Cominciamo dalla fine, dalle note biografiche dell’autore («Vladimir D’Amora … è lettore di immagini, che non interpreta») e dai versi di chiusura del libro («nel mio paese la lingua / è una torsione elementare / e sempre spuntano le cose / in questa ingiunta parodia di stella»). Il titolo di questa raccolta, che ha ottenuto la pubblicazione classificandosi tra i vincitori della prima edizione del Premio nazionale editoriale di poesia “Arcipelago itaca”, evoca una Napoli vivente – o morente – fatta a pezzi in frammenti di scrittura. Tuttavia ciò che il lettore troverà in questo libro saranno immagini (spettri) della città ed è anche la lingua ad essere fatta a pezzi e ad essere ricomposta. Va detto che questo autore è ben oltre ogni sperimentalismo ed ogni targa vetero-novecentesca esercitando nella “pornogrammia” (concetto a lui caro e teorizzato, nonché titolo della sua prima raccolta edita) tutta l’essenza psicopubblicitaria e al contempo la via di fuga dal ventunesimo secolo. Napoli filtrata dalle macchine e dagli schermi dove ha luogo l’atto di scrittura, Napoli come tremito, per l’occhio esercitato e attento, di un concatenarsi di fotogrammi, Napoli come pratica di un linguaggio che va ben oltre il mero significante, che nella capacità del filologo si interseca con naturalezza di italiano, dialetto e latino, si arricchisce di sfumature e di forti contrasti dati da una sintassi inusuale e mutuata da chissà quali lingue esotiche, remote o solo pensate, monta sulle spalle del passato per reinventare una forma espressiva abile ad avvicinare noumeno e fenomeno. Napoli come copia-incolla di momenti di vita, di ricordi, invenzioni e di ideali. Uno scontro-incontro tra ciò che è il suo vuoto di mondo, tra il possibile e l’impossibile. Tutta la scrittura di D’Amora si fonda sulla caduta, sull’accadere come casuale del poetico in immagine, tutta la scrittura di D’Amora si fonda sull’essere forma-di-vita. Di questa silloge, i testi che si preferiscono sono forse quelli che si accostano al racconto, che, pur non avendo nulla di prosastico, sono descrittivamente vicini ad una maniera pasoliniana, dove le immagini si susseguono senza scampo per il lettore, dove la parola fa avverare il possibile e al contempo lo delocalizza proiettando altrove nel tempo e nello spazio, in un mondo puramente ipotetico. Un breve esempio: […] Passeranno anni sui ballatoi condominiali, giugno della fine, / giugno di sole di luce sul pavimento scassato. Il primo campionato. / Sarebbe stato bello, nascere prima. Qualcosa / che accadde. Memorabile. / Nei pomeriggi si assisteva alle chiusure. Pause. / Il divenire che è martellato. Al centro sociale. Borchie / snaturanti. / Solo una vertigine di certi anni, una guagliunera / intaccata dai compiti di Stato. / L'uscio. Lontano. / Che si fermarono a reggere la solitudine del conducente, / sua madre cercò una casa. Un affitto decente. Nomi storpiati. / Nel letto gemeva il coma di lui, nella camera / in fondo, la più scaldata da un astro inscatolato. Diabete. / Tipo 1. […] Vladimir D’Amora risiede nel “come non…” (che, se vale, vale per “come se…”), nell’elusività, in una vita che non incontra mai la propria nascita né la propria fine, nella materia riflessa e impressa all’incontrario su un negativo che subisca immediatamente la luce, nelle grandi cornici barocche che sviano lo sguardo lasciandogli solo una sonnambulica, ma certa, percezione della preziosità del quadro, nelle ombre caravaggesche. Ed è questo “come non… / come se…” a far sì che il lettore si senta sempre chiamato in prima persona dentro al testo, avverta nell’intimo il risuonare della parola, si accasi – eppur spaesato – in una dimensione aliena. Claudia Zironi