Esiste un essere contingente indipendente da noi e non vi è alcuna ragione per cui tale essere contingente sia di natura soggettiva. Intervista a Quentin Meillassoux a cura di RICK DOLPHIJN e IRIS VAN DER TUIN Negli ultimi anni si è venuta imponendo all’attenzione del pubblico filosofico internazionale una nuova tendenza di pensiero, che è stata definita “realismo speculativo”. Uno dei suoi più importanti esponenti è Quentin Meillassoux, filosofo francese, insegnante all’Università di Parigi1. Qui pubblichiamo una recente intervista con lui, in cui sono ben riassunte le sue tesi. Il suo libro d’esordio Après la finitude (2006) [tradotto in italiano per Mimesis nel 2012 con il titolo Dopo la finitudine. Saggio sulla necessità della contingenza] è considerato da molti come uno dei più violenti attacchi alla storia del pensiero moderno: una critica al suo umanesimo, la sua metafisica immanentista, il suo antimaterialismo. Lei sviluppa rigorosamente quello che chiama un ‘materialismo speculativo’ attraverso una riscrittura di questa storia, o, come afferma, attraverso una riscrittura del correlazionismo. Questo termine è concettualizzato nel suo libro e ha certamente spinto diversi studiosi - talvolta inquadrabili come realisti speculativi (Bryant et al., 2011) – a sviluppare una nuova filosofia della scienza e un nuovo punto di vista oltre il kantismo. Il correlazionismo, cui lei si riferisce come “l’idea secondo la quale noi abbiamo sempre e solo accesso alla correlazione fra pensiero ed essere, e mai a ciascun termine considerato separatamente dall’altro” (Meillassoux 2006, 5 [i riferimenti di pagina sono all’edizione del libro in inglese]), è fortemente criticato da altri studiosi che usano il medesimo termine. Per lei, in ogni caso, l’ipotesi correlazionista merita un grande rispetto, essendo non soltanto oggetto della sua critica, ma piuttosto una prospettiva che si propone di “radicalizzare da dentro: un vero e proprio ‘lavoro interno’”, come dice Harman (2011, 25). In questo libro [New Materialism, Open Humanities Press 2012], in cui si fa una mappatura di quello che noi abbiamo chiamato un ‘nuovo materialismo’, non abbiamo sentito alcun bisogno di includere o escludere particolari studiosi, e così non vediamo alcun motivo per annoverare anche lei dentro o fuori questa corrente. Ciò che intendiamo porre in evidenza è la vicinanza del suo percorso a questa corrente, nonostante gli indirizzi in essa compresi si siano sviluppati in modi molto differenti. Può darci un’idea essenziale della strada da lei intrapresa, soffermandosi in particolare su questo complesso concetto di “correlazionismo”? Nel mio libro metto a confronto due posizioni: a) un “correlazionismo forte” che, a mio avviso, è la forma più rigorosa di anti-assolutismo e quindi della posizione anti-metafisica contemporanea, e b) una metafisica da me chiamata “soggettivista”, che, al contrario, è oggi la più diffusa filosofia dell’assoluto, quella che consiste nel porre questo o quel particolare del soggetto come essenzialmente necessario: vale a dire, il suo status come parte di un correlato. Chiarisco meglio questa distinzione. Nel primo capitolo di Dopo la finitudine definisco il correlazionismo in generale come una tesi anti-assolutista: quella che usa il correlato “soggettooggetto” (definito in maniera larga) come uno strumento per rigettare ogni metafisica che sostenga la possibilità di accedere a una modalità dell’in-sé. Al contrario, per il correlazionismo noi non possiamo accedere ad alcuna forma dell’in-sé, dal momento che siamo irrimediabilmente confinati alla nostra relazione-col-mondo, senza alcun mezzo per verificare se la realtà che ci è data corrisponda alla realtà in sé, indipendentemente dal nostro legame soggettivo con essa. Per me, vi sono due forme principali di correlazionismo: debole e forte (cfr. il secondo capitolo, p. 42 per l’annuncio di questa differenza e p. 48 e sgg. per la sua spiegazione). Il correlazionismo debole è identificato con la filosofia trascendentale di Kant: è “debole” nel senso che concede ancora troppo alla pretesa speculativa del pensiero. Infatti Kant sostiene che noi conosciamo l’esistenza di un in sé che è pensabile (non contraddittorio). Il correlazionismo “forte”, di contro, nega ogni possibilità di conoscenza dell’in-sé e anche che possa essere pensabile, essendo profondamente limitati nel nostro pensiero, senza la possibilità di conoscere l’in-sé, né tantomeno il suo aver luogo o la sua logicità. Infine definisco l’avversario contemporaneo più rigoroso del correlazionismo: il metafisico soggettivista. Colui che crede, diversamente dal correlazionista forte (chiamiamolo semplicemente “il correlazionista” d’ora in poi), che noi possiamo davvero accedere all’assoluto: quello del correlato. Invece di dire, come il correlazionista, che noi non possiamo conoscere l’in-sé, essendo confinati al correlato, il metafisico soggettivista (chiamiamolo da adesso soltanto “il soggettivista”) asserisce che l’in-sé è il correlato stesso. In questo modo la tesi “soggettivista”, secondo le sue varie istanze, assolutizza vari aspetti della soggettività. Lo abbiamo visto a partire dall’idealismo speculativo di Hegel, che assolutizza la Ragione, fino alle diverse variazioni del vitalismo (lungo l’asse dominante da Nietzsche a Deleuze), che assolutizzano volontà, percezione, sensazione ecc. Per me Deleuze è un metafisico soggettivista che ha assolutizzato un insieme di forme della soggettività, ipostatizzate come Vita (o “una Vita”), e le ha poste come radicalmente indipendenti dalla nostra relazioni umane e individuali con il mondo. Questa distinzione fra correlazionismo forte e metafisica soggettivista costituisce il nucleo centrale del libro. Dal terzo capitolo in poi presento la mia ipotesi vera e propria. Il terzo capitolo ruota interamente attorno al conflitto fra correlazionismo e soggettivismo, ed è questo confronto che mi permette di stabilire l’assoluta necessità della fatticità: un punto di vista da cui devono leggersi tutte le mie posizioni successive. A suo avviso Deleuze, che ha dato contributi significativi a quello che abbiamo indicato come ‘nuovo materialismo’, non è materialista dal momento che il primato assoluto dell’inseparato (“niente può essere se non in qualche forma di relazione col mondo”) nella sua metafisica non contempla la possibilità dell’atomo epicureo “che non ha né intelligenza, né volontà, né vita” (Meillassoux 2006, 37). Ciò nonostante, aggiunge, Deleuze (con e senza Guattari) è importante per il suo pensiero e richiede ancora un maggiore approfondimento (Meillassoux 2010). Lei evidenzia che scienza e matematica hanno posto domande alla filosofia (e questioni che riguardano i principi ancestrali) che richiedono un materialismo speculativo liberato dal primato dell’inseparato. Ma allora in che modo può, allo stesso tempo, pretendere di superare una conclusione trascendentalista come “ciò che è asoggettivo non può essere” e insieme sposare un approccio simile a quello kantiano relativo alla scienza e alla matematica? Per essere ancora una volta precisi, la conclusione “ciò che è asoggettivo non può essere” è il solo “punto in comune” tra correlazionismo anti-metafisico e metafisica soggettivista. Ma dobbiamo comprendere in che modo e in che misura. Per il correlazionista, ciò significa che io non posso mai pensare l’oggetto cercando di fare a meno del mio punto di vista soggettivo. Tale conclusione significa quindi: “l’asoggettivo” è impensabile per noi (“non può essere” significa in questo caso: “non può essere pensabile”). Per il soggettivista, al contrario, tale affermazione significa che l’asoggettivo è del tutto impossibile: “non può essere” equivale a “non può esistere in sé stesso”. La metafisica della Vita o dello Spirito, la filosofia trascendentale o il correlazionismo forte, tutti convergono nella denuncia del “realismo ingenuo”, proprio di un materialismo epicureo che affermi l’esistenza di alcune entità non soggettive (l’atomo e il vuoto) e conoscibili. Io intendo davvero prendere le distanze da questo consenso anti-realista, in particolare da ogni forma di trascendentalismo, senza però tornare all’epicureismo, che nel suo genere rimane ancora una metafisica (non soggettiva, ma realistica), perché sostiene il bisogno reale di atomi e vuoto. Ma questo certamente non mi impedisce di porre la questione di una chiarificazione delle condizioni di pensabilità della scienza. Una simile questione, infatti, non ha nulla di trascendentale in sé: è propria di ogni filosofia che si interroghi di cosa si stia parlando quando viene usato il termine “scienza”. La mia tesi è che noi ancora non comprendiamo cosa significhi, perché non riusciamo a risolvere l’aporia dell’arche-fossile: che le scienze matematizzate della natura sono pensabili soltanto a condizione di assicurare un ambito assoluto alle sue proposizioni: pretesa che tutte le filosofie anti-metafisiche di ogni epoca hanno messo in dubbio. Le metafisiche soggettiviste possono, con diritto, dire di avere assicurato un fine assoluto al pensiero e che, perciò, non ricadono entro il problema dell’arche-fossile: in ogni caso, io mostro che queste metafisiche sono a tutti gli effetti confutate dal correlazionismo forte e che di conseguenza non sono in grado di risolvere questa aporia. Forse potremmo discutere sulle ragioni di una riscrittura della storia del pensiero. Diversi autori interessati a sviluppare una filosofia materialista o realista sono oggi desiderosi di rigettare l’umanesimo per via delle sue (implicite) teorizzazioni rappresentazionalistiche o linguistiche, affermando che attraverso questa preminenza attribuita alla copia o al linguaggio si sia insinuato un riduzionismo letale (in filosofia e nelle scienze umane più in generale, ma allo stesso modo in tutte le scienze). Lei, d’altra parte, intende forzare il pensiero correlazionista così da aprire di nuovo le porte all’Assoluto. Molti saranno d’accordo con lei che l’Assoluto è stato escluso dal pensiero, sempre di più, fin dall’arrivo della modernità (dall’affermazione del correlazionismo di ispirazione kantiana, per usare i suoi termini). Infatti, mentre Nietzsche ha pronunciato la sua famosa sentenza sulla morte di Dio per mano del pensiero critico alla fine del diciannovesimo secolo (in Così parlò Zarathustra, 1883-85), lei afferma l’esatto opposto: è stato a causa del correlazionismo che l’Assoluto è divenuto impensabile. Criticando Kant attraverso Descartes e Hume, in particolare rispetto all’idea di causalità, lei intende spingere il correlazionismo all’estremo, rivelando ciò che lei chiama il Principio di Fatticità: una concettualizzazione radicalmente differente della natura (natura come contingente) e della sua relazione col pensiero. Una radicalizzazione del correlazionismo (debole) ci mostra che, come lei scrive, “ogni mondo è senza ragione ed è perciò in grado di trasformarsi in tutt’altro, senza alcuna ragione” (Meillassoux 2006, 53, corsivo dell’autore). Provo a chiarire nuovamente questo punto in poche parole. Il soggettivista asserisce che il correlazionista ha scoperto, al suo posto, il vero assoluto: non una realtà al di fuori del correlato, ma il correlato in quanto tale. Infatti il correlazionista ha dimostrato che noi non possiamo pretendere di pensare una realtà indipendente dalla correlazione senza contraddirci immediatamente: pensare l’in-sé significa pensarlo, facendo così di esso un correlato dell’attività soggettiva del pensiero, invece di farne un assoluto indipendente da noi. Ma ciò, d’accordo con i soggettivisti, dimostra che questo assoluto non è nient’altro che la correlazione in sé stessa. Questo perché, per confessione dello stesso correlazionista, io non posso concepire la sparizione del correlato, o l’essere-altro, senza immediatamente ricondurlo nelle sue proprie strutture, il che significa che in realtà io non posso pensare la correlazione in altro modo se non come necessaria. Questa conclusione contraddice la tesi anti-assolutista del correlazionista. Il soggettivista trae questa conclusione dell’argomento correlazionista, rivolgendo così il correlazionismo contro se stesso: il correlato, strumento di de-assolutizzazione della metafisica realista, viene ricondotto a un assoluto anti-realista. Ma il correlazionismo forte non ha ancora deposto le armi: nel terzo capitolo mostro che nelle sue forme più contemporanee (Heidegger o Wittgenstein) esso tenta di rigettare la risposta soggettivista opponendo l’irriducibile fatticità all’assolutizzazione della correlazione. Dovrei farle rileggere come descrivo questa risposta: la conclusione da me tratta è che il correlazionismo forte non può essere respinto dall’assolutizzazione della correlazione, come credono i soggettivisti, quanto piuttosto dall’assolutizzazione della fatticità (entro cui risiede il significato del principio di fatticità). Sebbene lei affermi più volte che il materialismo speculativo è alla ricerca di un approccio diacronico, il suo uso di alcuni concetti ci riporta indietro a un tempo (e spazio) passato (come l’idea di arche-fossile, ad esempio). Anche quando dice che “… vi è un più profondo livello di temporalità, con cui ciò che è venuto prima della relazione-col-mondo è in se stesso nient’altro che una modalità di quella relazione-col-mondo” (ibid., 123), questa profondità, che ritorna diverse volte nel capitolo conclusivo, deve essere cercata in ciò che è anteriore al pensiero. Questo ci ricorda ancora una volta un approccio heideggeriano che intende riportarci alle cose in sé. Ora, come abbiamo visto prima, lei è di fatto piuttosto critico nei confronti di Heidegger (non soltanto nella sua risposta di sopra, ma anche, ad esempio, in ibid. 41-2 , dove lo accusa, insieme a Wittgenstein, di aver dato vita a un correlazionismo forte che ha dominato la filosofia del ventesimo secolo). Nonostante lei citi prevalentemente la sua opera tarda, la sua critica di Heidegger si concentra primariamente sulle questioni dell’essere che erano più centrali nei suoi primi lavori. Nel suo Die Frage nach Technik (1954) ed anche nel Der Ursprung des Kunstwerkes (1960), possiamo facilmente leggere un materialismo che si avvicina al suo nella misura in cui anch’esso interroga la relazionalità ed è alla ricerca di un più completo e profondo significato delle cose (e dei tempi) che può trovarsi solo prima che questa relazionalità abbia avuto luogo. Tenendo da parte a livello speculativo la dimensione idealistica e talvolta umanista del pensiero heideggeriano, potremmo dire che la nozione fenomenologica di ritorno alle cose stesse, e allo stesso modo l’interesse alla riscrittura, come Lyotard (1988) avrebbe detto, del pensiero greco antico (penso anche al suo ultimo capitolo, intitolato “La vendetta di Tolomeo”) siano anche di suo interesse? O condividerebbe almeno l’idea non tanto di riscrivere una filosofia pre-umana, ma piuttosto pre-moderna o classica? Rispetto ad Heidegger, ho voluto mostrare che anche lui non si è mai sottratto al correlazionismo, nella sua tarda opera come nella prima. Ecco perché cito il suo Identità e differenza (cap. I, p. 41-2), in cui riporta il concetto di Ereignis – centrale dopo la “svolta” nel pensiero heideggeriano – a un chiara struttura correlazionale. Il “ritorno alle cose stesse”, che è stato lo slogan della fenomenologia di Husserl prima di quella del giovane Heidegger, non corrisponde in alcun modo alla mia idea di filosofia, dal momento che consiste, in questo senso, in un ritorno alle cose in quanto correlati della coscienza, del Dasein, del fenomeno, dell’essere o dell’Essere. Se il dato fosse la cosa in sé, allora l’oggetto sarebbe intrinsecamente qualcosa di “dato-a”: ma, secondo la mia tesi, ciò non è possibile. Non vi è quindi alcun ritorno alle “cose in se stesse”, ma piuttosto all’in-sè considerato come indifferente a ciò che ci è dato, in quanto indifferente al nostro aprire-ilmondo. Non sono impegnato in un ritorno ai greci o in una loro riscrittura: una simile impresa non ha alcun interesse preciso secondo il mio approccio. Michel Foucault è stato il primo ad annunciare la fine dell’uomo o la seconda rivoluzione copernicana in Les Mots et les Choses (1966). Il suo nuovo modo di scrivere la storia può non avere escluso la mente umana, ma certamente esso intende almeno non partire da quest’ultima. La sua idea di “discorso”, ad esempio, non prende le mosse dal linguaggio, ma da forme materiali (come la forma-prigione) che procedono insieme a forme espressive come la delinquenza (che non è intesa come significante, ma come parte di una serie di enunciati che presuppongono reciprocamente la forma materiale della prigione). Spingendo questa tesi un po’ oltre, non sembra troppo difficile riformulare questo argomento senza che la mente giochi necessariamente un ruolo minore. Penso, ad esempio, a come funziona il processo di sedimentazione, dove i ciottoli vengono sospinti dalle correnti acquatiche e si accumulano in strati uniformi dando vita a una nuova entità come la roccia sedimentaria: un processo non- lineare dovuto alle spinte tettoniche, le condizioni climatiche e altri più complicati processi di trasformazione che infine generano movimenti molto simili a quelli che Foucault individua rispetto ai mutamenti nella visione della delinquenza lungo il diciannovesimo secolo. In che modo il suo punto di vista differisce da quello foucaultiano? Oppure: in cosa l’arche-fossile è diverso e meno dipendente dalla mente umana rispetto ai ciottoli dell’esempio di sopra? Per quel che riguarda Foucault risponderò semplicemente così: le sue ricerche si concentrano sui dispositivi di conoscenza-potere del passato e infine sui dispositivi a lui contemporanei. Ma non può dirci nulla rispetto alla critica del correlazionismo forte, visto che tale critica è situata a un livello che la sua indagine non affronta, ma piuttosto presuppone. Io esamino come il correlazionismo, dal suo punto di partenza nel Cogito, ha finito per dominare tutto il pensiero moderno, incluso il più risoluto tra gli anti-cartesiani: il “grande internamento” non è stato quello dei folli nei manicomi, ma quello dei filosofi nel Correlato. E questo vale anche per Foucault. Infatti Foucault non dice nulla che possa mettere in imbarazzo un correlazionista, visto che tutti i suoi studi possono essere considerati come un discorso-correlato-al-punto-di-vista-del-nostro-tempo, e quindi rigorosamente dipendenti da questo. E’ una tipica tesi di un certo relativismo correlazionista: noi siamo intrappolati nel nostro tempo, non in termini hegeliani, ma piuttosto alla maniera heiddegeriana, cioè nella modalità della conoscenza-potere che ci domina sempre e ancora. La sua tesi sulla “scomparsa dell’uomo” riguarda l’uomo inteso come un oggetto delle “scienze umane”, non in quanto correlato come lo concepisco io. Non sono per nulla ostile alla tesi di Foucault, anche se a mio avviso la sua riflessione si colloca entro un’ontologia storicista che resta impensata nella sua profonda natura, anche nel suo splendido corso intitolato “Defendre la Societé” (2003). La domanda centrale del suo libro era: in che modo il pensiero è in grado di pensare cosa può esservi quando non c’è il pensiero? (Meillassoux 2006, 36). Numerosi studiosi nelle scienze umane, anche se sottoscrivono la sua rilettura di Kant e di Hume, potrebbero non vedere l’urgenza di una simile questione. Il femminismo, ad esempio, potrebbe essere interessato a pensare al di fuori della dicotomia maschio-femmina e la teoria femminista contemporanea prende le mosse della sua analisi dalla mente umana (femminile), ma l’urgenza di pensare un luogo senza pensiero sarebbe probabilmente considerata la domanda insensata per eccellenza, per come lei l’ha formulata (ibid. 121). Come crede di potere convincere simili studiosi? Che la questione su ciò che vi sia quando non c’è il pensiero venga considerata da molti, non solo dalle femministe, come priva di significato o interesse è di certo verosimile. Come lei ricorda, io dico in modo specifico: il problema è quello di comprendere come la questione più urgente ha finito per essere etichettata come la più oziosa. Il problema non è tanto di convincere tutti a pensare in maniera diversa, dal momento che un carattere molto forte della nostra epoca è il fatto che non possiamo pretendere di dare battaglia in poche parole. Se dovessi dire qualcosa per smuovere le presenti certezze, lo formulerei in modo provocatorio, ma in realtà è quello che penso: io affermo che chiunque rifiuti di occuparsi di tale questione semplicemente non sa di cosa parla quando proferisce parole come “scienza”, “matematica”, “assoluto”, “metafisica”, “non-metafisica” e altre parole di uguale significato. Ciò che dico nel mio libro e nelle righe di sopra spiegano, credo, a sufficienza cosa mi permette di crederlo. Ecco perché la questione della differenza sessuale non può essere estranea a questa domanda. Ad esempio, l’intera opera di Lacan è attraversata dalla questione della scientificità o non-scientificità della psicoanalisi, e trova uno dei suoi punti culminanti nella nozione di “matema”. Bene, io ritengo che nessun discorso lacaniano, apertamente legato alla questione della differenza “uomo/donna”, sarebbe in grado di comprendere il significato dei suoi concetti fondamentali fino a che non avrà trattato, come sua precondizione necessaria, la questione della non-correlazionalità della scienza. Lo stesso vale anche per ogni teoria femminista che incorpori nel suo discorso almeno uno dei termini citati sopra. Lei spinge oltre il correlazionismo forte attraverso una rilettura rivoluzionaria di Kant e Hume, dimostrando così come un radicale anti-antropocentrismo compia davvero la rivoluzione copernicana. Centrale in questo radicale anti-antropocentrismo attraverso cui lei riassolutizza il pensiero è la matematica (ibid., 101, 103, 113, 126): “ciò che è matematizzabile non può essere ridotto a correlato del pensiero” (ibid. 117). Ciò implica una definitiva presa di distanza da un’idea filosofica della scienza, visto che proprio questo ha offuscato “il tipo di conoscenza non correlazionale della scienza: in poche parole, il suo carattere eminentemente speculativo” (ibid., 119, corsivo dell’autore). Il giudizio che lei dà è che “il pensiero può pensare che un evento X può davvero aver avuto luogo prima di ogni pensiero e indifferentemente da questo”, “nessun tipo di correlazionismo […] può ammettere che il significato letterale di una proposizione sia anche il suo significato più profondo” (ibid., 122; corsivo originale). In linea con la sua argomentazione ha senso legare questa verità eterna che troviamo nella matematica ad un “realismo” (per quanto speculativo), ma in che modo potremmo chiamarlo un “Materialismo”? La dinamica morfogenetica della matematica è identica a quella della materia? Io intendo dimostrare – cosa che non avevo ancora fatto in Dopo la finitudine – che il matematizzabile è assolutizzabile. Lei mi chiede se questa è una tesi materialistica piuttosto che soltanto “realista”. E’ difficile discutere la rilevanza della mia tesi se omettiamo la discussione nel suo complesso del problema dell’arche-fossile che si trova nel primo capitolo del mio libro. Risponderò comunque così: per me il materialismo consiste in due proposizioni chiave: 1) L’Essere è separato e indipendente dal pensiero (inteso nel senso ampio di soggettività), 2) il pensiero può pensare l’Essere. La prima tesi si oppone ad ogni antropomorfismo che cerchi di estendere gli attributi della soggettività all’Essere: il materialismo non è una forma di animismo, spiritualismo, vitalismo ecc… Esso afferma che l’assenza di pensiero preceda realmente, o almeno può precedere di diritto, il pensiero ed esiste al di fuori di questo, seguendo l’esempio degli atomi di Epicuro, privi di ogni soggettività e indipendenti dalla nostra relazione con il mondo. La seconda tesi afferma che il materialismo è razionalismo (di nuovo, inteso qui in senso largo visto che vi sono differenti nozioni di ragione) per il fatto che consiste sempre in un’impresa che, attraverso lo scetticismo, oppone un’attività di conoscenza e di critica al fascino religioso, al mistero o alla limitazione della nostra conoscenza. Scetticismo e fede convergono nella tesi della nostra finitudine, rendendoci propensi ad ogni credenza: al contrario il materialismo accorda all’essere umano la capacità di pensare attraverso i suoi mezzi propri la verità su ciò che lo circonda e sulla sua condizione. Tra i nemici della ragione, il materialismo sa sempre come scoprire il prete. Esso sa anche che nessuno ha più desiderio di essere nel giusto - senza permettere ad alcuno di argomentare contro – che gli avversari della ragione. Io seguo queste due tesi perché dico e dimostro – attraverso una serrata argomentazione -che vi è un essere contingente indipendente da noi, e ancora di più, che questo essere contingente non ha alcuna natura soggettiva. Cerco anche di fondare un razionalismo scientifico, basato sull’uso della matematica per descrivere la realtà inorganica e non-umana. Ciò non significa “pitagorizzare”, o asserire che l’Essere è intrinsecamente matematico: quanto piuttosto spiegare come un linguaggio formale cerchi di catturare dall’Essere contingente proprietà che un linguaggio quotidiano non riesce a cogliere. La mia tesi sulla matematica è una tesi sullo scopo dei linguaggi formali, non una tesi sull’Essere. Non la presento per un capriccio o per un tropismo “scientista”, ma perché ho mostrato con il problema dell’arche-fossile che non vi è altra scelta: se le scienze hanno un significato, allora la matematica ha un ambito assoluto. Le scienze hanno significato, e allora le scienze riposano, attraverso le loro formulazioni matematiche, su di una realtà che è radicalmente indipendente dalla nostra umanità. Questo è in contrasto con i giudizi “qualitativi” della percezione ordinaria, i quali possono essere pensati senza problemi come correlati alla relazione sensibile che noi abbiamo col mondo e non hanno alcuna esistenza al di fuori di questa relazione. L’ambito assoluto della matematica deve quindi essere fondato e il nostro unico modo per farlo, credo, è andare oltre l’ambito derivato del principio di fattualità. Questo è il problema escluso in Dopo la finitidune: una questione che simultaneamente traccia il programma di un conseguente materialismo speculativo. Nella sua concettualizzazione della potenzialità in opposizione alla virtualità lei nota che la potenzialità esiste in un mondo determinato, conformandosi alle leggi della natura. Il caos estremo, d’altra parte, è legato alla virtualità. In che modo il pensiero del virtuale è legato alla speculazione, e che ruolo ha la materia (e la natura)? Le porgiamo questa ultima domanda perché abbiamo notato che mentre a pagina 11 lei parla di materia, vita, pensiero e giustizia, a pagina 14 lei parla soltanto delle ultime tre. Abbiamo introdotto il concetto di natura in riferimento alla sua apparente affinità con la fisica spinoziana (non con la sua metafisica). Infine, quindi, il soggetto vettoriale che deve essere sviluppato nel materialismo speculativo non libera, ma piuttosto anticipa, l’imprevisto, pur mantenendo il principio di non-contraddizione. Eliminando l’idealismo, sarebbe più interessante vedere come questa emancipazione “non esista ancora”, specialmente in relazione a come essa si afferma o si critica da parte delle grandi femministe francesi come Cixous e anche de Beauvoir, quando si soffermano non tanto su un’emancipazione finale, ma piuttosto sulla volontà di scrivere o pensare la femminilità. Per me la materia non è identificabile con la “natura”. La natura è un ordine del mondo determinato da costanti specifiche e che determina entro sé una serie di possibilità che io chiamo “potenzialità”. La materia è un ordine ontologico primordiale: è il fatto che vi debba essere qualcosa piuttosto che il nulla, cioè gli esseri contingenti in quanto tali. Si può immaginare un’infinità e più di mondi materiali retti da leggi differenti: sarebbero differenti “nature”, sebbene ugualmente materiali. La seconda caratteristica della materia è negativa: essa designa gli esseri contingenti non viventi e non pensanti. Nel nostro mondo, la vita e il pensiero si sono costituiti su di una materia inorganica a cui ritornano. Si può forse immaginare una natura interamente vivente o spirituale in cui la “materia” venga estromessa, ma resterebbe la possibilità essenziale ed eterna del super-caos, dal momento che ogni natura può essere distrutta, ad eccezione dell’essere contingente in uno stato di pura materia. Per quel che riguarda la teoria del soggetto materialista, sono certo interessato a superare l’identificazione dell’azione con il suo puro svolgimento presente, ripetendo allo stesso tempo la critica del precedente modello rivoluzionario di una futura emancipazione. In ogni caso, penso che il presente sia intimamente costituito dalla “proiezione” del soggetto su ciò che non è ancora presente. Qui non voglio dire nulla di originale: Heidegger, come Sartre, ha insistito su questa dimensione costitutiva del futuro nella formazione del presente soggettivo. Tuttavia, io aggiungo una dimensione molto differente a questa proiezione: una dimensione che non è soltanto priva di trascendenza religiosa, ma anche inaccessibile all’azione del soggetto. Un’articolazione che ritengo efficace per una giustizia radicalmente egualitaria (del vivente e del morto) e per l’eterno ritorno come prova del ritorno (una resurrezione profondamente illusoria). Ciò che mi interessa è l’effetto di retroazione di questa aspettativa sul presente dell’azione e sulla concreta trasformazione del soggetto. Bibliografia Bryant, L., N. Srnicek and G. Harman eds. 2011, The Speculative Turn: Continental Materialism and Realism, Melbourne: re.press. Harman, G. 2011, “On the Undermining of Objects: Grant, Bruno, and Radical Philosophy,” in L. Bryant, N. Srnicek, and G. Harman 2011, 21–40. Meillassoux, Q. [2006] 2012. Dopo la finitudine. Saggio sulla necessità della contingenza, a cura di Massimiliano Sandri, Milano: Mimesis 2012. -2010. “Que peut dire la métaphysique sur ces temps de crise?”, in L’Annuel des Idees February 5, 2010. http://www.annuel-idees.fr/2-Que-peut-dire-la-metaphysique.html Intervista tratta da Rick Dolphijn and Iris van der Tuin (a cura di), New Materialism: Interviews & Cartographies, Ann Arbor: Open Humanities Press 2012. (traduzione di Giuseppe Montalbano) (16 marzo 2013)