caratterizzazione del tracciatore gem per lo spettrometro sbs di jlab

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Copia di documento informatico archiviato presso l'Università degli Studi di Catania (ex art. 23-bis D.Lgs 82/2005) - Prot. 2015-UNCTCLE-0143708 del 16/11/2015
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI CATANIA
DIPARTIMENTO DI FISICA E ASTRONOMIA
Corso di laurea magistrale in Fisica
Leonard Giuseppe Re
CARATTERIZZAZIONE DEL TRACCIATORE GEM
PER LO SPETTROMETRO SBS DI JLAB
E
ALGORITMI EVOLUTIVI DI PRETRACCIAMENTO
elaborato finale
Relatore:
Chiar.mo Prof. V. Bellini
Correlatori:
Dott. E. Cisbani
Prof. M. Russo
anno accademico 2014/2015
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Indice
Introduzione
3
1 La fisica dei fattori di forma al JLab
9
1.1 La struttura elettromagnetica del nucleone . . . . . . . . . . . . . . 9
1.2 Esperimenti sulla struttura del nucleone con tracciatori GEM . . . . 16
2 Interazione radiazione-materia
2.1 Interazione con la materia . . . .
2.2 Interazione delle particelle cariche
2.3 Interazione con elettroni . . . . .
2.4 Interazione con i raggi gamma . .
2.5 Camera a ionizzazione . . . . . .
2.6 Contatori proporzionali . . . . . .
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3 Tecnologia GEM
3.1 Scelta della tecnologia GEM . . . . . . . . . . . .
3.2 La camera GEM . . . . . . . . . . . . . . . . . .
3.3 Il foglio GEM . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
3.4 Single GEM . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
3.4.1 Efficienza di raccolta . . . . . . . . . . . .
3.4.2 Coefficiente di estrazione . . . . . . . . . .
3.5 Operatività in campo magnetico . . . . . . . . . .
3.6 Tripla GEM . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
3.7 La scarica elettrica . . . . . . . . . . . . . . . . .
3.8 Il piano di read-out . . . . . . . . . . . . . . . . .
3.9 Configurazione GEM per SBS . . . . . . . . . . .
3.9.1 Geometria GEM . . . . . . . . . . . . . .
3.9.2 L’elettronica di front-end . . . . . . . . . .
3.9.3 L’elettronica . . . . . . . . . . . . . . . . .
3.10 Il segnale APV . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
3.10.1 Ampiezza e sviluppo temporale del segnale
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pesanti
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INDICE
3.10.2 Il rumore associato . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 56
4 Realizzazione del modulo GEM
4.1 Il tendigem . . . . . . . . . . . . . . . . .
4.2 Sistema di controllo . . . . . . . . . . . . .
4.2.1 Architettura generale del sistema di
4.2.2 ACQ-Box . . . . . . . . . . . . . .
4.3 Calibrazione celle di carico . . . . . . . . .
4.4 Il controllo di qualità . . . . . . . . . . . .
4.4.1 Test elettrico dei fogli GEM . . . .
4.5 Realizzazione del rivelatore GEM per JLab
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controllo del TendiGEM
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5 Test sulle GEM
5.1 Set-up sperimentale . . . . . . .
5.2 Caratterizzazione del tracciatore
5.2.1 Run di piedistallo . . . .
5.2.2 Guadagno relativo . . .
5.2.3 Visualizzazione degli hit
5.2.4 Confronto dei run . . . .
5.2.5 Efficienza dei moduli . .
5.3 Conclusioni sul test di Jülich . .
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GEM
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7 Analisi del segnale APV
7.1 Problematica del segnale e scelta del metedo . . . . . . . . . . . .
7.2 Simulazione della funzione BP . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
7.3 Conclusioni sulla simulazione BP . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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6 Apprendimento Automatico
6.1 Machine learning . . . . . . . . . . . .
6.1.1 Problema della regressione . . .
6.2 Algoritmi Evolutivi (EA) . . . . . . . .
6.2.1 Programmazione Genetica (GP)
6.2.2 Brain Project (BP) . . . . . . .
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Conclusioni
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Bibliografia
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Introduzione
La fisica moderna, per investigare e possibilmente comprendere le leggi della natura, richiede dispositivi sempre più complessi. Ma il conseguimento di queste
indagini può avere un significativo impatto sociale, ovvero il numero di persone
coinvolte nei progetti e il budget necessario per realizzarli è spesso ingente e tende
ad aumentare. Questo impone, prima della costruzione di un nuovo sistema di
rivelazione, una dettagliata indagine preliminare, al fine di minimizzare i rischi e i
costi.
Lo scopo di questo lavoro di tesi consiste in studi volti alla caratterizzazione di
un rivelatore a tecnologia GEM attraverso test sotto fascio di protoni svolti presso
Jülich (Germania) e all’introduzione di Algoritmi Evolutivi per l’analisi temporale
dei segnali (pretracciamento), sfruttando la Programmazione Genetica.
Tale rivelatore, una volta caratterizzato in tutte le sue parti, sarà utilizzato
come dispositivo di tracciamento di particelle cariche presso le sale sperimentali
servite dal CEBAF (Continuous Electron Beam Accelerator Facility). Quest’ultimo è un acceleratore di elettroni installato presso il Thomas Jefferson National
Accelerator Facility (Jefferson Lab o JLab), centro ricerche di fisica nucleare che si
trova a Newport News, in Virginia (USA), costruito a circa 8 metri sotto la superficie terrestre [1]. La sua particolarità è la capacità di generare un flusso pressoché
continuo di elettroni (una corrente che può arrivare fino a 100 µA) con un’energia
massima recentemente portata a 12 GeV [3]. Il CEBAF è caratterizzato da una
coppia di acceleratori lineari superconduttori a radio frequenza, collegati tra loro
da due sezioni ad arco che contengono magneti di deflessione [2][4]. La superconduttività è ottenuta raffreddando con elio liquido la cavità in niobio a circa 4
K, eliminando la resistenza elettrica e consentendo un trasferimento più efficiente
di energia agli elettroni del fascio. Il fascio di elettroni viene diretto su tre sale
esperimenti, Hall A, B e C, mentre una quarta sala, Hall D, è stata recentemente
realizzata a seguito del raddoppiamento dell’energia del fascio [4]. Gli elettroni del
fascio vengono fatti urtare contro i nuclei dei bersagli situati nelle sale sperimentali; l’interazione tra elettrone del fascio e nucleo bersaglio provoca generalmente
la diffusione dell’elettrone stesso e di particelle secondarie. Ogni sala contiene un
certo numero di rivelatori di particelle, a seconda del tipo di esperimento, preposte
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INTRODUZIONE
Figura 1: Vista aerea del Jefferson Laboratory
alla rivelazione delle particelle diffuse e alla caratterizzazione del fascio. Il fascio
può essere polarizzato longitudinalmente, con un grado di polarizzazione medio
migliore dell’85%, ciò vuol dire avere la possibilità di ottenere circa l’85% degli
elettroni con spin allineati con la direzione del moto [5].
IL JLab ha come missione primaria la ricerca sulla fisica fondamentale, ovvero
sui nuclei atomici a livello di nucleoni e quark e sull’interazione forte agente tra
gli adroni [6]. In questa direzione, anche grazie all’aumento dell’energia, all’ottima
polarizzazione e all’elevata luminosità raggiungibile, il programma sperimentale
del JLab si sta focalizzando su almeno 3 aree principali [6]:
• i mesoni esotici ibridi saranno oggetto di ricerca per l’esperimento GlueX in
Hall D, con l’obiettivo di comprendere al meglio il confinamento dei quarks;
• diversi esperimenti saranno dedicati allo studio della struttura fondamentale
dei protoni e neutroni, come i fattori di forma e le funzioni di distribuzione
partoniche;
• fisica oltre il modello standard. Questo programma include un’alta precisione
sullo studio della violazione della parità, test sulla simmetria chirale e sulla
anomalia chirale.
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INTRODUZIONE
Figura 2: Configurazione del CEBAF
In Hall A è in corso lo sviluppo di un nuovo spettrometro chiamato Super Bigbite Spectrometer (SBS) che verrà utilizzato soprattutto per la misura dei fattori
di forma dei nucleoni ad alto momento trasferito [7]. Il Super Bigbite è costituito
da un magnete dipolare, una serie di tracciatori GEM (Gas Electron Multiplier) di
larga area suddivisi in front tracker e due back tracker, alternati da 2 analizzatori
di polarizzazione e infine un calorimetro adronico [7]. Gli analizzatori di polarizzazione possono essere rimpiazzati da un rivelatore RICH a seconda delle necessità
sperimentali. La Figura 3 mostra una rappresentazione 3D dello spettrometro
SBS.
Il gruppo JLab12 dell’INFN (Istituto Nazionale di Fisica Nucleare) della Sezione di Catania, in collaborazione con altri gruppi INFN, ha preso in carico la
costruzione del front tracker del SBS. Il progetto utilizzerà come tracciatori di
particelle cariche dei rivelatori a tecnologia GEM che, come si vedrà in seguito,
utilizza essenzialmente lo stesso principio fisico di una camera a ionizzazione.
Lo sviluppo e il set-up del Super Bigbite Spectrometer è realizzato da una
collaborazione che coinvolge sette università degli USA, l’Università di Glasgow e
il gruppo Italiano INFN di varie sezioni, tra i quali Catania, Genova, Bari e Roma
con l’Istituto Superiore di Sanità.
Questo lavoro di tesi tratterà:
• il funzionamento della tecnologia GEM per moduli a singolo foglio e a triplo
foglio;
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INTRODUZIONE
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Figura 3: Immagine 3D del Super Bigbite Spectrometer [8]
• l’utilizzo e l’efficienza del dispositivo meccanico denominato tendiGEM ;
• la procedura e i risultati del test elettrico sui fogli GEM, per verificarne la
qualità;
• l’assemblaggio del rivelatore GEM;
• la caratterizzazione del tracciatore attraverso un test svolto a Jülich (Germania) utilizzando il fascio di protoni del COoler SYnchroton (COSY);
• lo studio preliminare dell’analisi temporale dei segnali attraverso l’innovativa
tecnica della Programmazione Genetica (GP).
Il primo capitolo tratterà una parte della fisica svolta a JLab, dunque si introdurrà la fisica sui fattori di forma elettromagnetici dei nucleoni e i metodi utilizzati
per la loro determinazione, ovvero il metodo della Separazione di Rosenbluth e il
più recente metodo del Trasferimento di polarizzazione. Come si vedrà, le misure
effettuate sui fattori di forma dei nucleoni, ad alto impulso trasferito e con quest’ultima tecnica, hanno messo in evidenza una dipendenza da Q2 non compatibile
con le misure realizzate con il metodo di Rosenbluth. Quindi l’attuale stato degli
studi sulla struttura dei nucleoni esige di affinare la nostra conoscenza ad alti valori
di Q2 (oltre i 10 GeV 2 ), ovvero in una regione non ancora esplorata. Il capitolo si
chiuderà con una panoramica sugli esperimenti, già approvati dal JLab Program
Advisory Committe, che useranno il sistema di tracciamento a tecnologia GEM
sviluppato e realizzato dalla collaborazione INFN.
Il secondo capitolo tratterà, in linea generale, i processi di interazione della radiazione con la materia. In particolare l’interazione delle particelle cariche pesanti
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INTRODUZIONE
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(tipo le particelle alfa) e delle particelle cariche leggere (tipo gli elettroni), e le tre
fondamentali interazioni dei gamma con la materia, ovvero l’effetto fotoelettrico,
l’effetto Compton e la produzione di coppia. Il capitolo si chiuderà con l’introduzione dei sistemi di rivelazione a gas, come la camera a ionizzazione, e le regioni
di operabilità di tali sistemi.
Nel terzo capitolo si introdurrà la tecnologia GEM, illustrandone caratteristiche e peculiarità, giustificandone la scelta di adottarle per i tracciatori di SBS.
Si tratteranno, approfonditamente, i costituenti di una camera GEM, ovvero dei
fogli, composti da rame e kapton, con una fitta griglia di fori di dimensioni tipiche delle decine di micrometri. Si introdurranno le possibili configurazioni per
la realizzazione di un modulo GEM ; quella composta da un unico foglio (singola
GEM) e quella a più fogli (doppia o tripla GEM) immersi, in entrambi i casi, in
una miscela di gas e attraversati da una differenza di potenziale, in modo tale da
creare un intenso campo elettrico all’interno dei fori. In quest’ottica, il foro sarà
la regione di moltiplicazione per gli elettroni liberati dalla radiazione ionizzante
nel gas. Infine si confronterà la camera a singolo foglio con una a triplo foglio,
e osservare i vantaggi dell’una rispetto all’altra. Il capitolo si chiuderà con la
configurazione del tracciatore GEM per il progetto SBS, trattando la geometria
prescelta e l’implementazione elettronica di front-end dei moduli.
Nel quarto capitolo verranno illustrati componenti e metodologie per l’assemblaggio dei moduli GEM: dagli strumenti meccanici, quali il tendiGEM, alle procedure di controllo di qualità dei fogli GEM, per verificare la tenuta elettrica (test
resistivo/elettrico). Si riporteranno caratteristiche specifiche dell’attività sui test
resistivi ed alcuni risultati di questi ultimi sui fogli GEM. Infine si procederà alla
descrizione delle procedure per la realizzazione di una camera GEM, nello specifico
un tripla, con una dettagliata descrizione sulle procedure da effettuare in camera
bianca e sui materiali da utilizzare.
Nel capitolo cinque verrà illustato il test sui moduli realizzati eseguito presso
il Jülich Research Centre in Germania, attraverso il COoler SYnchroton (COSY).
Un fascio di protoni da 2.8 GeV è stato fatto incidere sul tracciatore per accettarne
la stabilità globale del sistema e poterne studiare la risposta. Sono stati eseguiti
diversi run al variare della tensione applicata ai moduli (4000 V, 4050 V, 4100
V, 4150 V e 4200 V), al variare del flusso di gas erogato (1 Volume /h, 2 Volume /h,
3 Volume /h e 4 Volume /h 1 ) e al variare dell’intensità del fascio (1.4 · 109 , 8 · 109 e
1.6 · 1010 protons/bunch). In particolare si sono confrontate le caratteristiche di
clustering di:
1
Il ricambio di un gas viene normalmente definito da un tasso di ricambio che è il rapporto
tra il volume di gas flussato all’ora, in unità di volume di un modulo GEM. L’unità di misura è
quindi Volume /h, spesso abbreviato in V/h.
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INTRODUZIONE
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• run aventi lo stesso flusso di gas (3 V/h) e intensità di fascio (1.4 · 109
protons/bunch) ma diversa tensione applicata (4100 V vs 4200 V);
• run aventi lo stesso flusso di gas (2 V/h) e tensione (4100 V) ma diversa
intensità di fascio ((1.4 · 109 vs 1.6 · 1010 protons/bunch);
• run aventi la stessa tensione (4100 V) e intensità di fascio (1.4 · 109 protons/bunch) ma differente flusso di gas (2 V/h vs 3 V/h).
Infine si sono stimate le efficienze, dei singoli moduli GEM, al variare delle tensioni
applicate avendo fissato il flusso di gas erogato. Tali stime si sono effettuate per i
4 valori adoperati di gas flussato.
Nel capitolo sei si introdurranno, in maniera generica, alcuni concetti base
sull’apprendimento automatico, branca dell’Intelligenza Artificiale, per realizzare
algoritmi, basati su osservazioni di dati, capaci di emulare ragionamenti tipici
dell’essere umano. Pertanto si illustreranno le problematiche di apprendimento
e di pattern recognition relativo alla classificazione dei dati. Si introdurranno le
nozioni di learning set e testing set e le tecniche di apprendimento supervisionato
applicato al problema della regressione. A tal proposito si illustrerà un semplice
esmpio di regressione. Infine, si farà una generale introduzione agli Algoritmi
Evolutivi (EA) e alla Programmazione Genetica (GP), in particolar modo ad un
GP tool utilizzato per l’analisi temporale dei segnali del rivelatore GEM. Questo
GP tool prende il nome di Brain Project (BP).
Infine, nel settimo capitolo, si tratterà la problematica relativa all’analisi temporale dei segnali estratti dalle strip del tracciatore, precisamente la determinazione del tempo di partenza dei segnali (t0 ). Quindi, si illustrerà la tecnica attualmente impiegata per tale studio, ovvero l’utilizzo di una funzione di fit a doppio
esponenziale multiparametrica e i relativi problemi riscontrati nell’individuare il t0
in presenza di segnali rumorosi. Inoltre, si discuterà, anche, il problema dell’implementazione di tale funzione in hardware, dovuto alla sua complessità di forma. Il
capitolo si chiuderà illustrando una possibile soluzione delle problematiche citate,
attraverso l’utilizzo di un Genetic Programming Tool, chiamato Brain Project, e
mostrando i risultati preliminari di tale tecnica innovativa.
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Capitolo 1
La fisica dei fattori di forma al
JLab
1.1
La struttura elettromagnetica del nucleone
Negli ultimi cinquant’anni sono stati compiuti notevoli progressi nell’identificazione dei costituenti fondamentali della materia e delle forze fondamentali attraverso
le quali questi costituenti interagiscono. Secondo quello che è oggi chiamato modello standard dei processi elementari, tutta la materia è costituita da quark e
da leptoni, le cui reciproche interazioni sono mediate dallo scambio delle cosiddette particelle di Gauge. Per esempio, l’elettrone è classificato come leptone e
le sue interazioni elettromagnetiche con il protone sono mediate da una particella
di gauge chiamata fotone. Il protone, il neutrone sono classificati come adroni e
sono formati da tre quark con carica frazionaria. I quark sono tenuti assieme da
un’interazione forte, mediata dallo scambio di altri otto tipi di particelle di gauge, i gluoni. Una terza interazione è quella debole che può avvenire tra leptoni e
quark, tra soli leptoni o tra soli quark, grazie allo scambio di bosoni vettori massivi, detti W ± e Z 0 . Per analogia con queste tre interazioni si ipotizza che un’altra
particella di gauge, il gravitone, medi l’interazione gravitazionale, ma essa non è
ancora stata rivelata. Si ritiene oggi che vi siano complessivamente sei quark con
i corrispondenti antiquark ciascuno in tre varietà di colore, sei leptoni e le loro
sei corrispondenti antiparticelle, un fotone, tre bosoni vettori deboli, otto gluoni e
forse un gravitone [9].
Dagli esperimenti pioneristici di Hofstader, negli anni ’50, le misure dei fattori
di forma elettromagnetico dei nucleoni sono state una preziosa fonte di informazione per la comprensione della struttura interna del nucleone. Negli ultimi 15
anni, gli esperimenti sul trasferimento di polarizzazione nei laboratori del Jefferson Lab hanno minato diverse certezze sui meccanismi di diffusione elastica
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CAPITOLO 1. LA FISICA DEI FATTORI DI FORMA AL JLAB
elettrone-protone e rinnovato un grosso interesse sui fattori di forma. L’aggiornamento dell’acceleratore del JLab (CEBAF), insieme ai recenti sviluppi tecnologici,
offrirà una grande opportunità di estendere l’indagine sui fattori di forma ad alti
Q2 trasferiti, in modo tale da poter avere una più approfondita conoscenza dei
nucleoni. Le misure ad alto impulso trasferito forniranno nuovi approfondimenti
sui quark e sulla distribuzione partonica all’interno dei nucleoni. Tali distribuzioni
descriveranno in maniera più consistente la struttura nucleonica e, in generale,
verificheranno la validità di diversi modelli teorici in una regione di frontiera tra il
regime perturbativo e quello non perturbativo [10].
Fino ad ora sono stati approvati dal JLab Program Advisory Committe (PAC)
cinque proposte di sperimentazione che coinvolgono l’utilizzo del rivelatore GEM
[11] [12] [13]. La Tabella 1.1 fornisce una sintesi di questi esperimenti e tutti
esplorano aspetti relativi alla struttura fondamentale del protone e neutrone.
Tabella 1.1: Esperimenti approvati per il CEBAF dopo l’aggiornamento a 12 GeV, che useranno
il sistema di tracciamento a tecnologia GEM sviluppato e realizzato dalla collaborazione INFN
[11] [12] [13]. Il simbolo (*) indica su quale spettrometro le GEM verranno montate. Si ricorda
che SBS (Super Bigbite Spectrometer), BB (BigBite) e HRS (High Resolution Spectrometer).
Reference
Label
E12-07-109
GEp5
E09-016
GEn2
E09-019
GMN
E12-06-122
A1n
E12-09-018
SIDIS
Full Title
Large acceptance proton form factor ratio
measurements at 13 and 15 (GeV /c)2 using
recoil polarization method
Measurement of the neutron electromagnetic
form factor ratio at high Q2
Precision measurement of the neutron magnetic
form factor up to Q2 = 18.0 (GeV /c)2 by the
ratio method
Measurement of neutron spin asymmetry An1 in
the valence quark region using 8.8 GeV and 6.6
GeV beam energies and Bigbite Spectrometer in
Hall A
Measurement of the semi-inclusive pion and
kaon electroproduction in DIS regime from
transversaly polarized 3 H target using the Super
Bigbite and BigBite spectrometer in Hall A
Apparatus
SBS(*) and BB
SBS and BB(*)
SBS and BB(*)
HRS and BB(*)
SBS and BB(*)
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11
CAPITOLO 1. LA FISICA DEI FATTORI DI FORMA AL JLAB
La struttura elettromagnetica di un nucleone, nel processo di diffusione elastica
con l’elettrone può essere descritta da 2 funzioni denominate Fattori di Forma di
Sachs (FF) e definite come segue [10]
GE Q
2
GM Q
2
=
Z
ρE (~r) ei~q·~r/~ d3~r
(1.1)
=
Z
ρM (~r) ei~q·~r/~ d3~r
(1.2)
dove ρE (~r) e ρM (~r) sono rispettivamente le distribuzioni di carica spaziale e di
densità magnetica. In un sistema non relativistico, GE (Q2 ) può essere interpretato come la trasformata di Fourier in tre dimensioni della distribuzione di carica
del nucleone e GM (Q2 ) come la trasformata di Fourier in tre dimensioni della sua
densità magnetica. I fattori di forma contengono, quindi, tutte le informazioni
riguardanti la distribuzione spaziale di carica e densità magnetica dell’oggetto in
esame [14]. Quindi, in linea di principio, dai fattori di forma di Sachs dei nucleoni si possono ottenere le distribuzioni radiali di carica dei nucleoni e il momento
magnetico, facendo la trasformata inversa di Fourier del fattore di forma [10] [14].
In questo contesto, la corrente elettromagnetica del nucleone è descritta, in approssimazione di un fotone scambiato, da due fattori di forma scalari, F1 e F2 ,
rispettivamente chiamati FF di Dirac e di Pauli. I precedenti fattori di forma di
Sachs risultano essere una combinazione dei fattori di forma di Dirac e Pauli:
q2
p,n 2
2
kF2p,n (q 2 )
Gp,n
=
F
(q
)
−
q
1
E
4M 2
2
= F1p,n (q 2 ) + kF2p,n (q 2 )
Gp,n
M q
(1.3)
(1.4)
con k magnetone di Bohr ed M massa del nucleone. Tradizionalmente, i fattori di
forma dei nucleoni sono stati sperimentalmente determinati attraverso la sezione
d’urto differenziale di scattering elastico di elettroni su nucleoni, utilizzando il cosı̀
detto Rosenbluth separation method [15]. In approssimazione di Born, l’interazione elettromagnetica fra l’elettrone diffuso elasticamente ed il nucleone bersaglio
avviene attraverso lo scambio di un singolo fotone virtuale, come rappresentato in
Figura 1.1 e la dipendenza di GE (Q2 ) e GM (Q2 ) è data dalla formula di Rosenbluth:
dσ
dΩ
=
dσ
dΩ
θ
G2E (Q2 ) + τ G2M (Q2 )
·
+ 2τ G2M Q2 tan2
1+τ
2
M ott
(1.5)
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CAPITOLO 1. LA FISICA DEI FATTORI DI FORMA AL JLAB
12
Figura 1.1: Singolo fotone virtuale scambiato in un processo di scattering elastico di un elettrone
su nucleone, in accordo con l’approssimazione di Born
dove
τ=
Q2
4M 2 c2
(1.6)
dove Q2 è l’opposto del quadri-impulso al quadrato del fotone virtuale scambiato,
ovvero Q2 = −q 2 , M è la massa del nucleone bersaglio, θe è l’angolo di scattering
dell’elettrone e la sezione d’urto differenziale di Mott è data da:
dσ
dΩ
2
M ott
Z 2 ( e )2 cos2 θ2e
= 2 4 θ4π
0
sin2
4p0 sin 2e (1 + 2p
M
θe
)
2
(1.7)
dove p0 è l’impulso dell’elettrone incidente ed e è la carica dell’elettrone. Si noti
che i valori limite dei fattori di forma dei nucleoni a Q2 = 0 sono
GpE Q2 = 0 = 1
GpM Q2 = 0 = 2.79
GnE Q2 = 0 = 0
GnM Q2 = 0 = −1.91
(1.8)
(1.9)
Per poter determinare indipendentemente GE (Q2 ) e GM (Q2 ) le sezioni d’urto devono essere misurate a valori di Q2 prefissati, ma variando l’angolo di diffusione
θe e, quindi, variando l’energia del fascio E. Le sezioni d’urto sperimentali devono
essere divise per le corrispondenti sezioni d’urto di Mott. Se si rappresentano i
risultati in funzione di tan2 (θe /2), si trova che i punti sperimentali giacciono su
una retta (Figura 1.2), in accordo con la formula di Rosenbluth [16].
La determinazione della pendenza di questa retta fornisce quindi il valore
GM (Q2 ), mentre la sua intercetta a θ=0 è data da (G2E + τ G2M )/(1 + τ ), e da qui
si può estrarre GE (Q2 ) [16]. Ripetendo la misura a diversi valori di Q2 è possibile
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CAPITOLO 1. LA FISICA DEI FATTORI DI FORMA AL JLAB
13
Figura 1.2: Rapporto fra la sezione d’urto misurata e la sezione d’urto di Mott in funzione del
quadrato della tangente di θ/2 [16]
determinare l’andamento dei fattori di forma in funzione del quadri-impulso trasferito. Risulta che il fattore di forma elettrico del protone e quelli magnetici tanto
del neutrone quanto del protone, hanno una dipendenza da Q2 alquanto simile.
Essi possono essere descritti abbastanza accuratamente dal cosiddetto andamento
di dipolo [17]:
Gp (Q2 )
Gn (Q2 )
= M
= Gdipolo Q2
GpE Q2 = M
2.79
−1.91
dove
G
dipolo
Q
2
=
Q2
1+
0.71 (GeV /c2 )
−2
(1.10)
(1.11)
Con il metodo basato sulla separazione di Rosenbluth, si sono ottenuti risultati che
per anni hanno mostrato che i rapporti GpE (Q2 )/GpM (Q2 ) e GpE (Q2 )/GnM (Q2 ) sono
praticamente costanti, il primo pari a 1/2,79 e il secondo a 1/(-1.91) [18]. Inoltre,
il rapporto µp GpE /GpM ∼ 1, con µ momento magnetico anomalo = 2.79, sembra
essere abbastanza costante al variare di Q2 , nonostante le grandi fluttuazioni al
crescere di Q2 .
Tuttavia, nel 1968, è stato dimostrato da Akhiezer e Rekalo [15] e successivamente discusso più dettagliatamente da Arnold, Carlson e Gross [18], che il recoil
polarization method era una tecnica più raffinata per la determinazione del rapporto GpE /GpM ≡ Rp (Q2 ). Il metodo recoil polarization si basa sulla misura della
polarizzazione dei nucleoni di rinculo, elasticamente diffusi da elettroni polarizzati
longitudinalmente. Il metodo consiste nel misurare le due componenti non nulle
della polarizzazione del nucleone di rinculo, ovvero, la polarizzazione trasversa Pt
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CAPITOLO 1. LA FISICA DEI FATTORI DI FORMA AL JLAB
14
e la polarizzazione longitudinale Pl . In approssimazione di Born, il rapporto tra il
fattore di forma elettrico e magnetico è ottenuto da:
GE (Q2 )
Pt Ebeam + Ee
θe
=−
tan
2
GM (Q )
Pl
2M
2
(1.12)
dove Ebeam ed Ee sono rispettivamente l’energia dell’elettrone incidente e dell’elettrone diffuso, M è la massa del nucleone bersaglio e θe l’angolo di diffusione
dell’elettrone [15]. Quando questo metodo è stato utilizzato al Jefferson Lab, il
rapporto Rp (Q2 ) non trovava più lo stesso riscontro della separazione di Rosenbluth. Infatti, è stato trovato che il rapporto studiato diminuiva linearmente con Q2 ,
da 1 (GeV /c)2 a 8,5 (GeV /c)2 (Figura 1.3)[15] [18].
Figura 1.3: Rapporto µp GpE /GpM in funzione di Q2 , al variare del metodo utilizzato. I risultati ottenuti con l’approccio di Rosenbluth sono rappresentati dai simboli vuoti, che grossomodo
fluttuano intorno al valore 1, mentre i risultati ottenuti col metodo del trasferimento di polarizzazione sono rappresentati dai simboli pieni che decrescono al crescere del quadri-impulso trasferito
[10].
In altre parole, la situazione, apparentemente consolidata con il metodo di
Rosenbluth, è stata messa in dubbio da una nuova classe di misure effettuate con
il trasferimento di polarizzazione. Le misure fatte con questa nuova tecnica hanno
evidenziato una dipendenza del rapporto da Q2 , come mostrato in Figura 1.3 non
compatibile con le misure che usano la tecnica di separazione di Rosenbluth. In
termini di FF di Pauli e Dirac, la pQCD (perturbative Quantum CromoDynamic)
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CAPITOLO 1. LA FISICA DEI FATTORI DI FORMA AL JLAB
15
Figura 1.4: Misure del FF elettrico (a sinistra) e magnetico (a destra) del protone, attraverso il
metodo della separazione di Rosenbluth [18]
predice un valore asintotico di F2 /F1 ∼ 1/Q2 mentre le nuove misure sembrano
indicare la presenza di una funzione logaritmica di Q2 , la quale modifica i modelli
della pQCD associati al momento angolare orbitale del quark, non noto al momento
ed investigato in profondità, e agli effetti di polarizzazione dei gluoni [10].
La discrepanza tra il metodo di separazione di Rosenbluth e il trasferimento di
polarizzazione è attualmente spiegata (almeno la teoria più accreditata) dal fatto
che l’approccio di Rosenbluth non tiene conto dell’effetto di 2 fotoni scambiati in
un processo di scattering elettrone-protone. Gli esperimenti per dimostrare ciò
sono attualmente in corso [10].
Tutti i più importanti approcci teorici (Costituent Quark Model relativistico,
QCD su reticolo, modello di Dyson-Schwinger, pQCD, ...) che coinvolgono la QCD
e la struttura degli adroni fanno predizioni sui FF. Inoltre, recentemente, sono stati
stimati i contributi dei diversi sapori di quark ai fattori di forma di neutrone e
protone, come per esempio una presunta correlazione up-up o down-down durante
l’interazione del fotone con il nucleone, oppure che il contributo del quark down
per il fattore di forma F1 a Q2 =3,4 GeV 2 è tre volte più piccolo del contributo
del quark up [17]. Quindi, l’attuale stato degli studi sperimentali e teorici sui FF
(in generale sulla struttura del nucleone) esige di affinare la nostra comprensione
a maggiore Q2 (dove fondamentali modelli differiscono in modo significativo) cosı̀
come a piccoli Q2 (importanza degli effetti della nube pionica).
In entrambe queste direzioni, il JLab, ha svolto e sta per svolgere un ruolo
di primo piano grazie all’aggiornamento dell’acceleratore di elettroni polarizzati
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CAPITOLO 1. LA FISICA DEI FATTORI DI FORMA AL JLAB
16
combinato con un alta intensità di fascio e le nuove attrezzature sperimentali in
grado di operare ad alto rate, data la bassa sezione d’urto dei processi indagati. Il
programma più esteso sarà effettuato in Hall A, la più grande delle sale del Jlab, che
può contenere diversi apparati sperimentali. Di tutti questi esperimenti, la misura
del rapporto del FF del protone ad alto Q2 (GEp5 o E12-07-109) è probabilmente
il più complesso [10]. GEp3 è stato l’ultimo di una serie di esperimenti di successo
a Jlab che hanno misurato, per la prima volta, il decremento del rapporto FF
del protone al variare di Q2 . GEp5, estenderà le precedenti misure ad alti Q2 ,
dove ci si aspetta una possibile deviazione dalla linearità [10]. Quindi, alla luce di
tutto ciò, i nuovi esperimenti al JLab forniranno molte risposte a un gran numero
di domande di fondamentale importanza per la comprensione delle proprietà del
protone e la natura della QCD in regime di confinamento.
1.2
Esperimenti sulla struttura del nucleone con
tracciatori GEM
Come già detto all’inizio del paragrafo precedente, sono stati approvati 5 esperimenti (vedi Tabella 1.1), che utilizzeranno tracciatori GEM, tra cui quelli realizzati
dalla collaborazione INFN.
L’esperimento GEp5 applicherà il metodo del recoil polarization per misurare
il rapporto del fattore di forma del protone in una diffusione elastica inclusiva di
elettroni polarizzati longitudinalmente su un target di idrogeno liquido non polarizzato, per valori di Q2 fino a 15 GeV 2 [19]. Il set-up sperimentale previsto è
schematizzato nella Figura 1.5. Gli elettroni diffusi saranno rivelati attraverso un
tracciatore unidimensionale di fibre scintillanti e in un calorimetro elettromagnetico a vetro al piombo (BigCal), mentre la polarizzazione dei protoni di rinculo
saranno analizzati in coincidenza per mezzo del futuro Super Bigbite Spectrometer. L’SBS sarà utilizzato in diverse configurazioni in base al tipo di esperimento
che si dovrà realizzare.
Gli esperimenti GEn2 e GMn saranno entrambi realizzati per indagare i fattori di forma del neutrone, per valori di Q2 rispettivamente fino a 10 GeV 2 e 18
GeV 2 . Entrambi gli esperimenti avranno sostanzialmente la stessa configurazione,
mostrata in Figura 1.6, tranne per la differenza principale riguardante i bersagli:
un gas di 3 H polarizzato per l’esperimento GEn2 [20] e un bersaglio di deuterio
liquido non polarizzato per l’esperimento GMn [21]. Gli elettroni diffusi saranno
rivelati per mezzo di una versione modificata del BigBite spectrometer. Nella parte di rivelazione degli elettroni, il primo tracciatore GEM, subito dopo il magnete
BigBite, sarà composto da tre camere GEM del front tracker del GEp5 proton
arm, mentre due camere GEM del GEp5 second tracker constituiranno il second
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17
CAPITOLO 1. LA FISICA DEI FATTORI DI FORMA AL JLAB
Tabella 1.2: Parametri relativi ai 4 sistemi di rivelazione dell’esperimento GEp5. Nello specifico sono i tre tracciatori denominati Front tracker GEM, Second tracker GEM, Third tracker GEM appartenenti al Super Bigbite Spectrometer e il calorimetro elettromagnetico BigCal
appartenente al ramo elettronico [8].
Tracker
Front
First Back
Second Back
BigCal
Area of
interest for
tracking,
[cm2 ]
Rate,
[kHz/cm2 ]
Strip pitch,
[mm]
Strip
occupancy,
[%]
Number of
tracks per
event
Number of
strip planes
0.20 x 18
400
0.4
13.5
1.65 x 10−2
12
2
130
1.6
7.4
8.7 x 10−6
8
3.6
5.2 x 10
−4
8
2.8 x 10
−2
2
2π 0.35
π 4.8
2
π 1.2
2
64
173
1.6
1
2.4
Figura 1.5: Rappresentazione schematica del setup che sarà utilizzato per l’esperimento GEp5.
La parte adronica è composta da una serie di tracciatori GEM e un calorimetro adronico ad alta
segmentazione posto alla fine dello spettrometro. La parte elettronica utilizza un calorimetro
elettromagnetico, BigCal, basato su vetro al piombo [8].
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CAPITOLO 1. LA FISICA DEI FATTORI DI FORMA AL JLAB
18
tracker GEM [6]. Per quanto riguarda la parte adronica, sarà utilizzato il calorimetro adronico del GEp5, dal momento che può anche funzionare come un efficiente
rivelatore di neutroni con ottima risoluzione di posizione [6]. L’esperimento GEn2,
misurerà double-spin asymmetry in una collisione quasi-elastica di elettroni polarizzati con un target di 3 H polarizzato usando la reazione 3 H(e, e′ n)pp. Il magnete
sarà posizionato tra il bersaglio e il calorimetro adronico, cosı̀ da poter distinguere
eventi caratterizzati da particelle neutre da quelle cariche [8]. L’esperimento GMn
misurerà il fattore di forma magnetico del neutrone attraverso la comparazione
della sezione d’urto elastica non polarizzata dei due processi d(e, e′ p)n e d(e, e′ n)p.
Infine, si prenda atto che le misure di GMn su GnM combinate con le misure di GpM ,
realizzate in Hall A (non facente parte del progetto Super Bigbite), consentirebbero la ricostruzione della distribuzione dei quark up e down, con una risoluzione
spaziale di 0.05 f m [8].
Figura 1.6: Rappresentazione schematica del setup che sarà utilizzato per gli esperimenti GEn2
e GMn [8].
Per quanto riguarda l’esperimento A1n si faranno misure sull’asimmetria di
spin del neutrone, An1 , per valori della variabile di scala di Bjorken1 maggiori
di 0.6, le quali non sono mai state realizzate fino ad ora. Infatti, il processo
da realizzare sarà uno scattering profondamente anelastico inclusivo di elettroni
polarizzati su neutroni di un bersaglio di 3 He polarizzato, usando un’energia di
fascio tra i 6.6 GeV e gli 8.8 GeV. In questo modo saranno controllate le previsioni
dei vari modelli teorici, comprese quelle della pQCD per il quale si sono riscontrati
alcuni disaccordi sulle misure precedententemente realizzate a x=0.6 della variabile
1
Gli esperimenti sulla diffusione profondamente inelastica sono descritti attraverso l’uso di
Q2
Q2
una variabile definita come x ≡ 2P
q = 2M ν indicata come variabile di scala di Bjorken. Questa
quantità è una misura dell’anelasticità del processo. Nel caso elastico si ha che 2M ν − Q2 = 0 ⇒
x=1. Viceversa, nel caso anelastico si ha che 2M ν − Q2 > 0 ⇒ 0 < x < 1 [16]
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CAPITOLO 1. LA FISICA DEI FATTORI DI FORMA AL JLAB
19
di scala. Per una panoramica completa delle finalità e specifiche dell’esperimento
si rimanda al riferimento [22]. Infine, l’esperimento SIDIS studierà un processo
di scattering profondamente anelastico semi inclusivo di elettroni polarizzati su
neutroni di un bersaglio di 3 He, per il quale si avranno, oltre all’elettrone diffuso,
pioni e kaoni nello stato finale. Anche in questo caso si rimanda per le specifiche
dell’esperimento alla referenza [23].
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Capitolo 2
Interazione radiazione-materia
2.1
Interazione con la materia
Il funzionamento di ogni sistema di rivelazione dipende dal modo in cui la radiazione interagisce con il materiale del rivelatore stesso. Possiamo distinguere due
diverse tipologie di radiazioni incidenti: radiazioni di particelle cariche (quali elettroni, protoni e particelle alfa) e radiazioni non cariche (ad esempio neutroni e
raggi x o gamma).
La prima rappresenta la radiazione che, a causa della carica elettrica trasportata, interagisce continuamente tramite prevalentemente la forza coulombiana con
gli elettroni del mezzo che attraversa.
La seconda rappresenta la radiazione di particelle non cariche, pertanto non
soggette direttamente alla forza coulombiana, quindi la radiazione è sottoposta ad
un’interazione che coinvolge prevalentemente gli elettroni atomici della materia,
che alterano radicalmente le proprietà cinetiche delle particelle incidenti in una
singola collisione [24].
2.2
Interazione delle particelle cariche pesanti
Natura dell’interazione. Le particelle cariche pesanti, come protoni e alfa, interagiscono con la materia principalmente tramite le forze colombiane tra le cariche
degli elettroni orbitali degli atomi che assorbono.
Le interazioni delle particelle cariche con i nuclei, con la possibilità di modificare il nucleo bersaglio o di portare il nucleo in uno stato eccitato, sono possibili,
ma molto rare, e sopratutto non sono significative per i rivelatori di radiazioni. La
particella carica interagisce con uno o più elettroni e a seconda della prossimità
dell’interazione trasferisce una certa energia che può essere sufficiente per eccitare l’elettrone ad una shell superiore (eccitazione), o rimuovere completamente
20
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CAPITOLO 2. INTERAZIONE RADIAZIONE-MATERIA
21
l’elettrone dall’atomo (ionizzazione). L’energia trasferita all’elettrone fa si che la
particella diminuisca la sua velocità come risultato della collisione. Poiché ogni
particella interagisce con più elettroni di atomi diversi, la sua velocità viene continuamente diminuita e quindi viene fermata. Le particelle cariche sono quindi
caratterizzate da un definito percorso (range) in un dato materiale assorbente. Il
range rappresenta, quindi, la distanza entro la quale la particella statisticamente
si ferma.
I prodotti dei processi che avvengono nel materiale sono atomi eccitati o/e
coppie di ioni. Ogni coppia di ioni è composta da un elettrone libero e il corrispondente ione positivo (atomo dell’assorbente a cui è stato tolto un elettrone).
Queste coppie di ioni hanno una naturale tendenza a ricombinarsi per formare
atomi neutri, ma in determinati rilevatori tale ricombinazione è soppressa in modo
tale da poterle raccogliere ed ottenere informazioni utili sul processo di ionizzazione. In urti particolarmente ravvicinati, un elettrone può essere sottoposto ad
un impulso cosı̀ grande che, dopo aver lasciato il suo atomo, esso viene ad avere
una energia cinetica sufficiente a creare ulteriori ioni. Questi elettroni energetici
sono spesso chiamati raggi delta e rappresentano un mezzo indiretto attraverso il
quale l’energia della particella carica è trasferita al mezzo assorbente. Sotto tipiche
condizioni la maggior parte della perdita di energia della particella carica avviene
tramite i raggi delta.
Potere d’arresto (Stopping Power). Il potere d’arresto lineare S in un dato
assorbitore è definita come la perdita di energia differenziale per quella particella
nel materiale diviso la corrispondente lunghezza differenziale:
S=−
dE
dx
(2.1)
Per particelle con un definito stato di carica, S aumenta quando diminuisce la
velocità della particella. L’espressione classica che descrive la perdita di energia
specifica è nota come la formula di Bethe-Bloch:
−
dove
4πe4 z 2
dE
NB
=
dx
m0 v 2
v2
2m0 v 2
v2
B = Z ln
− ln 1 − 2 − 2
I
c
c
(2.2)
(2.3)
In queste espressioni,v e z sono la velocità e la carica della particella primaria, N
e Z la densità numerica e il numero atomico degli atomi assorbenti, m0 è la massa
a riposo dell’elettrone ed e è la carica dell’elettrone. Il parametro I rappresenta il potenziale di ionizzazione dell’assorbitore ed è trattato come un parametro
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CAPITOLO 2. INTERAZIONE RADIAZIONE-MATERIA
22
determinato sperimentalmente per ogni elemento. Per particelle cariche non relativistiche (v), solo il primo termine in B è importante. L’equazione precedente è
generalmente valida per differenti tipi di particelle cariche purchè la loro velocità
resti grande se comparata alle velocità orbitali degli elettroni dell’atomo assorbente. L’espressione di B varia lentamente con l’energia della particella, a causa
della presenza del logaritmo. Per una particella non relativistica il dE/dx sarà
proporzionale a z 2 della particella e inversamente proporzionale all’energia. Questo comportamento può essere ben interpretato notando che, poiché la particella
carica impiega più tempo nelle vicinanze di un dato elettrone dove la sua velocità
è bassa, l’impulso avvertito dall’elettrone, e perciò l’energia trasferita, è maggiore.
A parità di velocità, particelle con carica maggiore avranno una maggiore perdita di energia. La Figura 2.1 mostra che il valore di dE/dx per tipi diversi di
particelle cariche si avvicina a un valore minimo quasi costante oltre energie di
molte centinaia di MeV, dove la loro velocità approssima quella della luce. Questa
perdita di energia specifica corrisponde a 2 MeV per cm2 /g in materiali leggeri.
A causa del loro comportamento similare nella perdita di energia, tali particelle
relativistiche sono dette âminimum ionizing particlesâ (espressa in M eV cm2 /g).
La formula di Bethe-Bloch comincia a fallire per particelle a bassa energia dove
Figura 2.1: Minimum ionizing particles
lo scambio di carica tra particella e assorbitore diviene importante. Le particelle
cariche positivamente tendono a strappare via elettroni dall’assorbitore, alla fine
del tragitto la particella ha accumulato z elettroni e diventa un atomo neutro.
Caratteristiche della perdita di energia. Un grafico della perdita specifica di
energia lungo il tragitto della particella carica come quello mostrato nella figura
seguente è conosciuto come curva di Bragg. Come si evince dalla Figura 2.2, la
maggior parte dell’energia viene depositata alla fine del percorso (picco di Bragg),
fornendo una grandissima base per delle applicazioni mediche di fondamentale
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CAPITOLO 2. INTERAZIONE RADIAZIONE-MATERIA
23
importanza, ovvero il deposito di energia âmiratoâ ad una certa profondità nelle
cure dei tumori con radiazioni [23].
Figura 2.2: Picco di Bragg a differenti energie della particella incidente
2.3
Interazione con elettroni
Natura dell’interazione. Quando comparati a particelle cariche pesanti, gli elettroni veloci perdono la loro energia ad un rate più basso e seguono un percorso più
tortuoso attraverso il materiale assorbente. Le grandi deviazioni nel percorso di un
elettrone sono possibili perchè la sua massa è uguale a quella degli elettroni orbitali
con i quali interagiscono, e una frazione più grande della sua energia può essere
persa in un singolo incontro. Inoltre possono a volte avvenire anche le interazioni
elettrone-nucleo che modificano drasticamente la direzione dell’elettrone.
Perdita specifica di energia. Un’espressione simile alla formula di Bethe-Bloch
è stata derivata da Bethe per descrivere la perdita specifica di energia dovuta a
ionizzazione ed eccitazione per elettroni veloci
−
dE
dx
2πe4 N Z
=
m0 v 2
p
m0 v 2 E
2
2
ln 2
− (ln2) 2 1 − β − 1 + β +
2I (1 − β 2 )
2
p
1
+ 1 − β2 +
1 − 1 − β2
8
(2.4)
La perdita di energia degli elettroni all’interno di un mezzo è data dal contributo
di due interazioni differenti; le collisioni inelastiche con gli elettroni orbitanti e
le interazioni con i nuclei atomici. Quindi, nella prima si osserva una perdita di
energia per collisione, mentre nella seconda si ha una perdita di energia di tipo radiativa, ovvero una perdita per bremstrahlung. Quest’ultimo processo, puramente
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CAPITOLO 2. INTERAZIONE RADIAZIONE-MATERIA
24
elettromagnetico, avviene poiché il percorso degli elettroni viene continuamente
deflesso a causa della presenza del campo elettrico creato dai protoni degli atomi
del mezzo, quindi gli elettroni decelerano e, pertanto, perdono energia sotto forma
di fotoni.
Il potere d’arresto per gli elettroni, quindi, è la somma delle perdite collisionali e
radiative, ovvero
dE
dE
dE
=
+
(2.5)
dx tot
dx col
dx rad
Per energie inferiori a 1 MeV le perdite radiative sono una piccola frazione dell’energia totale persa e diventano significative solo in materiali assorbenti ad alto
numero atomico. Pertanto, ad energie inferiori ad 1 MeV prevale la ionizzazione
diretta, mentre oltre 1 MeV di energia inizia ad essere preponderante la radiazione
di bremstrahlung [24].
2.4
Interazione con i raggi gamma
Nonostante vi siano molte possibili interazioni fra raggi gamma e materia, solo tre di questi giocano un ruolo importante nelle misure di radiazione ed tutti
comportano il trasferimento parziale o completo della energia del fotone gamma
all’elettrone.
Assorbimento Fotoelettrico. In tale fenomeno un fotone è sottoposto all’interazione con l’atomo assorbente nel quale tale fotone scompare completamente.
Al suo posto, un fotoelettrone energetico è espulso dall’atomo da una delle shell
chiuse. Esso avviene solo con l’atomo come intero e non con elettroni liberi. Il
fotoelettrone che appare avrà un’energia:
Ee = hν − Eb
(2.6)
Dove Eb rappresenta l’energia di legame del fotoelettrone alla sua shell originaria.
L’effetto fotoelettrico è il modo predominante di interazione per i raggi gamma di
relativamente basse energie e per assorbitori con grande numero atomico Z.
Scattering Compton. Tale fenomeno si verifica tra il fotone gamma incidente
e l’elettrone nel materiale assorbente. Nello scattering Compton, il fotone gamma
incidente è deflesso di un angolo θ rispetto alla direzione iniziale. Il fotone trasferisce una parte della sua energia all’elettrone (supposto fermo), che viene poi detto
elettrone di rinculo. Poichè tutti gli angoli di scattering sono possibili, l’energia
trasferita all’elettrone può variare da zero ad una grande porzione dell’energia del
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CAPITOLO 2. INTERAZIONE RADIAZIONE-MATERIA
25
gamma. L’espressione che lega l’energia trasferita all’angolo di scattering può essere derivata utilizzando le leggi di conservazione di energia e impulso e si avrà
che:
′
hν =
1+
hν
m 0 c2
hν
(1 − cosθ)
(2.7)
dove m0 è la massa a riposo dell’elettrone (0,511 MeV). Per piccoli angoli di scattering è trasferita poca energia. La probabilità per atomo di scattering Compton dipende dal numero di elettroni disponibili come bersaglio e perciò aumenta
linearmente con Z.
Produzione di coppie. Se l’energia del gamma incidente supera il doppio della massa a riposo dell’elettrone (1.02 MeV), il processo di produzione di coppie è
energeticamente possibile. In verità tale probabilità rimane bassa fino a che l’energia dei gamma raggiunge parecchi MeV. Nell’interazione (che avviene nel campo
coulombiano del nucleo) il fotone gamma sparisce ed è rimpiazzato da una coppia
elettrone-positrone. Tutta l’energia in più trasportata dal fotone va nell’energia
cinetica di e+ ed e− . Poichè e+ si annichila subito dopo aver rallentato nel mezzo
assorbente, due fotoni di annichilazioni sono normalmente prodotti come risultato
dell’interazione [24]. La probabilità di osservare una produzione di coppia varia
approssimativamente con Z 2 del materiale assorbente.
La relativa importanza dei tre processi appena illustrati è descritta dalla Figura 2.3. La curva a sinistra rappresenta l’energia in cui l’assorbimento fotoelettrico
Figura 2.3: Probabilità di accadimento dei tre processi [15]
e lo scattering Compton hanno la stessa probabilità di avvenire, mentre quella
di destra rappresenta l’energia in cui scattering Compton e produzione di coppia
hanno la stessa probabilità di avvenire.
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CAPITOLO 2. INTERAZIONE RADIAZIONE-MATERIA
2.5
26
Camera a ionizzazione
Un buon numero di rilevatori attualmente utilizzati, sono basati sugli effetti prodotti quando una particella carica passa attraverso un gas. I modi primari di
interazione coinvolgono l’eccitazione e la ionizzazione di molecole di gas lungo il
tragitto della particella.
Camere a ionizzazione, contatori proporzionali e contatori Geiger producono,
anche se in modi differenti, un segnale d’uscita elettronico che ha origine con la
formazione delle coppie di ioni nel gas che riempiono il rivelatore. Le camere
a ionizzazione sono i rilevatori più semplici. Il loro modo di operare è basato
sulla raccolta di tutta la carica creata dalla diretta ionizzazione all’interno del gas
attraverso l’applicazione di un campo elettrico.
Processo di ionizzazione nei gas. Quando una particella carica passa attraverso
un gas, i tipi di interazioni descritti precedentemente, creano sia molecole eccitate
che ionizzate lungo il suo percorso. Dopo che una molecola neutra è ionizzata, il
corrispondente ione positivo e l’elettrone libero sono detti coppia di ioni, e servono
come costituenti base del segnale elettrico sviluppato dalla camera a ionizzazione.
Gli ioni possono essere formati da una diretta interazione con la particella incidente, o tramite un processo secondario in cui parte dell’energia della particella è
trasferita prima ad un elettrone energetico (raggio δ). La quantità che ci interessa
è il numero totale di coppie di ioni creati lungo il tragitto della radiazione.
Numero di coppie formate. Come minimo, la particella deve trasferire una
quantità di energia uguale alla energia di ionizzazione della molecola del gas per
permettere che avvenga il processo di ionizzazione. In molti gas l’energia di ionizzazione per l’elettrone meno legato è di circa 15-25 eV. Comunque, ci sono dei
meccanismi per cui la particella incidente può perdere energia all’interno del gas e
non creare ioni. Un esempio è il processo di eccitazione in cui un elettrone passa
ad uno stato eccitato nella molecola senza essere rimosso. Perciò, l’energia media
persa W dalla particella incidente per ione formato è sostanzialmente più grande
dell’energia di ionizzazione. Assumendo che W sia costante per un dato tipo di
radiazione, l’energia depositata sarà proporzionale al numero di coppie di ioni formate e può essere determinata se viene effettuata una misura del numero di coppie
di ioni.
Diffusione, trasferimento di carica e ricombinazione. Gli atomi o le molecole
neutre del gas sono in costante movimento termico, caratterizzato da un libero
cammino medio tipico per i gas sotto condizioni standard. Gli ioni positivi e gli
elettroni liberi creati all’interno del gas prendono parte al movimento termico casuale, tendendo ad una diffusione da regioni a più alta densità verso regioni a
più bassa densità. Il processo diffusivo è molto più pronunciato per elettroni liberi che per gli ioni perchè la loro velocità termica media è molto più grande.
Una volta creata la coppia ione-elettrone, all’interno della camera si va incontro
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CAPITOLO 2. INTERAZIONE RADIAZIONE-MATERIA
27
a diversi processi di collisione tra elettroni liberi, ioni e molecole neutre. Tali
processi sono molto importanti ai fini di ottenere un segnale in uscita che mantenga l’informazione della ionizzazione primaria creata dalla particella da rivelare.
Tra questi processi, riconosciamo le collisioni con trasferimento di carica e la ricombinazione. Le prime possono avvenire quando uno ione positivo incontra una
molecola neutra di gas. In tale collisione, un elettrone è trasferito dalla molecola neutra allo ione, invertendo cosı̀ i ruoli. Le collisioni tra ioni positivi ed
elettroni liberi conduce alla ricombinazione, nella quale l’elettrone è catturato dallo ione positivo e ritorna in una stato di neutralità. Alternativamente, lo ione
positivo può andare incontro a collisioni con uno ione negativo in cui l’elettrone
extra viene trasferito allo ione positivo portando entrambi in uno stato neutro.
In ognuno dei casi, la carica rappresentata dalla coppia originale è persa e non
puÃ2 piùcontribuirealsegnalenelrilevatorecheèbasatosullaraccoltadellacaricadiionizzazione.
Mobilità della carica: Quando nella regione del gas in cui diffondono ioni ed
elettroni viene applicato un campo elettrico esterno, le forze elettrostatiche tenderanno a fare migrare le cariche lontano dal punto di origine. Il moto netto consiste
in una sovrapposizione di velocità termiche casuali insieme con una velocità di
migrazione netta in una data direzione. La velocità di deriva1 per ioni positivi
è nella direzione convenzionale del campo elettrico, mentre per gli elettroni nella
direzione opposta. Per gli ioni in un gas, la velocità di spostamento può essere
predetta dalla relazione:
v=
µǫ
p
(2.8)
dove ǫ corrisponde al modulo del campo elettrico e p alla pressione del gas. La
mobilità µ tende a rimanere costante su grandi intervalli di campo elettrico e
pressione del gas e non differisce molto per ioni positivi e negativi dello stesso
gas. Gli elettroni si comportano in modo abbastanza differente. La loro massa
molto piccola permette una velocità superiore rispetto ad una molecola neutra, e
il valore della mobilità è 1000 volte più grande di quello degli ioni. Quando gli
elettroni migrano nel gas sotto l’influenza del campo elettrico, essi seguono, in
prima approssimazione, le linee del campo elettrico che passa attraverso il loro
punto di origine, ma in direzione opposta al vettore campo elettrico.
Corrente di ionizzazione: In presenza di un campo elettrico, lo spostamento
delle cariche positive e negative è rappresentato dagli ioni ed elettroni che costituiscono una corrente elettrica. Se un dato volume di gas subisce una irradiazione
costante, la velocità di formazione di coppie di ioni è costante. Per ogni piccolo
volume di gas, questo tasso di formazione sarà bilanciato da quella in cui le coppie
di ioni sono perse dal volume, sia per ricombinazione, per diffusione o migrazione.
1
Velocità media assunta da una particella a causa di un campo di forze
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CAPITOLO 2. INTERAZIONE RADIAZIONE-MATERIA
28
Sotto le condizioni che la ricombinazione sia irrilevante e le cariche efficientemente
raccolte, la corrente prodotta è una misura della frequenza a cui le coppie di ioni
sono prodotte all’interno del volume. Le misure di questa corrente di ionizzazione
sono il principio base delle camere a ionizzazione.
La Figura 2.4 mostra gli elementi base di una rudimentale camera a ionizzazione. Un volume di gas è racchiuso all’interno di una regione in cui può essere
creato un campo elettrico dall’applicazione di un voltaggio esterno. All’equilibrio,
la corrente nel circuito esterno sarà uguale alla corrente di ionizzazione raccolta
agli elettrodi. Trascurando alcuni piccoli effetti legati alle differenza nelle caratte-
Figura 2.4: Schema generale di una camera a ionizzazione [15]
ristiche tra ioni ed elettroni, nessuna corrente netta dovrebbe fluire in assenza di
tensione applicata perchè non esiste alcun campo elettrico all’interno del gas. Gli
ioni e gli elettroni che sono stati creati spariscono per ricombinazione o diffusione
dal volume attivo. Quando la tensione è incrementata, il campo elettrico risultante
inizia a separare le coppie di ioni più rapidamente verso i rispettivi elettrodi e la
ricombinazione diminuisce. Le cariche positive e negative sono indirizzate verso
i rispettivi elettrodi con una crescente velocità di deriva, riducendo la concentrazione di equilibrio degli ioni e perciò sopprimendo la ricombinazione di volume.
Ad una sufficientemente alta tensione, il campo elettrico è grande abbastanza da
sopprimere la ricombinazione ad un livello trascurabile, e tutta la carica originariamente creata tramite ionizzazione contribuisce alla corrente di ionizzazione.
Incrementando ancora la tensione, la corrente non incrementerà più, poiché tutte
le cariche sono state raccolte. Questa è la regione di saturazione in cui di solito
operano le camere a ionizzazione. Sotto queste condizioni, la corrente misurata
nel circuito esterno è una vera indicazione della frequenza di formazione di tutte
le cariche dovute a ionizzazione [24].
2.6
Contatori proporzionali
I rivelatori a gas in regime proporzionali si basano sul fenomeno della moltiplicazione dei gas per amplificare la carica rappresentata dalla coppia di ioni originaria
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CAPITOLO 2. INTERAZIONE RADIAZIONE-MATERIA
29
Figura 2.5: Corrente di ionizzazione in funzione della tensione, al variare del rate di radiazione
φ
creata all’interno del gas. I segnali, dovuti alla raccolta delle cariche, sono cosı̀
molto più intensi di quelli delle camere a ionizzazione usate nelle stesse condizioni,
e i contatori proporzionali, pertanto, possono essere applicati nelle situazioni in
cui il numero di coppie generate è troppo piccolo per permettere una raccolta di
carica soddisfacente per la sensibilità della camera.
Creazione di valanghe: La moltiplicazione del gas è conseguenza di un incremento del campo elettrico all’interno del gas ad un valore sufficientemente alto.
A bassi valori di campo, gli elettroni e gli ioni creati dalla radiazione incidente si
spostano semplicemente verso il loro rispettivo elettrodo. Durante la migrazione di
queste cariche, avvengono molte collisioni con le molecole di gas neutro. A causa
della loro bassa mobilità, gli ioni positivi o negativi raggiungono una energia media
molto piccolo tra le collisioni. Gli elettroni liberi, invece, sono facilmente accelerati dal campo applicato e possono avere una importante energia cinetica quando
subiscono collisioni. Se questa energia è maggiore dell’energia di ionizzazione della
molecola di gas neutro, è possibile creare una nuova coppia nella collisione. Poiché
l’energia media degli elettroni tra le collisioni incrementa all’aumentare del campo
elettrico, vi è una soglia di campo sopra la quale avviene la seconda ionizzazione
(in gas tipici, a pressione atmosferica, è di oltre 106 V /m). L’elettrone liberato
dal processo di ionizzazione secondaria sarà anch’esso accelerato dal campo elettrico. Durante il suo spostamento, esso subisce collisioni con altre molecole neutre
e quindi crea altre ionizzazioni. Il processo di moltiplicazione del gas prende la
forma di una cascata, nota come valanga Towsend, in cui ogni elettrone libero
creato in ogni collisione può potenzialmente creare altri elettroni liberi con lo stesso processo. L’incremento frazionario nel numero di elettroni per unità di percorso
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CAPITOLO 2. INTERAZIONE RADIAZIONE-MATERIA
30
è governato dalla equazione di Towsend:
dn
= αdx
n
(2.9)
dove α è detto il primo coefficiente di Towsend per i gas. Il suo valore è zero per
valori di campo elettrico sotto la soglia.
Per la geometria cilindrica utilizzata nella maggior parte dei contatori proporzionali, il campo elettrico aumenta nella direzione in cui la valanga progredisce.
Nei contatori proporzionali, la valanga termina quando tutti gli elettroni liberi
sono raccolti dall’anodo, quindi il numero delle ionizzazioni secondarie può essere
mantenuto proporzionale al numero di coppie di ioni primarie, ma il numero totale
di ioni puÃ2 esseremoltiplicatodiunf attoredimoltemigliaia.
Figura 2.6: Regioni di operabilitá dei rivelatori [15]
Regioni di operabilità dei rivelatori a gas: A valori molto bassi di tensione il
campo è insufficiente per impedire la ricombinazione e la carica raccolta è minore di
quella rappresentata dalla coppia originaria. Quando la tensione cresce, la ricombinazione è soppressa e si raggiunge la regione di saturazione. Questa è la regione
delle camere a ionizzazione. Quando la tensione aumenta ancora, viene raggiunto
il valore di soglia del campo in cui avviene la moltiplicazione del gas. In alcune
regioni del campo elettrico, la moltiplicazione del gas diventa lineare, e la carica
raccolta sarà proporzionale alle coppie di ioni creati dalla radiazione incidente ed
è questa la regione di operabilità dei contatori proporzionali. Incrementando la
tensione si introducono effetti non lineari. Il più importante tra questi è legato agli
ioni positivi, che sono creati nel processo di ionizzazione secondaria. Nonostante
gli elettroni liberi siano raccolti rapidamente, gli ioni positivi si muovono molto più
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CAPITOLO 2. INTERAZIONE RADIAZIONE-MATERIA
31
lentamente. Perciò, all’interno del contatore si provoca una nube di ioni positivi
che, se la concentrazione è abbastanza alta, rappresentano una carica spaziale che
può alterare la forma del campo elettrico nel rilevatore. Questi effetti marcano
l’inizio della regione di limitata proporzionalità nella quale aumenta il numero di
coppie di ioni iniziali, ma non in modo lineare. Se la tensione applicata diventa
abbastanza alta, la carica spaziale, può diventare dominante. Sotto queste condizioni la valanga procede fino a che un sufficiente numero di ioni positivi sono stati
creati per ridurre il campo elettrico sotto la soglia minima per la moltiplicazione.
Il processo termina quando lo stesso numero di ioni positivi è stato formato senza tener conto del numero iniziale di ioni creati dalla radiazione incidente. Ogni
segnale di uscita dal rilevatore a questo punto ha la stessa ampiezza e non riflette
più le proprietà della radiazione incidente (zona del Geiger Muller ) [24].
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Capitolo 3
Tecnologia GEM
3.1
Scelta della tecnologia GEM
Tra le tante caratteristiche richieste per il sistema di tracciatori dell’SBS, le più
importanti sono la risoluzione spaziale e il flusso di particelle supportato. Per
soddisfare le richieste degli esperimenti (risoluzione in momento e in angolo), la
risoluzione spaziale desiderata deve essere minore di 100 µm per singolo hit. Tale
richiesta può essere soddisfatta da rivelatori a silicio, camera a deriva e MPGD
(Micro Pattern Gaseous Detector).
Le camere a deriva, però, non riescono a sostenere il flusso di particelle atteso,
di diverse centinaia di kHz/cm2 e, in genere, sono anche molto sensibili ai campi
magnetici rispetto ad altre tecnologie di rivelazione [6].
Figura 3.1: Confronto tra un MWPC (Multi-Wire Proportional Chamber) e una GEM per quanto
riguarda il rate supportato e il guadagno. Come si evince, la GEM riesce a mantenere costante
e pari a 1 il guadagno anche ad alto rate dove un MWPC inizia a decrescere [25]
Un discorso abbastanza analogo vale per i rivelatori a silicio. Tecnicamente i
32
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33
CAPITOLO 3. TECNOLOGIA GEM
rivelatori a silicio sono attualmente i migliori sul mercato, ma hanno degli svantaggi
sia nelle dimensioni massime di un singolo elemento (dell’ordine di 10 x 10 cm2 per
piastrella, abbastanza limitate) che nei costi [26]. Infatti, l’SBS avrà dei Silicon
Strip Plane in prossimità del bersaglio al fine di supportare i tracciatori oltre il
dipolo nell’abbattere l’alto fondo di particelle, ma non saranno utilizzati per il
tracciamento poiché l’area di tracking è abbastanza estesa e l’utilizzo dei silici
vuol dire un costo di costruzione molto esoso.
Vicevera, una camera GEM può essere realizzata a larga area, come ad esempio
un prototipo creato al CERN di circa 2000 cm2 , a costi ragionevolmente contenuti
[27]. Un’altra differenza fondamentale è la resistenza alle radiazioni incidenti,
infatti un rivelatore GEM è molto robusto su questo punto di vista, mentre un
rivelatore a silicio è notevolmente soggetto a danneggiamento se posto in un intenso
campo di radiazioni [28]. Quindi, la scelta più indicata, sia per costi che per qualità,
è proprio la tecnologia a Micro Pattern Gaseous Detector e in particolare GEM, che
rientra in pieno all’interno dei parametri richiesti per ottimizzare gli esperimenti
al JLab.
Nella Tabella 3.1 è possibile confrontare in maniera quantitativa le caratteristiche dei vari rivelatori sopracitati ed avere un quadro generale.
Tabella 3.1: Comparazione tra Silicon microstrip, Triple-GEM, MicroMeGas, Drift chamber e
MWPC, per quanto concerne gli ordini di grandezze delle principali caratteristiche dei tracciatori
[15].
Detector
Silicon microstrip
Maximum gain
Maximum hit rate, [MHz/cm2 ]
Spatial resolution, [µm]
Time resolution, [ns] RMS
/
limited by the electronics
∼ 1 − 10
<5
Triple-GEM
∼105
∼ 100
∼ 40 − 50
∼ 10
MicroMeGas
∼105
∼ 100
∼ 40 − 50
∼5
MSGC
∼104
∼ 10
∼ 40 − 50
∼ 10
Drift chamber
∼103
∼1
∼ 50 − 150
∼5
MWPC
∼103
∼1
∼ 200
∼ 10
3.2
La camera GEM
La tecnologia GEM è stata introdotta da Fabio Sauli, nel 1997 al CERN [29], come
un amplificatore di elettroni nei rivelatori a gas, pertanto sfrutta lo stesso principio
fisico della camera a ionizzazione descritta precedentemente.
Rispetto ad altri rivelatori, nelle camere GEM la conversione, la moltiplicazione
e le regioni di induzione di segnale sono fisicamente distinte, il che fornisce una
maggiore flessibilità nella geometria di lettura. Inoltre, la possibilità di dividere la
moltiplicazione degli elettroni in più passaggi, permette di ridurre drasticamente i
problemi di scarica elettrica e i processi di invecchiamento [30].
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CAPITOLO 3. TECNOLOGIA GEM
34
Una camera GEM consiste in un rivelatore con all’interno uno o più fogli GEM
immersi in una miscela di gas. Ciascun foglio è costituito da un reticolo regolare
di fori tipicamente da 70 micron in cui è presente un intenso campo elettrostatico.
Gli elettroni di ionizzazione, prodotti dalla particella che attraversa la camera,
vengono convogliati verso i fori da un opportuno campo elettrostatico presente
tra i fogli; nei fori, gli elettroni vengono accelerati dal forte campo elettrostatico
raggiungendo sufficiente energia per ionizzare il gas presente. I nuovi elettroni di
ionizzazione a loro volta subiscono la stessa accelerazione e producono in definitiva
una valanga di moltiplicazione, che tipicamente raggiunge un guadagno di 20 (1
elettrone entra nel foro e ne escono 20).
Possono essere utilizzati vari gas per riempire un rivelatore GEM. La scelta dipende dalle esigenze specifiche, per esempio un guadagno elevato, l’elevata stabilità
o una tensione di basso rendimento. In linea di principio possono essere utilizzati
tutti i gas atti alla moltiplicazione a valanga, ma normalmente vengono preferiti i
gas nobili. La ragione di questa scelta sta nel fatto che nei gas nobili le valanghe si
verificano a valori di campo inferiori rispetto ad altri gas molecolari, oltre ad avere
un’alta ionizzazione specifica. Ciò significa che una particella ionizzante creerà
una elevata quantità di coppie ione-elettrone quando passerà attraverso il gas. La
ionizzazione specifica aumenta con il numero atomico dell’elemento. Questo rende
l’argon uno dei gas preferiti di riempimento per un rivelatore GEM [30]. Il numero
atomico dello xeno e del krypton sono ancora superiori all’argon, ma questi due
gas sono troppo costosi.
Insieme ai gas nobili, ha una grande importanza il quencher, che tende ad
assorbire i fotoni x prodotti nella ionizzazione: quando si verifica una valanga si
ottengono atomi di gas ionizzati ed eccitati e questi ultimi quando tornano al loro
stato fondamentale emettono un fotone. Questo fotone potrebbe innescare nuove
valanghe e creare nuovi scie di plasma, causando delle scariche. Il quencher evita
questo fenomeno, assorbendo i fotoni emessi.
I quenchers sono gas poliatomici in grado di assorbire molta energia e trasformarla in energia, non radiativa, di rotazione e vibrazione delle molecole. Esempi
di ottimi inibitori utilizzati sono il metano, l’etano e l’isobutene. Sfortunatamente
questi gas organici causano depositi di polimeri sugli elettrodi potendo anche causare scariche. Per questo motivo viene utilizzato come inibitore l’anidride carbonica. Una tipica miscela di argon e biossido di carbonio, utilizzato in un rivelatore
GEM, ha un rapporto di 70/30 [30].
3.3
Il foglio GEM
Tipicamente un foglio GEM è composto da due sottili film di rame separati da un
isolante dielettrico in Kapton. Lo spessore del rame varia dal 5-15 micron, mentre
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CAPITOLO 3. TECNOLOGIA GEM
35
l’isolante è di 50 micron. Il foro nel Kapton ha un diametro esterno di 70 micron.
In un rivelatore GEM il foro funge da canale di moltiplicazione per gli elettroni
liberati dalla radiazione ionizzante nella miscela di gas. Applicando una differenza
di potenziale adatta (300-500 V) tra le due parti in metallo, un determinato campo
elettrico viene generato all’interno dei fori. È in questa regione che gli elettroni
acquistano energia sufficiente per sviluppare una valanga che porta ad un guadagno, che, con un singolo foglio GEM, può essere dell’ordine di qualche centinaio.
Naturalmente la geometria GEM, le dimensioni del foro e la distanza tra i fori
sono un compromesso tra l’esigenza di costruzione e il buon funzionamento del
rivelatore [30] [31].
Figura 3.2: Distenze tra i fori GEM e conformazione biconica del singolo foro, con relative
distanze interne [31]
Figura 3.3: Geometria dei fori di un foglio GEM visti al microscopio elettronico [31]
I diametri D (esterno) e d (interno) del foro biconico sono rispettivamente
70 e 50 µm; la distanza P tra i fori è 140 µm, lo spessore della lamina è 50
µm. Al fine di ottenere un guadagno più elevato, la densità delle linee di campo
all’interno del canale di amplificazione, deve essere aumentato incrementando la
differenza di potenziale tra gli elettrodi o riducendo il diametro del foro. Si può
notare in Figura 3.4 la correlazione tra il guadagno e il diametro del foro, misurata
a parità di condizioni (stessa miscela di gas e campo elettrico). Un effetto di
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CAPITOLO 3. TECNOLOGIA GEM
36
Figura 3.4: Guadagno di una GEM in funzione del diametro del foro [30]
saturazione nel guadagno si osserva per diametri al di sotto di circa 70 µm. Ciò
è dovuto alle perdite crescenti di elettroni nella valanga (a causa della diffusione)
verso l’elettrodo inferiore [31]. L’effetto di saturazione ha il risvolto positivo di
ridurre sostanzialmente la dipendenza del guadagno dalla precisione nel processo
di produzione dei fogli GEM [30] [31].
Figura 3.5: Campo elettrico in un foro GEM [31]
Gli elettroni e gli ioni della valanga che si raccolgono e accumulano sulla superficie del Kapton (pile-up), producono un’alterazione del campo elettrico all’interno
dei fori. La migliore geometria del foro, che minimizza questo effetto, è quella
biconica, come è mostrato in Figura 3.2.
Una volta esposte le principali caratteristiche di un foglio GEM, è possibile
iniziare ad illustrare il funzionamento e la struttura di una camera GEM a singolo
foglio, per arrivare alla descrizione di una tripla GEM e i suoi vantaggi.
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CAPITOLO 3. TECNOLOGIA GEM
3.4
37
Single GEM
Il più semplice rivelatore a gas basato sulla tecnologia GEM è il rivelatore di singleGEM, dove un foglio GEM è inserito tra due elettrodi piatti e paralleli. L’elettrodo
superiore svolge il ruolo di catodo mentre quello inferiore di anodo. La sezione trasversale di un rivelatore a singolo foglio GEM è mostrato in Figura 3.6.
Figura 3.6: Configurazione di una single GEM [31]
Il campo di deriva, Ed , è generato tra il lato superiore del foglio GEM e il
catodo, mentre il campo di induzione, EI , tra il lato inferiore del foglio e l’anodo
composto da strip o pad connesse all’elettronica di acquisizione.
Gli elettroni di ionizzazione, prodotti nell’intercapedine derivanti dalla particella
carica che attraversa il rivelatore, seguendo le linee di drift, ovvero un campo
di deriva che raccoglie gli elettroni primari, si muovono verso i fori delle GEM,
dove vengono moltiplicati. La maggior parte degli elettroni moltiplicati vengono
trasferiti nella regione di induzione, dando luogo a un segnale di corrente indotto
sull’anodo.
La struttura del piano di read-out può essere facilmente adattata alle esigenze
sperimentali, utilizzando ad esempio strip di forme arbitrarie collegate all’elettronica di front-end.
Dal momento che il read-out è tenuto a potenziale zero, viene raggiunta una notevole semplificazione dell’elettronica di front-end. Il segnale indotto è dovuto al
moto degli elettroni nella regione di induzione. Il compito del campo di induzione è
quello di estrarre gli elettroni moltiplicati dai fori GEM e di trasferirli verso l’anodo. A bassi valori del campo di induzione, tutti gli elettroni secondari, estratti dai
fori GEM, sono praticamente raccolti sulla parte inferiore delle GEM e il segnale
indotto va riducendosi [31].
Invece, aumentando il campo di induzione, gli elettroni secondari cominciano
ad essere raccolti sull’elettrodo del readout, aumentando il segnale in uscita. Col
campo di induzione molto alto, EI superiore a 8 kV /cm, si possono verificare
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CAPITOLO 3. TECNOLOGIA GEM
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Figura 3.7: Linee di campo elettrico nelle vicinanze di un foro GEM [15]
Figura 3.8: Rappresentazione di una valanga elettronica in un modulo a singola GEM [25]
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CAPITOLO 3. TECNOLOGIA GEM
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delle scariche sull’anodo a causa dell’alto campo elettrico in prossimità dei bordi
dell’elettrodo del read-out.
Figura 3.9: A sinistra: rappresentazione di una valanga elettronica dovuta ad un ragionevole
campo elettrico applicato sia all’ingresso che all’uscita dei fori. A destra: rappresentazione di
un campo di trasferimento eccessivamente alto, alterando o addirittura sopprimendo nella sua
totalità il segnale in uscita [25]
Studi sull’efficienza di raccolta hanno confermato alcuni concetti importanti.
In prima approssimazione è possibile affermare che l’efficienza di trasferimento
decresce per alti valori del campo di deriva, a causa della defocalizzazione delle
linee di campo fuori dai fori. Mentre l’efficienza di estrazione decresce per bassi
valori del campo di trasferimento a causa della peggiore capacità di estrazione degli
elettroni dal lato inferiore della GEM. Tutto ciò è rappresentato nella Figura 3.9.
Infatti, la configurazione ottimale è quella di lavorare con bassi campi elettrici
nella zona di deriva e alti campi all’uscita della GEM [25].
Indipendentemente dal gas usato, un valore del campo di induzione di circa 5
kV /cm è un compromesso ragionevole e permette di raccogliere una grande frazione
(50%) della carica sul PCB (Printed Circuit Board).
Il guadagno intrinseco Gint di un foglio è direttamente proporzionale al voltaggio applicato alle GEM (VGEM ). Questa differenza di potenziale applicata tra le
due parti metalliche del foglio, crea un alto campo elettrico all’interno dei fori e
Gint ∝ eαVGEM dove α è il primo coefficiente di Townsend lungo il percorso degli
elettroni attraverso il foro. Generalmente, il guadagno intrinseco di un rivelatore di
single-GEM è dell’ordine di 5000 ma può diminuire fino a 103 per cause dispersive.
Di conseguenza, il guadagno effettivo risultante è più piccolo di quello intrinseco.
Per un rivelatore GEM possiamo definire due fondamentali quantità, quali [30]:
• Efficienza di raccolta (ǫcoll )
• Coefficiente di estrazione (f extr )
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CAPITOLO 3. TECNOLOGIA GEM
3.4.1
40
Efficienza di raccolta
L’efficienza di raccolta è dato dal rapporto tra il numero di elettroni entranti nei
canali di moltiplicazione e il numero di elettroni primari generati prima del foglio
GEM. Entrambi dipendono dal campo di deriva e dal campo elettrico all’interno
del foro. Alcune simulazioni mostrano che qualche percentuale di elettroni primari
possono disperdersi in due modi: nel primo caso gli elettroni si raccolgono sull’elettrodo superiore del foglio GEM (effetto defocusing) o hanno colpito la superficie
del Kapton all’interno del foro prima di iniziare la moltiplicazione. Questo effetto
potrebbe essere ridotto, diminuendo il campo di deriva o aumentando il campo
elettrico all’interno del foro. Si ricorda, inoltre, che in caso di miscele di gas elettronegativi, possono verificarsi perdite aggiuntive prima della moltiplicazione, per
gli effetti di ricombinazione. Infatti in presenza di tali inquinanti, principalmente
acqua o ossigeno, si può verificare un fenomeno di cattura elettronica. Per evitare
questa ricombinazione vengono utilizzati gas nobili, poiché il loro guscio esterno è
completo, rendendoli inoperosi nella cattura di elettroni extra [30].
3.4.2
Coefficiente di estrazione
La frazione di estrazione, rappresenta il rapporto tra il numero di elettroni estratti
dai fori e trasferiti al successivo foglio e il numero di elettroni che si moltiplicano
dentro i canali di amplificazione.
Come l’efficienza di raccolta, il f extr dipende dal campo elettrico all’interno
del foro e dal campo di induzione oltre il foglio GEM. Anche in questo caso,
studi di simulazione, mostrano che circa il 3% degli elettroni di moltiplicazione
sono intrappolati nella superficie dei fori, dovuto alla diffusione, e circa il 10%
sono ioni catturati nelle vicinanze delle uscite dei fori. Gli elettroni rimanenti di
moltiplicazione, sono raccolti presso l’elettrodo inferiore del foglio o sono trasferiti
alla regione di induzione.
Come illustrato nella sezione precedente, il campo di induzione è fissato intorno a 5 kV /cm per assicurare un buon funzionamento del rivelatore. In questo
caso, una frazione di circa il 50% degli elettroni di moltiplicazione sono persi sull’elettrodo inferiore del foglio e l’altro 50% si dirige verso l’elettrodo di lettura. Si
ottiene una frazione di estrazione totale di circa il 35%. Dai due fattori, f extr e
ǫcoll si introduce il concetto di guadagno effettivo, Gef f , correlato con il guadagno
intrinseco di un foglio GEM, attraverso la seguente relazione:
Gef f = Gintr · ǫcoll · f extr = Gintr · T
(3.1)
dove abbiamo definito la trasparenza degli elettroni T del rivelatore single-GEM
come il prodotto di ǫcoll · f extr . Il massimo guadagno efficacie raggiungibile con un
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CAPITOLO 3. TECNOLOGIA GEM
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rivelatore di single-GEM è dell’ordine di 103 . Un guadagno superiore, fino a 104 ,
105 , può essere raggiunto da quella che viene definita tripla-GEM, assemblando
più di un foglio GEM a distanza ravvicinata [30].
3.5
Operatività in campo magnetico
Fino ad ora si è sempre descritto tale tecnologia in assenza di campi magnetici,
allora, per completezza di argomentazione, si accenna l’operatività di un modulo
GEM immerso in un campo magnetico.
L’inconveniente di tale operatività sta nel fatto che le linee di campo saranno
soggette a distorsioni di diversa entità in funzione dell’intensità del campo. Un
campo molto intenso crea una tale distorsione delle linee di campo da far decrescere
l’efficienza di trasferimento tale da far perdere gran parte del segnale in uscita.
Comunque, con una opportuna scelta dei campi elettrici è ancora possibile ottenere
una buona efficienza di trasferimento. Quindi, le linee di campo non subiranno una
grande distorsione [25], come è possibile osservare nella Figura 3.10.
Figura 3.10: A sinistra: rappresentazione delle linee di campo in assenza di campo magnetico. Al
centro: rappresentazione delle linee di campo in presenza di un campo magnetico perpendicolare
alla direzione di deriva. A destra: linee di campo, dovute a campi elettrici più intensi, in presenza
di un campo magnetico perpendicolare alla direzione di deriva. Come si evince dalle figure, a
campi elettrici più intensi, le linee di campo elettrico subiscono meno distorsioni, aumentando
l’efficienza di trasferimento e quindi il numero di elettroni sul readout [25]
3.6
Tripla GEM
Un rivelatore a tripla-GEM è costituito da tre fogli GEM accatastati e inseriti tra
due elettrodi, un catodo e un anodo. L’uso di tre fogli GEM permette di raggiungere un più alto guadagno, senza richiedere una troppo alta tensione applicata ad
ogni foglio GEM.
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CAPITOLO 3. TECNOLOGIA GEM
42
Figura 3.11: Struttura di un rivelatore a tripla GEM [31]
Le differenze di potenziale applicate tra le varie pellicole GEM sono denominate
tot
VGEM 0 , VGEM 1 , VGEM 2 , e la loro somma VGEM
. La descrizione della camera singleGEM, discussa nella sezione precedente, permette di comprendere il funzionamento
di un rivelatore a tripla-GEM. Lo spazio tra il catodo e il primo foglio GEM agisce
come regione di deriva. Lo spazio tra l’ultimo foglio e l’anodo è la regione di
induzione, dove, dopo la moltiplicazione, in questo caso a causa dei tre fogli GEM,
la carica induce il segnale sull’anodo di read-out.
Per quanto riguarda gli spazi tra i fogli consecutivi, questi vengono chiamati
regioni di trasferimento. Agiscono come regione di induzione, se si riferiscono alla
GEM sovrastante, mentre come regione di drift, se si riferiscono alla GEM inferiore.
Lo scopo del campo di trasferimento è di trasportare gli elettroni secondari prodotti
nei fori da un foglio superiore a quello successivo. Questo implica che il valore del
campo di trasferimento deve essere scelto al fine di massimizzare simultaneamente
la frazione di estrazione da una GEM superiore e l’efficienza di raccolta della GEM
inferiore. La Figura 3.12 rappresenta la corrente indotta sul readout in funzione
del campo di trasferimento per una miscela di gas Ar/CO2 (80/20), per un dato
valore dei campi di drift e di induzione (ED = 2kV /cm; EI = 5kV /cm). Si vede che
per valori bassi del campo di trasferimento (ET < 3kV /cm), il flusso di elettroni è
caratterizzato da una frazione di bassa estrazione.
In realtà, gli elettroni creati vengono estratti dai fori superiori ma sono principalmente raccolti sull’elettrodo inferiore di quel foglio stesso di trasferimento
(vedasi geometria del campo in Figura 3.7). D’altra parte, un alto campo di Trasferimento (ET > 4kV /cm ) implica un’efficienza di raccolta povera a causa di un
elevato effetto defocusing, ovvero gli elettroni di moltiplicazione, provenienti dalla
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CAPITOLO 3. TECNOLOGIA GEM
Figura 3.12: Corrente indotta in funzione del campo di trasferimento [30]
GEM precedente, sono principalmente raccolti sull’elettrodo superiore della GEM
successiva.
Per un rivelatore a tripla-GEM, il guadagno effettivo è dato dal prodotto del
guadagno intrinseco con la trasparenza elettronica totale Q
(Ttot ), dove quest’ultima
è data come il prodotto della trasparenza di ogni foglio ( k Tk ), mentre la prima
tot
è una funzione esponenziale del VGEM
. Quindi il guadagno effettivo (Gef f )del
rivelatore è definito come segue
Gef f = Gintr Ttot =
Y
ehαik ·VGEM k · Tk = ehαi
tot
tot
·VGEM
k=0,2
·
Y
extr
ǫcoll
k fk
(3.2)
k=0,2
dove hαi è la media del primo coefficiente di Townsend, ǫcoll
e fkextr sono l’efficienza
k
esimo
di raccolta e la frazione di estrazione del k
foglio GEM. Poichè il guadagno
effettivo dipende dalla tensione applicata ai tre fogli, è conveniente aumentare la
tensione applicata sul primo foglio GEM riducendo quello applicato sul terzo foglio.
In questo caso, la carica che raggiunge il terzo strato è maggiore, ma l’effetto di
diffusione permette alla nube elettronica di essere ripartita su un numero maggiore
di fori, riducendo la probabilità di scarica. Diversi studi permettono di scegliere
la configurazione GEM che riduce al minimo la probabilità di scarica, ovvero una
configurazione del tipo
VGEM 0 ≫ VGEM 1 ≥ VGEM 2
(3.3)
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CAPITOLO 3. TECNOLOGIA GEM
3.7
44
La scarica elettrica
Un difetto nel foglio GEM, come i fori non geometricamente regolari, gli spigoli
ma anche micro particelle (polveri) all’interno dei fori, possono dare origine ad
una scarica elettrica. Quest’ultima sarà visibile come una scintilla sul foglio. Si
potrebbe anche ottenere una scarica quando le condizioni di lavoro sono buone,
ovvero con un foglio in ottime condizioni e un buon flusso di gas; in queste condizioni una scarica può originarsi quando le valanghe create all’interno dei fori GEM,
raggiungono il limite di Raether [30].
Figura 3.13: Principale formazione di una valanga elettronica, con gli elettroni più veloci in testa
e una coda protonica più lenta
Precisamente, si ha di solito che, durante la formazione della valanga, il guadagno è minore di 106 , ma se il numero di coppie di ioni aumenta ulteriormente,
per esempio a causa dell’aumento della tensione esterna applicata agli elettrodi,
che accelera ulteriormente le cariche, il campo elettrico è perturbato da quello
che si forma internamente per effetto della presenza delle stesse cariche create in
grandissima quantità (ossia della presenza della cosiddetta âcarica spazialeâ) nel
gas. A quel punto, quando le coppie create raggiungono un valore critico vicino al
limite di Raether (dell’ordine di 108 coppie di ioni), si forma una concentrazione
tale di cariche sotto forma di valanghe meno contenute, dette scie (streamer ).
Queste valanghe secondarie vengono attirate verso quella primaria a causa della
coda formata da ioni positivi, iniziando a formare lo streamer [9]. Nello sviluppo
della valanga hanno un ruolo fondamentale i fotoni che vengono prodotti durante
i fenomeni di eccitazione (per collisione) degli atomi o molecole. I fotoni emessi
con una certa energia riescono a ionizzare gli atomi degli elettrodi e quando questo
avviene sul catodo, gli elettroni espulsi formeranno valanghe secondarie, che sono
attratte verso la coda positiva dello streamer [9]. In questo modo lo streamer si
avvicina al catodo fino a toccarlo.
Non appena la testa dello streamer tocca l’anodo, si formerà una striscia di plasma tra il catodo e l’anodo, innescando a quel punto una scarica, visibile come una
scintilla [31]. Dunque, la tensione applicata alle GEM gioca un ruolo fondamentale
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CAPITOLO 3. TECNOLOGIA GEM
45
Figura 3.14: Rappresentazione di uno streamer [31]
per la formazione delle valanghe, ovvero del guadagno, e per la formazione delle
scariche sui fogli. Nel grafico che segue (Figura 3.15) sono riportati i guadagni di
3 configurazioni di GEM al variare della tensione applicata ai due lati del foglio
GEM. Dal grafico si nota che il guadagno effettivo di una tripla GEM, rispetto ad
Figura 3.15: Guadagno in funzione della tensione in singola, doppia e tripla GEM [25]
una doppia, è molto più alto a parità di tensione elettrica applicata. Si parla di
un guadagno di circa 105 rispetto a un 103 della doppia, con una tensione di circa
400 V. Per quanto concerne la singola GEM, è necessario applicare una tensione
molto elevata per ottenere un guadagno di 103 , aumentando significativamente la
probabilità di scarica, come mostrato in Figura 3.16 . Dunque, il guadagno, per
una generica camera GEM, aumenta al crescere della tensione elettrica applicata,
tenendo conto che un eccessivo voltaggio porta ad una scarica. La Figura 3.17
infatti combina i dati della Figura 3.15 e della Figura 3.16 e mostra la probabilità
di scarica in funzione del guadagno effettivo per le tre tipologie di camera GEM.
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CAPITOLO 3. TECNOLOGIA GEM
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Figura 3.16: Probabilità di scarica mediante esposizione a particelle alfa in funzione della tensione
applicata a ciascuna GEM [25]
L’utilizzo del rivelatore multi-GEM permette di aumentare di gran lunga il guadagno mantenendo le tensioni applicate ai singoli fogli a valori sufficientemente bassi
da ridurre la probabilità di scarica. Naturalmente con l’aumentare del numero di
fogli GEM aumenta la complessità del rivelatore (e il costo).
Figura 3.17: Probabilità di scarica mediante esposizione a particelle alfa in funzione del guadagno
per singola, doppia e tripla GEM [25]
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CAPITOLO 3. TECNOLOGIA GEM
3.8
47
Il piano di read-out
Il tipico piano di read-out è formato da un foglio di Kapton ramato da un lato,
con un disegno che può essere a pad (Figura 3.18) o a strip (o più strati di strip
interposte ad un determinato angolo).
Nello specifico, il read-out a più strati (layers) si può trovare in 2 configurazioni
diverse: la prima a doppie strip poste a 90◦ e la seconda a doppie strip a 45◦ .
La prima configurazione è quella utilizzata per le GEM di questa tesi (quindi
le GEM per JLab). Infatti, il read-out è formato da strip di rame spesse 0.5 µm
disposte in maniera reticolare a 90◦ l’una con l’altra e sono state realizzate (causa
campo elettrostatico) in modo tale da poter raccogliere una uguale distribuzione di
carica per le due coordinate x e y. In entrambi i layers, le strip hanno un’estensione
di 400 µm (Figura 3.19 a sinistra), poiché non deve essere più larga della sezione
trasversale della nuvola elettronica incidente sulle strip, che corrisponde a circa
500 µm [15].
Mentre la seconda configurazione utilizza un sistema di coordinate nelle direzioni U/V, ovvero le strip sono disposte nelle direzioni di 45◦ /−45◦ rispetto ad un
ipotetico asse x se si immagina un read-out suddiviso in 4 quadranti da un comune
sistema di riferimento x/y centrato nell’origine [25].
Figura 3.18: Read-out a pad esagonali interconnesse lungo tre le direzioni U,V e W [25].
Il vantaggio di utilizzare un sistema in coordinate U/V è quello di poter distinguere e ricostruire 2 eventi simultanei con una buona risoluzione spaziale. Di
contro, però, l’estrazione del segnale, ovvero le connessioni delle strip all’elettronica, la differenza di lunghezza delle strip centrali rispetto a quelle vicino gli angoli
del read-out (strip più corte) e, in generale, la realizzazione del piano di un sistema
di coordinate U/V è molto più complessa rispetto a quella X/Y. Dato che, secondo
le attuali simulazioni Monte Carlo, utilizzare le camere con le coordinate U/V al
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CAPITOLO 3. TECNOLOGIA GEM
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posto delle X/Y non migliora in modo significativo la qualità del tracciamento,
allora, è stato deciso di utilizzare un read-out nelle coordinate X/Y.
Figura 3.19: A sinistra: geometria delle strip del piano di readout nelle coordinate X/Y. A
destra: rappresentazione di un foglio GEM sovrapposto al piano di readout [15]
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CAPITOLO 3. TECNOLOGIA GEM
3.9
3.9.1
49
Configurazione GEM per SBS
Geometria GEM
Sei identiche camere GEM saranno montate consecutivamente con un’area attiva
di 40 x 150 cm2 per formare il front tracker dell’SBS (Figura 3.20). Ogni camera
è composta da tre moduli a tripla GEM, disposti in maniera adiacente. Per ogni
modulo, l’elettronica di front-end è allocata su quattro backplane attorno al foglio
stesso. Uno dei quattro è posizionato a 90◦ rispetto alla camera e tra due moduli
vicini, come mostrato in Figura 3.21. Per tenere insieme i tre moduli GEM con
tutta l’elettronica associata è stato creato un supporto ad hoc in fibra di carbonio
[8] [32].
Figura 3.20: Geometria del front tracker GEM chamber. Da sinistra a destra: un singolo modulo
GEM 40 x 50 cm2 , un frame di supporto per tre moduli GEM consecutivi (40 x 150 cm2 ), un
piano di readout (Read Out Board) con strip nelle direzioni U/V e un piano di readout (Read
Out Board) con strip nelle direzioni X/Y [15]
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CAPITOLO 3. TECNOLOGIA GEM
50
Figura 3.21: Rappresentazione 3D delle posizioni dei backplane (in verde) in una camera assemblata. Si notano, nella zona centrale, i 2 backplane posti a 90◦ tra le GEM adiacenti
[32]
Figura 3.22: Moduli a tripla GEM all’interno di un supporto in alluminio in fase di assemblaggio
per realizzare un prototipo del front tracker per SBS. Si notano i backplane montati ai 4 lati del
modulo in primo piano.
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CAPITOLO 3. TECNOLOGIA GEM
51
Figura 3.23: Prototipo di un tracciatore per SBS composto da tre moduli a tripla GEM montata
su un supporto in alluminio, con area attiva di 40 x 150 cm2 ed elettronica di front-end allocata
sui backplane attorno ai moduli.
3.9.2
L’elettronica di front-end
Le carte di front-end utilizzate sono 18 per modulo e sono distribuite lungo i
quattro lati del frame. I connettori, con 77 pin, saranno saldati sulle carte di
front-end, ognuno dei quali è connesso a 128 canali del read-out, attraverso un
Flexible Printed Circuit (FPC) che sarà piegato di 90◦ sul lato del frame adiacente
al modulo GEM seguente [32].
Ogni carta di front-end (FEC) contiene un chip APV25 (Analogue Pipeline
Voltage), sviluppato da Imperial College London per i rivelatori a silicio di CMS
ed esperimenti a LHCb. Questo chip APV25 è un pipeline ASIC (Application
Specific Integral Circuit) analogico con un output seriale. Esso è stato progettato per tollerare alte quantità di radiazioni incidenti (almeno 10 Mrad), infatti
testato sotto la radiazione di una sorgente di 137 Cs ha mostrato una degradazione
minima. La dose assorbita in questo test è stata pari a 0.36 Mrad, corrispondente
approssimativamente a 4.5 anni di esperimenti a JLab [32] [33].
L’APV25 ha 128 canali, ognuno contenente un preamplificatore e uno shaper
con un tempo di picco di 50 ns, seguito da 192 celle di memoria analogica in
cui viene memorizzata la carica processata dal chip ad una frequenza fino a 40
MHz. Un sample pertanto corrisponde alla carica raccolta sulle strip del read-out
durante un periodo di campionamento di 25 ns o 75 ns. In pratica, un modulo
MPD (Multi-Purpose Digitizer) gestisce fino a 16 carte di front-end, per un totale
di 2048 canali. Pertanto, è prevista l’acquisizione di 3 o 6 sample consecutivi, in
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CAPITOLO 3. TECNOLOGIA GEM
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modo tale da poter acquisire l’evoluzione temporale del segnale in esame.
Il tempo tra l’evento e l’arrivo del trigger alla carta di front-end viene chiamato
latency, che viene utilizzato per definire quanto tempo il chip deve tornare indietro
nella sua memoria per andare a trovare il segnale corrispondente all’evento [15] [32].
Figura 3.24: Una carta di front-end con il suo chip APV25 [32]
3.9.3
L’elettronica
La catena elettronica di read-out di un modulo GEM consiste in:
• 18 carte di front-end, allocate in 4 backplanes poste ai lati del frame di un
modulo;
• 4 backplane per ogni modulo che rappresentano una parte di elettronica
essenzialmente passiva, di collegamento e per la distribuzione dell’alimentazione delle carte e allo stesso tempo agiscono da supporto meccanico per le
schede di front-end;
• 2 moduli Multi-Purpose Digitizer (MPD), ognuno dei quali raccoglie gli output analogici delle carte allocate su 2 backplane (precisamente 5 e 4 carte)
attraverso dei cavi HDMI.
Ogni modulo MPD contiene una Altera ARRIA GX FPGA (Field Programmable
Gate Array), ovvero un circuito integrato le cui funzionalità sono programmabili via software e consentono l’implementazione di funzioni logiche con una certa
complessità. Questi moduli generano anche un segnale digitale che verrà utilizzato
per l’acquisizione dei dati su computer. La catena elettronica di read-out è schematizzata in Figura 3.25 per un singolo front-end card [32] [33].
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CAPITOLO 3. TECNOLOGIA GEM
53
Figura 3.25: Schema della catena elettronica di readout [15]
Figura 3.26: Modulo Multi-Purpose Digitizer utilizzato per il sistema di acquisizione dati dei
tracciatori GEM [33]
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CAPITOLO 3. TECNOLOGIA GEM
Figura 3.27: Primo piano delle 5 schede di front-end montate su un lato del modulo GEM
connesse al read-out attraverso i Flexible Printed Circuit.
3.10
Il segnale APV
3.10.1
Ampiezza e sviluppo temporale del segnale
Come detto nel paragrafo precedente, l’evoluzione temporale di un generico segnale
processato dal chip viene acquisita attraverso 3 o 6 sample temporalmente separati
da 25 ns o 75 ns. Nel nostro caso si è utilizzato un processo di memorizzazione a
6 sample in un periodo di campionamento totale di 125 ns.
Un tipico segnale APV, in presenza di poco di rumore, è mostrato in Figura 7.1,
dove sono riportati i 6 sample campionati ogni 25 ns: in ascissa sono riportati i
tempi (ns) e in ordinata i valori di carica raccolta dal singolo canale (strip) in unità
ADC1 )
Per ogni singolo evento, è possibile studiare l’evoluzione temporale del segnale
associato. Attualmente, questa viene studiata attraverso l’utilizzo di una funzione
di fit che bene approssima un tipico segnale APV. La funzione adoperata per il fit
è un doppio esponenziale multi-parametrico, dove i parametri dipendono proprio
dalle caratteristiche dei sample in esame. La funzione è la seguente [32]
A(1 − e
−
(t−t0 )
τ1
)e
−
(t−t0 )
τ2
(3.4)
dove t0 è il tempo di inizio del segnale, τ1 e τ2 rappresentano il tempo di salita
1
Anolog to Digital Converter
ADC
GEM pulse 1
1000
800
600
400
200
0
0
20
40
60
80
100
120
time [ns]
Figura 3.28: Esempio di un segnale APV di un modulo GEM 40x50 cm2 generato da protoni
da 2.8 GeV. Si può notare la distribuzione temporale di carica di un hit campionato ogni 25 ns,
ciascino punto rappresenta un sample di campionamento di carica, espressa in unità di ADC.
e di discesa del segnale e A è l’ampiezza [32]. Questo metodo di studio fondato sul fit può essere considerato attendibile e abbastanza affidabile nei risultati,
quando il segnale in esame è preso in condizioni ottimali, cioè quando il segnale
studiato è affetto da poco rumore, in modo tale che i punti giacciono quasi sul
fit, come mostrato nella Figura 3.29. Tale metodo inizia, però, a fallire quando i
segnali uscenti dalle strip sono affetti da rumore non trascurabile, e quindi, in tali
condizioni, la funzione di fit non approssima più i punti in maniera attendibile,
alterando i valori dei parametri da esaminare. Nei capitoli 6 e 7 si riprenderà più
approfonditamente questa problematica, introducendo un metodo del tutto nuovo
per l’analisi temporale dei segnali, cioè un’analisi temporale, del tutto preliminare,
realizzata attraverso la Programmazione Genetica (GP).
GEM pulse good
ADC
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55
CAPITOLO 3. TECNOLOGIA GEM
1000
800
600
400
200
0
0
20
40
60
80
100
120
tempo
Figura 3.29: Esempio di un segnale poco rumoroso fittato con la funzione doppio esponenziale
multi-parametrica.
3.10.2
Il rumore associato
Il rumore associato al segnale di ciascun canale viene stimato attraverso l’RMS
(Root Mean Square) del piedistallo (rumore in assenza di segnale). Valori tipici
di RMS, per le schede di front-end in un recente test (Jülich 2014) con fascio di
protoni da 2.8 GeV, sono mostrati in Figura 3.30.
ADC
RMS of Pedestal vs ft.ach (run 359)
100
80
60
40
20
0
2000
4000
6000
8000
10000
12000
14000
16000
18000
20000
22000
channel card (x/y)
RMS
hrms
count
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56
CAPITOLO 3. TECNOLOGIA GEM
10
Entries
Mean
RMS
3
20480
22.82
8.759
102
10
1
20
40
60
80
100
120
140
160
180
ADC
Figura 3.30: Piedistallo delle carte di front-end del run 359, nei test eseguiti con fascio di protoni
da 2.8 GeV (Jülich 2014). Nel plot in alto è raffigurato la carica in ADC associata ad ogni
carta in assenza di eventi. Ogni colonna rappresenta il numero di carte analizzate e precisamente
due colonne adiacenti sono composte da 4 e 5 carte. Quindi, una coppia di 2 colonne adiacenti
rappresentano le carte di un modulo GEM. Pertanto 16 colonne plottate per un totale di 4 moduli
GEM. Il plot in basso rappresenta la distribuzione della carica in unità ADC, con un valor medio
di circa 22 unità ADC.
Considerando che una singola unità ADC corrisponde a circa 100 elettroni [32],
si intuisce facilmente quanto rumore possono trasportare i segnali, anche in assenza
di eventi sperimentali. Tale rumore è il risultato di diverse cause agenti sul sistema
di acquisizione, a partire dalle singole strip delle camere che possono agire come
antenne di pick-up di rumore elettromagnetico, il rumore intrinseco dell’elettronica,
le distorsioni introdotte dai lunghi cavi che trasportano il segnale e le differenti
condizioni ambientali [32]. Quindi, alla luce di ciò, lo studio dei segnali sarà
accompagnato, in alcuni casi, da una determinata incertezza dipendente proprio
dalla rumorosità presente durante la raccolta della carica.
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Capitolo 4
Realizzazione del modulo GEM
4.1
Il tendigem
Il singolo modulo GEM, come già scritto precedentemente, è costituito dall’impilaggio (sandwich) di 3 fogli generalmente separati da 2 mm di gas. Questa distanza
deve essere mantenuta entro qualche percento al fine di mantenere i campi elettrostatici sufficientemente uniformi e costanti nel tempo, evitando che si creino regioni
più suscettibili ad una scarica, ovvero disuniformità spaziali del segnale raccolto e
naturalmente impedire che i fogli possano venire a contatto creando un cortocircuito. Pertanto, per adempiere a tali richieste, si è reso necessario realizzare un
dispositivo meccanico (tendiGEM ) per tendere al meglio i fogli GEM.
Il tendiGEM è basato su sensori di forza, ovvero celle di carico, adoperate per
impostare la corretta trazione sui diversi lati del foglio. Il tendiGEM è formato
da una piastra in alluminio di grandezza 60x60 cm2 (piastrone) sopra la quale è
collocata, leggermente decentrata, una seconda piastra, anch’essa in alluminio di
grandezza 40x50 cm2 .
Il piastrone viene rivestito da una sottile pellicola in Mylar e serve da supporto
a tutto il sistema meccanico, mentre la piastra fa da base al foglio GEM per una
maggiore assistenza alla trazione.
La piastra è circondata da 14 morsetti (clips) sui quattro lati e 7 celle di carico,
su due lati. Le clips, sono distribuite 3 per ogni lato corto della piastra e 4 per
ogni lato lungo, invece i sensori sono ripartiti 3 in un solo lato corto e 4 in un solo
lato lungo. L’immagine seguente, Figura 4.1, rappresenta la struttura meccanica
del tendiGEM [31]. I componenti a forma di S, sono le celle di carico. Il foglio
GEM è fermato nel tendiGEM utilizzando le clips. Le 14 clips, contrassegnate da
numeri, sono tutte agganciate al foglio, e la metà di esse sono anche congiunte alle
celle di carico.
L’inserimento del foglio GEM tra le morse delle clip è una procedura delicata,
57
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CAPITOLO 4. REALIZZAZIONE DEL MODULO GEM
58
Figura 4.1: Struttura meccanica del tendiGEM all’interno della camera pulita dell’INFN della
Sezione di Catania. Si notano le 7 celle di carico, 4 a sinistra e 3 sulla destra, ognuna provvista
di una vite micrometrica regolatore di trazione in ottone
Figura 4.2: A sinistra: morsetto aperto prima dell’inserimento del foglio GEM. A destra:
morsetto chiuso con foglio GEM inserito [31]
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CAPITOLO 4. REALIZZAZIONE DEL MODULO GEM
59
poiché bisogna maneggiare con molta cura il foglio onde evitare possibili pieghe
o increspature. Una volta finito l’inserimento, si procede alla tensione meccanica
del foglio. Per adempiere questo lavoro bisogna iniziare a tirare una coppia di
morsetti per volta (di solito opposti) in modo tale da stirare il foglio nel modo
più regolare possibile. Per una corretta trazione, si sono eseguite diverse prove
affinché si giungesse ad una buona sequenza tra i morsetti fissi nel tendiGEM e
quelli connessi ai sensori. Questa procedura è tenuta sotto controllo attraverso un
software, chiamato JBOX, associato alle 7 celle di carico installate sul tendiGEM.
Il JBOX visualizza la trazione applicata ad ogni cella di carico in modo tale
da poter regolare e distribuire opportunamente i carichi sul foglio e apportare, in
caso di necessità e in tempo reale, le giuste modifiche ove necessario. La Figura 4.3
mostra uno screenshot del software utilizzato durante il suo funzionamento.
Quando un foglio è giunto al livello di trazione prefissato (circa 6 Kg per cella),
Figura 4.3: Visualizzazione del software di controllo dei carichi applicati alle varie celle del
tendiGEM, durante la fase di trazione del foglio. Come è possibile notare, i carichi applicati si
aggirano intorno ai 6 Kg per cella.
si passa alla fase successiva del lavoro, ovvero l’incollaggio della griglia di separazione (frame) con il foglio. Per questa procedura il tendiGEM gioca un ruolo
fondamentale, poiché si sfrutta la piastra in alluminio, che fa da supporto, e la
tensione meccanica del foglio GEM appena ottenuta. Dunque, questo sistema
meccanico costituisce l’elemento base per la costruzione di una camera GEM. Le
Figura 4.4 mostra l’applicazione del frame di separazione e il foglio GEM, estratto
dal tendiGEM, già tirato e bloccato dai frame di supporto [31].
Il frame, dopo aver applicato, lungo il suo bordo, della colla adatta per il tipo
di incollaggio, viene adagiato sul foglio. Per tale operazione è richiesta un’alta
precisione, poiché un errato posizionamento potrebbe non far coincidere tutte le
varie guide esistenti tra il frame, il foglio e la piastra. Pertanto vengono utilizzate
le spine guida e dei blocchetti metallici per evitare movimenti indesiderati del
frame. Passate le 24 ore necessarie affinché il collante si indurisca, il duo foglio-
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CAPITOLO 4. REALIZZAZIONE DEL MODULO GEM
60
Figura 4.4: A sinistra: Applicazione della griglia di separazione sul foglio GEM, mentre quest’ultimo è riposto all’interno del TendiGEM. A destra: Foglio GEM già trazionato ed incollato al
frame di supporto.
frame può essere incollato alla parte di camera già assemblata (si parte dal piano
di honeycomb e il foglio di readout). Indurito il collante si può rimuovere l’intero
assemblato sganciando dalle prese delle clip il foglio GEM, prelevato, sempre con
molta cautela, e riposto all’interno di una teca in plexiglass, rimanendo in attesa
della costruzione dei pezzi successivi [31].
4.2
4.2.1
Sistema di controllo
Architettura generale del sistema di controllo del
TendiGEM
L’obiettivo di un sistema di controllo è quello di creare una corretta tensione
meccanica su un foglio, prima di essere accoppiato con un frame di separazione.
Nel tendiGEM è richiesta una certa precisione dei valori di uscita, per questo viene
utilizzato un sistema closed loop1 , basato su determinati sensori di forza [31].
Il sistema di controllo utilizzato nel tensionatore è rappresentato dallo schema
a blocchi riportato nella Figura 4.5
Si può notare che si tratta effettivamente di un sistema di controllo elettronico
closed loop. Il controllo basato su sensori, utilizza delle celle di carico che misurano la tensione meccanica in un punto e lo confrontano con il livello di stretch
desiderato. Quando la vite viene messa in movimento, la trazione del GEM-foil
1
In un sistema a catena chiusa, l’output dell’apparato da controllare viene continuamente
valutato in modo da modificare opportunamente l’ingresso del sistema stesso, se l’output non è
quello desiderato. Tali sistemi vengono utilizzati quando è richiesta una grande precisione dei
valori in uscita.
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CAPITOLO 4. REALIZZAZIONE DEL MODULO GEM
61
Figura 4.5: Sistema closed loop del TendiGEM [31]
cambierà, di conseguenza il sensore sarà anch’esso soggetto ad un’altra misura di
stretch e invierà il corrispondente segnale ad un determinato dispositivo di acquisizione (ACQuisition box ). Quest’ultimo tramuta i valori, inviati dalle celle, in un
segnale elettrico e li trasferisce al computer. Il JBOX mostrerà il carico corrente
applicato ad ogni singola cella, mettendo in mostra quanto i valori visualizzati siano più o meno vicini a quelli desiderati. Cosı̀ facendo, ruotando la vite nella giusta
direzione, è possibile ottenere il valore cercato [31]. Nella Figura 4.6 è raffigurato
uno schema semplificato del set-up del sistema di controllo del tendiGEM.
Come si può ben notare, i principali componenti di tale sistema sono il tendi-
Figura 4.6: Set-up del sistema di controllo
GEM, le celle di carico e l’ACQ box. Quindi, data la grande importanza di questi
componenti, si riporta di seguito le caratteristiche fondamentali di ogni singolo costituente, in modo tale da poter acquisire una maggiore consapevolezza sul
funzionamento del suddetto sistema di controllo.
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CAPITOLO 4. REALIZZAZIONE DEL MODULO GEM
4.2.2
62
ACQ-Box
Il box di acquisizione interfaccia le varie celle di carico con un software sul computer. Un cavo schermato, che riesce a trasferire con buona accuratezza la corrente
prelevata da una cella, viene utilizzato per connettere il sensore al box.
Il Box ACQ presenta otto connettori, dove ogni connettore viene utilizzato per
collegare una singola cella di carico. Poichè il tendiGEM utilizza solamente sette
sensori per la trazione di un foglio, un ingresso del box è lasciato libero e quindi
messo a disposizione [31].
All’interno dell’ACQ-Box, vi è la presenza di due I-box 2000, ovvero schede di
acquisizione dati, in particolare ogni scheda è dotata di 4 canali di conversione
analogico-digitale e porte di comunicazione seriali. Viene misurata la differenza di potenziale nelle celle di carico e questi dati verranno trasferiti tramite una
porta COM al computer per essere visualizzati tramite il programma JBOX. Quest’ultimo mostra la tensione meccanica attuale sulle celle di carico, permettendo
un’eventuale correzione in tempo reale dello stretch.
Ma prima di adoperare questo programma come sistema di controllo, il JBOX può
essere utilizzato per visualizzare la tensione meccanica su una singola cella e la
rispettiva risposta sul computer, ovvero essere utilizzato per calibrare la cella di
carico.
Figura 4.7: Schema e visione interno del Box ACQ [31]
La calibrazione è l’operazione in cui uno strumento di misura viene regolato in
modo da migliorarne l’accuratezza. L’operazione richiede il confronto con delle misure di riferimento prodotte utilizzando uno strumento campione. Per visualizzare
una corretta tensione, bisogna eseguire alcuni passaggi fondamentali [31]:
• impostare quanti canali sono collegati con le celle di carico (tra 2 e 8);
• calibrare la cella di carico. Il valore di tensione è impostato sullo 0 quando
non c’è nessun peso di riferimento. L’altro punto è una certa tensione per un
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CAPITOLO 4. REALIZZAZIONE DEL MODULO GEM
63
certo peso di riferimento. Ulteriori informazioni sulla calibrazione si trovano
in seguito;
• la trazione può essere mostrata in kg o V;
viene visualizzato anche il peso totale dei diversi canali e quante cifre decimali
vogliamo osservare. Tutte modificabili tramite il pannello delle impostazioni.
4.3
Calibrazione celle di carico
Per utilizzare le celle di carico è di fondamentale importanza la loro calibrazione.
Ogni sensore risponderà con una resistenza meccanica diversa per ogni determinata
forza applicata. Per questo motivo è necessario capire il comportamento di questa
opposizione alla deformazione, in base all’aumento o alla diminuzione della forza
o tensione. La Figura 4.8 mostra il rapporto tra la tensione e il peso per una cella
di carico.
La calibrazione nel punto di origine (0,0), il primo punto (rosso), rappresenta il
valore in assenza di tensione applicata sulla cella di carico. Il secondo punto (verde)
mostra il valore della tensione quando vi è un carico di riferimento applicato al
sensore, nel nostro caso da 20 kg. Questo punto verde e l’inclinazione della relativa
retta rappresentano il comportamento lineare della cella. Il peso di riferimento è
scelto da 20 kg perchè i risultati siano più accurati, ciò si ha quando la differenza
tra i 2 carichi di riferimento è sufficientemente grande. La retta che passa per i
due suddetti punti rappresenta la curva di riferimento, grazie alla quale è possibile
individuare la tensione applicata al foglio quando un certo peso deforma la cella di
carico. Questa procedura funziona anche con due soli punti poiché le celle hanno
un comportamento estremamente lineare. La tensione è collegata alla massa grazie
Figura 4.8: Comportamento lineare tensione-massa [31]
alla formula F = ma. La forza sulla cella di carico (tensione) è data dalla massa del
carico di riferimento e dalla forza di gravità. Il sistema utilizzato per la calibrazione
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CAPITOLO 4. REALIZZAZIONE DEL MODULO GEM
64
dei sensori di forza è quello illustrato in Figura 4.9 a sinistra. La cella di carico è
fissata al tavolo e tramite un cavo di nylon viene agganciato un peso di riferimento.
Sul carico di riferimento agirà la forza peso che stimolerà il sensore. Questa forza
Figura 4.9: A sinistra: schema di calibrazione cella. A destra: isteresi elastica dovuta alla
deformazione residua sulla cella di carico una volta calibrata [31]
sarà la tensione che agirà sulla cella di carico. Al fine di creare la retta di riferimento
massa/tensione, è necessario conoscere quale massa di riferimento si traduce in una
ben determinata tensione. Pertanto, viene registrato prima di tutto il punto zero.
In assenza di carico di riferimento agganciato, la tensione è impostata sullo 0.
Quando un carico di riferimento da 20 kg è appeso al cavo di nylon, il valore di
tensione registrato dal software viene definito come carico massimo. Poichè la retta
di riferimento è lineare, i due punti cosı̀ determinati sono sufficienti per creare il
grafico massa/tensione cercato. Cosı̀ facendo, la cella di carico è calibrata. Si ripete
la stessa procedura per tutte le altre celle, tenendo presente che dopo ogni taratura
bisogna far passare qualche minuto prima di iniziare una nuova calibrazione, per
eliminare problemi di isteresi elastica ovvero deformazione residua Figura 4.9 a
destra.
4.4
4.4.1
Il controllo di qualità
Test elettrico dei fogli GEM
Prima che un foglio GEM venga inserito in un rivelatore, ne viene verificata la
qualità con procedure di âquality check â che cercano di evidenziare le possibili
anomalie dello stesso, sia elettriche che di fabbricazione. Per il controllo di qualità
adottato, un foglio GEM deve essere collocato all’interno di una teca in plexiglass,
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CAPITOLO 4. REALIZZAZIONE DEL MODULO GEM
65
in cui viene flussato azoto, al fine di ridurre il livello di umidità e fornire un
ambiente stabile e riproducibile.
Lo scopo del test di qualità, è di verificare la dispersione di corrente attraverso
lo strato di Kapton, quando una tensione, fino a circa due volte la tensione di lavoro
(∼ 550 V), viene applicata sui due strati di rame per un tempo sufficientemente
lungo da stabilizzare il campo elettrostatico intorno e all’interno del foglio GEM.
Un comportamento anomalo durante il test può indicare la presenza di certi
difetti del foglio; a questo proposito il test gioca un ruolo fondamentale nel controllo della qualità. Queste anomalie possono essere causate da microparticelle che
rimangono bloccate nei fori GEM e influenzano il comportamento del foglio. A
volte questo comportamento inconsueto può essere risolto flussando azoto sul foglio per qualche minuto, ripulendo i fori dalle impurità. Se questo non ha l’effetto
desiderato, il foglio viene ispezionato visivamente con un microscopio per osservare eventuali difetti di fabbricazione. Se viene riscontrato un difetto di fabbrica il
problema diventa serio, poiché non è semplice il recupero della porzione danneggiata, con il rischio di dover isolare il settore, se circoscritto in un piccolo spazio, o
nella peggiore delle ipotesi sostituire il foglio GEM per intero. Se l’ispezione visiva
restituisce esiti positivi, allora il foglio è pronto per essere ritestato elettricamente.
L’area attiva del foglio è suddivisa in 20 settori, 2 file da 10 settori. La prova
può essere eseguita settore per settore o sulla GEM per intero. In quest’ultimo
caso, se i resistori di protezione non sono ancora stati saldati, è possibile collegare
tutti i 20 settori insieme usando lungo ciascun bordo 10 connessioni.
Nel nostro caso, il test elettrico è stato eseguito settore per settore. La connessione
elettrica sulle GEM viene assicurata mediante delle punte montate su bacchette
di PVC, bloccati su supporti di bachelite che assicurano la distribuzione dei pesi
in modo uniforme.
I test, effettuati all’interno della camera pulita dell’INFN della Sezione di Catania, dei fogli GEM sono stati eseguiti utilizzando un’alimentatore CAEN N1471,
che applica la tensione richiesta ai fogli e un elettrometro Keithley 6517B che ne
misura la corrente di dispersione, il tutto ulteriormente controllato e registrato in
remoto da un software in LabVIEW, per eventuali analisi offline, come mostrato
in Figura 4.10.
Il dispositivo CAEN è in grado di generare una tensione fino a 5500 V e le
correnti misurate dal Keitley possono andare da 10−18 A fino a 20 mA. La tensione
viene portata repentinamente fino ad un valore di 550 V (ramp-up 1-500 V/s) e
si controlla la corrente di dispersione. Se il settore risponde positivamente allo
stress elettrico, non si dovrebbe registrare alcuna corrente rilevante, ma qualcosa
dell’ordine di 10−9 A, ovvero la corrente visualizzata dovrebbe stabilizzarsi sotto
1 nA. Tale tensione viene mantenuta costante per 5 minuti, al fine di verificare
la stabilità del foglio ed, eventualmente, eliminare impurità aderenti al foglio, che
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CAPITOLO 4. REALIZZAZIONE DEL MODULO GEM
66
Figura 4.10: A sinistra: Postazione per il controllo elettrico dei fogli GEM, dove si nota la teca
con all’interno il foglio da testare, l’alimentatore CAEN e sopra di esso il Keitheley. La lettura
dei valori misurati della tensione e della corrente è possibile farla direttamente dallo strumento in
questione. Il tutto viene contemporaneamente registrato tramite software in remoto. A destra:
Box riempito con azoto e foglio GEM inserito pronto per il test elettrico
possono essere bruciati dalla tensione ed evacuati dal flusso di gas (âcuraâ del
foglio). Trascorsi i 5 min, la tensione viene abbassata fino a 450 V e mantenuta
costante per altri 5 min. La corrente registrata non dovrebbe cambiare rispetto a
quella registrata precedentemente, ovvero rimanere sotto 1 nA. Se durante il test
la corrente di dispersione dovesse aumentare constantemente, si rischia di andare
incontro a condizioni di scarica elettrica e danneggiamento, anche irreversibile, del
foglio GEM. In questi casi il software è predisposto ad una operazione di sicurezza
che interrompe istantaneamente la tensione erogata, staccando tutti i dispositivi
elettronici, in modo tale da salvaguardare il foglio. Quindi, se non si riscontrono
problematiche di scarica elettrica durante tutta la procedura, il test può essere
considerato superato pienamente, viceversa bisogna tentare un recupero del settore mal funzionante o, nei casi peggiori, isolare il settore. Una delle cause di
eccessiva dispersione di corrente potrebbe essere un problema causato da difetti di
fabbricazione. Nelle aspettative, in definitiva, la corrente deve rimanere pressochè
costante attorno a ± 0,5 nA. A titolo di esempio, si riportano i risultati di un test
elettrico sui 20 settori di un foglio GEM, e precisamente in Figura 4.11 e in Figura 4.13 vi sono rappresentate le dispersioni di corrente nel tempo, rispettivamente
per primi 10 settori e i secondi 10 settori. Mentre in Figura 4.12 e in Figura 4.14
vi sono raffigurate le distribuzioni delle correnti di dispersioni, sempre riferite allo
stesso foglio, rispettivamente per i primi 10 settori e i secondi 10 settori.
Dai risultati mostrati nei grafici, data la poca dispersione di corrente registrata o comunque nei limiti tollerati, è possibile affermare che il foglio testato
ha superato il controllo di qualità. Attualmente si sono esaminati 38 fogli GEM
(equivalente a 760 settori) con tale metodo e la qualità dei fogli è risultata essere
6
Quality Check, Sector 4
8
Current [nA]
Current [nA]
6
Quality Check, Sector 3
8
6
Quality Check, Sector 5
8
Current [nA]
Quality Check, Sector 2
8
Current [nA]
6
8
6
4
4
4
4
4
2
2
2
2
2
0
0
0
0
0
-2
-2
-2
-2
-2
-4
-4
-4
-4
-4
-6
-6
-6
-6
100
200
300
400
500
-8
0
600
700
Tempo [s]
100
Quality Check, Sector 6
200
300
400
500
-8
0
600
700
Tempo [s]
100
Quality Check, Sector 7
6
300
400
500
-6
-8
0
600
700
Tempo [s]
100
Quality Check, Sector 8
8
Current [nA]
Current [nA]
8
200
6
200
300
400
500
-8
0
600
700
Tempo [s]
6
6
4
4
2
2
2
2
2
0
0
0
0
0
-2
-2
-2
-2
-2
-4
-4
-4
-4
-4
-6
-6
-6
-6
300
400
500
-8
0
600
700
Tempo [s]
100
200
300
400
500
-8
0
600
700
Tempo [s]
100
200
300
400
500
500
600
700
Tempo [s]
-6
-8
0
600
700
Tempo [s]
400
6
4
200
300
8
4
100
200
Quality Check, Sector 10
8
4
-8
0
100
Quality Check, Sector 9
8
Current [nA]
-8
0
Current [nA]
Current [nA]
Quality Check, Sector 1
Current [nA]
Copia di documento informatico archiviato presso l'Università degli Studi di Catania (ex art. 23-bis D.Lgs 82/2005) - Prot. 2015-UNCTCLE-0143708 del 16/11/2015
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CAPITOLO 4. REALIZZAZIONE DEL MODULO GEM
100
200
300
400
500
-8
0
600
700
Tempo [s]
100
200
300
400
500
600
700
Tempo [s]
Figura 4.11: Risultati del test elettrico di un foglio GEM eseguito nella camera pulita dell’INFN
Sezione di Catania. I grafici riportano l’andamento della corrente di dispersione (nA) in funzione
del tempo (s), per i primi 10 settori dei 20 totali. Solamente il settore 5 mostra una dispersione di
corrente maggiore di quella prevista, mentre tutti gli altri rientrano più o meno nel range stabilito
dal protocollo. Non appena si porta a zero la tensione, si verifica una variazione negativa della
corrente che si ripristina intorno allo zero in un tempo di circa dieci secondi.
Current distribution, Sector 1
Current distribution, Sector 2
Current distribution, Sector 3
hc1
200
Entries
180
RMS
Current distribution, Sector 4
hc2
665
Mean 0.03135
240
Entries
220
0.83
RMS
Current distribution, Sector 5
hc3
665
Mean -0.01752
Entries
250
hc4
665
Mean 0.04152
0.7297
RMS
Entries
250
hc5
665
Mean 0.07535
0.6693
RMS
0.7704
Entries
200
665
Mean 0.01838
RMS
180
1.087
200
160
180
140
200
200
150
150
100
100
50
50
160
140
160
120
140
100
120
120
100
100
80
80
80
60
60
60
40
40
20
40
20
20
0
0
-6
-4
-2
0
2
4
6
Current [nA]
0
-6
Current distribution, Sector 6
-4
-2
0
2
4
6
Current [nA]
Current distribution, Sector 7
200
-4
-2
0
2
4
6
Current [nA]
0.1153
RMS
0.8012
Entries
200
-4
-2
0
2
4
6
Current [nA]
0.117
RMS
0.8957
220
Entries
200
-2
0
2
hc9
665
Mean
0.1271
RMS
0.795
180
-4
Entries
220
200
4
6
Current [nA]
Current distribution, Sector 10
hc8
665
Mean
-6
Current distribution, Sector 9
hc7
665
Mean
0
-6
Current distribution, Sector 8
hc6
Entries
220
0
-6
hc10
665
Mean
0.1433
RMS
0.8073
Entries
250
665
Mean
0.1081
RMS
0.727
180
180
180
160
200
160
160
160
140
140
140
120
140
150
120
120
100
120
100
100
80
100
80
80
60
60
60
40
40
40
40
20
20
20
20
0
0
0
0
80
60
-6
-4
-2
0
2
4
6
Current [nA]
-6
-4
-2
0
2
4
6
Current [nA]
-6
-4
-2
0
2
4
6
Current [nA]
100
50
0
-6
-4
-2
0
2
4
6
Current [nA]
-6
-4
-2
0
2
4
6
Current [nA]
Figura 4.12: Distribuzione delle correnti di dispersione (nA) per i primi 10 settori. Si può notare
come sono mediamente centrate sullo zero, con un RMS di circa 0.6 nA. Solamente il settore 5
mostra un RMS di circa 1 nA.
6
Quality Check, Sector 14
8
Current [nA]
Current [nA]
6
Quality Check, Sector 13
8
6
Quality Check, Sector 15
8
Current [nA]
Quality Check, Sector 12
8
Current [nA]
6
8
6
4
4
4
4
4
2
2
2
2
2
0
0
0
0
0
-2
-2
-2
-2
-2
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-4
-6
-6
-6
-6
100
200
300
400
500
-8
0
600
700
Tempo [s]
100
Quality Check, Sector 16
200
300
400
500
-8
0
600
700
Tempo [s]
100
Quality Check, Sector 17
6
300
400
500
-6
-8
0
600
700
Tempo [s]
100
Quality Check, Sector 18
8
Current [nA]
Current [nA]
8
200
6
200
300
400
500
-8
0
600
700
Tempo [s]
6
6
4
4
2
2
2
2
2
0
0
0
0
0
-2
-2
-2
-2
-2
-4
-4
-4
-4
-4
-6
-6
-6
-6
300
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500
-8
0
600
700
Tempo [s]
100
200
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400
500
-8
0
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Tempo [s]
100
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500
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Tempo [s]
-6
-8
0
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Tempo [s]
400
6
4
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300
8
4
100
200
Quality Check, Sector 20
8
4
-8
0
100
Quality Check, Sector 19
8
Current [nA]
-8
0
Current [nA]
Current [nA]
Quality Check, Sector 11
Current [nA]
Copia di documento informatico archiviato presso l'Università degli Studi di Catania (ex art. 23-bis D.Lgs 82/2005) - Prot. 2015-UNCTCLE-0143708 del 16/11/2015
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CAPITOLO 4. REALIZZAZIONE DEL MODULO GEM
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200
300
400
500
-8
0
600
700
Tempo [s]
100
200
300
400
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600
700
Tempo [s]
Figura 4.13: Risultati del test elettrico di un foglio GEM eseguito nella camera pulita dell’INFN
Sezione di Catania. I grafici riportano l’andamento della corrente di dispersione (nA) in funzione
del tempo (s), per i secondi 10 settori dei 20 totali. Solamente il settore 15 mostra una dispersione
di corrente più accentuata, mentre tutti gli altri rientrano più o meno nella norma. Non appena
si porta a zero la tensione, si verifica una variazione negativa della corrente che si ripristina
intorno allo zero in un tempo di circa dieci secondi
Current distribution, Sector 11
Current distribution, Sector 12
Current distribution, Sector 13
hc1
Entries
250
Mean
RMS
Current distribution, Sector 14
hc2
665
0.1321
240
Entries
Mean
220
0.6988
RMS
Current distribution, Sector 15
hc3
665
Entries
220
0.1622
0.7016
Mean
RMS
200
hc4
665
Entries
220
0.1641
0.6509
200
hc5
665
Mean
0.1791
RMS
0.7475
Entries
200
180
665
Mean
0.2007
RMS
0.8541
200
200
180
180
160
160
140
140
120
120
100
100
80
80
80
60
60
60
40
40
40
20
20
20
160
180
140
160
140
150
120
120
100
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100
80
50
0
0
-6
-4
-2
0
2
4
6
Current [nA]
0
-6
Current distribution, Sector 16
-4
-2
0
2
4
6
Current [nA]
Mean
RMS
0.1668
-2
0
2
4
6
Current [nA]
200
20
0
-6
Current distribution, Sector 18
Entries
Mean
0.7888
180
-4
RMS
-2
0
2
4
6
Current [nA]
0.2054
240
Entries
Mean
220
0.8169
-6
0.1815
RMS
-2
0
2
hc9
665
200
-4
240
Entries
Mean
220
0.738
4
6
Current [nA]
Current distribution, Sector 20
hc8
665
180
-4
Current distribution, Sector 19
hc7
665
40
0
-6
Current distribution, Sector 17
hc6
Entries
200
60
RMS
hc10
665
Entries
220
0.1978
0.6972
200
665
Mean
0.1708
RMS
0.7119
200
180
160
160
180
180
140
140
160
160
120
120
140
140
120
100
120
100
100
100
80
80
80
80
60
60
60
60
40
40
20
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160
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20
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120
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0
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Current [nA]
0
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0
2
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6
Current [nA]
80
60
40
20
0
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0
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Current [nA]
0
-6
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-2
0
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6
Current [nA]
-6
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0
2
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Current [nA]
Figura 4.14: Distribuzione delle correnti di dispersione (nA) per i secondi 10 settori. Si può
notare come sono mediamente centrate sullo zero, con un RMS di circa 0.7 nA.
Copia di documento informatico archiviato presso l'Università degli Studi di Catania (ex art. 23-bis D.Lgs 82/2005) - Prot. 2015-UNCTCLE-0143708 del 16/11/2015
CAPITOLO 4. REALIZZAZIONE DEL MODULO GEM
69
alta. In verità, 4 di questi sono stati trovati con 1 o 2 settori in corto o con una
dispersione di corrente fuori dai limiti consentiti. Pertanto sono stati rimandati
alla casa produttrice per una nuova ispezione ed un eventuale ripristino di tali
settori. Comunque si parla di circa 5 settori malfunzionanti su un totale di 760,
ovvero di una percentuale estremamente bassa di settori da recuperare.
Infatti, apparte qualche piccola dispersione di corrente, nei limiti del consentito
(avvenuta probabilmente per qualche granello di polvere bruciato all’interno dei
fori), non si sono riscontrati ulteriori problemi sui fogli. Pertanto i test sono stati
eseguiti regolarmente, con dispersioni registrate al di sotto di 1 nA come richiesto
dal test.
4.5
Realizzazione del rivelatore GEM per JLab
Una volta illustrato il processo fisico, il tendiGEM e il controllo di qualità dei fogli,
si riportano brevemente i passi fondamentali per la realizzazione di un rivelatore
GEM, all’interno della camera pulita di Catania.
1. Lavoro in camera pulita
La camera bianca è un ambiente la cui caratteristica principale è la purezza
dell’atmosfera, cioè a bassissimo contenuto di microparticelle di polvere in
sospensione. La camera utilizzata è di classe 100 (per l’assemblaggio di una
GEM generalmente è sufficiente una classe 1000), pertanto il numero massimo di particelle (> 0, 5µm) al metro cubo non supera i 100. Dunque è di
fondamentale importanza l’abbigliamento da indossare e i materiali da utilizzare, poiché un elevato numero di microparticelle potrebbero danneggiare
i fogli del rivelatore. L’abbigliamento da lavoro in camera bianca è costituito
da:
• cappellino protettivo per evitare inquinamento da capelli, forfora, ecc;
• mascherina per eliminare eventuali particelle di saliva che essendo conduttive, potrebbero danneggiare i piani delle GEM;
• camice per bloccare particelle del nostro abbigliamento;
• sovrascarpe;
• guanti privi di polveri;
All’ingresso della camera pulita è posto un tappetino semiadesivo per pulire
ulteriormente le sovrascarpe prima di entrare. Prima di iniziare qualsiasi
operazione bisogna assicurarsi che all’interno della camera pulita ci siano le
attrezzature indispensabili per il lavoro. Quelle specifiche per il rivelatore:
Copia di documento informatico archiviato presso l'Università degli Studi di Catania (ex art. 23-bis D.Lgs 82/2005) - Prot. 2015-UNCTCLE-0143708 del 16/11/2015
CAPITOLO 4. REALIZZAZIONE DEL MODULO GEM
70
• contenitore in plexiglas per test HV dei piani GEM;
• contenitore in plexiglas per alloggiare i fogli GEM incollati sulla cornice;
• contenitore finale da usare al di fuori della camera pulita;
• attrezzatura per controllare la misura della resistività dei fogli GEM e
delle cornici di incollaggio (computer, modulo HV, oscilloscopio,ecc.);
• attrezzi per l’incollaggio GEM-frame (colla epox, rullini distributori,
lamette, ecc.);
• piano luminoso da usare per ispezione visiva di fogli GEM potenzialmente danneggiati ed eventuale preliminare pulizia;
• saldatore da usare per le resistenze di protezione da saldare sui fogli
GEM.
2. L’immissione in camera pulita del tensionatore GEM
Il tendiGEM, utilizzato per l’incollaggio, richiede una pulizia preliminare
molto accurata, trattandosi di un oggetto realizzato in un’officina meccanica,
generalmente senza precauzioni particolari per la pulizia. Venendo a contatto
con i fogli GEM, è richiesto il massimo della pulizia. Perciò si dovrà smontare
l’apparecchiatura e pulirla minuziosamente in ogni sua parte:
• separare tutti i componenti del tensionatore (celle di carico, manopole,
rondelle, viti, ecc.);
• mettere a bagno con acqua demineralizzata in una vasca a ultrasuoni
per circa 20 min;
• pulire le celle di carico, piastra e piastrone con etanolo;
• asciugare tutti i componenti e introdurli in camera pulita.
Pulito e rimontato, il âtenditoreâ verrà testato con un foglio di scarto all’interno della camera pulita (Figura 4.15), introducendo il necessario per
leggere le celle di carico.
3. Procedura dei test sulla resistività dei fogli GEM
I fogli GEM dovranno essere testati sulla tenuta elettrica, prima di essere
utilizzati per la costruzione del rivelatore. Questo test misura la resistività
del foglio e permette di evidenziare eventuali difetti che tendono a ridurre
tale resistività, compromettendone il necessario isolamento per supportare
l’alta tensione elettrica desiderata. La procedura è la seguente:
• introdurre un singolo foglio in un box di plexiglas;
• una volta chiuso ermeticamente il box, si flusserà con azoto per garantire
un ambiente secco e controllato (riproducibile);
Copia di documento informatico archiviato presso l'Università degli Studi di Catania (ex art. 23-bis D.Lgs 82/2005) - Prot. 2015-UNCTCLE-0143708 del 16/11/2015
CAPITOLO 4. REALIZZAZIONE DEL MODULO GEM
71
Figura 4.15: Test sulla risposta del TendiGEM, una volta rimontato all’interno della camera
pulita, attraverso la trazione di un foglio di mylar, utilizzato come prova. La risposta è risultata eccellente con una trazione uniforme in tutti i suoi lati, testimoniata dall’effetto specchio
riscontrato.
• si applicherà su ogni singolo settore del foglio, per diversi minuti e per
mezzo di un alimentatore CAEN, una tensione circa doppia rispetto a
quella di lavoro (550 V).
Se non avverranno scariche e la corrente misurata è inferiore a circa 1 nA
(R > 120 GΩ), il foglio supera il test, altrimenti si proverà a recuperarlo.
4. Procedura di incollaggio
Una volta testate le tenute elettriche dei fogli e il tendiGEM pronto per essere
adoperato, è possibile iniziare l’assemblaggio vero e proprio del rivelatore, che
essenzialmente consiste nel tendere adeguatamente il foglio GEM e incollare
su di esso la cornice meccanica. Pertanto l’incollaggio del foglio con la cornice
è un passo fondamentale e molto delicato. Le procedure da ottemperare e i
materiali da utilizzare saranno:
• inserire le spine di riscontro negli appositi alloggi siti sul foglio e sulla
cornice, onde evitare movimenti reciproci. Le spine dovranno essere del
tipo acciaio rivestite in teflon. L’abbinamento è definito dal fatto che
l’acciaio ha la necessaria rigidità ed evita la rottura quando le spine
vengono sfilate, dopo l’incollaggio. Il teflon, materiale antiaderente,
evita l’adesione della colla (resina) epossidica;
• dopo aver tensionato la GEM, si prepara la cornice, anch’essa scrupolosamente pulita, che dovrà essere incollata al foglio. La dosatura della
resina, per una maggior precisione, sarà eseguita con una spatolina.
Copia di documento informatico archiviato presso l'Università degli Studi di Catania (ex art. 23-bis D.Lgs 82/2005) - Prot. 2015-UNCTCLE-0143708 del 16/11/2015
CAPITOLO 4. REALIZZAZIONE DEL MODULO GEM
72
Ciò che dovrà essere evitato in questa fase è l’eccesso di colla, pertanto è importante aumentarne gradatamente lo spessore. Ad operazione
ultimata si stenderà con l’ausilio di un rullino in Teflon;
• dopo aver accoppiato la GEM con la cornice, il tutto verrà pressato
attraverso un sacco da vuoto, che verrà applicato direttamente sopra il
tendiGEM stesso (Figura 4.16 a destra); la presa del collante richiede
almeno 12 ore di riposo a temperatura ambiente;
• una volta rimosso dal tendiGEM, si provvede a rifilare il foglio dall’eccesso di kapton lasciando soltanto le piste che porteranno l’alta tensione
ai piani;
• su i fogli GEM dovranno essere saldate le resistenze di protezione. Questa operazione, può causare il rilascio di piccole particelle di stagno,
perciò si dovranno usare protezioni fra la zona di saldatura e il piano
GEM;
• i singoli piani incollati dovranno essere stoccati in apposite teche di
plexiglass all’interno della camera pulita;
Un incollaggio eseguito in modo âsempliceâ è quello del foglio di readout
sul piano di honeycomb. In questo caso non si dovrà usare la macchina
tendiGEM. Le fasi previste per incollare il foglio di readout sono le seguenti:
• porre sul piano di granito un foglio di Mylar per evitare che una eventuale fuoriuscita di resina epox possa incollare il foglio di Kapton sul
piano;
• porre il foglio del readout con il lato lettura in basso a contatto del
Mylar;
• spalmare la colla sulla cornice da incollare alla quale è stato stondato il
ciglio su cui verrà piegato il circuito.
Il Mylar ed il Kapton vengono fermati da pochi pezzi di scotch. Il pannello
a nido d’ape già con la colla spalmata per mezzo di un piccolo rullo, verrà
guidato dai riferimenti dei 4 fori del foglio di Kapton. Per evitare che durante
le fasi dell’incollaggio si possano muovere gli elementi interessati, si incollano
6 battute con blocchetti metallici rettificati.
• l’ultima operazione è quella di riportare il readout all’interno del tendiGEM (usato solo come supporto, quindi nessuna trazione applicata)
e utilizzare nuovamente il sacco da vuoto per garantire un incollaggio
âpianoâ ed uniforme.
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CAPITOLO 4. REALIZZAZIONE DEL MODULO GEM
73
Una volta rimosso il sacco da vuoto, il read-out verrà depositato all’interno di
una teca di plexiglass, in attesa dei passi successivi dell’assemblaggio, ovvero
l’incollaggio del duo foglio-cornice. La cornice del piano di drift avrà i due
lati incollati rispettivamente con un foglio di kapton ed un foglio di mylar per
la chiusura finale. La parte fra i due piani verrà messa in comunicazione con
il flussaggio del gas di modo che il piano di drift non verrà mai sottoposto a
differenze di pressione tra i due lati, che potrebbero provocare rigonfiamenti,
modificando la distanza drift-GEM e quindi il campo elettrostatico tra essi
Figura 4.16: A sinistra: Sistema TendiGEM vuoto. A destra: Applicazione del sacco da vuoto
sul TendiGEM per ottenere una pressione di 1 atm, affinché si possa raggiungere un incollaggio
piano ed uniforme.
5. Assemblaggio
Una volta incollato il readout con l’honeycomb e i vari fogli GEM con i
frame, tutte le parti sono pronte per l’incollaggio definitivo. Quest’ultimo
verrà effettuato con la seguente procedura:
• si inizia l’incollaggio appoggiando il piano di mylar su uno di granito.
Si distribuisce la resina sul lato dove è il piano di drift e si appoggia,
dal lato GEM, la seconda cornice. Si pressa opportunamente inserendo
anche le spine teflonate;
• per il secondo incollaggio si toglieranno le spine teflonate e si ripeterà
la procedura precedentemente descritta;
• una volta incollati i telai con i fogli, la successiva operazione sarà quella
dell’incollaggio finale della struttura GEM e drift sul piano di readout;
• l’ultima operazione sarà quella di inserire i tubi per il passaggio del gas
all’interno di tutta la camera GEM. Questi tubi verranno montati e
incollati sui 2 lati più corti dell’honeycomb, dove vi sono gli appositi
fori.
Copia di documento informatico archiviato presso l'Università degli Studi di Catania (ex art. 23-bis D.Lgs 82/2005) - Prot. 2015-UNCTCLE-0143708 del 16/11/2015
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CAPITOLO 4. REALIZZAZIONE DEL MODULO GEM
75
Figura 4.18: A sinistra: Configurazione classica dei tubi, inseriti in serie. A destra: Nuova
configurazione dei tubi, inseriti in parallelo.
Figura 4.19: Differenza di pressione al variare del gas flussato, per tubi da 4 mm e 6 mm di
diametro inseriti in serie e in parallelo [34].
Figura 4.20: Modulo GEM assemblato ed installato in un supporto in alluminio per i test
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Capitolo 5
Test sulle GEM
5.1
Set-up sperimentale
Nel Dicembre 2014, sono stati testati 4 moduli, di larga area, a tripla GEM presso il Jülich Research Centre (Germania), attraverso un fascio di protoni da 2.8
GeV, utilizzando il COoler SYnchrotron (COSY )1 . L’obiettivo è stato quello di
studiare la risposta dei rivelatori in condizioni di alta intensità di fascio ricevuta
(confrontabile con quella di JLab anche se in una regione ristretta) al variare delle
condizioni sperimentali, cioè al variare della tensione applicata, del flusso di gas,
dell’intensità dei protoni e della posizione del tracciatore. Grazie a ciò, è stato
anche possibile analizzare la risposta dei singoli moduli per quanto concerne lo
strip clustering 2 e le efficienze, nonchè la stabilità globale del sistema. Il set-up
sperimentale realizzato è stato il seguente:
• 4 moduli GEM di larga area (40x50 cm2 );
• 1 modulo GEM di riferimento di piccola area (10x10 cm2 );
• 2 pad di scintillatori utilizzati come trigger;
Il modulo GEM di piccola area è stato utilizzato come modulo di riferimento,
visto che è stato già testato in passato e quindi si è sicuri della sua risposta sotto
condizioni sperimentali. Per quanto concerne le variabili sperimentali adottate,
queste sono:
• tensione applicata ai moduli: 4000 V, 4050 V, 4100 V, 4150 V e 4200 V;
1
COSY è un acceleratore di particelle utilizzato per la ricerca fondamentale nel campo degli
adroni, particelle e fisica nucleare. Esso è un anello di accumulazione, con circonferenza pari a
184 metri, per accelerare protoni in un range di impulso tra i 600 e 3700 MeV/c, corrispondenti
ad una energia di fascio tra i 175 e i 2880 MeV [35].
2
Raggruppamento di due o più strip colpite, nelle coordinate x e y, per ogni evento.
76
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CAPITOLO 5. TEST SULLE GEM
77
• miscela di gas: Ar/CO2 (70/30);
• flusso nominale di gas all’interno dei moduli: 1 V/h, 2 V/h, 3 V/h e 4 V/h;
• intensità del fascio: 1.4 · 109 , 8.0 · 109 e 1.6 · 1010 protons/bunch;
• lunghezza del bunch: circa 122 secondi;
• profilo del fascio: circa 10 cm2 ;
• variazione della posizione del tracciatore;
In realtà, i valori del gas flussato sono molto più alti rispetto a quelli nominali
sopramenzionati, a causa di un errore di configurazione del software impostato
su flussaggio in serie dei 4 moduli, anzichè in parallelo come nella configurazione
reale. Ciò vuol dire che ad 1 V/h nominale, ogni camera, in pratica, ricambiava
il volume di gas ogni 15 min, per cui in un ora ogni modulo ricambiava 4 Volumi
di gas. Pertanto, il valore nominale deve essere moltiplicato per 4, per ottenere
l’effettivo valore di gas flussato per modulo.
Quindi, i vari rivelatori hanno lavorato, realmente, sotto pressioni di gas molto
elevate, fino a toccare i 16 V/h (circa 4 volte superiore alle condizioni del JLab),
riscontrando una buona stabilità del sistema e nessuno effetto significativo sul
gas. Comunque, tutti i risultati saranno riportati secondo i valori nominali di gas
flussato e, quindi, per ottenere il valore effettivo bisogna tener conto di un fattore
moltiplicativo pari a 4.
Ogni modulo è dotato di un partitore (divider HV ) di tensione, provvisto di
resistori come quello mostrato in Figura 5.1, in modo tale da poter scegliere quanta
tensione portare ad ogni singolo foglio GEM. Nella Tabella 5.1 sono riportati i
valori nominali dei resistori dei partitori utilizzati nei 4 moduli, più quello di
riferimento.
Lo schema elettrico sul posizionamento delle resistenze è il seguente: le resistenze R3, R5 ed R7 danno la tensione ai capi dei fogli GEM, rispettivamente al
primo, al secondo e al terzo foglio (in ordine dal drift all’honeycomb). Mentre le le
resistenze R2, R4, R6 ed R8 sono quelle tra i fogli GEM, ovvero R2 tra il foglio di
drift e la prima GEM, R4 tra la prima GEM e la seconda GEM, R6 tra la seconda
GEM e la terza GEM ed infine R8 tra la terza GEM e il read-out. Invece R1 è
una resistenza di protezione sita tra il generatore e il foglio di drift.
Come si può notare dalla Tabella 5.1, il modulo 0 e il modulo 3 hanno lo stesso
valore di resistenze montate, mentre il modulo 1 e il modulo 2 hanno alcuni resistori
con valore nominale diverso. Nel partitore del modulo 2 sono presenti alcuni
resistori con valori più alti rispetto a tutti gli altri partitori, pertanto tale modulo
ha operato ad una tensione più alta degli altri. Anche il modulo 1 ha lavorato ad
una tensione più alta dei moduli 0 e 3, ma comunque inferiore a quella del modulo
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78
CAPITOLO 5. TEST SULLE GEM
Tabella 5.1: valori nominali dei resistori montati nei partitori di tensione. Il modulo 0 e il modulo
3 hanno gli stessi resistori, mentre il modulo 2 e il modulo 1 hanno alcuni resistori con valori
differenti.
R1 [Ω]
R2[Ω]
R3 [Ω]
R4 [Ω]
R5 [Ω]
R6 [Ω]
R7 [Ω]
R8 [Ω]
Module 0
441 K
7.2 M
3.76 M
7.2 M
3.63 M
7.2 M
2.98 M
7.2 M
Module 1
441 K
7.2 M
3.92 M
7.2 M
3.57 M
7.2 M
3.57 M
7.2 M
Module 2
441 K
7.2 M
3.92 M
7.2 M
3.92 M
7.2 M
3.92 M
7.2 M
Module 3
441 K
7.2 M
3.76 M
7.2 M
3.63 M
7.2 M
2.98 M
7.2 M
Module Ref
441 K
4.8 M
2.66 M
4.8 M
2.66 M
4.8 M
2.27 M
4.8 M
2. Cosı̀ facendo, questa distribuzione di tensione ha fatto si che il modulo 2 e il
modulo 1 ricevessero una tensione più alta rispetto al modulo 0 e al modulo 3.
Questa differente tensione operante nei tracciatori la si noterà nell’efficienza e nel
guadagno relativo dei singoli moduli, come si vedrà successivamnete.
Figura 5.1: Partitore utilizzato durante i test di Jülich.
Il programma eseguito per i test è stato quello di effettuare diversi run (da 50000
eventi) al variare della tensione applicata ai moduli e del gas flussato, mantenendo
costante l’intensità del fascio incidente. Questa procedura la si è ripetuta anche
per le altre 2 intensità di fascio. Lo spostamento del tracciatore è stato effettuato
solo con l’intensità di 1.6 · 1010 protons/bunch.
I 4 moduli da testare sono stati inseriti all’interno di un supporto in alluminio
e disposti l’uno davanti all’altro, con la base di honeycomb rivolta verso il fascio
in uscita dal condotto. Davanti a tutto il sistema assemblato, in direzione opposta
all’uscita del fascio, si è installato rispettivamente lo scintillatore plastico e la GEM
di riferimento, mentre il secondo scintillatore, da accoppiare a quello precedente, è
stato installato dietro il blocco con i 4 moduli all’interno, proprio davanti l’uscita
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CAPITOLO 5. TEST SULLE GEM
79
dei protoni dal condotto. Il tutto è stato riposto sopra un piano di lavoro ad una
altezza di circa 150 cm da terra. Tutto il sistema ultimato è mostrato in Figura 5.2
e in Figura 5.3. È possibile utilizzare la Figura 5.2 per identificare i moduli GEM
Figura 5.2: Set up sperimentale dei 4 moduli GEM montati all’interno di un supporto in alluminio. Da sinistra a destra sono installati rispettivamente: lo scintillatore di piccola area (pad in
nero), una GEM di riferimento di piccola area (riquadro con cornice gialla), i 4 moduli GEM di
larga area, nel preciso ordine di modulo 0, modulo 1, modulo 2 e modulo 3. Alle spalle dell’ultimo
modulo (non visibile dalla foto) vi è una seconda pad di scintillazione.
Figura 5.3: Visione laterale del sistema sperimentale, dove si possono notare i 4 moduli GEM
più quella di piccola area, le pad scintillanti (pad nere a sinistra e a destra) e anche il condotto
di uscita dei protoni (bordo destro della foto).
utilizzati. Da sinistra verso destra si ha rispettivamente, oltre allo scintillatore
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CAPITOLO 5. TEST SULLE GEM
80
e alla GEM di riferimento, il modulo 0, il modulo 1, il modulo 2 e il modulo 3.
Quindi, considerando che il fascio arriva alle spalle del sistema, il modulo 3 è il
primo modulo a intercettare i protoni del fascio.
5.2
Caratterizzazione del tracciatore GEM
La caratterizzazione di un modulo GEM è stata eseguita attraveso l’analisi di
diversi aspetti, quali:
• Run di piedistallo.
• Guadagno relativo.
• Visualizzazione degli hit.
• Confronto tra run, al variare delle condizioni sperimentali.
• Efficienza dei moduli.
5.2.1
Run di piedistallo
Come già scritto pocanzi, sono stati realizzati diversi run al variare delle condizioni
sperimentali. Tra questi run, sono stati anche effettuati quelli di piedistallo, in modo tale da verificare quanto rumore trasportano le schede di front-end, in assenza
di eventi fisici, cosı̀ da sottrarlo durante il processamento dei dati da analizzare.
I run di piedistallo sono stati 12 e realizzati uno ogni 5 ore circa per osservare
eventuali variazioni nel tempo di carica registrata. A titolo di esempio si riportano
solamente quelli che sono stati utilizzati per questo lavoro di tesi, ovvero i run
237, 359, 394 e 416, confrontabili rispettivamente nelle seguenti figure: Figura 5.4,
Figura 5.5, Figura 5.6 e Figura 5.7.
Come si nota, ogni run di piedistallo effettuato registra mediamente una carica
di circa 23 unità ADC (sarebbe auspicabile scendere sotto il valore 20). Questo
significa che non vi è stata nessuna variazione nel funzionamento delle schede e
nelle condizioni di lavoro durante tutto il periodo di test. Pertanto la quantità
di carica trasportata dalle carte di front-end, in assenza di eventi sperimentali, è
rimasta uniforme nel tempo, come ci si aspettava. L’altro aspetto da marcare è la
quantità di rumore registrata. Si sono notate alcune carte abbastanza rumorose,
ma queste potrebbero essere dovute alle loro connessioni elettroniche, ovvero ai
cavi HDMI da 6 metri. Tuttosommato, il valore medio di 23 ADC, se confrontato
con l’ampiezza media di un segnale tipico, circa 800/1000 ADC (Figura 3.29),
si intuisce che potrebbe essere considerato un valore accettabile, ma sicuramente
migliorabile in futuro.
ADC
RMS of Pedestal vs ft.ach (run 237)
100
80
60
40
20
0
0
2000
4000
6000
8000
10000
12000
14000
16000
18000
20000
22000
channel card (x/y)
RMS
count
hrms
10
Entries
Mean
RMS
3
20480
23.64
9.735
102
10
1
20
40
60
80
100
120
140
160
180
200
ADC
Figura 5.4: Run di piedistallo #237. Nella figura in alto vi è rappresentata la quantità di
carica trasportata (in unità di ADC) dalle carte di front-end. Nell’immagine in basso vi è la
distribuzione della carica registrata, mediamente 23 ADC.
ADC
RMS of Pedestal vs ft.ach (run 359)
100
80
60
40
20
0
2000
4000
6000
8000
10000
12000
14000
16000
18000
20000
22000
channel card (x/y)
RMS
hrms
count
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CAPITOLO 5. TEST SULLE GEM
10
Entries
Mean
RMS
3
20480
22.82
8.759
102
10
1
20
40
60
80
100
120
140
160
180
ADC
Figura 5.5: Run di piedistallo #359. Nella figura in alto vi è rappresentata la quantità di
carica trasportata (in unità di ADC) dalle carte di front-end. Nell’immagine in basso vi è la
distribuzione della carica registrata, mediamente 22 ADC.
ADC
RMS of Pedestal vs ft.ach (run 394)
100
80
60
40
20
0
2000
4000
6000
8000
10000
12000
14000
16000
18000
20000
22000
channel card (x/y)
RMS
count
hrms
Entries
Mean
RMS
10
20480
24.1
12.23
3
102
10
1
50
100
150
200
250
300
350
400
ADC
Figura 5.6: Run di piedistallo #394. Nella figura in alto vi è rappresentata la quantità di
carica trasportata (in unità di ADC) dalle carte di front-end. Nell’immagine in basso vi è la
distribuzione della carica registrata, mediamente 24 ADC.
ADC
RMS of Pedestal vs ft.ach (run 416)
100
80
60
40
20
0
2000
4000
6000
8000
10000
12000
14000
16000
18000
20000
22000
channel card (x/y)
RMS
hrms
count
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CAPITOLO 5. TEST SULLE GEM
Entries
Mean
RMS
10
20480
22.71
10.65
3
102
10
1
50
100
150
200
250
300
350
ADC
Figura 5.7: Run di piedistallo #416. Nella figura in alto vi è rappresentata la quantità di
carica trasportata (in unità di ADC) dalle carte di front-end. Nell’immagone in basso vi è la
distribuzione della carica registrata, mediamente 22 ADC.
5.2.2
Guadagno relativo
In questa sezione si stimano i guadagni relativi dei singoli moduli rispetto alla
tensione applicata e al gas flussato nel sistema. Si intende per guadagno relativo
il numero di elettroni prodotti per singolo bunch di un evento rispetto al numero
di elettroni prodotti, sempre per singolo bunch, della GEM di riferimento, tenuta
ad una tensione costante di 4200 V per tutta la durata del test. Nella Figura 5.8
è mostrato l’andamento del guadagno relativo dei singoli moduli al variare della
tensione erogata, e precisamente per 4000 V, 4100 V e 4200 V.
Relative Gain vs HV
Relative gain
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CAPITOLO 5. TEST SULLE GEM
5
Modulo 0
Modulo 1
4.5
Modulo 2
Modulo 3
4
3.5
3
2.5
2
1.5
1
0.5
0
4000
4050
4100
4150
4200
[V]
Figura 5.8: Andamento del guadagno relativo dei singoli moduli GEM al variare della tensione
applicata, ad un valore nominale di gas flussato di 1 Volume/h.
Come si può notare, il guadagno relativo del modulo 2 risulta essere il più alto
rispetto ai rimanenti moduli. Questo è un risultato preventivabile data la diversa tensione ripartita nei 4 moduli, come già accennato nel paragrafo precedente.
Infatti, come già descritto nel capitolo 3, all’aumentare della tensione applicata
aumenta l’intensità del campo elettrico all’interno dei fori dei fogli GEM, con il
conseguente risultato di una maggiore ionizzazione del gas e, quindi, di un maggior
numero di elettroni prodotti nel rivelatore. Quindi, in definitiva, i moduli 0 e 3
hanno un basso guadagno, molto simili tra loro, mentre il modulo 1 è leggermente più alto dei precedenti e, infine, il modulo 2 è decisamente il più alto dei 4.
Globalmente non si apprezza un grande guadagno a 4000 V, mentre si iniziano ad
avere dei guadagni importanti a 4100 V e 4200 V, rispettivamente di circa 6 · 103
e 1.4 · 104 .
È possibile osservare anche le variazioni del guadagno relativo in funzione dei
volumi di gas erogato, mantenendo costante la tensione applicata ai moduli. Questa tipologia di analisi è stata eseguita ad un valore di tensione di 4100 V e 4150
V, come è possibile osservare nella Figura 5.9 e nella Figura 5.8.
Relative gain
Relative gain vs Gas flow at 4100 Volt
Modulo 0
4
Modulo 1
Modulo 2
3.5
Modulo 3
3
2.5
2
1.5
1
0.5
0
1
2
3
4
Gas flow [V/h]
Figura 5.9: Andamento del guadagno relativo dei singoli moduli GEM al variare del gas flussato,
ad un volore di tensione di 4100 V. Il V/h è in valore nominale, percui è riferito all’intero sistema
dei 4 moduli messo in serie, quindi il V/h cambiato sul singolo modulo è 4 volte più grande.
Relative gain vs Gas flow at 4150 Volt
Relative gain
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84
CAPITOLO 5. TEST SULLE GEM
5
Modulo 0
4.5
Modulo 1
Modulo 2
Modulo 3
4
3.5
3
2.5
2
1.5
1
0.5
0
1
1.5
2
2.5
3
Gas flow [V/h]
Figura 5.10: Andamento del guadagno relativo dei singoli moduli GEM al variare del gas flussato,
ad un volore di tensione di 4150 V. Il V/h è in valore nominale, percui è riferito all’intero sistema
dei 4 moduli messo in serie, quindi il V/h cambiato sul singolo modulo è 4 volte più grande.
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CAPITOLO 5. TEST SULLE GEM
85
I grafici mostrano che il guadagno relativo subisce una variazione minima all’aumentare del flusso di gas, tanto da poterlo considerare un andamento costante,
sia a 4100 V che a 4150 V. Pertanto è possibile affermare entro la sensibilità
della strumentazione, che il guadagno non ha nessuna dipendenza dalla quantità
di gas flussato all’interno dei moduli GEM, ma dipende solamente dalla tensione
applicata ai singoli tracciatori.
5.2.3
Visualizzazione degli hit
I segnali uscenti dalle strip dei tracciatori vengono visualizzati attraverso software
e analizzati successivamente offline. Come già accennato nel capitolo 3, i segnali
sono campionati in 6 sample ogni 25 ns, come mostrato in Figura 5.11 a titolo di
esempio.
Figura 5.11: Tipico segnale APV, dove sono ben visibili i 6 sample di campionamento per le
strip in x (la prima riga) e lungo le strip in y (seconda riga). La settima colonna rappresenta
una combinazione dei primi tre sample per mettere in risalto l’hit del segnale. L’ultima colonna
rappresenta il fit sui punti dei sample. Sull’asse x vi è il tempo di campionamento, ovvero ogni
25 ns, mentre sull’asse delle y vi è la quantità di carica registrata in unità di ADC. In verde,
chiaramente, il fit che meglio approssima il segnale. La funzione di fit utilizzata è una funzione
a doppio esponenziale [32].
La visualizzazione dei sample può essere considerata come una analisi preliminare dei segnali APV, cosı̀ da intuire, in prima approssimazione, la presenza e
la quantità di rumore trasportato, in poche parole si osserva la qualità. Questa
visualizzazione viene eseguita, in particolar modo, durante l’analisi temporale dei
segnali, in modo tale da poter selezionare quelli dove poter estrapolare informazioni utili e attendibili. Per questa tipologia di analisi si rimanda al capitolo 7.
Infine, è importante notare l’ampiezza dei singoli sample, ovvero la carica massima
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86
CAPITOLO 5. TEST SULLE GEM
individuata per singolo campionamento, poiché sarà utile per la comprensione di
un confronto eseguito nel paragrafo successivo.
5.2.4
Confronto dei run
Per poter ottenere una caratterizzazione completa dell’apparato si è scelto di confrontare diversi run al variare delle condizioni sperimentali, come detto all’inizio
del capitolo, per verificarne le differenze e le eventuali dipendenze. Si è voluto
confrontare la risposta di clustering dei vari moduli e si è scelto di analizzare i
seguenti run: 252, 265, 268 e 456. Per ogni confronto si riportano, a titolo di
esempio, rispettivamente i grafici relativi ai moduli 0, 1 e 3. Le caratteristiche di
questi run sono riportate in Tabella 5.2.
Tabella 5.2: Caratteristiche dei run scelti per la caratterizzazione dei moduli GEM.
Run
Gas Flow [V/h]
Beam Intensity [protons/bunch]
HV
252
2
1.4 · 109
4100
265
3
1.4 · 109
4100
268
3
1.4 · 109
4200
2
10
4100
456
1.6 · 10
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CAPITOLO 5. TEST SULLE GEM
87
Run 252 vs Run 265
Si è confrontato il run 252 con il run 265.
• Stessa tensione applicata: 4100 V.
• Stessa intensità di fascio: 1.4 · 109 protons/bunch.
• Diverso gas flow: (252) 2 V/h vs (265) 3 V/h.
Di seguito si riportano diversi plot sulle proprietà di clustering dei vari moduli,
per i 2 run in questione, dove si possono notare analogie e differenze dei risultati
ottenuti, in entrambe le coordinate, cosı̀ come per tutti i successivi confronti.
In questo confronto si cercano eventuali dipendenze dei risultati al variare della
quantità di gas flussato.
Il primo confronto riguarda le strip coinvolte all’interno di un cluster, per entrambe le coordinate (Figura 5.12 e Figura 5.13). Considerando che la nuvola
elettronica raccolta dalle strip ha mediamente un diametro di circa 500 µm e le
strip hanno una larghezza di 400 µm, si deduce che, in media, un cluster sia formato da 1 o 2 strip. Quello che si evince dai grafici è proprio questo risultato atteso,
ovvero che un cluster, mediamente, è formato da 1.3 e 1.4 strip, rispettivamente
in x e y. In questo caso non si apprezzano notevoli differenze tra i due run in
questione.
Il secondo confronto riguarda il sample che registra la carica massima, in x e in y
(Figura 5.14 e Figura 5.15). Come già accennato precedentemente, un segnale APV
è composto da 6 sample che registrano la carica in un arco temporale prestabilito.
Per come è formato il segnale, ci si aspetta un picco di carica registrata intorno
al secondo o terzo sample, vedasi Figura 5.11. Anche in questo caso, i risultati
confermano le attese, ovvero che i massimi di carica si ottengono tra il secondo e
il terzo sample, in entrambe le coordinate e in entrambi i run. Quindi, come per
il precedente confronto, non si osservano grosse differenze tra i run in questione.
Il terzo confronto concerne il numero di cluster per singolo evento, sempre nelle
coordinate x e y (Figura 5.16 e Figura 5.17).
Anche in questo caso non si apprezzano significative differenze tra i due run.
Il quarto ed ultimo confronto concerne la quantità di carica registrata per ogni
cluster, in x e in y (Figura 5.18 e Figura 5.19).
Come accennato nel capitolo 3, le strip del read-out sono costruite in modo tale
da poter leggere una uguale quantità di carica in entrambe le coordinate.
Come si evince dai risultati, tale distribuzione di carica sugli assi è molto simile tra
loro, tanto che il plot della correlazione è piccato sullo zero. Quindi, il confronto
tra i due run conferma questa previsione e anche l’indice di correlazione tra x e y
risulta in linea con l’attesa. Anche in questo ultimo confronto, non si notano molte
Strips in cluster - x axis, run 252, module 0
104
Strips in cluster - y axis, run 252, module 0
htemp
htemp
Entries 37242
Entries 37242
Mean
1.543
Mean
1.394
RMS
0.5591
RMS
0.594
104
Strips in cluster x vs y, run 252, module 0
3
Strips in cluster-y axis
10
3
10
102
5
4.5
12000
4
10000
3.5
3
102
8000
2.5
6000
2
1.5
10
4000
1
2000
10
0
0.5
0.5
1
1.5
2
2.5
3 3.5
4 4.5
5
Strips in cluster-x axis
0
1
2
3
4
5
6
Strips in cluster-y axis
0
0
1
2
3
4
5
6
Strips in cluster-x axis
0
Figura 5.12: Grafico rappresentante il numero di strip coinvolte in un cluster nel modulo 0 del
run 252, nelle coordinate x (a sinistra) e nelle coordinate y (al centro). A destra è rappresentato,
invece, uno scatter plot delle strip contenute in un cluster nelle coordinate x e y.
Strips in cluster - x axis, run 265, module 0
Strips in cluster - y axis, run 265, module 0
htemp
htemp
Entries 36357
Entries 36357
Mean
1.422
Mean
1.291
RMS
0.5735
RMS
0.5438
104
104
Strips in cluster x vs y, run 265, module 0
Strips in cluster-y axis
Copia di documento informatico archiviato presso l'Università degli Studi di Catania (ex art. 23-bis D.Lgs 82/2005) - Prot. 2015-UNCTCLE-0143708 del 16/11/2015
88
CAPITOLO 5. TEST SULLE GEM
3
10
3
10
102
9
8
16000
7
14000
6
12000
5
10000
4
8000
3
6000
2
4000
102
10
0
2000
1
1
2
3
4
5
6
7
8
9
Strips in cluster-x axis
0
1
2
3
4
5
6
Strips in cluster-y axis
0
0
1
2
3
4
5
6
Strips in cluster-x axis
0
Figura 5.13: Grafico rappresentante il numero di strip coinvolte in un cluster nel modulo 0 del
run 265, nelle coordinate x (a sinistra) e nelle coordinate y (al centro). A destra è rappresentato
uno scatter plot delle strip contenute in un cluster nelle coordinate x e y.
differenze tra i due run in esame. Per una maggiore comprensione del confronto
tra i run 252 e 265, si sono inseriti i risultati all’interno della Tabella 5.3.
I grafici in 5.20 e 5.21 mostrano le differenze relative tra i due run confrontati.
Sample with max charge on x axis, run 252, module 0
Sample with max charge on y axis, run 252, module 0
htemp
htemp
Entries 37242
Entries 37242
Mean
2.597
Mean
2.614
RMS
0.5015
RMS
0.4962
104
104
Sample with max charge x vs y, run 252, module 0
3
3
Sample max charge on y axis
10
102
10
4
14000
3.5
12000
3
10000
2.5
8000
2
6000
1.5
10
4000
1
2000
0.5
0
0.5
1
1.5
2
2.5
3
3.5
4
Sample max charge on x axis
0
0.5
1
1.5
2
2.5 3 3.5
4 4.5
5
Sample max charge on y axis
0
0
0.5
1
1.5
2
2.5
3
3.5
4
4.5
5
Sample max charge on x axis
0
Figura 5.14: Plot sul sample con la carica massima registrata, nel modulo 0 del run 252. A
sinistra: Rappresentazione del sample che ha registrato la massima carica, nella coordinata x.
Al centro: Rappresentazione del sample che ha registrato la carica massima, nella coordinata y.
A destra: Scatter plot, in x e y, dei sample con carica massima registrata.
Sample with max charge on x axis, run 265, module 0
Sample with max charge on y axis, run 265, module 0
htemp
htemp
Entries 36357
Entries 36357
Mean
2.772
Mean
2.733
RMS
0.4394
RMS
0.4648
4
10
104
Sample with max charge x vs y, run 265, module 0
Sample max charge on y axis
Copia di documento informatico archiviato presso l'Università degli Studi di Catania (ex art. 23-bis D.Lgs 82/2005) - Prot. 2015-UNCTCLE-0143708 del 16/11/2015
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CAPITOLO 5. TEST SULLE GEM
3
10
3
10
102
5
20000
4.5
18000
4
16000
3.5
14000
3
12000
2.5
10000
2
8000
1.5
102
6000
1
10
4000
0.5
0
0.5
1
1.5
2
2.5 3 3.5
4 4.5
5
Sample max charge on x axis
0
0.5
1
1.5
2
2.5 3 3.5
4 4.5
5
Sample max charge on y axis
0
0
2000
0.5
1
1.5
2
2.5
3
3.5
4
4.5
5
Sample max charge on x axis
0
Figura 5.15: Plot sul sample con la carica massima registrata, nel modulo 0 del run 265. A
sinistra: Rappresentazione del sample che ha registrato la massima carica, nella coordinata x.
Al centro: Rappresentazione del sample che ha registrato la carica massima, nella coordinata y.
A destra: Scatter plot, in x e y, dei sample con carica massima registrata.
#Cluster/Event - y, run 252, module 0
#Cluster/Event - x, run 252, module 0
104
htemp
htemp
Entries 37242
Entries 37242
Mean
2.45
Mean
2.043
RMS
1.693
RMS
1.288
104
3
10
3
10
#Cluster/Event-y axis
#Cluster/Event x vs y
102
102
25
5000
20
4000
15
10
3000
10
1
0
5
10
15
1
0
20
25
#Cluster/Event-x axis
2
4
6
8
10
12
14
16
#Cluster/Event-y axis
10
2000
5
1000
0
0
2
4
6
8
10
12
14
16
#Cluster/Event-x axis
0
Figura 5.16: Grafico rappresentante il numero di cluster formatosi in un evento, nel modulo 0
del run 252. A sinistra: Numero di cluster per singolo evento, nella coordinata x. Al centro:
Numero di cluster per singolo evento, nella coordinata y. A destra: Scatter plot dei cluster
formatosi durante un evento, in x e y.
#Cluster/Event - y, run 265, module 0
#Cluster/Event - x, run 265, module 0
htemp
htemp
Entries 36357
104
Mean
2.471
RMS
1.705
Entries 36357
4
10
Mean
2.054
RMS
1.309
3
10
3
10
102
#Cluster/Event x vs y
#Cluster/Event-y axis
Copia di documento informatico archiviato presso l'Università degli Studi di Catania (ex art. 23-bis D.Lgs 82/2005) - Prot. 2015-UNCTCLE-0143708 del 16/11/2015
90
CAPITOLO 5. TEST SULLE GEM
102
5000
30
25
4000
20
10
3000
10
15
2000
10
1
0
1
5
10
15
20
25
30
#Cluster/Event-x axis
0
1000
5
5
10
15
20
25
#Cluster/Event-y axis
0
0
5
10
15
20
25
#Cluster/Event-x axis
0
Figura 5.17: Grafico rappresentante il numero di cluster formatosi in un evento, nel modulo 0
del run 265. A sinistra: Numero di cluster per singolo evento, nella coordinata x. Al centro:
Numero di cluster per singolo evento, nella coordinata y. A destra: Scatter plot dei cluster
formatosi durante un evento, in x e y.
x Charge on cluster
y Charge on cluster
htemp
Entries
31750
Mean
191.3
RMS
92.3
2200
2000
htemp
Entries
31750
Mean
174.3
RMS
83.01
2500
1800
2000
1600
1400
1500
1200
1000
1000
800
600
500
400
200
0
0
100
200
300
400
500
600
700
0
800
x Charge (A.U.)
0
100
200
300
Charge _y (A.U.)
400
500
600
700
800
900
y Charge (A.U.)
2.*(Cx-Cy)/(Cx+Cy)
Maximum Charge on single strip
1400
900
800
htemp
Entries
31750
Mean
0.08043
RMS
0.4051
3000
1200
2500
700
1000
2000
600
800
500
1500
400
600
300
1000
400
200
200
100
0
0
100
200
300
400
500
600
700
800
Charge _x (A.U.)
0
500
0
-1.5
-1
-0.5
0
0.5
1
1.5
x-y Charge Asymmetry
Figura 5.18: Grafico rappresentante la carica registrata per ogni cluster, in x e in y, nel modulo
0 del run 252. In alto a sinistra: Carica registrata su ogni cluster, nella coordinata x. In alto
a destra: Carica registrata su ogni cluster, nella coordinata y. In basso a sinistra: Scatter plot
della carica registrata sul cluster, in x e y. In basso a destra: Correlazione di carica o asimmetria
di carica, per le coordinate x e y.
x Charge on cluster
y Charge on cluster
htemp
Entries
31877
Mean
163.1
RMS
74.46
2200
2000
htemp
Entries
31877
Mean
154.7
RMS
74.64
3000
2500
1800
1600
2000
1400
1200
1500
1000
800
1000
600
400
500
200
0
0
100
200
300
400
500
0
600
x Charge (A.U.)
0
100
200
300
400
500
600
700
800
y Charge (A.U.)
2.*(Cx-Cy)/(Cx+Cy)
Maximum Charge on single strip
Charge _y (A.U.)
Copia di documento informatico archiviato presso l'Università degli Studi di Catania (ex art. 23-bis D.Lgs 82/2005) - Prot. 2015-UNCTCLE-0143708 del 16/11/2015
91
CAPITOLO 5. TEST SULLE GEM
800
htemp
Entries
31877
Mean
0.04519
RMS
0.3899
1800
700
1600
600
1400
3000
2500
1200
500
2000
1000
400
800
1500
300
600
200
0
1000
400
100
200
0
100
200
300
400
500
600
Charge _x (A.U.)
0
500
0
-1.5
-1
-0.5
0
0.5
1
1.5
x-y Charge Asymmetry
Figura 5.19: Grafico rappresentante la carica registrata per ogni cluster, in x e in y, nel modulo
0 del run 265. In alto a sinistra: Carica registrata su ogni cluster, nella coordinata x. In alto
a destra: Carica registrata su ogni cluster, nella coordinata y. In basso a sinistra: Scatter plot
della carica registrata sul cluster, in x e y. In basso a destra: Correlazione di carica o asimmetria
di carica, per le coordinate x e y.
Copia di documento informatico archiviato presso l'Università degli Studi di Catania (ex art. 23-bis D.Lgs 82/2005) - Prot. 2015-UNCTCLE-0143708 del 16/11/2015
92
CAPITOLO 5. TEST SULLE GEM
Tabella 5.3: Risultati del confronto tra il run 252 e il run 265
Strips in
cluster x/y
mean
Sample with
max charge
x/y mean
Cluster/Event
x/y mean
Charge on
cluster x/y
mean
ADC
Correlation
mean
0
1.54/1.39
2.59/2.61
2.45/2.04
191.3/174.3
0.08
265
0
1.42/1.29
2.77/2.73
2.47/2.05
163.1/154.7
0.04
252
1
1.50/1.58
2.08/2.03
2.57/2.42
250.3/245.7
0.04
265
1
1.47/1.62
2.15/2.20
2.61/2.48
234.8/239.2
-0.007
252
2
1.50/2.10
1.96/1.92
2.06/2.85
346.3/314.7
0.07
265
2
1.53/2.11
1.99/2
2.03/2.85
367.9/318.4
0.08
252
3
1.52/1.54
2.11/2.18
2.10/2.19
238.6/212.9
0.1
265
3
1.53/1.52
2.14/2.24
2.11/2.24
245.3/208.9
0.14
Run
Module
252
Come si può notare dai grafici in 5.20 e 5.21, le differenze tra le proprietà
di clustering dei run 252 e 256 sono prossime allo zero, quindi non vi è nessuna
dipendenza apprezzabile dei risultati dalla quantità di gas flussato all’interno dei
moduli GEM.
I risultati attesi, argomentati per ogni grafico inserito, valgono per tutti gli
altri confronti eseguiti successivamente, pertanto, da qui in avanti, si inseriscono
solamente i plot e si riportano i valori finali all’interno di una tabella riassuntiva,
in modo tale da non essere ripetitivi.
Realtive Difference of Sample with Max Charge x (RDSMCx), run (252-265)*2/(252+265)
1
RDSMCX
RDSCx
Relative Difference of Strips in Cluster x (RDSCx), run (252-265)*2/(252+265)
0.8
1
0.8
0.6
0.6
0.4
0.4
0.2
0.2
0
0
-0.2
-0.2
-0.4
-0.4
-0.6
-0.6
-0.8
-10
-0.8
1
2
-10
3
MODULE
0.8
2
3
MODULE
1
0.8
0.6
0.6
0.4
0.4
0.2
0.2
0
0
-0.2
-0.2
-0.4
-0.4
-0.6
-0.6
-0.8
-10
1
Relative Difference of Charge on Cluster x (RDCCx), run (252-265)*2/(252+265)
1
RDCCx
RDCEx
Realtive Difference of Cluster/Event x (RDCEx), run (252-265)*2/(252+265)
-0.8
1
2
3
MODULE
-10
1
2
3
MODULE
Difference of ADC Correlation (DADCC), run (252-265)
DADCC
Copia di documento informatico archiviato presso l'Università degli Studi di Catania (ex art. 23-bis D.Lgs 82/2005) - Prot. 2015-UNCTCLE-0143708 del 16/11/2015
93
CAPITOLO 5. TEST SULLE GEM
5
4
3
2
1
0
-1
-2
-3
-4
-5 0
1
2
3
MODULE
Figura 5.20: Grafici riassuntivi che mostrano le differenze relative dei 4 confronti effettuati, nella
coordinata x, dei run 252 e 265. In aggiunta vi è anche il grafico che mostra solo la differenza di
correlazione di carica tra i 2 run in esame, questo perchè la differenza relativa di valori prossimi
allo zero potrebbe alterare il reale andamento delle differenze. Come si può notare, tutte le
diffrenze sono entro circa il 10%.
1
Realtive Difference of Sample with Max Charge y (RDSMCy), run (252-265)*2/(252+265)
RDSMCX
RDSCx
Relative Difference of Strips in Cluster y (RDSCy), run (252-265)*2/(252+265)
0.8
1
0.8
0.6
0.6
0.4
0.4
0.2
0.2
0
0
-0.2
-0.2
-0.4
-0.4
-0.6
-0.6
-0.8
-1
0
-0.8
1
2
-1
0
3
MODULE
Realtive Difference of Cluster/Event y (RDCEy), run (252-265)*2/(252+265)
1
0.8
3
MODULE
0.8
0.6
0.4
0.4
0.2
0.2
0
0
-0.2
-0.2
-0.4
-0.4
-0.6
-0.6
-1
0
2
1
0.6
-0.8
1
Relative Difference of Charge on Cluster y (RDCCy), run (252-265)*2/(252+265)
RDCCx
RDCEx
Copia di documento informatico archiviato presso l'Università degli Studi di Catania (ex art. 23-bis D.Lgs 82/2005) - Prot. 2015-UNCTCLE-0143708 del 16/11/2015
94
CAPITOLO 5. TEST SULLE GEM
-0.8
1
2
3
MODULE
-1
0
1
2
3
MODULE
Figura 5.21: Grafici riassuntivi che mostrano le differenze dei 4 confronti effettuati, nella
coordinata y, dei run 252 e 265. Come si può notare, le diffrenze sono prossime allo zero.
Run 265 vs Run 268
Si è confrontato il run 265 con il run 268.
• Stesso gas flow: 3 V/h.
• Stessa intensità di fascio: 1.4 · 109 protons/bunch.
• Diversa tensione applicata: (265) 4100 V vs (268) 4200 V.
In questo confronto si valutano le prestazioni al variare dell’alta tensione per i
differenti moduli.
Di seguito si riportano i 4 confronti sul clustering dei run in questione. Tali
confronti sono analoghi a quelli precedenti e pertanto si riportano solo i grafici.
Pertanto si osserverà: Strip in cluster (Figura 5.22 e Figura 5.23); sample with
max charge (Figura 5.24 e Figura 5.25); cluster/event (Figura 5.26 e Figura 5.27);
charge on cluster (Figura 5.28 e Figura 5.29).
Strips in cluster - x axis, run 265, module 1
104
Strips in cluster - y axis, run 265, module 1
htemp
htemp
Entries 43226
Entries 43226
Mean
1.476
Mean
1.652
RMS
0.5616
RMS
0.6448
104
3
Strips in cluster x vs y, run 265, module 1
Strips in cluster-y axis
10
3
10
102
10
6
12000
5
10000
4
8000
3
2
10
6000
2
1
0
4000
1
1
2
3
4
5
6
Strips in cluster-x axis
0
1
2
3
4
5
6
Strips in cluster-y axis
0
0
2000
1
2
3
4
5
6
Strips in cluster-x axis
0
Figura 5.22: Grafico rappresentante il numero di strip coinvolte in un cluster nel modulo 1 del
run 265, nelle coordinate x (a sinistra) e nelle coordinate y (al centro). A destra è rappresentato,
invece, uno scatter plot delle strip contenute in un cluster nelle coordinate x e y.
Strips in cluster - x axis, run 268, module 1
104
Strips in cluster - y axis, run 268, module 1
htemp
htemp
Entries 46478
Entries 46478
Mean
1.501
Mean
1.666
RMS
0.5899
RMS
0.6944
104
Strips in cluster x vs y, run 268, module 1
3
3
10
10
Strips in cluster-y axis
Copia di documento informatico archiviato presso l'Università degli Studi di Catania (ex art. 23-bis D.Lgs 82/2005) - Prot. 2015-UNCTCLE-0143708 del 16/11/2015
95
CAPITOLO 5. TEST SULLE GEM
2
2
10
10
6
14000
5
12000
4
10000
8000
3
10
10
6000
2
4000
1
1
0
1
2
3
4
5
6
Strips in cluster-x axis
1
0
1
2
3
4
5
6
Strips in cluster-y axis
0
0
2000
1
2
3
4
5
6
Strips in cluster-x axis
0
Figura 5.23: Grafico rappresentante il numero di strip coinvolte in un cluster nel modulo 1 del
run 268, nelle coordinate x (a sinistra) e nelle coordinate y (al centro). A destra è rappresentato,
invece, uno scatter plot delle strip contenute in un cluster nelle coordinate x e y.
Sample with max charge on x axis, run 265, module 1
Sample with max charge on y axis, run 265, module 1
htemp
htemp
Entries 43226
Entries 43226
Mean
2.15
Mean
2.119
RMS
0.4056
RMS
0.4373
Sample with max charge x vs y, run 265, module 1
Sample max charge on y axis
104
104
4
3.5
25000
3
20000
2.5
15000
2
1.5
3
10
10000
1
5000
0.5
3
10
0
0.5
1
1.5
2
2.5
3
3.5
4
Sample max charge on x axis
0
0.5
1
1.5
2
2.5
3
3.5
4
Sample max charge on y axis
0
0
0.5
1
1.5
2
2.5
3
3.5
4
Sample max charge on x axis
0
Figura 5.24: Plot sul sample con la carica massima registrata, nel modulo 1 del run 256. A
sinistra: Rappresentazione del sample che ha registrato la massima carica, nella coordinata x.
Al centro: Rappresentazione del sample che ha registrato la carica massima, nella coordinata y.
A destra: Scatter plot, in x e y, dei sample con carica massima registrata.
Sample with max charge on x axis, run 268, module 1
Sample with max charge on y axis, run 268, module 1
htemp
htemp
Entries 46478
Entries 46478
Mean
2.123
Mean
2.1
RMS
0.3813
RMS
0.4639
4
104
3
10
10
Sample with max charge x vs y, run 268, module 1
3
10
Sample max charge on y axis
Copia di documento informatico archiviato presso l'Università degli Studi di Catania (ex art. 23-bis D.Lgs 82/2005) - Prot. 2015-UNCTCLE-0143708 del 16/11/2015
96
CAPITOLO 5. TEST SULLE GEM
102
102
10
10
4
30000
3.5
25000
3
2.5
20000
2
15000
1.5
10000
1
5000
0.5
1
0
0.5
1
1.5
2
2.5
3
3.5
4
Sample max charge on x axis
1
0
0.5
1
1.5
2
2.5 3 3.5
4 4.5
5
Sample max charge on y axis
0
0
0.5
1
1.5
2
2.5
3
3.5
4
4.5
5
Sample max charge on x axis
0
Figura 5.25: Plot sul sample con la carica massima registrata, nel modulo 1 del run 268. A
sinistra: Rappresentazione del sample che ha registrato la massima carica, nella coordinata x.
Al centro: Rappresentazione del sample che ha registrato la carica massima, nella coordinata y.
A destra: Scatter plot, in x e y, dei sample con carica massima registrata.
#Cluster/Event - y, run 265, module 1
#Cluster/Event - x, run 265, module 1
htemp
htemp
Entries 43226
4
10
Mean
2.613
RMS
1.701
Entries 43226
4
10
Mean
2.489
RMS
1.501
3
3
10
10
#Cluster/Event-y axis
#Cluster/Event x vs y
102
102
4000
30
3500
25
3000
20
2500
10
10
2000
15
1500
10
1000
1
1
0
5
10
15
20
25
30
#Cluster/Event-x axis
0
5
2
4
6
8
10 12 14 16 18 20 22 24
#Cluster/Event-y axis
500
0
0
5
10
15
20
25
#Cluster/Event-x axis
0
Figura 5.26: Grafico rappresentante il numero di cluster formatosi in un evento, nel modulo 1
del run 265. A sinistra: Numero di cluster per singolo evento, nella coordinata x. Al centro:
Numero di cluster per singolo evento, nella coordinata y. A destra: Scatter plot dei cluster
formatosi durante un evento, in x e y.
#Cluster/Event - y, run 268, module 1
#Cluster/Event - x, run 268, module 1
htemp
htemp
Entries 46478
4
10
Mean
2.977
RMS
1.924
Entries 46478
104
Mean
2.916
RMS
1.708
3
3
10
10
#Cluster/Event x vs y
#Cluster/Event-y axis
Copia di documento informatico archiviato presso l'Università degli Studi di Catania (ex art. 23-bis D.Lgs 82/2005) - Prot. 2015-UNCTCLE-0143708 del 16/11/2015
97
CAPITOLO 5. TEST SULLE GEM
102
102
10
10
4000
35
3500
30
3000
25
2500
20
2000
15
1500
10
1000
5
500
1
1
0
40
5
10
15
20
25
30
35
#Cluster/Event-x axis
0
2
4
6
8
10
12
14 16 18 20 22
#Cluster/Event-y axis
0
0
2
4
6
8
10
12
14
16
18
20
22
24
#Cluster/Event-x axis
0
Figura 5.27: Grafico rappresentante il numero di cluster formatosi in un evento, nel modulo 1
del run 268. A sinistra: Numero di cluster per singolo evento, nella coordinata x. Al centro:
Numero di cluster per singolo evento, nella coordinata y. A destra: Scatter plot dei cluster
formatosi durante un evento, in x e y.
y Charge on cluster
x Charge on cluster
htemp
Entries
36496
Mean
234.8
RMS
113.8
4500
4000
3500
htemp
Entries
36496
Mean
239.2
RMS
117.4
2500
2000
3000
1500
2500
2000
1000
1500
1000
500
500
0
0
200
400
600
800
1000
1200
0
1400
1600
x Charge (A.U.)
0
200
400
Maximum Charge on single strip
600
800
1000
1200
y Charge (A.U.)
2.*(Cx-Cy)/(Cx+Cy)
Charge _y (A.U.)
htemp
2500
1200
Entries
Mean
RMS
3500
36496
-0.007631
0.3621
3000
1000
2000
2500
800
1500
2000
600
1500
1000
400
1000
500
200
0
500
0
200
400
600
800
1000
1200
1400
1600
Charge _x (A.U.)
0
0
-1.5
-1
-0.5
0
0.5
1
1.5
x-y Charge Asymmetry
Figura 5.28: Grafico rappresentante la carica registrata per ogni cluster, in x e in y, nel modulo
1 del run 265. In alto a sinistra: Carica registrata su ogni cluster, nella coordinata x. In alto
a destra: Carica registrata su ogni cluster, nella coordinata y. In basso a sinistra: Scatter plot
della carica registrata sul cluster, in x e y. In basso a destra: Correlazione di carica o asimmetria
di carica, per le coordinate x e y.
x Charge on cluster
y Charge on cluster
htemp
Entries
36578
Mean
244.9
RMS
142.5
6000
5000
htemp
Entries
36578
Mean
256
RMS
151.7
4000
3500
3000
2500
4000
2000
3000
1500
2000
1000
1000
0
500
0
500
1000
1500
2000
2500
0
3000
3500
x Charge (A.U.)
0
200
400
600
800
1000
1200
1400
1600
1800
2000
2200
y Charge (A.U.)
2.*(Cx-Cy)/(Cx+Cy)
Maximum Charge on single strip
Charge _y (A.U.)
Copia di documento informatico archiviato presso l'Università degli Studi di Catania (ex art. 23-bis D.Lgs 82/2005) - Prot. 2015-UNCTCLE-0143708 del 16/11/2015
98
CAPITOLO 5. TEST SULLE GEM
htemp
Entries
36578
Mean
-0.0245
RMS
0.2911
5000
2200
5000
2000
4000
1800
4000
1600
1400
3000
3000
1200
1000
2000
800
2000
600
1000
400
1000
200
0
0
500
1000
1500
2000
2500
3000
3500
Charge _x (A.U.)
0
0
-2
-1.5
-1
-0.5
0
0.5
1
1.5
x-y Charge Asymmetry
Figura 5.29: Grafico rappresentante la carica registrata per ogni cluster, in x e in y, nel modulo
1 del run 268. In alto a sinistra: Carica registrata su ogni cluster, nella coordinata x. In alto
a destra: Carica registrata su ogni cluster, nella coordinata y. In basso a sinistra: Scatter plot
della carica registrata sul cluster, in x e y. In basso a destra: Correlazione di carica o asimmetria
di carica, per le coordinate x e y.
Copia di documento informatico archiviato presso l'Università degli Studi di Catania (ex art. 23-bis D.Lgs 82/2005) - Prot. 2015-UNCTCLE-0143708 del 16/11/2015
99
CAPITOLO 5. TEST SULLE GEM
La Tabella 5.4 mostra un quadro generale dei risultati ottenuti dal confronto
dei run 265 e 268.
Tabella 5.4: Risultati del confronto tra il run 265 e il run 268
Strips in
cluster x/y
mean
Sample with
max charge
x/y mean
Cluster/Event
x/y mean
Charge on
cluster x/y
mean
ADC
Correlation
mean
0
1.42/1.29
2.77/2.73
2.47/2.05
163.1/154.7
0.04
268
0
1.52/1.30
2.72/2.81
2.52/2.17
184/164.1
0.07
265
1
1.47/1.62
2.15/2.20
2.61/2.48
234.8/239.2
-0.007
268
1
1.50/1.66
2.12/2.10
2.97/2.91
244.9/256
-0.02
265
2
1.53/2.11
1.99/2
2.03/2.85
367.9/318.4
0.08
268
2
1.62/2.20
1.97/2.01
2.07/2.84
406.6/353.2
0.10
265
3
1.53/1.52
2.14/2.24
2.11/2.24
245.3/208.9
0.14
268
3
1.61/1.55
2.05/2.19
2.15/2.27
277.3/235
0.14
Run
Module
265
I grafici in Figura 5.30 e Figura 5.31 mostrano, anche in questa sezione, le
differenze relative più la semplice differenza di correlazione di carica tra i due run
confrontati. Come si può notare, le differenze tra le proprietà di clustering dei run
265 e 268 sono prossime allo zero, per quanto riguarda l’individuazione delle strip
e dei sample, mentre mostra alcune differenze nella carica rilevata nei cluster e
nella formazione dei cluster per singolo evento. Queste variazioni (circa il 10 %)
sono dovute al fatto che il run 268 lavorava ad una tensione superiore rispetto al
265, pertanto, come già detto nel pragrafo del guadagno relativo, all’aumentare
della tensione applicata aumenta il numero di elettroni prodotti, di conseguenza
la carica individuata. Quindi il risultato ottenuto da questo confronto è proprio
quello atteso.
Realtive Difference of Sample with Max Charge x (RDSMCx), run (265-268)*2/(265+268)
1
RDSMCX
RDSCx
Relative Difference of Strips in Cluster x (RDSCx), run (265-268)*2/(265+268)
0.8
1
0.8
0.6
0.6
0.4
0.4
0.2
0.2
0
0
-0.2
-0.2
-0.4
-0.4
-0.6
-0.6
-0.8
-10
-0.8
1
2
-10
3
MODULE
0.8
2
3
MODULE
1
0.8
0.6
0.6
0.4
0.4
0.2
0.2
0
0
-0.2
-0.2
-0.4
-0.4
-0.6
-0.6
-0.8
-10
1
Relative Difference of Charge on Cluster x (RDCCx), run (265-268)*2/(265+268)
1
RDCCx
RDCEx
Realtive Difference of Cluster/Event x (RDCEx), run (265-268)*2/(265+268)
-0.8
1
2
3
MODULE
-10
1
2
3
MODULE
Difference of ADC Correlation (DADCC), run (265-268)
DADCC
Copia di documento informatico archiviato presso l'Università degli Studi di Catania (ex art. 23-bis D.Lgs 82/2005) - Prot. 2015-UNCTCLE-0143708 del 16/11/2015
100
CAPITOLO 5. TEST SULLE GEM
5
4
3
2
1
0
-1
-2
-3
-4
-5 0
1
2
3
MODULE
Figura 5.30: Grafici riassuntivi che mostrano le differenze dei 4 confronti effettuati, nella coordinata x, più la differenza della correlazione di carrica, dei run 265 e 268. Come si può notare, le
differenze sono prossime allo zero, tranne il charge on cluster, dove il run 268 mostra circa 10%
in più di carica individuata.
1
Realtive Difference of Sample with Max Charge y (RDSMCy), run (265-268)*2/(265+268)
RDSMCX
RDSCx
Relative Difference of Strips in Cluster y (RDSCy), run (265-268)*2/(265+268)
0.8
1
0.8
0.6
0.6
0.4
0.4
0.2
0.2
0
0
-0.2
-0.2
-0.4
-0.4
-0.6
-0.6
-0.8
-1
0
-0.8
1
2
-1
0
3
MODULE
Realtive Difference of Cluster/Event y (RDCEy), run (265-268)*2/(265+268)
1
0.8
3
MODULE
0.8
0.6
0.4
0.4
0.2
0.2
0
0
-0.2
-0.2
-0.4
-0.4
-0.6
-0.6
-1
0
2
1
0.6
-0.8
1
Relative Difference of Charge on Cluster y (RDCCy), run (265-268)*2/(265+268)
RDCCx
RDCEx
Copia di documento informatico archiviato presso l'Università degli Studi di Catania (ex art. 23-bis D.Lgs 82/2005) - Prot. 2015-UNCTCLE-0143708 del 16/11/2015
101
CAPITOLO 5. TEST SULLE GEM
-0.8
1
2
3
MODULE
-1
0
1
2
3
MODULE
Figura 5.31: Grafici riassuntivi che mostrano le differenze dei 5 confronti effettuati, nella coordinata y, dei run 265 e 268. Come si può notare, le diffrenze sono prossime allo zero, tranne per
il modulo 1 del Cluster/Event e il charge on cluster, dove il run 268 mostra una maggiore carica
individuata, circa il 10% in più.
Copia di documento informatico archiviato presso l'Università degli Studi di Catania (ex art. 23-bis D.Lgs 82/2005) - Prot. 2015-UNCTCLE-0143708 del 16/11/2015
CAPITOLO 5. TEST SULLE GEM
102
Run 252 vs Run 456
Si è confrontato il run 252 con il run 456.
• Stessa tensione applicata: 4100 V.
• Stesso gas flow: 2 V/h .
• Diversa intensità di fascio: (252) 1.4 · 109 vs (456) 1.6 · 1010 protons/bunch.
• Diverso profilo del fascio: più largo per il run 456.
In questo confronto si cercano eventuali dipendenze dei risulatati al variare dell’intensità di fascio.
Anche in questo confronto si osserverà: strip in cluster (Figura 5.32 e Figura 5.33); sample with max charge (Figura 5.34 e Figura 5.35); cluster/event
(Figura 5.36 e Figura 5.37); charge on cluster (Figura 5.38 e Figura 5.39).
In Tabella 5.5 vi sono rappresentati i risultati dei confronti realizzati per i run
252 e 456. Come si può notare dalla Figura 5.40 e dalla Figura 5.41, tutti i plot,
a parte il grafico del sample con la carica massima, mostrano molte differenze
percentuali tra i 2 run in esame.
Tali discrepanze variano da un 10% delle strip nei cluster fino ad un 60% di cluster
individuati in un evento, tutte a vantaggio del run 456. Questo fa intuire una
certa correlazione tra l’intensità del fascio e la carica prodotta nei moduli GEM.
All’aumentare dell’intensità vi è una maggiore quantità di ionizzazione globale del
gas, portando ad una maggiore produzione di elettroni e quindi di carica registrata.
In aggiunta, il run 456 aveva un profilo di fascio più allargato rispetto al run 252,
pertanto le strip colpite risultano essere leggermente di più, quindi il numero di
strip in un cluster aumenta e di conseguenza anche il numero dei cluster per evento.
Infine, si nota una certa preponderanza di cariche nelle strip y, sempre del run
456 rispetto al 252. Questo è sempre dovuto alla maggiore ionizzazione globale
del gas; infatti, la grande quantità di eletroni prodotti tende non solo a depositarsi nelle parti metalliche delle strip, ma anche su quelle isolanti, dove potrebbero
rimanere bloccati e constituire una nuvola elettronica che deforma il campo elettrostatico principale (tra l’ultima GEM e il read-out). Tale deformazione tenderebbe
a rendere un layer meno efficiente dell’altro.
Strips in cluster - x axis, run 252, module 3
104
Strips in cluster - y axis, run 252, module 3
htemp
htemp
Entries 33499
Entries 33499
Mean
1.52
Mean
1.546
RMS
0.6089
RMS
0.6446
104
Strips in cluster x vs y, run 252, module 3
3
3
10
102
Strips in cluster-y axis
10
102
6
10000
5
8000
4
6000
3
0
2
4000
1
2000
10
10
1
2
3
4
5
6
Strips in cluster-x axis
0
0.5
1
1.5
2
2.5
3 3.5
4 4.5
5
Strips in cluster-y axis
0
0
0.5
1
1.5
2
2.5
3
3.5
4
4.5
5
Strips in cluster-x axis
0
Figura 5.32: Grafico rappresentante il numero di strip coinvolte in un cluster nel modulo 3 del
run 252, nelle coordinate x (a sinistra) e nelle coordinate y (al centro). A destra è rappresentato,
invece, uno scatter plot delle strip contenute in un cluster nelle coordinate x e y.
Strips in cluster - x axis, run 456, module 3
Strips in cluster - y axis, run 456, module 3
htemp
htemp
Entries 21995
104
Mean
1.665
RMS
0.6328
3
10
Entries 21995
104
Mean
1.954
RMS
0.6702
3
10
Strips in cluster x vs y, run 456, module 3
102
Strips in cluster-y axis
Copia di documento informatico archiviato presso l'Università degli Studi di Catania (ex art. 23-bis D.Lgs 82/2005) - Prot. 2015-UNCTCLE-0143708 del 16/11/2015
103
CAPITOLO 5. TEST SULLE GEM
102
6
7000
5
6000
4
5000
4000
10
10
3
3000
2
2000
1
0
1
1
2
3
4
5
6
Strips in cluster-x axis
0
1
1
2
3
4
5
6
Strips in cluster-y axis
0
0
1000
1
2
3
4
5
6
Strips in cluster-x axis
0
Figura 5.33: Grafico rappresentante il numero di strip coinvolte in un cluster nel modulo 3 del
run 456, nelle coordinate x (a sinistra) e nelle coordinate y (al centro). A destra è rappresentato,
invece, uno scatter plot delle strip contenute in un cluster nelle coordinate x e y.
Sample with max charge on x axis, run 252, module 3
Sample with max charge on y axis, run 252, module 3
htemp
htemp
Entries 33499
Entries 33499
Mean
2.144
Mean
2.181
RMS
0.3943
RMS
0.4533
104
104
Sample with max charge x vs y, run 252, module 3
Sample max charge on y axis
3
3
10
10
102
102
4
20000
3.5
18000
3
16000
14000
2.5
12000
2
10000
1.5
10
10
8000
6000
1
4000
0.5
0
0.5
1
1.5
2
2.5
3
3.5
4
Sample max charge on x axis
0
0.5
1
1.5
2
2.5
3
3.5
4
Sample max charge on y axis
0
0
2000
0.5
1
1.5
2
2.5
3
3.5
4
Sample max charge on x axis
0
Figura 5.34: Plot sul sample con la carica massima registrata, nel modulo 3 del run 252. A
sinistra: Rappresentazione del sample che ha registrato la massima carica, nella coordinata x.
Al centro: Rappresentazione del sample che ha registrato la carica massima, nella coordinata y.
A destra: Scatter plot, in x e y, dei sample con carica massima registrata.
Sample with max charge on x axis, run 456, module 3
104
Sample with max charge on y axis, run 456, module 3
htemp
htemp
Entries 21995
Entries 21995
Mean
2.095
Mean
2.116
RMS
0.3189
RMS
0.3371
3
104
3
10
10
Sample with max charge x vs y, run 456, module 3
Sample max charge on y axis
Copia di documento informatico archiviato presso l'Università degli Studi di Catania (ex art. 23-bis D.Lgs 82/2005) - Prot. 2015-UNCTCLE-0143708 del 16/11/2015
104
CAPITOLO 5. TEST SULLE GEM
102
102
10
10
5
16000
4.5
4
14000
3.5
12000
3
10000
2.5
8000
2
6000
1.5
4000
1
1
1
2000
0.5
0
0.5
1
1.5
2
2.5 3 3.5
4 4.5
5
Sample max charge on x axis
0
0.5
1
1.5
2
2.5
3
3.5
4
Sample max charge on y axis
0
0
0.5
1
1.5
2
2.5
3
3.5
4
Sample max charge on x axis
0
Figura 5.35: Plot sul sample con la carica massima registrata, nel modulo 3 del run 456. A
sinistra: Rappresentazione del sample che ha registrato la massima carica, nella coordinata x.
Al centro: Rappresentazione del sample che ha registrato la carica massima, nella coordinata y.
A destra: Scatter plot, in x e y, dei sample con carica massima registrata.
#Cluster/Event - y, run 252, module 3
#Cluster/Event - x, run 252, module 3
htemp
htemp
Entries 33499
4
10
Mean
2.101
RMS
1.529
Entries 33499
4
10
Mean
2.199
RMS
1.603
3
3
10
10
#Cluster/Event-y axis
#Cluster/Event x vs y
102
102
10
10
40
6000
35
30
5000
25
4000
20
3000
15
2000
10
1
1
1000
5
0
5
10
15
20
25
30
35
#Cluster/Event-x axis
0
5
10
15
20
25
30
35
#Cluster/Event-y axis
0
0
5
10
15
20
25
30
35
#Cluster/Event-x axis
0
Figura 5.36: Grafico rappresentante il numero di cluster formatosi in un evento, nel modulo 3
del run 252. A sinistra: Numero di cluster per singolo evento, nella coordinata x. Al centro:
Numero di cluster per singolo evento, nella coordinata y. A destra: Scatter plot dei cluster
formatosi durante un evento, in x e y.
#Cluster/Event - y, run 456, module 3
#Cluster/Event - x, run 456, module 3
4
10
htemp
htemp
Entries 21432
Entries 21432
Mean
3.309
Mean
3.778
RMS
3.885
RMS
3.223
3
10
3
10
#Cluster/Event x vs y
#Cluster/Event-y axis
Copia di documento informatico archiviato presso l'Università degli Studi di Catania (ex art. 23-bis D.Lgs 82/2005) - Prot. 2015-UNCTCLE-0143708 del 16/11/2015
105
CAPITOLO 5. TEST SULLE GEM
2
10
102
2400
60
2200
2000
50
1800
1600
40
1400
10
10
1200
30
1000
800
20
600
1
1
400
10
200
0
10
20
30
40
50
60
#Cluster/Event-x axis
0
5
10
15
20
25
30
35
40
45
#Cluster/Event-y axis
0
0
5
10
15
20
25
30
35
40
45
#Cluster/Event-x axis
0
Figura 5.37: Grafico rappresentante il numero di cluster formatosi in un evento, nel modulo 3
del run 456. A sinistra: Numero di cluster per singolo evento, nella coordinata x. Al centro:
Numero di cluster per singolo evento, nella coordinata y. A destra: Scatter plot dei cluster
formatosi durante un evento, in x e y.
x Charge on cluster
y Charge on cluster
htemp
Entries
29059
Mean
238.6
RMS
113.2
1400
htemp
Entries
29059
Mean
212.9
RMS
103.2
2200
2000
1200
1800
1600
1000
1400
800
1200
1000
600
800
400
600
400
200
200
0
0
100
200
300
400
500
600
700
0
800
x Charge (A.U.)
0
100
200
Charge _y (A.U.)
300
400
500
600
700
y Charge (A.U.)
2.*(Cx-Cy)/(Cx+Cy)
Maximum Charge on single strip
700
600
htemp
Entries
29059
Mean
0.1066
RMS
0.4349
1800
1600
600
500
1400
500
400
400
1200
1000
300
300
200
200
800
600
400
100
100
0
200
0
100
200
300
400
500
600
700
800
Charge _x (A.U.)
0
0
-1.5
-1
-0.5
0
0.5
1
1.5
2
x-y Charge Asymmetry
Figura 5.38: Grafico rappresentante la carica registrata per ogni cluster, in x e in y, nel modulo
3 del run 252. In alto a sinistra: Carica registrata su ogni clustero, nella coordinata x. In alto
a destra: Carica registrata su ogni cluster, nella coordinata y. In basso a sinistra: Scatter plot
della carica registrata sul cluster, in x e y. In basso a destra: Correlazione di carica o asimmetria
di carica, per le coordinate x e y.
x Charge on cluster
y Charge on cluster
htemp
Entries
16879
Mean
310.4
RMS
158.2
1800
1600
htemp
Entries
16879
Mean
289.4
RMS
139.1
1400
1200
1400
1000
1200
1000
800
800
600
600
400
400
200
200
0
0
500
1000
1500
2000
0
2500
x Charge (A.U.)
0
200
400
600
800
1000
1200
1400
1600
y Charge (A.U.)
2.*(Cx-Cy)/(Cx+Cy)
Maximum Charge on single strip
Charge _y (A.U.)
Copia di documento informatico archiviato presso l'Università degli Studi di Catania (ex art. 23-bis D.Lgs 82/2005) - Prot. 2015-UNCTCLE-0143708 del 16/11/2015
106
CAPITOLO 5. TEST SULLE GEM
htemp
Entries
16879
Mean
0.05924
RMS
0.3221
1800
1600
1600
1400
2500
1400
1200
1200
1000
2000
1000
1500
800
800
600
600
400
400
1000
500
200
0
200
0
500
1000
1500
2000
2500
Charge _x (A.U.)
0
0
-1.5
-1
-0.5
0
0.5
1
1.5
x-y Charge Asymmetry
Figura 5.39: Grafico rappresentante la carica registrata per ogni cluster, in x e in y, nel modulo
3 del run 456. In alto a sinistra: Carica registrata su ogni clustero, nella coordinata x. In alto
a destra: Carica registrata su ogni cluster, nella coordinata y. In basso a sinistra: Scatter plot
della carica registrata sul cluster, in x e y. In basso a destra: Correlazione di carica o asimmetria
di carica, per le coordinate x e y
Tabella 5.5: Risultati del confronto tra il run 252 e il run 456. I dati relativi al modulo 2 del run
456, purtroppo non sono stati rilevati a causa di un problema elettrico nel sistema, pertanto il
modulo è stato disattivato.
Strips in
cluster x/y
mean
Sample with
max charge
x/y mean
Cluster/Event
x/y mean
Charge on
cluster x/y
mean
ADC
Correlation
mean
0
1.54/1.39
2.59/2.61
2.45/2.04
191.3/174.3
0.08
456
0
1.72/1.73
2.48/2.60
3.10/3.97
179/173.9
0.003
252
1
1.50/1.58
2.08/2.03
2.57/2.42
250.3/245.7
0.04
456
1
1.77/1.81
2.06/2.11
3.52/4.52
258.2/258
0.009
252
2
1.50/2.10
1.96/1.92
2.06/2.85
346.3/314.7
0.07
456
2
-
-
-
-
-
252
3
1.52/1.54
2.11/2.18
2.10/2.19
238.6/212.9
0.1
456
3
1.66/1.95
2.09/2.11
3.30/3.77
310.4/290
0.05
Run
Module
252
Realtive Difference of Sample with Max Charge x (RDSMCx), run (252-456)*2/(252+456)
1
RDSMCX
RDSCx
Relative Difference of Strips in Cluster x (RDSCx), run (252-456)*2/(252+456)
0.8
1
0.8
0.6
0.6
0.4
0.4
0.2
0.2
0
0
-0.2
-0.2
-0.4
-0.4
-0.6
-0.6
-0.8
-10
-0.8
1
2
-10
3
MODULE
0.8
2
3
MODULE
1
0.8
0.6
0.6
0.4
0.4
0.2
0.2
0
0
-0.2
-0.2
-0.4
-0.4
-0.6
-0.6
-0.8
-10
1
Relative Difference of Charge on Cluster x (RDCCx), run (252-456)*2/(252+456)
1
RDCCx
RDCEx
Realtive Difference of Cluster/Event x (RDCEx), run (252-456)*2/(252+456)
-0.8
1
2
3
MODULE
-10
1
2
3
MODULE
Difference of ADC Correlation (DADCC), run (252-456)
DADCC
Copia di documento informatico archiviato presso l'Università degli Studi di Catania (ex art. 23-bis D.Lgs 82/2005) - Prot. 2015-UNCTCLE-0143708 del 16/11/2015
107
CAPITOLO 5. TEST SULLE GEM
5
4
3
2
1
0
-1
-2
-3
-4
-5 0
1
2
3
MODULE
Figura 5.40: Grafici riassuntivi che mostrano le differenze dei 4 confronti effettuati, nella coordinata x, più la differenza di correlazione di carica, dei run 252 e 456. Come si può notare, le
diffrenze sono prossime allo zero solamente per il sample con la carica massima e la correlazione
di carica, mentre si notano alcune variazioni per quanto concerne lo Strips in Cluster, il Cluster/Event e il Charge on Cluster. In particolar modo le discrepanze sono più accentuate nel
modulo 3 (in media oltre il 20% di differenza).
1
Realtive Difference of Sample with Max Charge y (RDSMCy), run (252-456)*2/(252+456)
RDSMCX
RDSCx
Relative Difference of Strips in Cluster y (RDSCy), run (252-456)*2/(252+456)
0.8
1
0.8
0.6
0.6
0.4
0.4
0.2
0.2
0
0
-0.2
-0.2
-0.4
-0.4
-0.6
-0.6
-0.8
-1
0
-0.8
1
2
-1
0
3
MODULE
Realtive Difference of Cluster/Event y (RDCEy), run (252-456)*2/(252+456)
1
0.8
3
MODULE
0.8
0.6
0.4
0.4
0.2
0.2
0
0
-0.2
-0.2
-0.4
-0.4
-0.6
-0.6
-1
0
2
1
0.6
-0.8
1
Relative Difference of Charge on Cluster y (RDCCy), run (252-456)*2/(252+456)
RDCCx
RDCEx
Copia di documento informatico archiviato presso l'Università degli Studi di Catania (ex art. 23-bis D.Lgs 82/2005) - Prot. 2015-UNCTCLE-0143708 del 16/11/2015
108
CAPITOLO 5. TEST SULLE GEM
-0.8
1
2
3
MODULE
-1
0
1
2
3
MODULE
Figura 5.41: Grafici riassuntivi che mostrano le differenze dei 4 confronti effettuati, nella coordinata y, dei run 252 e 456. Come si può notare, le diffrenze sono prossime allo zero solamente per
il sample con la carica massima registrata, mentre per i restanti grafici sono presenti marcate
differenze. Il run 456 presenta circa il 20% di strip in più in un singolo cluster, circa il 60% in
più di cluster in un singolo evento e circa il 30% di carica in pi‘ nel modulo 3.
5.2.5
Efficienza dei moduli
In questa sezione si osserveranno le efficienze dei vari moduli al variare delle
condizioni sperientali, e precisamente si analizzeranno:
• Efficienza al variare della tensione, a 1 V/h nominale di gas flussato e ad una
intensità di 1.4 · 109 protons/bunch.
• Efficienza al variare della tensione, a 2 V/h nominale di gas flussato e ad una
intensità di 1.4 · 109 protons/bunch.
• Efficienza al variare della tensione, a 3 V/h nominale di gas flussato e ad una
intensità di 1.4 · 109 protons/bunch.
• Efficienza al variare della tensione, a 4 V/h nominale di gas flussato e ad una
intensità di 1.4 · 109 protons/bunch.
9
9
Module 0
Module 1
1.2
Module 2
Module 3
Efficiency, 2 Volume/h, 1.4*10 proton/bunch
Efficiency
Efficiency, 1 Volume/h, 1.4*10 proton/bunch
Efficiency
Copia di documento informatico archiviato presso l'Università degli Studi di Catania (ex art. 23-bis D.Lgs 82/2005) - Prot. 2015-UNCTCLE-0143708 del 16/11/2015
109
CAPITOLO 5. TEST SULLE GEM
Module 0
Module 3
1
1
0.8
0.8
0.6
0.6
0.4
0.4
0.2
0.2
0
4000
4050
4100
4150
4200
HV [V]
Module 1
Module 2
1.2
0
4050
4100
4150
HV [V]
Figura 5.42: Efficienza dei 4 moduli al variare della tensione per determinati valori nominali di
gas flussato e intensità di fascio.
Dai grafici osservati in Figura 5.42, è possibile notare come le efficienze tendono leggermente a salire all’aumentare della tensione applicata, indipendentemente
dalla quantità di gas flussato. Come ci si aspettava, il modulo 2 è il più efficiente
dei 4, data la diversa partizione di tensione applicata, a seguire il modulo 1, anch’esso con partizione differente, e infine il modulo 0 e il modulo 3. Il modulo 0
e 3 hanno una uguale partizione di tensione applicata, quindi ci si aspettava una
efficienza molto simile. Al contrario il modulo 3 risulta meno efficiente; le cause
possono essere ricondotte a differenze di assemblaggio e al fatto che il modulo 3,
primo a ricevere il flusso di gas, è stato sottoposto al maggior stress di pressione
del gas.
Dai grafici visualizzati in Figura 5.43, si nota, almeno per quello a 3 V/h, un
andamento simile a quelli in Figura 5.42, ovvero che l’efficienza tende a crescere
9
9
Efficiency, 3 Volume/h, 1.4*10 proton/bunch
Module 0
Module 1
Module 2
1.2
Module 3
Efficiency
Efficiency, 4 Volume/h, 1.4*10 proton/bunch
Efficiency
Copia di documento informatico archiviato presso l'Università degli Studi di Catania (ex art. 23-bis D.Lgs 82/2005) - Prot. 2015-UNCTCLE-0143708 del 16/11/2015
110
CAPITOLO 5. TEST SULLE GEM
Module 0
Module 3
1
1
0.8
0.8
0.6
0.6
0.4
0.4
0.2
0.2
0
4099.96
4100
4100.04
HV [V]
Module 1
Module 2
1.2
0
4000
4050
4100
4150
4200
HV [V]
Figura 5.43: Efficienza dei 4 moduli al variare della tensione per determinati valori di gas flussato
e intensità di fascio.
all’aumentare della tensione. Anche in questo caso non si apprezza nessuna dipendenza dal gas flussato. Per quanto riguarda, invece, l’efficienza a 4 V/h non è
stato possibile effettuare un andamento in funzione della tensione poiché si stava
operando a flussi di gas molto elevati, con il rischio di danneggiare i moduli GEM.
Quindi si sono effettuati solamente pochi run ad una tensione di 4100 V.
Come ultima analisi sull’efficienza di rivelazione, si è pensato di visualizzare
anche il profilo del fascio nei singoli moduli. Oltre alla posizione originaria (circa
(266;250)), il blocco dei 4 moduli è stato spostato per osservare la risposta del
sistema in altre zone di area attiva del tracciatore. In aggiunta, il profilo del fascio
è stato pure allargato. Si ricorda che il diametro della sezione del fascio è circa 3.6
cm.
Nella Figura 5.44 sono riportati i diversi profili del fascio al variare dei moduli.
Il grafico Hit Charge rappresenta la carica in un preciso punto dell’area attiva
(40x50 cm2 ), dove si individua facilmente, per tutti i moduli, il profilo e la posizione
originaria del fascio e altre 4 posizioni del fascio allargato. Nel modulo 2 si riscontra
solamente la posizione iniziale del fascio, poiché tale modulo era stato già rimosso
prima dello spostamento del tracciatore. Il grafico Charge Asymmetry, invece,
individua sempre la posizione del fascio ma in termini di correlazione di carica tra
le strip delle due coordinate, ovvero tanta carica in x quanta in y. Il valore atteso
è sicuramente lo zero, ma per motivi di visualizzazione grafica è stato riportato
tutto a +1, pertanto il colore atteso è proprio il verde.
Hit Charge, module 1
2.5
450
1400
4500
375
3500
350
1.5
1000
250
200
600
0
50
0
400
0
0
50
100
150
200
250
300
350
500
50
133.33
266.67
[mm]
[mm]
400
0
0
0
50
100
150
200
250
300
350
400
[mm]
Charge Asymmetry + 1, module 3
Hit Charge, module 3
500
450
0
[mm]
Charge Asymmetry + 1, module 2
Hit Charge, module 2
2500
100
1
-0.5
0
0
400
[mm]
3000
1000
-0.5
[mm]
500
150
500
[mm]
266.67
200
1500
125
200
133.33
2000
0.5
400
100
0
0
250
0.5
150
125
1.5
300
2500
250
1
2
350
3000
300
800
250
2.5
400
2
1200
500
450
4000
400
375
Charge Asymmetry + 1, module 1
500
[mm]
500
[mm]
Charge Asymmetry + 1, module 0
500
[mm]
[mm]
Hit Charge, module 0
[mm]
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111
CAPITOLO 5. TEST SULLE GEM
5000
2.5
400
500
2.5
450
400
2
375
375
4000
350
2000
1.5
300
2
350
1.5
300
3000
250
1500
250
1
250
250
200
1000
1
200
2000
0.5
150
0.5
150
125
125
0
100
1000
500
50
100
0
50
-0.5
-0.5
0
0
133.33
266.67
400
[mm]
0
0
0
50
100
150
200
250
300
350
400
0
0
133.33
266.67
[mm]
0
400
[mm]
0
0
50
100
150
200
250
300
350
400
[mm]
Figura 5.44: Profilo del fascio visualizzato attraverso lo scatter plot per i 4 moduli GEM. Hit
Charge rappresenta la carica rilevata in un determinato punto del tracciatore. Il modulo 2, a
differenza degli altri 3, ha acquisito solo in una prima fase del test, ovvero prima dello spostamento
del tracciaotre. Charge Asymmetry+1 rappresenta la correlazione tra la carica registrata dalle
strip in x e quella in y. Per motivi di visualizzazione è stato riportato tutto a +1.
5.3
Conclusioni sul test di Jülich
Ricapitolando, il principale obiettivo del test eseguito a Jülich è stato quello di
analizzare la risposta dei tracciatori in condizioni di alta intensità di fascio al variare della tensione applicata ai moduli, del flusso di gas erogato e dell’intensità di
protoni incidenti e verificare eventuali dipendenze. Il sistema è stato sottoposto a
pressioni molto elevate di gas flussato fino ad arrivare a 4 V/h nominali, corrispondenti a 16 V/h effettivi per singolo modulo (molto più alto di quello risacontrabile
a JLab). Nonostante le alte pressioni ricevute, il risulatato è stato quello di una
buona stabilità globale dell’apparato (a parte una piccola deformazione meccanica
del primo modulo che riceveva il gas, soprattutto ad alti flussi) e nessuno effetto
rilevante sul gas.
È stato verificato che il guadagno relativo dei singoli moduli è sostanzialmente
indipendente dal volume di gas flussato. Viceversa, il guadagno ha una forte
dipendenza dalla tensione applicata ai moduli, come aspettato. Infatti, si passa
da un guadagno di 6 · 103 per una tensione di 4100 V ad un guadagno di 1.4 · 104
per una tensione di 4200 V.
Per quanto riguarda l’analisi del clustering, si sono ottenuti risultati interessanti. Dai confronti realizzati è emerso che non si ottengono effetti significativi al
variare del flusso di gas erogato, ma le uniche differenze si ottengono all’aumentare
della tensione applicata e dell’intensità di fascio; in particolar modo si riscontra
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CAPITOLO 5. TEST SULLE GEM
112
una maggiore quantità di carica presente all’interno dei singoli cluster e del numero di cluster per singolo evento. Questo è dovuto al fatto che all’aumentare della
tensione vi è un maggiore processo di ionizzazione all’interno dei moduli, e quindi
un maggior quantitativo di elettroni che giungono sulle strip del read-out.
Pertanto, gli effetti più significativi si ottengono al variare della tensione e
dell’intensità, ma non al variare del gas, almeno entro i limiti attesi durante
l’operatività delle GEM.
In ultima analisi, si sono analizzate le efficienze dei singoli moduli, al variare
della tensione applicata e del gas flussato. Come ci si aspettava, il modulo 2 e
il modulo 1 hanno evidenziato una più alta efficienza rispetto ai moduli 0 e 3.
Questo è dovuto al fatto che i moduli 2 e 1, ricevendo una partizione diversa,
hanno lavorato ad una tensione superiore rispetto ai moduli 0 e 3.
Dai risultati ottenuti, si evince che, anche in questo caso, l’efficienze migliorano
all’aumentare delle tensioni e non dipendono in modo significativo dal quantitativo
di gas erogato.
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Capitolo 6
Apprendimento Automatico
L’apprendimento automatico è una branca dell’Intelligenza Artificiale (AI) che si
occupa di realizzare dispositivi artificiali, capaci di emulare le modalità di ragionamento che sono tipiche dell’uomo. Per fare ciò, tali dispositivi devono essere in
grado di apprendere, ovvero estrarre una conoscenza generale, attraverso forme di
ragionamento induttivo su un determinato problema, esaminando vari tipi di esempi ad esso correlati. Infatti, dato un insieme di esempi, il modulo di apprendimento
induce un modello generale capace di descrivere gli esempi visti.
L’obiettivo di questo capitolo è proprio quello di introdurre e descrivere, in modo informale, alcuni dei più importanti concetti sul problema dell’apprendimento
automatico e illustrarli utilizzando semplici esempi.
Inoltre verranno introdotti, in maniera generica, gli algoritmi evolutivi ed in
particolar modo la programmazione genetica, poiché quest’ultima è stata utilizzata
per risolvere una problematica software del tracciatore GEM.
6.1
Machine learning
L’apprendimento automatico (machine learning) si occupa della realizzazione di
sistemi e algoritmi, basati su osservazioni di dati per la sintesi di nuove conoscenze.
Il processo di apprendimento può avvenire attreverso l’osservazione di caratteristiche di interesse, provenienti da esempi o strutture dati, allo scopo di analizzarle e
valutare l’esistenza di relazioni tra le variabili osservate, ovvero identificarne una
regolarità al fine di tentare di prendere decisioni come, ad esempio, la classificazione
dei dati in diverse categorie (pattern recognition).
In poche parole, ad esempio, il problema di decidere se uno sciame è adronico
o elettromagnetico, o se una particella è un protone o un neutrone, è un problema
di pattern recognition.
113
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CAPITOLO 6. APPRENDIMENTO AUTOMATICO
114
Prendendo in considerazione l’ultimo dualismo citato, quindi, l’obiettivo è creare un algoritmo che prenda un vettore x come dati di input, rappresentativo di
una particella, e che restituisca un output identificativo della particella stessa.
Fare una tale classificazione non è cosı̀ banale come può sembrare. Potrebbe
essere affrontata utilizzando regole euristiche per distinguere le particelle, per esempio, in base alla loro dimensione, ma in pratica un approccio del genere potrebbe
generare una proliferazione di regole e di eccezioni, che quasi sempre porterebbe a
scarsi risultati. Per ottenere risultati migliori è possibile adottare un approccio di
apprendimento automatico, in cui un grande set di N particelle (x1 , ..., xN ), chiamato learning set, viene usato per regolare i parametri di un modello che si può
adattare a tale problema [36]. Pertanto, la scelta del modello non è altro che una
scelta della struttura logica e della base matematica delle regole di classificazione
[37].
Le categorie delle particelle nel learning set sono note a priori. Si può esprimere
la categoria di una particella usando un vettore target t, che rappresenta l’identità
della particella corrispondente. Si noti che vi è un target t per ciascuna particella
x.
Il risultato dell’esecuzione di un algoritmo di apprendimento automatico può
essere espresso come una funzione y(x), che assume una nuova particella x come
input e che genera come output un vettore y, codificato come vettore target. La
forma precisa della funzione y(x) viene determinata durante la fase di apprendimento (learning phase), sulla base dei dati di learning. Una volta che il modello
è allenato, può quindi essere in grado di determinare l’identità di nuove particelle, che comprendono un nuovo insieme di dati, chiamato testing set. La capacità
di classificare correttamente nuovi esempi, che differiscono da quelli utilizzati per
l’apprendimento, è nota come generalizzazione.
Nelle applicazioni pratiche, la varietà dei vettori di input potrebbe essere tale
che i dati di allenamento comprenderebbero solo una frazione di tutti i possibili
vettori d’ingresso e quindi la generalizzazione è un obiettivo centrale del pattern
recognition [36].
Spesso, utilizzare gli input nella forma in cui vengono dati è un procedimento
che non sempre dà grandi risultati. Dunque si è costretti a trasformarli in una
nuova rappresentazione, in modo tale che la classificazione avvenga con più facilità. Il procedimento di modifica della rappresentazione dei dati in input è detto
preprocessing; con il postprocessing l’output è ottenuto nella forma desiderata. Un
esempio di preprocessing lo si trova in alcuni casi, quando conviene, paradossalmente, eliminare alcune variabili di input per avere dei risultati migliori. Questo
può essere spiegato pensando che, se si ha un numero maggiore di variabili, si ha
certamente una maggiore precisione, ma l’elaborazione di ogni dato richiede un
tempo maggiore rispetto al caso in cui il numero di variabili è minore.
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CAPITOLO 6. APPRENDIMENTO AUTOMATICO
115
Talvolta aggiungere dati, che sono fortemente correlati con quelli già in possesso, dà una bassa quantità di informazioni addizionali. Questo tipo di processo,
in cui viene preso in considerazione solo un sottoinsieme dei dati a disposizione,
è detto estrazione delle features (caratteristiche). La riduzione delle dimensioni
dell’input porta anche ad una perdita di informazione. Infatti, lo scopo delle tecniche di riduzione della dimensione degli input è di assicurare la permanenza della
massima informazione rilevante possibile [38].
Applicazioni in cui i dati di learning comprendono esempi di vettori in ingresso
insieme ai loro corrispondenti vettori target sono noti come problemi di apprendimento supervisionato [36]. L’apprendimento supervisionato (noto anche come
apprendimento con insegnante) è una tecnica di apprendimento automatico, che
mira a istruire un sistema informatico in modo da consentirgli di risolvere dei
compiti in automatico.
Infatti, data una serie di esempi (learning set), dove ogni singolo esempio è
caratterizzato da un vettore di features (x) ed un output (y), le tecniche supervisionate si occupano di costruire un modello capace di approssimare l’output
y = y(x). Il modello appreso durante una fase di addestramento è un’approssimazione della funzione non nota y(x) (funzione target), che si vuole conoscere
[40].
Casi, come nell’esempio del riconoscimento delle particelle, in cui l’obiettivo è
quello di assegnare a ciascun vettore di input un numero finito di categorie discrete (valori qualitativi [39]), sono chiamati problemi di classificazione. Se, invece,
l’output desiderato è costituito da una o più variabili continue (valori quantitativi
[39]), ci troviamo di fronte ad un caso di regressione.
In altri problemi di pattern recognition, i dati di addestramento consistono in
un insieme di vettori x di input, senza avere alcun corrispondente valore di target.
In questo caso si parla di apprendimento non supervisionato (o senza insegnante).
L’obiettivo, in un tale apprendimento, potrebbe essere quello di trovare strutture
nascoste in strutture dati non preclassificate, da cui non è possibile valutare una
eventuale soluzione, ovvero classificare e organizzare dati di input sulla base di
caratteristiche comuni, per cercare di effettuare ragionamenti e previsioni sugli
input successivi (clustering).
6.1.1
Problema della regressione
In questo paragrafo verrà utilizzato un semplice problema di regressione, per motivare una serie di concetti chiave. Si supponga di osservare un set di variabili reali x
come dati di input e si voglia utilizzare questa osservazione per prevedere il valore
di una variabile target di tipo reale t. A tale scopo, è utile considerare un esempio
pratico, utilizzando dei dati generati in maniera analitica. In questo modo, si è a
conoscenza dell’esatto processo che li ha creati, cosı̀ da poter fare un confronto con
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CAPITOLO 6. APPRENDIMENTO AUTOMATICO
116
un qualsiasi modello allenato. I dati, per questa tipologia di esempio, sono stati
generati dalla funzione sin(2πx) e sono stati leggermente alterati dall’aggiunta di
un certo rumore casuale [36].
Ora si supponga di considerare un learning set composto da N osservazioni
della variabile x, scritta come X ≡ (x1 , ..., xN ), insieme con le corrispondenti
osservazioni dei valori di t, denotato da t ≡ (t1 , ..., tN ). La Figura 6.1 mostra
un grafico di un learning set comprendente N = 10 punti. L’insieme dei dati di
input è stato generato scegliendo dei valori di xn , per n = 1, ..., N , distanziati
uniformemente nell’intervallo [0, 1], e il set dei dati del target t è stato ottenuto
calcolando prima i corrispondenti valori della funzione sin(2πx) e poi aggiungendo
un piccolo livello di rumore casuale con una distribuzione di tipo gaussiana (σ =
0.05) per ciascun punto, in modo tale da ottenere il corrispondente valore di tn .
Generando i dati in questo modo, si sta prendendo in considerazione una proprietà
di molti set di dati reali, vale a dire che essi possiedono una determinata regolarità
che si vuole imparare, e allo stesso tempo che le singole osservazioni sono disturbate
da un livello di rumore casuale [36].
Figura 6.1: Plot di un learning set di 10 punti. I cerchi blu costituiscono le osservazioni di
input nella variabile x con il corrispettivo target nella variabile t. La curva verde rappresenta la
funzione sin(2πx) usata per generare i dati. L’obiettivo è predire il valore di t per nuovi valori
di x, senza conoscere la curva verde [36].
Quindi, l’obiettivo è quello di sfruttare questo set di learning al fine di fare
previsioni sul valore della variabile target t̂ per qualche nuovo valore x̂ di input
[36].
Ciò comporta, implicitamente, cercare di trovare la funzione sin(2πx). Su come generalizzare, partendo da un set finito di dati, è un problema abbastanza
difficile. Inoltre, i dati osservati sono affetti da rumore, quindi per un dato valore
di x̂ vi è un’incertezza cosı̀ come per il corrispettivo valore t̂. Si procederà piuttosto informalmente e si prenderà in considerazione un semplice approccio basato
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117
CAPITOLO 6. APPRENDIMENTO AUTOMATICO
sulla curva di fit. In particolare, si possono fittare i dati utilizzando una funzione
polinomiale della forma
2
y(x, w) = w0 + w1 x + w2 x + ... + wM x
M
=
M
X
w j xj
(6.1)
j=0
dove M è l’ordine del polinomio. I coefficienti polinomiali w0 , ..., wM sono indicati
dal vettore w (pesi ). Si noti che, anche se la funzione polinomiale y(x, w) è una
funzione non lineare di x, essa è comunque una funzione lineare dei coefficienti w
[36].
I valori dei coefficienti saranno determinati fittando la polinomiale, utilizzando
i dati di learning. Questo può essere fatto minimizzando una funzione errore, che
misura la differenza tra la funzione y(x, w), per ogni valore di w, e il set dei dati di
learning. Un tipo di funzione errore, ampiamente utilizzata, è dato dalla somma
dei quadrati degli errori tra le y(xn , w) previste, per ciascuno dei punti xn , e il
corrispondente valore del target tn , in modo che sia possibile minimizzare [36]
n
1X
{y(xq , w) − tq }2
E(w) =
2 q=1
(6.2)
È semplice notare che questa è una quantità non negativa che sarebbe zero se, e
solo se, la funzione y(x, w) dovesse passare esattamente attraverso ciascun punto di learning. L’interpretazione geometrica della funzione errore è illustrata in
Figura 6.2 [36].
Figura 6.2: Rappresentazione della funzione errore che corrisponde alla somma dei quadrati dei
residui (barre verdi) di ogni punto dalla funzione y(x, w) [36].
È possibile risolvere il problema della curva di fit, scegliendo il valore di w per
cui E(w) è il più piccolo possibile [36].
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CAPITOLO 6. APPRENDIMENTO AUTOMATICO
118
Poichè la funzione errore è una funzione quadratica nei coefficienti w, la sua
derivata rispetto ai coefficienti sarà lineare negli elementi di w e quindi la minimizzazione della funzione errore ha una soluzione unica, indicata con w∗ . La
polinomiale risultante è data da una funzione y(x, w∗ ) [36].
Rimane il problema della scelta dell’ordine M del polinomio. Nella Figura 6.3
sono mostrati 4 esempi di fit polinomiale aventi ordini M = 0, 1, 3 e 9 per il set
di dati mostrati in Figura 6.1.
Figura 6.3: Grafico raffigurante i polinomi (curva rossa) aventi differenti ordini M [36].
Si nota che per M = 0 e per M = 1, ovvero all’ordine 0 e all’ordine 1, le funzioni
danno un fit piuttosto povero e di conseguenza una rappresentazione scarsa della
funzione sin(2πx). Al terzo ordine (M = 3), invece, il polinomio sembra dare un
fit molto buono e quindi rappresentare bene la funzione sin(2πx), come si evince
dalla Figura 6.3.
Quando, invece, si va verso un ordine più alto (M = 9), si ottiene un ottimo
fit per i dati di learning, nel senso che il polinomio passa esattamente attraverso
ciascun punto e, pertanto, la funzione errore E(w) è uguale a 0. Tuttavia, la curva
oscilla pesantemente e restituisce una scarsa rappresentazione della funzione in
questione. Quest’ultimo andamento è noto come overfitting problem [36].
Come si è accennato pocanzi, l’obiettivo è quello di ottenere una buona generalizzazione, facendo previsioni accurate per i nuovi dati. Si è in grado di ottenere
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CAPITOLO 6. APPRENDIMENTO AUTOMATICO
119
una certa valutazione quantitativa del grado di generalizzazione considerando un
separato testing set di dati, composto, per esempio, da 100 punti, generati con la
stessa procedura utilizzata per ottenere i dati di learning ma con nuovi valori di
rumorosità anche per i rispettivi valori di target.
La migliore generalizzazione si ottiene quando si riesce ad arrivare ad una
soluzione che tenga conto dell’andamento generale dei dati, piuttosto che catturare
il dettaglio specifico (ad esempio un contributo di rumore) di un set di learning.
Di conseguenza, è preferibile tollerare qualche incertezza sul learning set, se questo
porta ad una migliore generalizzazione [42].
Per ogni scelta di M è possibile, quindi, valutare il valore residuo di E(w) per
i dati di learning ed è possibile valutare E(w∗ ) per i dati di testing.
A volte è più conveniente usare lo scarto quadratico medio (RMS) definito come
ERM S =
p
2E(w∗ )/N
(6.3)
Tale espressione assicura che ERM S sia misurato con le stesse unità di misura della
variabile target t.
Il grafico del RMS sul learning set e sul testing set è mostrato, al variare di M ,
in Figura 6.4. L’errore sul testing è una misura di quanto bene stia predicendo i
valori di t per nuove osservazioni di dati.
Figura 6.4: Grafico del RMS valutato sul learning set e sul testing set al variare di M [36].
Dalla Figura 6.4 si nota che piccoli valori di M danno relativamente grandi
valori di errore sul testing; questo può essere attribuito al fatto che i polinomi corrispondenti sono poco flessibili e sono incapaci di riprodurre il corretto andamento
della funzione sin(2πx). Per M nel range 3 < M < 8 si hanno piccoli valori di
errore sul testing. Per M = 3, si ha una rappresentazione ragionevole della funzione generatrice, come si evince dalla Figura 6.3. Per M = 9 l’errore di learning va
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CAPITOLO 6. APPRENDIMENTO AUTOMATICO
120
a zero, come ci si potrebbe aspettare, poiché questo polinomio contiene 10 gradi
di libertà corrispondenti ai 10 coefficienti w0 , ..., w9 e quindi passa esattamente
per i 10 punti del learning set. Tuttavia, l’errore sul testing è diventato molto
grande e, come si è visto nella Figura 6.3, la corrispondente funzione y(x, w) presenta oscillazioni marcate. Pertanto, si potrebbe supporre che la miglior funzione,
che approssimi i nuovi dati, potrebbe essere proprio sin(2πx), ovvero la funzione
generatrice dei dati di input [36].
Quindi l’obiettivo è quello di trovare il numero ottimo di gradi di libertà in
modo tale da avere le performance migliori con i dati di testing [41].
Infine, è anche interessante osservare il comportamento di un dato modello al
variare delle dimensioni del set di dati, come mostrato in Figura 6.5. Si vede che
il problema di overfitting diventa meno grave non appena le dimensioni del set di
dati aumenta. In altre parole, maggiore è il set di dati a disposizione, migliore
sarà l’apprendimento.
Figura 6.5: Grafici raffiguranti le soluzioni ottenute minimizzando la funzione errore usando
M = 9 per N = 15 punti (sinistra) e N = 100 punti (destra). All’aumentare dei punti si riduce
l’overfitting [36].
6.2
Algoritmi Evolutivi (EA)
Gli algoritmi evolutivi sono una famiglia di tecniche stocastiche per la risoluzione
di problemi, che fanno parte della più ampia categoria dei “modelli a metafora
naturale”. Essi trovano la loro ispirazione in biologia e, in particolare, si basano
sull’imitazione dei meccanismi della cosiddetta “evoluzione naturale” [43].
Sono dunque delle tecniche informatiche euristiche ispirate dalla biologia, in
particolar modo dalla teoria evoluzionistica di Darwin, che si basano su una metafora di base, illustrata schematicamente nella Tabella 6.1. Come un individuo
di una popolazione di organismi si deve adattare all’ambiente che lo circonda per
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CAPITOLO 6. APPRENDIMENTO AUTOMATICO
121
sopravvivere e riprodursi, cosı̀ una possibile soluzione deve essere adatta a risolvere
un determinato problema.
Tabella 6.1: Illustrazione schematica della metafora su cui si basano gli algoritmi evolutivi
Evoluzione
Problem Solving
Ambiente
Problema da risolvere
Individuo
Possibile soluzione
Adattamento
Qualità della soluzione
Il problema è l’ambiente in cui una soluzione vive, all’interno di una popolazione
di altre possibili soluzioni. Le soluzioni differiscono tra loro per qualità, cioè per
costo o merito, che si riflettono nella valutazione della funzione obiettivo, cosı̀ come
gli individui di una popolazione di organismi differiscono tra di loro per grado di
adattamento all’ambiente, chiamato fitness [43].
Se la selezione naturale permette a una popolazione di organismi di adattarsi
all’ambiente che la circonda, sarà anche in grado, applicata a una popolazione di soluzioni di un problema, di far evolvere soluzioni sempre migliori ed eventualmente,
con il tempo, ottimali.
In base a questa metafora, il modello computazionale prende in prestito dalla
biologia alcuni concetti e i relativi termini: ogni soluzione è codificata in uno o più
cromosomi; i geni sono i pezzi della codifica responsabili di uno o più tratti di una
soluzione; gli alleli sono le possibili configurazioni che un gene può assumere; lo
scambio di materiale genetico tra due cromosomi si chiama crossover, mentre ci si
riferisce alla perturbazione della codifica di una soluzione con il termine mutazione
[43].
Sebbene il modello computazionale introduca delle semplificazioni drastiche
rispetto al mondo naturale, gli algoritmi evolutivi si sono rivelati capaci di far
emergere strutture sorprendentemente complesse e interessanti. Ogni individuo
può essere la rappresentazione, secondo un’opportuna codifica, di una particolare
soluzione di un problema, per esempio di un’immagine o addirittura di un semplice
programma per calcolatore [43].
Fatta questa premessa di tipo concettuale, è possibile illustrare, brevemente,
in che cosa consiste un algoritmo evolutivo.
Esso è un sistema stocastico di ottimizzazione che procede in modo iterativo,
mantenendo una popolazione (che in questo contesto significa un multiinsieme di
elementi non necessariamente tutti distinti tra loro) di individui, che rappresentano
possibili soluzioni per il problema che deve essere risolto (il problema oggetto) e
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CAPITOLO 6. APPRENDIMENTO AUTOMATICO
122
facendola evolvere mediante l’applicazione di un certo numero, di solito abbastanza
ridotto, di operatori stocastici: mutazione, ricombinazione e selezione [43].
La mutazione può essere costituita da un qualsiasi operatore, che perturbi
casualmente una soluzione; gli operatori di ricombinazione decompongono due o
più individui distinti e quindi mescolano le loro parti costitutive, per formare un
certo numero di nuovi individui; la selezione crea delle repliche degli individui
che rappresentano le soluzioni migliori all’interno della popolazione ad un tasso
proporzionale alla loro fitness [43].
La popolazione iniziale può provenire da un campionamento casuale dello spazio delle soluzioni per il problema considerato. Gli operatori stocastici, applicati
e composti secondo le regole che definiscono il particolare algoritmo evolutivo, determinano un operatore di trasformazione di popolazioni. In pratica, si ha una
popolazione di individui, che evolvono di generazione in generazione attraverso
meccanismi simili alla riproduzione sessuale e alla mutazione dei geni.
6.2.1
Programmazione Genetica (GP)
La programmazione genetica è una branca degli algoritmi evolutivi, che si pone come obiettivo la programmazione automatica. In un problema di programmazione,
una soluzione è rappresentata da un programma (o da un’espressione matematica)
in un dato linguaggio di programmazione. Nella GP, quindi, gli individui rappresentano programmi che si evolvono combinandosi, riproducendosi o mutando per
dar luogo ad altri programmi, che meglio si adattano a risolvere un determinato
problema.
I programmi utilizzati possono, dunque, variare dinamicamente la loro struttura e vengono rappresentati tramite alberi di derivazione, come mostrato in
Figura 6.6.
Figura 6.6: Rappresentazione di un albero di derivazione [43].
In pratica, per ogni problema di programmazione che si voglia risolvere, si
stabilisce un insieme di variabili, costanti e funzioni adatto a risolverlo, limitando
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CAPITOLO 6. APPRENDIMENTO AUTOMATICO
123
cosı̀ lo spazio di ricerca che, altrimenti, sarebbe molto vasto. Le funzioni scelte
saranno quelle che, a priori, si riterranno utili ai bisogni; inoltre, di solito, si cerca
di fare in modo che ciascuna funzione accetti come argomenti i risultati prodotti
da ognuna delle altre, cosı̀ come ogni variabile e ogni costante predefinita. Di
conseguenza, lo spazio dei possibili programmi, all’interno del quale si cerca quello
che risolve il problema, sarà costituito da tutte le possibili composizioni di funzioni,
che possono essere formate ricorsivamente a partire dall’insieme delle funzioni, delle
variabili e delle costanti predefinite.
La popolazione dei programmi evolve utilizzando una funzione di fitness, che
definisce la bontà di un programma, e gli operatori genetici di crossover e mutazione
adattati alla rappresentazione ad albero.
Il calcolo della fitness di un individuo procede in un modo non troppo dissimile
dal testing visto precedentemente. Quindi deve essere dato, come parte integrante
della descrizione del problema da risolvere, un insieme di casi di testing, cioè di
coppie (input e output corrispondente) che verranno usate per testare i programmi
generati dall’algoritmo. Per ciascun caso, il programma viene eseguito sui dati di
ingresso; il risultato ottenuto viene confrontato con quello corretto e misurato
l’errore; infine, la fitness è ottenuta in funzione dell’errore totale accumulato.
Le principali scelte che devono essere valutate sono:
• la generazione della popolazione iniziale;
• l’insieme di funzioni e terminali di base;
• il tipo di selezione;
• la dimensione della popolazione e il numero massimo di generazioni;
• il criterio di terminazione.
Nella programmazione genetica, la fase iniziale prevede la definizione dell’insieme di base di funzioni e terminali, da cui creare la popolazione iniziale. La
scelta di questi insiemi dipende fortemente dal dominio particolare del problema,
per esempio se si vuole ricercare un’espressione matematica intera, i simboli di
funzione potrebbero essere +, *, - , / e i terminali 0, 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9.
Le funzioni scelte devono soddisfare la proprietà di chiusura, cioè devono poter
accettare come parametri qualsiasi valore restituito dall’insieme definito delle funzioni e qualsiasi valore che assumono i terminali, altrimenti si potrebbero generare
programmi non corretti. Inoltre, devono avere la proprietà di sufficienza, cioè è
necessario che le funzioni, unite ai simboli terminali, siano in grado di generare
una soluzione del problema [44].
Perciò, la scelta di un insieme di funzioni e terminali, appropriata ad un particolare dominio, risulta essere un punto critico nella riuscita di un algoritmo di
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CAPITOLO 6. APPRENDIMENTO AUTOMATICO
124
programmazione genetica. Infatti, non sempre si conosce 1’insieme di funzioni sufficienti alla risoluzione di un problema e, del resto, sceglierne un insieme ridondante
può degradare in maniera significativa le prestazioni del sistema [44].
La selezione degli elementi, su cui applicare gli operatori, influenza la convergenza dell’algoritmo. Infatti, una maggiore pressione selettiva comporta una più
veloce convergenza dell’algoritmo, però può portare ad una perdita della diversità della popolazione. In tal caso la soluzione ottimale potrebbe non essere mai
raggiunta.
La dimensione della popolazione è un altro dei parametri che influenzano la
convergenza dell’algoritmo, insieme al numero massimo di generazioni. Infatti, un
sottodimensionamento potrebbe portare al non raggiungimento dell’ottimo cercato
e del resto, al suo aumentare, 1’algoritmo diventa computazionalmente troppo
espansivo [44].
Il passaggio da una generazione all’altra avviene attraverso l’applicazione di
definiti operatori ad elementi della popolazione selezionati con i metodi descritti
precedentemente. I suddetti operatori sono applicati in modo esclusivo con una
certa probabilità, ovviamente la somma delle probabilità sarà uguale ad uno.
L’operazione genetica di crossover (Figura 6.7) consiste nello scambio incrociato di interi sottoalberi appartenenti a due programmi: selezionati i genitori,
su entrambi si sceglie un nodo con procedura casuale, quindi i relativi sottoalberi
vengono scambiati tra loro ottenendo due nuovi individui.
Figura 6.7: Rappresentazione di crossover in GP [44].
L’operatore genetico di mutazione (Figura 6.8) consiste nell’inserire o modificare “leggermente il codice nel programma. Selezionato il genitore, si sceglie, in
modo completamente casuale, un suo nodo, quindi il relativo sottoalbero viene
sostituito da un altro generato sempre con procedura casuale [44].
La decimazione seleziona una certa percentuale della popolazione in una determinata generazione, in base ai valori della fitness, senza permettere duplicati. Il
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CAPITOLO 6. APPRENDIMENTO AUTOMATICO
125
Figura 6.8: Rappresentazione di mutazione [44].
resto della popolazione è cancellato. Questo risulta utile per mantenere la diversità
in quei casi dove pochi elementi hanno una fitness molto più elevata degli altri:
questi avrebbero il sopravvento in poche generazioni [44].
Infine, il miglior individuo trovato è designato ad essere il risultato del problema.
La complessità di un programma generato, se non si adottano strategie per
limitarla, cresce con il passare delle generazioni, producendo effetti negativi, in
quanto il programma risulta di difficile interpretazione e non generalizza bene.
Tutto ciò è in accordo col principio del rasoio di Occam, che sostiene che le soluzioni
più semplici sono da preferire in quanto evitano 1’aggiunta del superfluo e, quindi,
sono applicabili ad una casistica più generale [45].
6.2.2
Brain Project (BP)
In quest’ultima sezione si affronterà, in maniera informativa, la struttura di un
GP tool applicata al problema della regressione simbolica. Questo tool prende il
nome di Brain Project.
Il Brain Project è un software tool per creare modelli, per sistemi MIMO (MultiInput-Multi-Output), utilizzando la tecnica della programmazione neuro-genetica
ibrida applicata al problema della regressione simbolica, ovvero della determinazione di una funzione che meglio approssima una serie di dati sperimentali. Come
spesso accade nelle tecniche evolutive, che presentano una fase di learning, anche
il BP necessita di una fase di apprendimento dove il set di dati è presentato con
l’obiettivo di identificare i parametri per il modello finale. Detto ciò, il BP può
essere definito come un GP tool ibrido [46].
Una delle caratteristiche salienti del BP è la sua estrema adattabilità in ambiente informatico, in particolare la sua implementazione distribuita; infatti, l’unica
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CAPITOLO 6. APPRENDIMENTO AUTOMATICO
126
richiesta per l’utilizzo è, semplicemente, un computer con sistema Linux a 64-bit
connesso a internet [47].
Dato che il BP è un GP tool, esso fonda le sue radici nella classica teoria di
programmazione genetica, con tutte le sue particolarità e peculiarità; le implementazioni del Project, pertanto, sono tipiche della GP e si possono riportare,
sinteticamente, di seguito:
Implementazione di alberi GP : il tool organizza la sua struttura dati, rappresentando espressioni formali, in alberi di derivazione, dove i nodi sono suddivisi
per numero di argomenti:
• nessun argomento: variabili o costanti;
• un argomento: abs, arccos, arcsin, tan, cos, cosh, div, erf, exp, Ω, ln,
minus, sin, sinh;
• due o più argomenti: div, pow, prod, sub, sum.
dove Ω è uguale a exp(−x2 ). Viene data la complessità di una espressione matematica semplicemente contando il numero di nodi [47].
Componente neurale: la parte neurale di questo tool è riferita all’ottimizzazione degli alberi. Quando un nuovo individuo (o nuovo albero) nella sua evoluzione
sembra essere promettente, viene chiamata in causa la parte neurale del BP. L’albero viene analizzato e, successivamente, viene calcolata la derivata per ciscuno
dei suoi coefficienti, considerati variabili. In altre parole, viene calcolata l’espressione matematica del gradiente discendente dell’errore nello spazio dei pesi e viene
utilizzata per aggiornare i pesi durante la fase di apprendimento, quindi ottimizza
anche le costanti [46]. Per un maggiore approfondimento si rimanda alla referenza
[41].
Calcolo dell’errore: l’errore viene calcolato secondo la seguente formula:
v
u Np
uX (Pp − Fp )2
(6.4)
e = 100t
2
N
σ
p
P
p=1
dove Pp è l’output calcolato, FP è l’output desiderato, Np è il numero di learning
pattern e σP è la deviazione standard [47]. Tale errore viene espresso come la
percentuale di errore del modello rispetto alla deviazione standard dell’output.
Ad esempio, un errore del 30 % significa che, in media, l’errore sul modello trovato
è 0,3 volte la deviazione standard dell’uscita. Viene utilizzata questa metodologia
di calcolo perchè correla proporzionalmente l’errore sull’apprendimento con la vera
variabilità del output. Questo indice, cosı̀ come altri simili, è ampiamente utilizzato
in letteratura del neural e/o genetic pattern recognition.
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CAPITOLO 6. APPRENDIMENTO AUTOMATICO
127
Infine, la fitness ottimizza contemporaneamente l’errore e il numero di nodi
[47].
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Capitolo 7
Analisi del segnale APV
7.1
Problematica del segnale e scelta del metedo
Come già accennato nel paragrafo 3.10.1, l’analisi temporale dei segnali è attualmente realizzata attraverso lo studio di una funzione di fit multi-parametrica, passante per i 6 punti rappresentanti i sample. La funzione la si ripropone nuovamente
per comodità:
A(1 − e
−
(t−t0 )
τ1
)e
−
(t−t0 )
τ2
(7.1)
dove t0 è il tempo di inizio del segnale, τ1 e τ2 rappresentano i tempi caratteristici
di salita e discesa del segnale e A è l’ampiezza.
La posizione temporale dei 6 sample di un segnale (particella in coincidenza
con il trigger), rispetto al tempo zero di trigger, è pressochè fissa, a meno delle incertezze dovute al jitter del trigger e delle differenze nei tempi di transito e
raccolta della valanga di elettroni nella GEM; in altre parole la funzione 7.1 è campionata grossomodo sempre per gli stessi valori di carica [48]. In linea di massima,
il primo sample occupa l’inizio della funzione, il secondo o il terzo rapprensentano
il massimo, mentre i rimanenti sample occupano la parte discendente della funzione. Al contrario per una particella di background (non correlata con il trigger)
i sample di carica sono distribuiti temporalmente in modo casuale. Pertanto, in
caso di particella di segnale, la distribuzione del t0 è piccata e correlata allo zero
del trigger, mentre, nel caso di segnale di background, il t0 è distribuito in maniera
randomica [48]. In definitiva, dal valore di t0 , imponendo un intervallo di correlazione con il trigger, è possibile distinguere, in gran parte, se quanto misurato è
prodotto da particelle di segnale o di background. Naturalmente, se tutto rientra
nell’intervallo di selezione, incluso il background distribuito uniformemente in tale
intervallo, allora tutto verrà considerato segnale. Pertanto è auspicabile avere il
128
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CAPITOLO 7. ANALISI DEL SEGNALE APV
129
più stretto intervallo di correlazione, ovvero minimo jitter e la migliore risoluzione
temporale in t0 possibile.
Inoltre, la funzione doppio esponenziale non è di facile implementazione in
hardware, data la sua complessità. L’implementazione della funzione è molto utile
poiché si potrebbe stimare direttamente in hardware il tempo di start dei segnali
e quindi rigettare buona parte di background in tempo reale, in modo tale da
trasferire solo i segnali d’interesse. Quindi, un analisi real time fatta in hardware
permette di ridurre la quantità di dati da trasferire al secondo.
D’altra parte la risoluzione temporale nella stima di t0 , dipende, oltre da aspetti
intrinseci alla GEM, anche dall’eventuale rumore trasportato dal segnale.
Detto ciò, fino a quando i valori di carica delle strip processati dall’elettronica
sono affetti da poco rumore, la funzione a doppio esponenziale ci permette di individuare un t0 del segnale abbastanza attendibile, ma se si è in presenza di segnali
rumorosi, la funzione non riesce a restituire un valore di partenza propriamente affidabile, condizionando anche tutti gli altri parametri di fit. Questo problema non
permette di discriminare in maniera coerente la bontà del segnale estratto dalle
strip, alterando la ricostruzione degli hit in un processo di tracciamento. Pertanto,
l’analisi temporale dei segnali può essere considerata un’analisi di pretracciamento.
Quindi, conoscere nella maniera più accurata possibile il t0 , ci permette di
condurre uno studio decisamente più preciso sulla completa caratterizzazione del
rivelatore GEM per SBS.
In definitiva il problema può porsi nel seguente modo: dati una serie di valori,
trovare quell’espressione matematica che meglio rappresenti l’andamento dei dati,
ovvero trovare un algoritmo robusto che ricostruisca il t0 , con ragionevole precisione
e quanto meno possibile influenzato dal rumore sui dati stessi.
Viste le difficoltà riscontrate con le metodologie matematiche comuni, si è pensato di intraprendere una strada del tutto nuova per l’analisi dei segnali APV,
ovvero l’uso di metodologie innovative basate su metodi di Intelligenza Artificiale
(AI).
L’utilizzo di metodologie AI consente di affrontare problemi non facilmente risolvibili con le tecniche tradizionali, pertanto, in questa nuova ottica, il problema
diventa: individuare con tecniche di apprendimento automatico (machine learning) una funzione matematica il più possibile semplice, per l’implementazione in
hardware, in grado di riprodurre l’andamento di un insieme di dati numerici.
A tal scopo, come si è visto nel capitolo precedente, gli algoritmi evolutivi
(branca della AI) possono rappresentare una buona soluzione per il problema riscontrato, in particolar modo l’utilizzo di tool con tecniche di programmazione
genetica (GP) applicato al problema della regressione simbolica (apprendimento
per esempi).
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CAPITOLO 7. ANALISI DEL SEGNALE APV
7.2
130
Simulazione della funzione BP
Nello specifico, per analizzare temporalmente i segnali APV (analisi di pretracciamento), si è adottato il tool denominato “Brain Project (BP). Più precisamente
con tale utilizzo si è tentato di ottenere una funzione semplice, in alternativa al
doppio esponenziale, che potesse fare un fit non lineare che approssimi l’andamento dei dati (punti presenti nei sample) in modo tale da ottenere informazioni sul
t0 , anche in presenza di rumore.
La procedura utilizzata per questa tipologia di analisi la si riporta di seguito con
tutte le fasi realizzate. Il primo passo eseguito è stato la fase di apprendimento
del BP tool. Il tipo di apprendimento utilizzato è stato quello supervisionato,
ovvero, come già accennato in precedenza, quando si dispone di un insieme di dati
comprendente esempi tipici d’ingresso con le relative uscite loro corrispondenti:
in tal modo il tool può imparare ad inferire la relazione che li lega. Pertanto,
l’obiettivo è stato quello di creare un file di learning in maniera accurato ma
non in maniera assoluta onde evitare problematiche di apprendimento mnemonico
dell’algoritmo che potrebbe causare errori sul testing molto alti. Quindi, si è creato
un file di input che dava un’informazione corretta sull’andamento dei dati ma che
non doveva cogliere il massimo del particolare, in modo tale da poter generalizzare
al meglio.
Il file di learning e di testing sono stati creati nel seguente modo:
• Sono stati visualizzati ed esaminati più di 5000 segnali;
• I segnali sono stati selezionati e separati in 3 categorie: segnali buoni, medi
e rumorosi (Figura 7.1);
• si sono presi in considerazione, per questa simulazione, solo segnali buoni e
medi (per i segnali rumorosi non si conosce bene l’output);
• in maniera visiva e del tutto soggettiva si è fatto un fit sui punti dei 6 sample,
trovando il t0 con una certa incertezza ∆t (∆tbuoni < ∆tmedi );
• si è creato un file, di circa 200 segnali, con le sole coordinate y dei singoli
sample, sia buoni che medi, e il t0 associato ad ogni segnale;
• infine, 100 segnali sono stati adoperati come file di learning, mentre i restanti
100 sono stati utilizzati come file di testing;
I segnali utilizzati per creare il file di learning sono segnali reali uscenti dalle strip
del rivelatore e non segnali simulati. I file creati in questo modo hanno, quindi,
sette valori di input per ogni segnale selezionato, precisamente sei sono i valori
della carica registrata per ogni sample (le coordinate yi con i=0;5) e uno è il t0
GEM pulse mid
ADC
GEM pulse good
ADC
1000
160
140
800
120
100
600
80
400
60
40
200
20
0
0
20
40
60
80
100
0
0
120
20
40
60
80
100
120
tempo
tempo
GEM pulse noise
ADC
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131
CAPITOLO 7. ANALISI DEL SEGNALE APV
1200
1000
800
600
400
200
0
0
20
40
60
80
100
120
tempo
Figura 7.1: Rappresentazione delle tre tipologie di segnali selezionati: buoni (in alto a sinistra),
medi (in alto a destra) e rumorosi (in basso)
corrispondente al singolo segnale in esame. A questo punto i file sono pronti per
essere elaborati dal Brain Project.
Si ricorda che l’obiettivo principale è l’affidabilità dei risultati e la semplicità
delle funzioni ottenute per una maggiore facilità di implementazione in hardware,
quindi in FPGA.
Sono state effettuate 2 simulazioni con gli stessi file di learning e di testing, ma
′
con configurazioni diverse tra loro. Infatti la prima simulazione, chiamata t0 , ha
lavorato cercando un compromesso tra l’errore di apprendimento e il numero di
′′
nodi. Mentre, la seconda simulazione, chiamata t0 , ha lavorato cercando un numero minore di nodi, rispetto a quelli trovati dalla prima simulazione, per ottenere
una funzione ancora più ridotta.
La prima simulazione ha restituito una funzione abbastanza semplice nella sua
forma ed è la seguente:
′
t0 =
y4 + 0.211911 · y3 + [−9.23244 + cos(1956.47 · y3 )]y0
y1
(7.2)
Come si può notare, tale funzione dipende esclusivamente da 4 sole variabili su 6
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CAPITOLO 7. ANALISI DEL SEGNALE APV
132
a disposizione, e precisamente y0 , y1 , y3 e y4 . Questo è un risultato molto interessante, se confermato, poiché ci permette di campionare non più a 6 sample ma,
addirittura, a 4 sample, ridimensionando drasticamente i dati salvati in memoria
e la complessità di impletazione sul FPGA.
La seconda simulazione, invece, ha estratto una funzione ancora più semplice
della prima, come ci si aspettava vista la configurazione adottata. La funzione è
la seguente:
′′
t0 =
y5 + y4 + (−9.1515 · y0 )
y1
(7.3)
′′
La funziona t0 dipende sempre da 4 variabili, questa volta sono y0 , y1 , y4 e y5 ,
′
ma è senza dubbio molto più ridotta della t0 , ridimensionando ancora di più la
complessità di implementazione in hardware.
Questo sicuramente è un primo passo importante effettuato, ma non basta aver
individuato una nuova funzione capace di trovare la nostra incognita, ma bisogna
sopratutto verificare la validità di questa relazione. Tale verifica è stata eseguita
nel seguente modo:
• si è preso un segnale ideale, come in Figura 7.1 in alto a sinistra, e fittato
con la funzione a doppio esponenziale ottenendo un tempo di inizio segnale
molto attendibile, chiamato tRef (tRef =-0,22 ns) poiché sarà lo start time di
riferimento;
• il segnale utilizzato lo si è riprodotto un centinaio di volte;
• ogni copia la si è sporcata con un rumore gaussiano via via sempre più grande,
e precisamente con sigma pari a 50, 100 e 150;
′
′′
• si è calcolato sia il t0 che il t0 e il t0 dei segnali rumorosi, identificati come
tnoise ;
• infine, si sono confrontati i tempi, calcolati con le 3 funzioni, con quello
iniziale di riferimento tRef , ovvero (tRef − tnoise );
Il rumore riscontrato per i segnali uscenti dalle strip, in base ai piedistalli calcolati
precedentemente, è stimato, mediamente, intorno a 23 ADC, quindi, come si è
potuto notare dalla procedura realizzata, si è lavorato, appositamente, con una
sovrastima del sigma gaussiano per testare la solidità delle funzioni trovate anche
in condizioni estreme. I risultati sono riportati in Figura 7.2.
Come si evince dal grafico, la differenza del tempo di start del doppio esponenziale con quello di riferimento, a sigma 0, è chiaramente migliore rispetto alle
Estimate Start Time vs Noise
tRef - tnoise [ns]
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133
CAPITOLO 7. ANALISI DEL SEGNALE APV
-(t-t )
-(t-t )
2
0
0
τ1
A(1-e
)e
τ2
y +c1y [c2+cos(c3y )]y
4
3
3
0
y
1.5
1
y +y +c4y
5
4
0
y
1
1
0.5
0
-0.5
0
20
40
60
80
100
120
140
160
σ [ADC]
Figura 7.2: Grafico raffigurante l’andamento della differenza del tempo di start calcolato con le 3
funzioni conosciute, rispettivamente la funzione a doppio esponenziale (pallino verde), la funzione
′′
′
t0 (triangolo nero) e la funzione t0 (triangolo rosso) al variare del rumore gaussiano inserito nel
′
segnale utilizzato come riferimento. Nella funzione t0 le costanti valgono: c1 = 0.211911, c2 =
′′
-9.23244, e c3 = 1956.47, mentre nella funzione t0 la costante vale: c4 = -9.1515.
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134
CAPITOLO 7. ANALISI DEL SEGNALE APV
differenze calcolate con le nuove funzioni, come giusto che sia; mentre, gli scarti
delle nuove funzioni rientrano all’interno di un intervallo di circa 0.3 ns, decisamente un valore accettabile. Questo è un risultato molto importante, poiché ci
dimostra che le funzioni estratte col Brain Project restituiscono uno scarto molto
piccolo rispetto al risultato atteso. La situazione migliora all’aumentare del rumore aggiunto; infatti a più alti valori di sigma le differenze dei tempi di inizio
segnale, per le 3 funzioni analizzate, sono minime tra loro, ma gli errori associati si
differenziano di gran lunga. Infatti, già a partire da 50 sigma, l’errore sul doppio
esponenziale è superiore agli errori delle nuove funzioni e peggiora continuamente
fino a sigma 150. Da notare come le differenze ottenute con le nuove funzioni non
variano di molto all’aumentare del sigma inserito nei segnali, quindi tale risultato
dimostra la loro bassa sensibilità al rumore gaussiano trasportato.
7.3
Conclusioni sulla simulazione BP
′
′′
In conclusione, si è provato, attraverso questi risultati, che le funzioni t0 e t0
hanno una robustezza al rumore decisamente superiore al doppio esponenziale,
una buona risposta sul tempo di inizio segnale e sopratutto hanno una spiccata
semplicità di forma, in particolar modo la seconda, requisito fondamentale per
l’implementazione in hardware.
I due obiettivi prefissati all’inizio della simulazione sono stati centrati con buon
successo. Ciò fa ben sperare per quanto riguarda i passi successivi dell’analisi dei
segnali e tutte le prospettive future legate a essa. Infatti, a breve, si passerà ad
un livello superiore di analisi, ovvero lo step sarà quello di estendere lo studio ai
segnali reali molto rumorosi, con ampiezze e forme molto diverse tra loro, e fuori
range temporale, che per queste simulazioni non sono stati presi in considerazione
all’interno dei file di learning e testing.
In definitiva, questo studio preliminare ha mostrato come la Programmazione
Genetica, e in particolar modo il Brain Project, è riuscita, per questa tipologia di
segnali adoperati, a risolvere una grossa problematica di analisi dati fino ad ora
irrisolta.
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Conclusioni
In conclusione, in questo lavoro di tesi, si è discusso della realizzazione e caratterizzazione di un rivelatore a tecnologia GEM che sarà utilizzato come dispositivo
di tracciamento di particelle cariche presso la Hall A del Jefferson Lab. Pertanto, si è introdotta la tecnologia GEM con tutte le sue peculiarità, giustificandone
la scelta per la quale questi rivelatori saranno utilizzati come tracciatori per lo
spettrometro SBS. Si sono illustrate le procedure di assemblaggio del rivelatore a
tripla GEM, intoducendo le componenti meccaniche utilizzate e le modalità con
cui si sono effettuati i controlli di qualità dei fogli GEM in camera pulita. Per
quest’ultima procedura è stato anche introdotto, a titolo di esempio, il risultato di
un tipico test resistivo dei settori di un singolo foglio.
Una prima parte centrale di questo lavoro ha riguardato l’analisi di una porzione
di dati acquisiti durante dei test di caratterizzazione presso il fascio di protoni di
COSY a Jülich.
L’obiettivo dell’analisi ha riguardato la risposta dei tracciatori in condizioni di
alta intensità di fascio (protoni da 2.8 GeV), al variare della tensione ripartita
ai rivelatori (da 4000 V a 4200 V), del flusso nominale di gas (1, 2, 3, 4 V/h) e
dell’intensità dei protoni (1.4 · 109 , 8 · 109 e 1.6 · 1010 protons/bunch). Inoltre, si
sono analizzate le proprietà di clustering dei singoli moduli.
Durante il test, i 4 moduli GEM sono stati soggetti a pressioni di gas piuttosto
elevate (con flusso di gas effettivo fino a 16 V/h per modulo), riscontrando una
buona stabilità globale del sistema, senza osservare apprezzabili effetti sul gas.
È stato analizzato il guadagno relativo dei vari moduli, sempre al variare delle
condizioni sperimentali, osservando che esso è sostanzialmente indipendente dal
gas flussato ma fortemente dipendente, come aspettato, dall’alta tensione applicata
ai moduli, ovvero è aumentato all’aumentare della tensione applicata. Infatti, i
guadagni relativi sono stati intorno a 6 · 103 ad una tensione di 4100 V e di 1.4 · 104
per una tensione di 4200 V.
Per l’analisi del clustering, sono stati effettuati confronti tra diversi run aventi
condizioni sperimentali differenti. I risulatati hanno mostrato che non si osservano
effetti significativi al variare del flusso di gas erogato ai moduli, mentre all’aumentare della tensione applicata e/o dell’intensità del fascio, la quantità di carica
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raccolta dalle strip aumenta come ci si aspetta qualitativamente, confermando in
qualche modo le buone performance dei moduli.
L’ultima analisi effettuata, per quanto riguarda il clustering, è stata valutare
l’efficienza dei singoli moduli al variare della tensione e del gas flussato. Le efficienze misurate hanno rispecchiato i diversi partitori di tensione utilizzati nei diversi
moduli. D’altra parte, le misure di efficienza non hanno permesso di apprezzare eventuali effetti legati al flusso di gas, anche in questo caso in accordo con le
previsioni.
I risultati confortanti, anche se non definitivi, permettono di affermare che non
si sono osservati particolari effetti oltre a quelli largamente attesi. Una parte dei
dati acquisiti debbono ancora essere analizzati, mentre quelli già analizzati richiedono comunque qualche approfondimento nella direzione di stimare la sensibilità
delle misure e quindi il limite inferiore per possibili effetti, non evidenziati in questa prima analisi.
La metodologia di analisi si è rivelata ragionevolmente efficace, mostrando anche
potenziali direzioni di miglioramento.
Nella seconda parte dell’attività originale di questa tesi si è affrontata la problematica relativa all’analisi temporale del segnale APV (segnale rappresentato da
6 punti corrispondenti alla carica campionata ogni 25 ns, nei 6 sample). Tale analisi, specificatamente dedicata all’estrazione del tempo di inizio (start) del segnale,
è importante per poter discriminare, e quindi rimuovere, una frazione significativa
di segnali non correlati col trigger e quindi riconducibili a particelle di fondo che
attraversano la camera GEM.
Ad oggi, l’estrazione del tempo di start del segnale è stato stimato attraverso
una funzione di fit a doppio esponenziale con 4 parametri. Questo da un lato non
ha permesso di ottenere una risoluzione temporale ottimale dai 6 sample disponibili (il fit è debolmente vincolato) e dall’altra una funzione a doppio esponenziale
richiede considerevoli risorse hardware per una potenziale implementazione nel
firmware dell’elettonica di acquisizione, per una discriminazione real-time segnale/rumore.
Ciò implica una mancanza discriminatoria tra segnali d’interesse e segnali di background, poiché non si riesce a stabilire, con relativa certezza, se il segnale parte
all’interno di una finestra temporale, correlata al trigger, per poter stabilire se il
segnale è buono oppure no.
Pertanto, si è realizzato uno studio preliminare sui segnali APV utilizzando un
tool (Brain Project) con tecniche di programmazione genetica (introdotta in maniera generica nel capitolo 6) applicata al problema della regressione simbolica
(produzione di una funzione che si adatti ad un insieme di punti).
L’obiettivo è stato quello di individuare, con tecniche di apprendimento automatico, una funzione matematica il più semplice possibile che colga l’andamento
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di un insieme di dati numerici. Una volta illustrata la procedura realizzata del
metodo di apprendimento (supervisionato con segnali a poca e media rumorosità),
data la natura del Brain Project, si sono effettuate 2 simulazioni con configurazioni
leggermente differenti e si sono trovate due funzioni pressochè adatte alla risoluzione del problema del tempo di start del segnale APV. Entrambe sono risultate
decisamente robuste al rumore, quindi una buona affidabilità sul t0 , e sopratutto una elevata semplicità di forma, requisito fondamentale per l’implementare in
elettronica.
Verificati i buoni risultati ottenuti con tecniche di programmazione genetica,
si è pensato di proseguire, anche in futuro, l’indagine temporale sui segnali APV.
Infatti, il prossimo obiettivo sarà quello di allargare lo studio anche a segnali molto
rumorosi, con ampiezze e forme differenti tra di loro, in modo tale da ricoprire la
più vasta gamma di tipologie di segnali estratti dalle strip del tracciatore.
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