Alla ricerca dell’animalità umana Scienza e filosofia - L’umanesimo ci ha collocati fuori dal mondo animale / 22.05.2017 di Lorenzo De Carli Felice Cimatti è un filosofo italiano che da anni sta riflettendo su come pensano gli animali non umani. A questo tema specifico aveva dedicato un libro intitolato La mente silenziosa. La convinzione di Cimatti è che mente e linguaggio non sono una prerogativa della specie homo sapiens, ma sono presenti in forme e gradi diversi in molte altre specie di animali, dalle api agli scimpanzé. Scienza che studia i segni, la semiotica prevede che dietro ogni segno ci sia un’intesa tra chi ne fa uso, una comune consapevolezza che quel segno «significa» qualcosa, vale a dire che «sta per» qualcos’altro. I segnali che gli animali usano per la comunicazione intraspecifica e interspecifica sono già espressione per così dire di «alto livello» dell’uso dei segni per comunicare perché la comunicazione per mezzo dei segni è già una caratteristica della vita stessa. Cimatti l’ha osservato studiando a fondo l’opera di un oncologo che fu anche grande studioso di semiotica: Giorgio Prodi, prematuramente scomparso nel 1987. Per Prodi, c’è una continuità accertata tra come comunicano le cellule e come comunicano gli organismi che esse formano. Lo sforzo di cercare gli elementi comuni tra le forme di comunicazione che contraddistinguono gli organismi non ha impedito a Cimatti di sottolineare anche le forti differenze. Proprio nelle pagine del suo studio dedicato a come pensano gli animali non umani, Cimatti ha sottolineato con forza la loro radicale differenza da noi: «può sembrare paradossale, ma credere che gli animali non umani abbiano pensieri in qualche modo simili ai nostri – come vogliono gli animalisti, per esempio – significa non rispettare la loro diversità. Significa, in sostanza, continuare a credere che l’essere umano rappresenti il vertice del mondo naturale». La nuova tappa della ricerca di Felice Cimatti sul nostro rapporto con gli animali è il saggio intitolato Filosofia dell’animalità. Per Cimatti è innanzitutto una nuova occasione per dichiarare chi siamo noi: «una scimmia che si parla». Noi siamo quella specie di ominide che, a un certo punto della sua evoluzione, è stata per così dire infestata dal linguaggio. Adattamento che ci ha permesso di sviluppare abilità che ci hanno reso la specie dominatrice del pianeta, il linguaggio ci ha parassitati. Il risultato è stato che il linguaggio è diventato il nostro ambiente naturale, come l’aria per gli uccelli e l’acqua per i pesci. Il vantaggio evolutivo che ci ha conferito il linguaggio è senza paragoni. Esso non consiste solo nella possibilità di trasmettere informazioni o di tramare inganni (ciò che fanno bene anche alcune specie di scimmie), ma anche nella possibilità di dar forma a una sorta di mondo parallelo, nel quale il mondo reale si specchia e dove noi possiamo applicarci in attività predittive. Il linguaggio, cioè, è quel dominio virtuale dove ciascuno di noi, sulla base dell’esperienza personale, può fare ipotesi in ordine a che cosa accadrebbe se facesse questa o quella azione. È un potentissimo strumento di prefigurazione del futuro. Filosofo che riflette sul comportamento degli animali, Cimatti ci fa osservare che l’effetto prodotto in noi dal linguaggio è stato anche quello d’indebolire la nostra relazione con la realtà che ci circonda, ponendoci pressoché costantemente in una condizione tale, da distrarci dal «qui e ora» – adesione al quale, viceversa, caratterizza proprio la vita animale. Non c’è animale che non viva nel presente, scevro dalle preoccupazioni che porta con sé la capacità di fare ipotesi su quello che, nel futuro, potrebbe accadere perché non c’è altro animale, fuorché homo sapiens, che, abitato dal linguaggio, vive sempre in un altrove che è l’altrove del suo universo linguistico. La tradizione filosofica, cui si oppone Cimatti, ha sempre visto l’animale come un essere da meno rispetto noi umani. Un essere, per così dire, intontito, stordito perché sopraffatto dalle cose che lo attorniano e che non può immaginare diverse da quelle che sono. Viceversa, secondo Cimatti, l’animale gode della pienezza del vivere in totale adesione al presente, del tutto privo della perturbazione del futuro, senza aspettare nulla. L’animale umano, invece, non appena comincia a prendere dimestichezza con il linguaggio, vive in una seconda natura fatta di segni linguistici, una seconda natura dove si trasferisce quando deve comunicare non solo con gli altri ma anche con sé stesso. E il sentimento d’insufficienza e d’inadeguatezza prodotto dalla vita nel linguaggio è tanto più inquietante, in quanto il transito che facciamo nel dominio del linguaggio è irreversibile: appreso a vedere il mondo attraverso la descrizione fattane con il linguaggio, non potremo più vederlo in altro modo, non avremo più esperienza dell’«animalità». D’altronde, in assenza di linguaggio non ci sarebbe neppure un soggetto che possa dire «io» e, in tal modo, sentire d’essere un soggetto che abbia qualcosa da dire a proposito della sua esperienza di vita. Proprio perché studioso di come gli animali comunicano tra loro e tra specie diverse, Cimatti si chiede se potremmo mai liberarci degli effetti trascendentali del linguaggio, vale a dire di quella sua caratteristica di portarci sempre altrove rispetto al «qui e ora», e nella sua riflessione filosofica avanza l’ipotesi che l’arte, o la poesia, così come l’estasi contemplativa possano essere strumenti per spogliarci del linguaggio, mettendoci a contatto di una animalità umana costantemente emarginata perché inquietante. Cimatti cita due racconti di Franz Kafka: Una relazione per un’Accademia e Desiderio di diventare un indiano. Nel primo una scimmia fatta prigioniera apprende il linguaggio umano e in questo processo rinuncia alla propria animalità; nel secondo il narratore invidia l’indissolubile connubio tra l’indiano e il cavallo che cavalca in una simbiosi così stretta da annullare la differenza tra umano e animale. I due racconti servono per additare due condizioni opposte: la perdita dell’animalità nel linguaggio e l’esperienza dell’animalità in un’azione a stretto contatto con l’animale. Proprio riflettendo su questo secondo racconto, in Filosofia dell’animalità Cimatti suggerisce che una relazione con gli animali scevra della volontà di usarli, potrebbe essere il primo passo per riscoprire la nostra animalità. Ma se avesse fatto riferimento al più famoso dei racconti di Kafka, La metamorfosi, forse l’autore avrebbe convenuto che, se mai dovessimo tornare a fare esperienza dell’animalità sarebbe un viaggio senza ritorno, un’esperienza inaccessibile al linguaggio.