diligenza doverosa), si tratta di piani distinti.»
Spiega che «alla ricerca della posizione datoriale va identificato chi sia munito dei poteri qualificanti, ai sensi dell’art.
2, lettera b), D.Lgs. 81/2008, operazione che prescinde to-
Igiene & Sicurezza del Lavoro 8-9/2016
talmente dall’evento concretamente determinatosi, dovendosi guardare alla relazione tra poteri e plesso organizzativo, nel senso che va ricercato chi sia munito dei poteri di
“governo” del plesso in questione, secondo i dettami della
disposizione testé menzionata.»
Osserva che, «allorquando l’evento illecito si verifica concretamente, imposto dalla necessità dell’accertamento penale che ipotizza una responsabilità colposa, inizia a dipanarsi un percorso a ritroso che da quello conduce alla misura cautelare non osservata che, ove adottata, sarebbe
valsa ad evitarlo [es., la fornitura della cintura di sicurezza];
e quindi all’accertamento dell’inerenza di quella regola all’area di rischio governata da questo o da quel garante.»
Ma subito aggiunge che «chi debba essere identificato come datore di lavoro non dipende dal fatto che nella vicenda
concreta a dover essere osservata era la prescrizione, indirizzata al datore di lavoro, di fornire la cintura di sicurezza;
bensì dalla titolarità dei poteri di cui al menzionato art. 2,
lettera b), D.Lgs. 81/2008.»
Con riguardo al caso di specie, pone in risalto «l’omesso
adempimento di un obbligo datoriale, quale quello dell’aggiornamento dei documenti di valutazione del rischio», e,
dunque, «inadempienze che chiamano in causa la figura
datoriale.»
E considera «incongrua l’evocazione del principio di effettività (art. 299 D.Lgs. n. 81/2008)», dal momento che «il potere datoriale era stato concretamente esercitato da parte
dell’imputato (previsione della doppia firma e convenzione
per la nomina di coordinatore per la sicurezza).»
(Circa il datore di lavoro di fatto v. Guariniello, Il T.U. Sicurezza sul Lavoro commentato con la giurisprudenza, VIII edizione, Milano, 2016, 18 ss.; e quanto all’indelegabilità delle
scelte aziendali di fondo ibid., 216 ss.).
B) Una seconda questione sollevata dai due imputati della
s.p.a. riguarda una procedura non di rado utilizzata dai datori di lavoro committenti, il c.d. “permesso di lavoro”,
«quale misura procedurale funzionale a gestire il rischio interferenziale.» A dire degli imputati, una volta adottata una
simile procedura, «sarebbero confinate nell’irrilevanza le altre misure, previste dall’ordinamento prevenzionistico, che
hanno quale scopo quello di eliminare o ridurre rischi sui
quali “impattano” quelle misure procedurali.»
La Sez. IV non è d’accordo.
Nota che «il rischio interferenziale è quello che nasce proprio per il coinvolgimento nelle procedure di lavoro di diversi plessi organizzativi», che «se ne potrebbe parlare come
di una specie del più ampio genus del rischio da organizzazione del lavoro, a sua volta affiancato da altri tipi di rischi,
come quello meccanico (connesso all’uso di macchine),
quello fisico (connesso all’esposizione agli agenti fisici di
cui all’art. 180, comma 1, D.Lgs. n. 81/2008), quello biologico (connesso all’esposizione agli agenti biologici di cui all’art. 267 D.Lgs. n. 81/2008) e così seguitando», e che «la
presenza di un rischio interferenziale, lungi dal negare o inglobare i rischi specifici presenti nell’ambiente di lavoro an-
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Giurisprudenza
che in assenza del concorso di più organizzazioni, impone
di prenderli in considerazione anche nella peculiare prospettiva, come dimostra la previsione dell’art. 26 D.Lgs. n.
81/2008, per la quale il datore di lavoro committente fornisce alle imprese appaltatrici e ai lavoratori autonomi “dettagliate informazioni sui rischi specifici esistenti nell’ambiente in cui sono destinati ad operare e sulle misure di
prevenzione e di emergenza adottate in relazione alle proprie attività”.»
Ne desume che «il rischio interferenziale “convive” con gli
altri rischi lavorativi», e che «le misure che fronteggiano il
primo coesistono con quelle che si indirizzano ai secondi.»
E insegna che, «ai fini della responsabilità in caso di infortunio o malattia, la predisposizione da parte del datore di
lavoro committente di misure atte alla gestione del rischio
interferenziale non esclude la necessità di adottare le misure previste per i diversi rischi specifici, a meno che non si
tratti di provvidenze non compatibili.» Nega, pertanto, che,
«la prevista procedura del permesso di lavoro – la quale mirava ad escludere che dipendenti delle ditte appaltatrici
giungessero a contatto con l’accumulatore prima che la
committenza avesse accertato la sussistenza di condizioni
di lavoro sicure – potesse legittimare l’inosservanza di prescrizioni prevenzionistiche, quali quelle della segnalazione
della presenza di azoto all’interno dell’accumulatore, poste
a governo del rischio specifico connesso al particolare
agente fisico.» E aggiunge che «la segnaletica si imponeva
a garanzia di qualsiasi soggetto, dipendente del committente come di altri, fosse intenzionato ad entrare nell’accumulatore.»
Sotto una diversa prospettiva, «che guarda alla relazione
tra regole cautelari previste dalle fonti primarie e sub-primarie e regole cautelari individuate dallo stesso datore di
lavoro nell’ambito di quell’attività di autonormazione che
trova la sua più evidente espressione del documento di valutazione dei rischi», la Sez. IV precisa che, «nella materia
prevenzionistica (ma non solo), le regole cautelari che devono trovare applicazione sono quelle che valgono a fronteggiare il rischio lavorativo prevedibile ed evitabile», e che
«vale anche in quest’ambito il più generale principio per il
quale la regola cautelare fonda la propria cogenza sulla
propria efficacia.» Ne ricava che «solo la sicura inefficacia
delle regole cautelari previste dalle fonti statuali, primarie o
secondarie, può condurre ad escludere che esse fondino
un giudizio di responsabilità per l’evento realizzatosi (ma
resta ferma la rilevanza della violazione ove dia corpo ad
una contravvenzione o ad un illecito amministrativo) nel caso che non se ne sia fatta applicazione.» E insegna che, «ai
fini della responsabilità penale per l’infortunio sul lavoro o
la malattia professionale, la individuazione di misure di prevenzione operata dal datore di lavoro nell’ambito dell’attività di autonormazione prevista dal D.Lgs. n. 81/2008 – in
particolare di quella cui rimanda l’art. 26, comma 2, D.Lgs.
n. 81/2008 – non esclude la cogenza delle misure previste
dalla normativa statuale, a meno che queste non risultino –
non solo inefficaci ma – dannose ai fini della messa in sicurezza dell’ambiente di lavoro.»
Né, d’altra parte, «la procedura del permesso di lavoro
esautora la misura prevista in materia di segnaletica, perché valendo essa come misura “collettiva” la stessa disposizione di legge (l’art. 163 D.Lgs. n. 81/2008) ne sancisce la
prevalenza.» Invero, osserva la Sez. IV che «l’art. 163 si rivolge a tutti i possibili soggetti esposti al rischio (nella specie da agente fisico) e non solo a quelli delle ditte appaltatrici», e «coloro che non risultavano interessati alla proce-
458
dura del permesso dì lavoro non avrebbero certo potuto
giovarsi di questa ed è rispetto ad essi che si imponeva comunque l’apposizione della segnaletica.»
(Circa gli obblighi di cooperazione e coordinamento nell’art. 26 D.Lgs. n. 81/2008 Guariniello, op. cit., 387 ss.).
C) Un’ulteriore notazione riguarda l’obbligo di aggiornamento dei documenti di valutazione dei rischi (su questo
obbligo v. Guariniello, op. cit., 285 ss. e 520 ss.). Sulla scorta degli artt. 18, comma 1, lettera z) e 29, comma 3, D.Lgs.
n. 81/2008, la Sez IV afferma che «l’aggiornamento dei documenti di valutazione è imposto quando si verificano mutamenti organizzativi o produttivi che hanno ricadute (rilevanza e significatività appaiono qui concetti sovrapponibili)
sulla salute e sulla sicurezza dei lavoratori», e che «la normativa non richiede che si tratti di ricadute di particolare
importanza», ma «è sufficiente che si sia determinato un
aumento del rischio perché si imponga un aggiornamento
dell’analisi del rischio.»
MANCANZA DEL CPI TRA D.LGS. N.
139/2006 E D.P.R. N. 151/2001
Cassazione penale sez. III, 6 giugno 2016 (u.p. 14 luglio
2016), n. 23292 – Pres. Fiale – Est. Grillo – P.M. (Diff.)
Corasaniti – Ric. P.
Condannato per il reato di cui all’art. 20 in relazione all’art.
16, comma 2, del D.Lgs. n. 139/2006 per aver esercitato
l’attività in assenza del prescritto certificato di prevenzione
incendi (CPI), il titolare di un’officina meccanica e di rimessaggio imbarcazioni nega che «la speciale normativa antincendio che imponeva l’ottenimento dell’apposito certificato, fosse applicabile per officine – come la sua – aventi una
superficie coperta inferiore a mq 300», e spiega che «secondo quanto previsto dall’Allegato 1 di cui all’art. 2 del
D.P.R. n. 151 dell’1 agosto 2011, non tutte le officine sono
assoggettate al rilascio del certificato di prevenzione antincendi, ma solo quelle che occupano una superficie superiore a 300 mq.»
La Sez. III annulla con rinvio la condanna.
Premette che «la norma violata, contemplata dal D.Lgs. n.
139/2006 (art. 20, comma 1) recita testualmente: “chiunque, in qualità di titolare di una delle attività soggette al rilascio del certificato di prevenzione incendi, ometta di richiedere il rilascio o il rinnovo del certificato medesimo è
punito con l’arresto sino ad un anno o con l’ammenda da
258 euro a 2.582 euro, quando si tratta di attività che comportano la detenzione e l’impiego di prodotti infiammabili,
incendiabili o esplodenti, da cui derivano in caso di incendio gravi pericoli per l’incolumità della vita e dei beni, da individuare con il decreto del Presidente della Repubblica.
previsto dall’articolo 16, comma 1”», e che, «a sua volta, il
comma 1 del menzionato art. 16 prevede le modalità di rilascio del certificato suddetto a cura del competente Comando Provinciale del Corpo dei Vigili del Fuoco in relazione alla tipologia delle attività esercitate dall’interessato.»
Osserva che, «in effetti, la norma contemplata nell’art. 2
del detto D.P.R. detta le varie regole per l’applicabilità dei
controlli di prevenzione incendi in relazione alla tipologia
delle attività, richiamando l’allegato 1 che suddivide dette
attività industriali in tre categorie con la relativa indicazione
delle caratteristiche che impongono il rilascio del detto certificato», e che, «in particolare, il comma 3 del detto art. 2
prevede che “le attività sottoposte ai controlli di prevenzione incendi si distinguono nelle categorie A, B e C, come in-
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Giurisprudenza
dividuate nell’allegato 1 in relazione alla dimensione dell’impresa, al settore di attività, alla esistenza di specifiche
regole tecniche, alle esigenze di tutela della pubblica incolumità”.»
Sottolinea che «dal testo del menzionato allegato risulta
che al paragrafo 53 sono inserite tra le imprese assoggettate a tale regime di prevenzione, le officine per la riparazione
di veicoli a motore, rimorchi per autoveicoli e carrozzeria di
superficie coperta superiore a 300 mq», e che, quindi, «le
attività industriali sono assoggettate all’applicazione della
speciale disciplina di prevenzione incendi come enunciata
negli artt. 2 e 4 del detto D.P.R. in relazione alla singola categoria di appartenenza, e non ogni attività di riparazione
di veicoli a motore ed assimilati è ricompresa in tale speciale disciplina preventiva, ma solo quella che viene espletata in locali che occupano una superficie coperta superiore a 300 mq.»
E rimprovera al magistrato di merito di non aver accertato
«quale fosse la categoria dell’attività sottoposta ai controlli
di prevenzione incendi e soprattutto se la superficie coperta dell’azienda occupasse o meno una entità superiore a
300 mq.»
(in argomento v. l’analisi sviluppata in Guariniello, Il T.U. Sicurezza sul Lavoro commentato con la giurisprudenza, VIII
edizione, Milano, 2016, 599 ss.).
OBBLIGHI DEL DATORE DI LAVORO
DISTACCANTE TRA CASSAZIONE E
COMMISSIONE INTERPELLI
Cassazione penale sez. IV, 23 giugno 2016 (u.p. 19
maggio 2016), n. 26166 – Pres. Piccialli – Est. Gianniti –
P.M. (Diff.) Galli – Ric. M. e altri
A chi tocca tutelare i lavoratori distaccati? Soltanto all’impresa distaccante o soltanto all’impresa distaccataria o all’una e all’altra?
Si tratta di uno dei problemi di maggiore attualità in materia di sicurezza sul lavoro (in argomento v. Guariniello, Il
T.U. Sicurezza sul Lavoro commentato con la giurisprudenza,
VIII edizione, Milano, 2016, 420 ss.). Se ne occupa con
specifico riguardo all’obbligo di sorveglianza sanitaria sul
personale distaccato dalla società capogruppo a società
controllate, o viceversa, l’Interpello n. 8 del 12 maggio
2016 della Commissione per gli Interpelli istituita presso il
Ministero del Lavoro, e purtroppo fornisce agli organi di vigilanza e alle imprese indicazioni incomplete e fuorvianti.
Infatti, sulla base dell’art. 3, comma 6, D.Lgs. n. 81/2008,
la Commissione Interpelli sostiene che, in caso di distacco
dei lavoratori, gli obblighi in materia di salute e di sicurezza
sul lavoro incombono, in modo differenziato, sia sul datore
di lavoro che ha disposto il distacco, sia sul beneficiario
della prestazione (distaccatario). Nel senso che sul primo
grava l’obbligo di informare e formare il lavoratore sui rischi tipici generalmente connessi allo svolgimento delle
mansioni per le quali egli viene distaccato, mentre al secondo (distaccatario) spetta invece l’onere di ottemperare
a tutti gli altri obblighi in materia di salute e sicurezza sul
lavoro inclusa, quindi, la sorveglianza sanitaria.
Il fatto è che non tutti i distacchi sono riconducibili nell’alveo dell’art. 3, comma 6, D.Lgs. n. 81/2008.
Basti pensare che l’art. 26 D.Lgs. n. 81/2008 contempla l’ipotesi in cui il datore di lavoro affidi lavori, servizi e forniture all’impresa appaltatrice o a lavoratori autonomi all’interno della propria azienda, o di una singola unità produttiva
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della stessa, nonché nell’ambito dell’intero ciclo produttivo
dell’azienda medesima, sempre che abbia la disponibilità
giuridica dei luoghi in cui si svolge l’appalto o la prestazione di lavoro autonomo.
In questa ipotesi, il datore di lavoro committente ha i cinque obblighi previsti nei primi tre commi dell’art. 26:
— verifica dell’idoneità tecnico-professionale dell’impresa
appaltatrice;
— dettagliate informazioni all’impresa appaltatrice sui rischi specifici esistenti nell’ambiente in cui sono destinati
ad operare e sulle misure di prevenzione e di emergenza
adottate in relazione alla propria attività;
— cooperazione;
— coordinamento;
— elaborazione del DUVRI (documento unico di valutazione dei rischi contenente le misure adottate per eliminare o,
ove ciò non è possibile, ridurre al minimo i rischi da interferenze). Ma questi cinque obblighi del datore di lavoro committente si aggiungono, non si sostituiscono, agli obblighi
di sicurezza che – in linea con lo stesso art. 26 D.Lgs. n.
81/2008, e per pacifica giurisprudenza della Corte di Cassazione – permangono integralmente a carico del datore di
lavoro appaltatore (o subappaltatore) che pur distacca i
propri lavoratori presso l’azienda committente (c.d. “distacco improprio”, da non confondere con il distacco proprio
considerato nell’art. 3, comma 6, D.Lgs. n. 81/2008).
Pertanto, un obbligo come la sorveglianza sanitaria sul lavoratore distaccato spetta, sì, al datore di lavoro distaccatario nell’ipotesi in cui il lavoratore distaccato svolga la propria attività «nell’ambito dell’organizzazione» del medesimo
datore di lavoro distaccatario ai sensi e agli effetti dell’art.
2, comma 1, lettera a, D.Lgs. n. 81/2008, ma compete al
datore di lavoro distaccante, qualora il lavoratore distaccato mantenga i propri vincoli gerarchici e funzionali con lo
stesso datore di lavoro distaccante.
Va da sé che, nel caso in cui distacchi un proprio lavoratore presso un cantiere temporaneo o mobile, il datore di lavoro è tenuto ad osservare gli obblighi di prevenzione e
protezione previsti dal D.Lgs. n. 81/2008, compresa la sorveglianza sanitaria tipo quella basilare mirata sui rischi alcool e droga. Salvi restando a carico dei diversi soggetti facenti parte dell’organizzazione committente (committente,
responsabile dei lavori, coordinatori) i rispettivi obblighi
contemplati nel Titolo IV, Capo I, D.Lgs. n. 81/2008: incluso
l’obbligo del coordinatore per l’esecuzione dei lavori di verificare l’applicazione da parte delle imprese esecutrici delle
disposizioni loro pertinenti contenute nel PSC, e, dunque,
anche delle disposizioni volte a prevenire i rischi particolari
relativi ai lavori che comportano un’esigenza legale di sorveglianza sanitaria.
Con la sentenza qui commentata, relativa a un disastro ferroviario e alla morte di un dipendente distaccato da un’impresa appaltatrice, la Sez. IV sviluppa un’analisi illuminante.
Nel caso di specie, il delegato alla sicurezza dell’impresa
distaccante – condannato per omicidio e disastro colposi –
sostiene a sua discolpa che il distacco aveva fatto venire
meno la sua posizione di garanzia.
La Cassazione non è d’accordo.
Certo, l’art. 3, comma 6, TUSL esplicitamente prevede che
rimangono a carico del distaccatario tutti gli obblighi di
prevenzione e protezione, salvo l’obbligo di informare e formare il lavoratore sui rischi tipici generalmente connessi allo svolgimento delle mansioni per le quali questi viene di-
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Giurisprudenza
staccato, l’unico posto in capo al datore di lavoro distaccante.
Ma ciò non vale in caso di distacco fittizio. Nella concreta
realtà, il distacco del lavoratore infortunato era più apparente che reale. Infatti, la società titolare del rapporto di lavoro era quotidianamente presente in forze sul cantiere. Lo
stesso giorno dei fatti, il delegato alla sicurezza dell’impresa distaccante era presente per trattare l’acquisto di una
fresa, unitamente a un capocantiere della stessa impresa.
Erano presenti anche un secondo capo cantiere, ed altro
dipendente, di tale impresa. L’infortunato in cantiere seguiva abitualmente le direttive dei due capocantieri che si alternavano e in genere del datore di lavoro.
Conclusione: alla società datrice di lavoro dell’infortunato
competevano «gli oneri di assicurazione della sicurezza sul
lavoro, di natura pubblicistica e quindi ineludibili, gravanti
sul titolare della posizione di garanzia.»
CONTRASTI INTERPRETATIVI IN TEMA DI
DELEGA DI FUNZIONI
Cassazione penale sez. III, 24 giugno 2016 (u.p. 23 marzo 2016), n. 26434 – Pres. Grillo – Est. Mocci – P.M.
(Diff.) Corasaniti – Ric. F. e altro
Contrariamente a quanto si pensa abitualmente, malgrado
decenni e decenni di elaborazione giurisprudenziale, un
istituto tradizionale come la delega di funzioni è ancora oggi caratterizzato da contrasti interpretativi destinati a pesare negativamente sui comportamenti delle imprese e degli
operatori.
Tra le criticità, fanno spicco le divergenze originate dalla
presenza nel settore della sicurezza sul lavoro e dall’assenza in altri settori di una norma: quell’art. 16 D.Lgs. n.
81/2008 che per la prima volta disciplina esplicitamente i
requisiti di ammissibilità della delega (e della subdelega) di
funzioni antinfortunistiche.
Il risultato è che, in materie come quella ambientale o alimentare, la Cassazione applica condizioni e limiti non del
tutto collimanti con quelli previsti in tema di sicurezza del
lavoro.
Un esempio. L’art. 16 D.Lgs. n. 81/2008 prescrive che la
delega risulti da atto scritto. Ma in più sentenze attinenti ai
reati ambientali o alimentari la Cassazione insegna che la
delega di funzioni è valida, pur se rilasciata oralmente.
Altro esempio di segno diametralmente opposto. L’art. 16
stabilisce che la delega di funzioni da parte del datore di lavoro, ove non espressamente esclusa, è ammessa con i limiti e le condizioni tassativamente indicati nei primi tre
commi. Tra questi limiti e condizioni non contempla le
grandi dimensioni dell’impresa. Per contro, in materia ambientale o alimentare, la Cassazione più volte ha sostenuto
l’inammissibilità della delega al di fuori dell’imprese di
grandi dimensioni.
In una sentenza dell’anno scorso, la Cassazione osserva
che, «a seguito della normativizzazione dell’istituto della
delega nel D.Lgs. n. 81/2008, l’attuale art. 16 del citato
TUSL non contempla più tra i requisiti richiesti per attribuire efficacia all’atto di delega proprio quello della sua “necessità”, essendo oggi pacificamente ammissibile in campo prevenzionistico l’attribuzione delle funzioni delegate
anche in realtà di modesta entità organizzativa.» Ne desume che «il c.d. “requisito dimensionale”, per espressa volontà legislativa (ove il legislatore avesse voluto, infatti,
avrebbe espressamente incluso il requisito dimensionale
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tra quelli necessari, come ha fatto cristallizzando in previsioni di diritto positivo i principi giurisprudenziali elaborati
in materia, pressoché integralmente recepiti nell’art. 16 citato), non costituisce più condizione o requisito di efficacia
di una delega di funzioni nella materia della prevenzione infortuni sul lavoro.»
Ritiene che «la presenza di una volontà legislativa ben determinata (escludere il requisito della necessità della delega) nell’affine materia prevenzionistica, esplichi i suoi effetti
anche nella materia ambientale, considerando, del resto,
gli inevitabili e naturali punti di contatto tra l’esercizio delle
funzioni e gli adempimenti delegati nei due settori», e che
«il mantenimento del requisito dimensionale quale condicio
sine qua non dell’efficacia della delega di funzioni in materia ambientale determinerebbe un’illogica ed ingiustificabile disparità di trattamento (per di più fondata su una contraria esegesi giurisprudenziale, valevole solo per il settore
ambientale e non più per quello prevenzionistico) tra chi è
delegato agli adempimenti ambientali e chi è delegato agli
adempimenti in materia antinfortunistica, con la paradossale conseguenza, ove le deleghe confluiscano nel medesimo soggetto, che l’osservanza della legge consentirebbe di
ritenere efficace l’atto di delega in materia prevenzionistica,
ma non quello conferito in materia ambientale.»
Insegna che «il necessario rispetto del principio di non contraddizione (in quanto sarebbe logicamente inconcepibile
che l’ordinamento prima conceda un potere di agire e poi
ne sanzioni penalmente l’esercizio), impone di rivisitare l’orientamento giurisprudenziale di legittimità formatosi con
riferimento alla materia ambientale e ritenere, pertanto,
non necessario anche in tale settore – per la necessaria influenza operata dall’art. 16 D.Lgs. n. 81/2008 – il requisito
della necessità della delega.»
Aggiunge che «per il principio di non contraddizione, uno
stesso ordinamento non può, nella sua unitarietà, imporre
o consentire (in materia prevenzionistica), ad un tempo,
vietare (in materia ambientale) il medesimo fatto (ossia il
conferimento di una delega di funzioni nelle modeste realtà
organizzative) senza rinnegare se stesso della sua politica
di attuazione.» (Così Cass. 2 luglio 2015, n. 27862).
Parole preziose. Ma non sono valse a fugare le contraddizioni dalla giurisprudenza della Corte Suprema (per un quadro della giurisprudenza in tema di requisiti di ammissibilità
della delega delle funzioni antinfortunistiche v. Guariniello,
Il T.U. Sicurezza sul Lavoro commentato con la giurisprudenza, VIII edizione, Milano, 2016, 222 ss.; quanto alla delega
nel settore degli alimenti Guariniello, Codice della Sicurezza
degli Alimenti commentato con la giurisprudenza, 2015, Milano, 2015, 359 ss.).
La strada maestra è quella di un chiarimento normativo.
Non per nulla, in uno schema di disegno di legge elaborato
su mandato del Ministro della Giustizia per la riforma dei
reati agroalimentari, è stata inserita un’apposita disposizione – ricalcata sull’art. 16 TUSL – che disciplina la delega
da parte del titolare dell’impresa alimentare o comunque
da parte del soggetto che ne eserciti i poteri gestionali, decisionali e di spesa.
Per ora, il disorientamento è tale che finiscono per prodursi
effetti paradossali. Sulla base dell’art. 16, comma 1, lettera
a), D.Lgs. n. 81/2008, la Cassazione usa correttamente affermare che la delega di funzioni antinfortunistiche deve
essere necessariamente scritta. Ma non manca qualche
decisione pur minoritaria che a sorpresa apre la strada alla
delega orale (v. i precedenti richiamati in Guariniello, op.
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cit., 232). Dove il principio di non contraddizione gioca a
spese della lettera della legge.
La sentenza qui presentata appare quanto mai significativa. Considera, infatti, «non così pacifico che la delega debba risultare necessariamente per iscritto, una volta che sia
stato nominato il direttore tecnico, destinato a gestire l’attività materiale della società.» E in particolare sostiene che.
«in tema di individuazione delle responsabilità penali nelle
strutture complesse, la necessità che la delega di funzioni
da parte dei vertici aziendali ai soggetti preposti debba avere forma espressa e contenuto chiaro non comporta l’obbligo della forma scritta, richiesta nel solo settore pubblico,
atteso che soltanto in campo amministrativo sussiste l’esigenza di una formalizzazione dei rapporti organizzativi all’interno della struttura», e che «il concetto è stato poi ribadito con particolareriguardo al settore alimentare ed al settore degli infortuni sul lavoro.»
MALTRATTAMENTI SUL LUOGO DI LAVORO
ALLA PROVA DELLA C.D.
“PARA-FAMILIARITÀ”
Cassazione penale sez. V, 28 giugno 2016 (u.p. 1° giugno 2016), n. 26766 – Pres. Paoloni – Est. Calvanese –
P.M. (Parz.conf.) Della Cardia – Ric. P. e altra
La Corte di Cassazione torna ad occuparsi di atti vessatori
sul luogo di lavoro, e segnatamente di mobbing.
Fu proprio la Cassazione ad indicare ai magistrati di merito
la strada nel lontano 2001. Insegnò, infatti, che, «anche se
l’ipotesi di reato di più frequente verificazione è quella che
dà il nome alla rubrica dell’art. 572 cod. pen. (“maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli’), la norma incriminatrice
prevede altresì le ipotesi di chi commette maltrattamenti in
danno di ‘persona sottoposta alla sua autorità’, o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o
custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte”.»
E concluse che «il rapporto intersoggettivo che si instaura
tra datore di lavoro e lavoratore subordinato, essendo caratterizzato dal potere direttivo e disciplinare che la legge
attribuisce al datore nei confronti del lavoratore dipendente, pone quest’ultimo nella condizione di “persona sottoposta alla sua autorità”, il che, sussistendo gli altri elementi
previsti dalla legge, permette di configurare a carico del
datore di lavoro il reato di maltrattamenti in danno del lavoratore dipendente.»
All’improvviso, però, a far tempo dal 2009 la Sez. V cominciò a nutrire dei dubbi, e si orientò verso la tesi per cui «le
pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente possono integrare il delitto di maltrattamenti in
famiglia esclusivamente qualora il rapporto tra il datore di
lavoro e il dipendente assuma natura para-familiare, ovvero
sia caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto
più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di
supremazia»
Una tesi, questa, che trae spunto dalla rubrica dell’art. 572
cod. pen. (nella versione attuale, «Maltrattamenti contro familiari e conviventi»), ma che ha palesi difficoltà di raccordo con il suo testo, chiaro nell’evocare in alternativa al familiare la persona sottoposta all’autorità.
Una tesi, peraltro, sostenuta dalla Sez. V:
— non senza inaspettati ripensamenti, come quando fu
confermata la condanna del preside di un liceo per atti ves-
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satori in danno di una professoressa o del datore di lavoro
in danno di dipendenti rumeni in condizioni di estremo degrado materiale;
— non senza applicazioni sorprendenti, come quando fu
confermata la condanna per maltrattamenti in danno di un
detenuto in un ambiente carcerario a sorpresa considerato
di natura para-familiare;
— non senza larvate inquietudini, come quando con riguardo ad atti vessatori del direttore dell’unità operativa di cardiochirurgia di un ospedale in danno di un dirigente medico specializzato in cardiochirurgia si sottolineò che l’insussistenza di un rapporto para-familiare non può essere desunta dal dato meramente quantitativo costituito dal numero dei soggetti operanti.
(Per questa e ulteriore casistica giurisprudenziale v. Guariniello, Il T.U. Sicurezza sul Lavoro commentato con la giurisprudenza, VIII edizione, Milano, 2016, 488 ss.).
Con la sentenza qui segnalata, la Sez. V si occupa del caso
in cui i titolari di una tabaccheria erano stati condannati
per maltrattamenti in danno di una dipendente (abituali atti
di scherno, disprezzo e vilipendio, riguardanti il suo aspetto
fisico e le sue competenze professionali, anche al cospetto
dei clienti, così da determinare l’insorgere nella stessa di
una patologia psichica).
Afferma che, «con particolare riferimento ai rapporti di lavoro, occorre che il soggetto agente versi in una posizione
di supremazia, che si traduca nell’esercizio di un potere direttivo o disciplinare, tale da rendere specularmente ipotizzabile una soggezione, anche di natura meramente psicologica, del soggetto passivo, riconducibile ad un rapporto
di natura para-familiare, che, ad esempio, può ravvisarsi
nei rapporti tra il collaboratore domestico e le persone della
famiglia presso la quale il primo presta attività lavorativa o
in quelli intercorrenti tra il maestro d’arte e l’apprendista.»
E annulla senza rinvio per insussistenza del fatto la condanna, sull’asserito presupposto che «nella situazione oggetto
del presente procedimento, relativa ai rapporti tra i gestori
di una ricevitoria e una loro dipendente, qualificabili in termini di lavoro subordinato, non ricorreva quel nesso di supremazia-soggezione che ha esposto la parte offesa a situazioni assimilabili a quelle familiari.»
Aggiunge che, «in assenza dei presupposti necessari per la
configurabilità dello specifico delitto oggetto di contestazione, potrebbe essere riconosciuta (ai soli effetti penali, in
assenza di statuizioni civili) la sussistenza di altri reati, configurabili a carico degli imputati sulla base degli addebiti in
fatto, quali quelli di lesioni personali, di minaccia, di ingiuria e di violenza privata, eventualmente aggravati dall’abuso di relazioni d’ufficio o di prestazione di opera», ma che
«si tratta di illeciti per i quali o difetta la condizione di procedibilità o per i quali è comunque maturata la prescrizione.»
È da notare che in ogni caso la tesi della para-familiarità introduce una discriminazione tra lavoratori a seconda del tipo non sempre agevolmente individuabile di rapporto con
il datore di lavoro, e, in particolare, sbarra la strada alla repressione degli atti vessatori proprio nelle imprese in cui
per le dimensioni o per la complessità del contesto aziendale gli atti vessatori possono assumere un’incidenza ancor più estesa e penetrante.
Che sia la volta buona per l’emanazione di un’apposita disciplina penale del mobbing sul tipo di quella che in Francia
ha introdotto il reato di harcélement moral?
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Interpelli
Rassegna interpelli
a cura di Pierluigi Rausei (*) – ADAPT professional fellow
MAGGIO 2016
DISTACCO E SORVEGLIANZA SANITARIA
Ministero del lavoro, 12 maggio 2016, n. 8
Oggetto: Art. 12, D.Lgs. n. 81/2008 e successive modifiche ed integrazioni – Risposta al quesito relativo alla
corretta interpretazione all’obbligo della sorveglianza
sanitaria di cui all’art. 41 del D.Lgs. n. 81/2008.
► In caso di distacco spetta al distaccante o al distaccatario assolvere l’obbligo della sorveglianza sanitaria di
cui all’art. 41 D.Lgs. n. 81/2008 e adempiere ai relativi
procedimenti?
Nota
La risposta ad Interpello n. 8/2016 si preoccupa di fornire
un chiarimento in merito agli obblighi di tutela della salute
e della sicurezza sul lavoro in caso di distacco di personale
attuato ai sensi dell’art. 30 del D.Lgs. n. 276/2003, che come noto si realizza «quando un datore di lavoro, per soddisfare un proprio interesse, pone temporaneamente uno o
più lavoratori a disposizione di altro soggetto per l’esecuzione di una determinata attività lavorativa.»
In particolare si occupa di offrire la corretta interpretazione
circa l’attuazione dell’obbligo di sorveglianza sanitaria sancito dall’art. 41 del D.Lgs. n. 81/2008 (c.d. “Testo unico della
sicurezza del lavoro” o, più brevemente, TUSL), per chiarire
se nelle ipotesi di distacco del personale dalla società capogruppo a società controllate ovvero da una controllata alla
società capogruppo, spetta alla società distaccante o alla distaccataria adempiere all’obbligo della sorveglianza sanitaria
e provvedere alla generalità dei procedimenti previsti, risolvendo il quesito ponendo a carico del distaccatario l’obbligo
specifico della sorveglianza sanitaria.
I tecnici della Commissione Interpelli muovono dalle previsioni contenute nell’art. 3, comma 6, del TUSL a norma del quale, specificamente, «nell’ipotesi di distacco del lavoratore di
cui all’articolo 30 del decreto legislativo 10 settembre 2003,
n. 276, e successive modificazioni, tutti gli obblighi di prevenzione e protezione sono a carico del distaccatario, fatto salvo
l’obbligo a carico del distaccante di informare e formare il lavoratore sui rischi tipici generalmente connessi allo svolgimento delle mansioni per le quali egli viene distaccato.»
Nella risposta ad Interpello n. 8/2016, quindi, si conferma il
dato normativo – e non poteva essere altrimenti – in ragione del quale a fronte di un legittimo e valido distacco di lavoratori gli obblighi in materia di salute e di sicurezza si differenziano fra distaccante e distaccatario, in funzione dell’effettivo impiego del lavoratore e del contesto lavorativo
nel quale lo stesso è chiamato a spendere le proprie energie psichiche e fisiche.
Il datore di lavoro che decide e dispone il distacco mantiene
su di sé l’obbligo di «informare e formare il lavoratore sui ri-
schi tipici generalmente connessi allo svolgimento delle
mansioni per le quali egli viene distaccato», mentre il distaccatario, che beneficia in concreto della prestazione lavorativa
deve adempiere alla generalità dei restanti obblighi in materia di salute e sicurezza sul lavoro, fra i quali rileva senza
dubbio la sorveglianza sanitaria, che trova presupposto anche su una valutazione dei rischi che inevitabilmente consideri il ruolo e la presenza del lavoratore distaccato negli ambienti di lavoro e il coinvolgimento nei processi di lavoro.
VALUTAZIONE DEI RISCHI
Ministero del lavoro, 12 maggio 2016, n. 9
Oggetto: Art. 12, D.Lgs. n. 81/2008 e successive modifiche ed integrazioni – Risposta al quesito relativo alla
valutazione dei rischi da agenti chimici presenti sul luogo di lavoro.
► Può ritenersi legittimo l’impiego del metodo indicato
nel Manuale operativo dell’INAIL per la valutazione dei
rischi da agenti chimici pericolosi per i lavoratori che
operano nei siti contaminati e non sono impiegati in attività di bonifica?
Nota
Nella risposta ad Interpello n. 9/2016 i tecnici ministeriali
sono chiamati a fornire chiarimenti in merito alla effettuazione della valutazione dei rischi incombenti per la presenza di agenti chimici pericolosi sul luogo di lavoro.
Più specificamente la Commissione interpelli viene chiamata
a risolvere il quesito in merito alle modalità per la corretta effettuazione della valutazione dei rischi per la salute e sicurezza dei lavoratori, nonché per la puntuale identificazione e individuazione dei pericoli, negli ambienti di lavoro situati all’interno di siti contaminati, con particolare riferimento ai lavoratori comunque presenti nei siti contaminati, seppure
non impiegati direttamente nelle attività di bonifica.
L’interpellante chiede se per una valutazione dei rischi che
include anche quelli derivanti dalla contaminazione del sito,
il datore di lavoro possa fare ricorso a quanto previsto e suggerito nel Manuale operativo intitolato «Il rischio chimico per
i lavoratori nei siti contaminati» redatto dal Dipartimento innovazioni tecnologiche e sicurezza degli impianti, prodotti e
insediamenti antropici (DIT) dell’INAIL nel 2014 e reso disponibile dall’Istituto sul portale www.inail.it nel febbraio 2015.
La risposta ad Interpello n. 9/2016 fonda la propria decisione affermativa e valorizzante sull’art. 2, comma 1, lett. q), e
sull’art. 28 del TUSL.
La prima delle due disposizioni, in effetti, enuclea il concetto di valutazione dei rischi che viene intesa puntualmente
dal Legislatore alla stregua di una «valutazione globale e
documentata di tutti i rischi per la salute e sicurezza dei lavoratori presenti nell’ambito dell’organizzazione in cui essi
prestano la propria attività, finalizzata ad individuare le adeguate misure di prevenzione e di protesone e ad elaborare
(*) Il testo è frutto esclusivo del pensiero dell’Autore e non
impegna l’Amministrazione cui appartiene.
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Igiene & Sicurezza del Lavoro 8-9/2016
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Interpelli
il programma delle misure atte a garantire il miglioramento
nel tempo dei livelli di salute e sicurezza.»
A sua volta l’art. 28 del TUSL specifica che la valutazione
dei rischi deve necessariamente interessare «tutti i rischi
per la sicurezza e la salute dei lavoratori» (comma 1), e impone di inserire nel documento redatto a seguito della valutazione dei rischi (DVR) anche le misure di prevenzione e di
protezione attuate e i dispositivi di protezione individuali
adottati (comma 2).
Su tale scenario normativo la Commissione interpelli riconosce che il manuale operativo «Il rischio chimico per i lavoratori nei siti contaminati» dell’INAIL enuclea una procedura che può considerarsi «utile per la valutazione e gestione del rischio chimico», seppure pone l’attenzione sugli
aspetti legati alla salute, «fermo restando l’obbligo di valutazione del rischio per la sicurezza.»
D’altra parte, proprio per tale valutazione, la risposta ad interpello annotata sottolinea con rigore che della scelta dei
criteri da utilizzare per redigere il DVR è esclusivo titolare il
datore di lavoro.
La Commissione ritiene comunque – e lo afferma espressamente – che l’utilizzo del manuale operativo dell’INAIL costituisce un «valido riferimento per la relativa valutazione
dei rischi in tale tipologia di siti» ed è in grado di soddisfare
le previsioni normative e, quindi, consente di assolvere
adeguatamente ai relativi obblighi.
La rilevanza della corretta e completa valutazione di tutti i
rischi, peraltro, oltre alle sanzioni penali specifiche che governano le condotte omissive del datore di lavoro obbligato, viene confermata – fra l’altro – dalla circostanza che (in
base all’art. 300 del TUSL e all’art. 25-septies del D.Lgs. n.
231/2001) una delle ipotesi di responsabilità diretta da reato della società datrice di lavoro riguarda specificamente le
ipotesi di omicidio colposo a danno di uno o più lavoratori,
che conseguono alla omessa valutazione dei rischi, ovvero
alla mancata adozione del documento di valutazione dei rischi o ancora alla adozione del documento di valutazione
dei rischi in assenza di alcuni elementi.
IMPIANTI TECNICI E AMIANTO
Ministero del lavoro12 maggio 2016, n. 10
Oggetto: Art. 12, D.Lgs. n. 81/2008 e successive modifiche ed integrazioni – Risposta al quesito relativo all’ambito di applicazione della normativa in tema di gestione dell’amianto negli edifici, con riferimento alla
Legge 27 marzo 1992 n. 257 ed al D.M. 6 settembre
1994.
Gli impianti tecnici produttivi funzionali al ciclo di
produzione devono essere considerati «impianti tecnici
in opera all’interno ed all’esterno degli edifici» ai sensi
del D.M. 6 settembre 1994?
►
Nota
Con la risposta ad Interpello n. 10/2016 si forniscono chiarimenti in merito agli impianti tecnici produttivi ai fini dell’applicazione della Legge n. 257/1992 e del D.M. 6 settembre 1994 ovvero del TUSL.
In particolare i tecnici ministeriali si soffermano sulla distinzione funzionale degli impianti, per differenziare, ai fini degli obblighi datoriali in materia di tutela della salute e della
sicurezza sul lavoro, quelli funzionali all’immobile e quelli
produttivi strettamente correlati all’attività dell’impresa non
funzionali all’immobile.
Igiene & Sicurezza del Lavoro 8-9/2016
La questione si pone per valutare se rientrano negli impianti tecnici in opera all’interno ed all’esterno degli edifici anche quelli strettamente correlati all’attività imprenditoriale
e funzionali al ciclo di produzione delle attività aziendali.
Sul punto la Circolare n. 7 del 12 aprile 1995 del Ministero
del lavoro afferma che il «D.M. 6 settembre 1994, oltre che
alle strutture edilizie con tipologia definita nella premessa
del decreto medesimo, si applica anche agli impianti tecnici sia in opera all’interno di edifici che all’esterno, nei quali
l’amianto utilizzato per la coibentazione di componenti dell’impianto stesso o nei quali comunque sono presenti componenti contenenti amianto.»
Nell’affrontare il quesito proposto dall’interpellante, peraltro, la Commissione sottolinea che la Legge n. 257/1992
dispone la cessazione dell’impiego dell’amianto e disciplina
– sia direttamente sia attraverso il D.M. 6 settembre 1994
attuativo – gli interventi necessari per mettere in sicurezza
gli edifici in cui sono presenti materiali o prodotti che contengono amianto libero o in matrice friabile.
Il D.M. 6 settembre 1994 regolamenta gli strumenti che occorrono per effettuare i rilevamenti e le analisi del rivestimento degli edifici, nonché per pianificare e programmare
le attività per rimuovere i materiali, per il fissaggio e per gestire le procedure nei processi lavorativi di rimozione.
Il decreto ministeriale attuativo, d’altra parte, individua
l’ambito di applicazione delle discipline in esso contenuto
con riferimento alle «strutture edilizie ad uso civile, commerciale o industriale aperte al pubblico o comunque di
utilizzazione collettiva in cui sono in opera manufatti e/o
materiali contenenti amianto dai quali può derivare una
esposizione a fibre aerodisperse.»
Lo stesso D.M. 6 settembre 1994 chiarisce, comunque,
che rimangono esclusi dall’ambito applicativo del decreto
ministeriale «gli edifici industriali in cui la contaminazione
proviene dalla lavorazione dell’amianto o di prodotti che lo
contengono (quindi siti industriali dismessi o quelli nei quali è stata effettuata riconversione produttiva) e le altre situazioni in cui l’eventuale inquinamento da amianto e determinato dalla presenza di locali adibiti a stoccaggio di materie
prime o manufatti o dalla presenza di depositi di rifiuti.»
Successivamente la Circolare n. 7/1995 ha ribadito che il
D.M. 6 settembre 1994 si applica «anche agli impianti tecnici sia in opera all’interno di edifici che all’esterno, nei
quali l’amianto utilizzato per la coibentazione di componenti dell’impianto stesso o nei quali comunque sono presenti
componenti contenenti amianto.»
La risposta ad Interpello n. 10/2016, dunque, afferma che la
Legge n. 257/1992, il decreto ministeriale attuativo e i chiarimenti della prassi amministrativa, si rivolge alla tutela riguardante soltanto gli edifici, quindi esclusivamente gli impianti
a servizio dell’edificio, come quelli termici, idrici o elettrici.
Allo scopo di assicurare la salubrità dell’ambiente e la salute dei lavoratori, la Commissione interpelli sancisce la gestione differenziata degli impianti in opera all’interno o all’esterno degli edifici che presentano materiali contenenti
amianto.
Per gli impianti tecnici funzionali all’immobile in caso di
materiali contenenti amianto devono applicarsi, rispettivamente, il D.M. 6 settembre 1994 a cura del proprietario/conduttore e il TUSL a cura del datore di lavoro che svolge
la propria attività lavorativa nell’immobile interessato.
Mentre per gli impianti tecnici produttivi strettamente correlati all’attività imprenditoriale, che non sono funzionali all’esercizio dell’immobile, deve trovare applicazione il TUSL
a cura del datore di lavoro.
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Casi e Questioni
ISL risponde
LAVORATORI BARBUTI E OBBLIGO DI DPI: QUALE
TIPOLOGIA DI MASCHERINA INDOSSARE
È noto che i facciali filtranti non possono essere utilizzati se il lavoratore ha la barba o le basette. Nel caso
specifico di inquinante dato da polvere metallica che
viene sollevata durante un processo di pulizia di un’aspirapolvere (il costruttore suggerisce delle FFP3) e di
uso molto saltuario e per brevi esposizioni, senza avere
rilievi ambientali con misura della concentrazione di
polvere durante questa attività, come si deve regolare
un RSPP in merito e quale tipologia di mascherine si
può suggerire per i lavoratori barbuti?
In premessa va specificato che quanto indicato dal costruttore di un macchinario per quanto concerne la scelta di un
DPI costituisce un necessario riferimento per l’utilizzatore
finale, ma deve essere successivamente (e obbligatoriamente) verificato dal datore di lavoro, nell’ambito della propria valutazione dei rischi, con riguardo alle specificità della
propria lavorazione.
A tal fine, dunque, è sempre necessario che venga accertata l’idoneità del DPI in rapporto alla lavorazione che deve
essere eseguita, facendo, nel particolare, riferimento ai criteri di scelta indicati all’interno della norma UNI EN
529:2006, prendendo in considerazione i Fattori di Protezione Assegnati (FPA) riportati nella norma.
Ciò detto, sempre con riferimento alla suddetta norma, il
punto 9.3.4 richiede che la selezione del DPI per le vie respiratorie tenga anche conto delle «caratteristiche del viso
del portatore, inclusi i peli facciali».
A ciò si aggiunga che tra le raccomandazioni indicate nelle
informazioni che ogni produttore di DPI ha l’obbligo di allegare all’atto della vendita del dispositivo, nel caso dei presidi
per la protezione delle vie respiratorie, compare sempre l’indicazione «non usare con barba, basette o baffi che potrebbero impedire una buona tenuta del respiratore sul volto».
In tutti i casi, ciò che a tutti gli effetti permetterà di verificare l’idoneità della scelta del DPI in rapporto alle caratteristiche del portatore, sarà l’esecuzione della prova di tenuta
che dovrà essere efficacemente superata.
Nel caso in cui la presenza di barba non consentisse il superamento della prova di tenuta, si potrà ricorrere a tipologie di facciali non ermetici come cappucci, caschi, giubbotti, tute che, tuttavia, sono molto più ingombranti e richiedono assistenza con gruppi ventilatori per la fornitura dell’aria necessaria alla respirazione del lavoratore.
Andrea Rotella – Ingegnere
DIFFERENTE RISCHIOSITÀ ANTINCENDIO DEI REPARTI:
QUALE CLASSIFICAZIONE ADOTTARE
La nostra azienda ha un reparto distaccato fisicamente
dagli altri dove si svolgono lavorazioni ad alto rischio e
carico di incendio. Negli altri reparti e stabilimenti, inve-
Igiene & Sicurezza del Lavoro 8-9/2016
ce, le lavorazioni possono definirsi a basso rischio di incendio. Come deve definirsi quindi l’azienda: ad alto rischio o basso? Può il personale degli altri reparti essere
formato per rischio di incendio basso o tutto il personale, stante la presenza di questo reparto con lavorazioni
ad alto rischio di incendio, dovrà essere formato per rischio di incendio elevato?
La valutazione del rischio di incendio è parte del più generale processo di valutazione di tutti i rischi, così come richiesto dal D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81 (c.d. “Testo Unico
della Sicurezza del Lavoro”, brevemente TUSL).
Attualmente è possibile eseguire la valutazione del rischio
di incendio attraverso:
— l’applicazione di una norma verticale, se esistente (alberghi, ospedali, scuole ecc.) e applicabile;
— l’applicazione di una norma orizzontale, se applicabile.
Ad oggi siamo in possesso del D.M. 3 agosto 2015, meglio
noto come “Codice di Prevenzione Incendi”, che è applicabile a numerose attività non dotate di regola verticale, oppure del D.M. 10 marzo 1998 che è applicabile indistintamente a tutte le attività.
Con riferimento a quest’ultimo, il comma 4 dell’art. 2 dispone che nel documento di valutazione dei rischi (VDR) il
datore di lavoro valuta il livello di rischio di incendio del
luogo di lavoro e, se del caso, di singole parti del luogo
medesimo, classificando tale livello in una delle seguenti
categorie, in conformità ai criteri di cui all’allegato 1:
a) livello di rischio elevato;
b) livello di rischio medio;
c) livello di rischio basso.
È quindi perfettamente possibile avere una classificazione globale del sito, e una distinta e diversa classificazione di compartimenti e/o edifici singoli facenti parti del sito produttivo.
A favore di sicurezza si valuterà l’intero sito come ad alto
rischio, ma onestamente questo sarà un passaggio di pura
forma. Infatti procederemo poi a valutare il reparto distaccato ad alto rischio di incendio, applicando contro misure
(di ogni tipo: via di fuga, compartimentazione ecc.) proporzionali al rischio. Quindi contro misure per rischio basso
per reparti a rischio basso, ed alto per reparti a rischio alto.
Materialmente pare quindi poco importante aver definito
“rischio alto” per tutto il sito.
Ne deriva anche che il personale addetto all’antincendio e
alla gestione delle emergenze sarà formato e addestrato
per rischio alto nel reparto a rischio alto, mentre si potrà
decidere per formazione e addestramento da basso ad alto
per gli altri reparti. Se il personale di questi altri reparti però
non sarà addestrato per rischio alto, non potrà intervenire
sulla emergenza alta se non con azioni collaterali (chiamata
soccorsi, apertura cancelli, sganci tecnologici in aree protette, interruzione del traffico ecc.).
Antonio Cappa – Tecnico specialista in prevenzione incendi
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Finanziamenti – 16-30 settembre 2016
Finanziamenti per la sicurezza
a cura di Bruno Pagamici – Studio Pagamici, Macerata (*)
Dalle Regioni
Deliberazione della Giunta Regionale 23 maggio 2016 n. 741: approvazione bando unico regionale anno 2016
del “Pacchetto giovani” del Programma di Sviluppo Rurale 2014-2020 (BUR 31 maggio 2016 n. 161)
Contributi ai giovani agricoltori che investono in sicurezza
EMILIA-ROMAGNA – Scadenza: 16 settembre 2016
Dalla Regione Emilia Romagna incentivi ai giovani agricoltori per la sicurezza nei luoghi di lavoro.
Potranno accedere ai contributi le persone fisiche che si insediano in agricoltura assumendo la responsabilità civile e fiscale di un’azienda agricola per la prima volta.
Ai fini dell’ammissibilità, i soggetti richiedenti dovranno possedere i seguenti requisiti ed assumere i seguenti impegni:
— essere maggiorenni, ma non avere ancora compiuto 40 anni;
— possedere (o impegnarsi ad acquisire entro il termine massimo di 36 mesi dalla data di concessione del premio di insediamento) adeguate qualifiche e competenze professionali;
— essere impiegato nell'azienda agricola in misura prevalente: detto impegno si considera rispettato qualora il
beneficiario non ricavi da eventuali attività lavorative extra-aziendali (ovvero quelle attività lavorative non connesse alla gestione dell'azienda agricola oggetto dell'insediamento) un reddito annuo lordo superiore a 6.500 euro
per gli insediati in zona con vincoli naturali o altri vincoli specifici o a 5.000 euro per gli insediati nelle altre zone;
— essere regolarmente iscritto all’INPS – gestione agricola, quale imprenditore agricolo;
— impegnarsi a condurre l’azienda oggetto dell’insediamento per almeno 6 anni, decorrenti dal momento dell’insediamento medesimo. Nel corso di durata del vincolo alla conduzione diretta da parte del giovane non saranno
consentite operazioni di subentro, fusioni o incorporazioni societarie, fatti salvi i casi di forza maggiore previsti
dalla norma comunitaria;
— essere in possesso della cittadinanza di uno degli Stati membri dell'U.E. o status parificato;
— impegnarsi a corrispondere alla definizione di "Agricoltore in attività" entro 18 mesi dalla data di insediamento.
— Il sostegno regionale sarà riconosciuto per l’introduzione in azienda di procedure o sistemi che aumentino la
sicurezza sul lavoro raggiungendo i livelli minimi di legge o superandoli se risultano soddisfatti in partenza.
Ai giovani agricoltori sarà accordato un premio di primo insediamento pari a:
— 50.000 euro per gli insediamenti in zona con vincoli naturali o altri vincoli specifici;
— 30.000 euro nelle altre zone.
Per gli investimenti realizzati sarà concesso un contributo a fondo perduto pari a:
— 40% della spesa ammessa, nel caso di investimenti finalizzati alla lavorazione, trasformazione e commercializzazione dei prodotti aziendali;
— 50% della spesa ammessa, negli altri casi.
La domanda di contributo dovrà essere presentata entro il 16 settembre 2016 con le modalità procedurali approvate da AGREA, pubblicate sul sito http://agrea.regione.emilia-romagna.it/.
Determinazione 29 aprile 2016 n. G04422: approvazione del bando pubblico relativo alla Tipologia di Operazione 4.2.1 del Programma di Sviluppo Rurale 2014-2020 (BUR 3 maggio 2016 n. 35); Determinazione 3 maggio 2016 n. G04495: approvazione del bando pubblico relativo alla Tipologia di Operazione 4.1.1 del Programma di Sviluppo Rurale 2014-2020 (BUR 5 maggio 2016 n. 36)
Incentivi per la sicurezza nelle imprese agricole ed agroindustriali
LAZIO – Scadenza: 30 settembre 2016
La regione Lazio, attraverso le Operazioni 4.1.1 e 4.2.1 del Programma di Sviluppo Rurale (PSR) 2014-2020, sostiene le imprese agricole ed agroindustriali impegnate a rendere i luoghi di lavoro più sicuri.
In particolare, l’Operazione 4.1.1 - il cui bando è stato approvato con determinazione n. G04495 del 3 maggio
2016 - finanzia gli investimenti degli agricoltori, singoli o associati, finalizzati al miglioramento delle condizioni di
sicurezza del lavoro. Limitatamente alla realizzazione di “investimenti collettivi”, i cui destinatari dovranno essere
esclusivamente agricoltori attivi, potranno presentare domanda anche le seguenti organizzazioni:
(*) Bruno Pagamici è Dottore commercialista, Revisore contabile e Pubblicista.
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Igiene & Sicurezza del Lavoro 8-9/2016
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Finanziamenti – 16-30 settembre 2016
— Organizzazioni di Produttori (OP);
— Associazioni Temporanee d’Impresa (ATI);
— Consorzi di Produttori Agricoli;
— Reti di Impresa.
L’Operazione 4.2.1 - il cui bando è stato adottato con determinazione n. G04422 del 29 aprile 2016 - è rivolta alle
imprese agroindustriali, alle imprese agricole singole o associate e alle società cooperative che svolgono attività
di trasformazione, commercializzazione e/o sviluppo dei prodotti agricoli di cui all’Allegato I del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea (TFUE), esclusi i prodotti della pesca. I settori produttivi per i quali sono previsti
gli investimenti sono:
— ortofrutticolo;
— vitivinicolo;
— lattiero/caseario;
— carne;
— olivicolo;
— ovicaprino;
— cerealicolo;
— florovivaistico.
Sarà sostenuto l’acquisto, ovvero l'acquisizione in leasing, di nuove macchine e attrezzature per aumentare gli
standard di sicurezza per i lavoratori superiori a quelli previsti dalla normativa obbligatoria.
Per entrambe le Operazioni, l’agevolazione sarà concessa nella forma di:
— contributo in conto capitale: da calcolarsi in percentuale sul costo totale ammissibile dell’intervento;
— contributo in conto interessi;
— garanzie a condizione agevolate.
La combinazione delle diverse forme di erogazione del contributo verrà effettuata nel rispetto delle aliquote massime di sostegno previste per ciascuna tipologia di Operazione.
In particolare, per l’Operazione 4.1.1 l’intensità dell’aiuto è fissata nella misura massima del 40% della spesa ammessa. L’aliquota di sostegno è maggiorata del 20% qualora ricorra uno dei seguenti casi:
— investimenti effettuati da giovani agricoltori che si sono insediati nei 5 anni precedenti la domanda di sostegno
alla presente misura e che hanno presentato domanda per l’accesso alla Misura 112 del Programma di Sviluppo
Rurale 2007-2013, anche senza aver percepito il premio;
— investimenti effettuati da imprenditori agricoli che hanno partecipato ai Gruppi Operativi del Partenariato europeo per l'innovazione (PEI);
— investimenti effettuati in zone montane;
— investimenti effettuati dagli agricoltori attivi che hanno assoggettato la propria azienda al metodo di produzione biologica e che hanno aderito alle misure 11 o agli agricoltori attivi che hanno aderito alla misura 10 che realizzano investimenti strettamente connessi all’impegno agro-climatico ambientale assunto;
— investimenti collettivi realizzati da associazioni di agricoltori.
Nel caso di investimenti che riguardano la trasformazione e/o la commercializzazione dei prodotti agricoli di cui
all’allegato I del TFUE l’aliquota del sostegno non potrà essere superiore a quella stabilita dall’Operazione 4.2. La
maggiorazione del 20% dell’aliquota di sostegno non si applica per interventi di trasformazione e commercializzazione.
Per l’Operazione 4.2.1, l'intensità dell'aiuto è fissata nella misura massima del 40% della spesa ammessa. L’aliquota del sostegno sarà, per tutti i soggetti beneficiari, elevabile al 60% per progetti realizzati da imprese che
hanno partecipato ai Gruppi Operativi PEI o nel caso di progetti collegati ad una fusione di organizzazione di produttori. Nel caso delle grandi imprese (imprese che occupano più di 750 persone o il cui fatturato supera i 200
milioni di euro oppure un totale di bilancio annuo superiore a 43 milioni di euro) e delle imprese intermedie (imprese che occupano meno di 750 persone o il cui fatturato non supera i 200 milioni di euro), l’intensità massima
dell’aiuto sarà pari al 30% della spesa ammessa, elevabile al 40% nel caso in cui l’operazione sia realizzata nell’ambito di un progetto integrato della “filiera organizzata”.
Le domande di contributo dovranno essere presentate entro il 30 settembre 2016.
L’istanza (in formato PDF), sottoscritta dal richiedente e corredata della documentazione richiesta, dovrà essere
trasmessa, tramite e-mail certificata (PEC), all’Area Decentrata Agricoltura (ADA) competente per territori in funzione quindi dell’ambito provinciale dove si intende realizzare l’intervento, ai seguenti indirizzi:
— ADA di Frosinone: [email protected];
— ADA di Latina: [email protected];
— ADA di Rieti: [email protected];
— ADA di Roma: [email protected].
La domanda dovrà essere obbligatoriamente riproposta sul portale del Sistema Informativo Agricolo Nazionale
(SIAN).
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Decreto 6 luglio 2016 n. 6457: approvazione delle disposizioni attuative per la presentazione delle domande
relative all’Operazione 4.1.01 del Programma di Sviluppo Rurale 2014 – 2020 (BUR 12 luglio 2016 n. 28)
Miglioramento della sicurezza delle condizioni di lavoro nelle imprese agricole
LOMBARDIA – Scadenza: 23 settembre 2016
Per assicurare ambienti di lavoro sicuri, le imprese agricole della Lombardia potranno accedere ai contributi concessi dall’Operazione 4.1.01 del Programma di Sviluppo Rurale 2014-2020.
Nello specifico, il bando - aperto con Decreto n. 6457 del 6 luglio 2016 - si rivolge agli imprenditori individuali e
alle società agricole di persone, capitali o cooperative e finanzia l’adeguamento impiantistico, igienico sanitario e
per la sicurezza dei lavoratori, di livello superiore a quello definito dalle norme vigenti.
Nel caso di giovani agricoltori che si insediano per la prima volta in un’azienda agricola, beneficiari dell’Operazione 6.1.01 - “Incentivi per la costituzione di nuove aziende agricole da parte di giovani agricoltori” del PSR 20142020, è ammissibile l’adeguamento ai requisiti minimi definiti dalle norme comunitarie, nazionali o regionali,
comprese quelle vigenti nell’ambito impiantistico, igienico sanitario e per la sicurezza dei lavoratori, purché terminato entro 24 mesi dalla data di primo insediamento.
Il contributo, espresso in percentuale della spesa ammessa, sarà pari al:
1) nel caso di giovani agricoltori che non beneficiano del sostegno di cui all’Operazione 6.1.01 “Incentivi per la
costituzione di nuove aziende agricole da parte di giovani agricoltori” del PSR 2014-2020:
— 45% della spesa ammessa, nel caso di impresa ubicata in zone svantaggiate di montagna;
— 35% della spesa ammessa, nel caso di impresa ubicata nelle restanti zone;
2) nel caso di giovani agricoltori che beneficiano del sostegno di cui all’Operazione 6.1.01 “Incentivi per la costituzione di nuove aziende agricole da parte di giovani agricoltori” del PSR 2014-2020:
— 55% della spesa ammessa, nel caso di impresa ubicata in zone svantaggiate di montagna;
— 45% della spesa ammessa, nel caso di impresa ubicata nelle restanti zone;
3) per tutte le altre tipologie di richiedente, indipendentemente dall’ubicazione dell’impresa o della società, per investimenti relativi alla trasformazione e/o commercializzazione dei prodotti aziendali: 35% della spesa ammessa.
Le domande dovranno essere presentate entro il 23 settembre 2016 (ore 12,00), esclusivamente per via telematica tramite il Sistema Informatico delle Conoscenze della Regione Lombardia (https://agricoltura.servizirl.it/PortaleSisco/).
Deliberazione della Giunta Regionale 4 luglio 2016 n. 23-3566: approvazione bando; Determinazione 7 luglio
2016 n. 503: istruzioni operative (BUR n. 27, Supplemento ordinario 8 luglio 2016 n. 3)
Agevolazioni alle imprese agroindustriali del Piemonte per ridurre i rischi sul lavoro
PIEMONTE – Scadenza: 30 settembre 2016
Agevolazioni alle imprese agroindustriali del Piemonte che investono nella sicurezza. Gli incentivi, a valere sull’Operazione 4.2.1 del Programma di Sviluppo Rurale 2014-2020, verranno concessi secondo le modalità fissate dal
bando approvato dalla Giunta Regionale con Delibera n. 23-3566 del 4 luglio 2016.
Ad essere interessate sono le imprese agroindustriali, iscritte al Registro delle Imprese della CCIAA, attive nel settore della trasformazione e commercializzazione dei prodotti di cui all’allegato I del Trattato sul funzionamento
dell'Unione europea (TFUE), esclusi i prodotti della pesca. Nel caso in cui i prodotti finali ottenuti non ricadano
nell’allegato I del TFUE, il sostegno verrà accordato solo alle PMI.
Condizione per accedere agli aiuti è che almeno il 66% della materia prima trasformata e commercializzata sia di
provenienza extra aziendale.
I settori di produzione interessati al sostegno regionale sono:
— cereali, riso, proteoleaginose e foraggere;
— latte (vaccino e bufalino, ovicaprino) e suoi derivati;
— carni (bovina, suina, ovicaprine, avicunicole, equine, bufaline,selvaggina);
— ortofrutta;
— vino e aceto;
— altri prodotti (uova, patate, miele, florovivaismo, piante officinali e medicinali, olio di oliva, ecc.).
Il contributo, in conto capitale, sarà concesso nella misura del 40% del costo totale dell’investimento ammesso a
finanziamento. L’intensità dell’aiuto sarà ridotta al 10% per le PMI per investimenti concernenti la trasformazione
di prodotti agricoli in prodotti non agricoli (fuori allegato I del TFUE).
Le domande dovranno compilate e trasmesse entro il 30 settembre 2016, esclusivamente attraverso il servizio
“PSR 2014-2020”, pubblicato sul portale www.sistemapiemonte.it, nella sezione “Agricoltura”.
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Igiene & Sicurezza del Lavoro 8-9/2016
Numero Demo - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l.
Norme UNI
Giugno 2016
Norme UNI
Giugno 2016
13.030.20 – Rifiuti liquidi. Fanghi
UNI EN 16720-1
Caratterizzazione dei fanghi – Consistenza fisica – Parte 1: Determinazione della fluidità – Metodo con
apparecchiatura a tubo di estrusione
13.030.30 – Rifiuti speciali
EC 1-2016 UNI 10897
Errata corrige 1 del
14/06/2016 alla UNI
10897:2016
Carichi di rottami metallici – Rilevazione di radionuclidi con misure X e gamma
13.040.20 – Atmosfere ambiente
UNI CEN/TS 16637-3
Prodotti da costruzione – Valutazione del rilascio di sostanze pericolose – Parte 3: Prova di percolazione
a flusso ascendente orizzontale
13.100 – Sicurezza sul lavoro. Igiene industriale
UNI 7544-17
Segni grafici per segnali di divieto – Parte 17: Vietato pulire con uso di aria compressa
UNI 7545-32
Segni grafici per segnali di pericolo – Parte 32: Ambienti confinati
13.220.20 – Protezione al fuoco
EC 1-2016 UNI 10779
Errata corrige 1 DEL
14/06/2016 alla UNI
10779:2014
Impianti di estinzione incendi – Reti di idranti – Progettazione, installazione ed esercizio
13.220.50 – Resistenza all’incendio di materiali ed elementi da costruzione
EC 1-2016 UNI EN 1366-2
Errata corrige 1 del
16/06/2016 alla UNI EN
1366-2:2015
Prove di resistenza al fuoco per impianti di fornitura servizi – Parte 2: Serrande tagliafuoco
13.280 – Protezione dalle radiazioni
UNI ISO 15382
Radioprotezione – Procedure per il monitoraggio della dose al cristallino, alla pelle e delle estremità
17.200.10 – Calore. Calorimetria
UNI EN 1434-1
Contatori di calore – Parte 1: Requisiti generali
UNI EN 1434-2
Contatori di calore – Parte 2: Requisiti costruttivi
UNI EN 1434-4
Contatori di calore – Parte 4: Prove per l’approvazione del modello
UNI EN 1434-5
Contatori di calore – Parte 5 : Prove per la verifica prima
UNI EN 1434-6
Contatori di calore – Parte 6: Installazione, messa in servizio, controllo e manutenzione
17.240 – Misurazione delle radiazioni
EC 1-2016 UNI 10897
Errata corrige 1 del
14/06/2016 alla UNI
10897:2016
Carichi di rottami metallici – Rilevazione di radionuclidi con misure X e gamma
23.040.15 – Tubazioni di metalli non ferrosi
UNI EN 12449
Rame e leghe di rame – Tubi tondi senza saldatura per usi generali
Igiene & Sicurezza del Lavoro 8-9/2016
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Norme UNI
Giugno 2016
23.060.40 – Regolatori di pressione
UNI 10702-1
Sistemi di controllo della pressione e/o impianti di misurazione del gas funzionanti con pressione a
monte compresa tra 0,04 bar e 12 bar – Parte 1: Sorveglianza del controllo della pressione
23.100.10 – Pompe e motori
UNI ISO 10767-1
Oleoidraulica – Determinazione dei livelli di oscillazione di pressione generati in sistemi e componenti –
Parte 1: Metodo per la determinazione della fonte dell’ondulazione del flusso e la fonte dell’impedenza
delle pompe
25.080.01 – Macchine utensili in generale
EC 2-2016 UNI EN ISO
23125
Errata corrige 2 del
28/06/2016 alla UNI EN ISO
23125:2015
Macchine utensili – Sicurezza – Torni
93.080.30 – Attrezzature ed impianti stradali
UNI 11480
470
Linea guida per la definizione di requisiti tecnico-funzionali della segnaletica verticale (permanente) in
applicazione alla UNI EN 12899-1:2008
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