DUE TRADIZIONI MUSICALI TRA LORO OPPOSTE: L'ISLAMICA E CINESE Parte quarta Indugiamo ancora una volta, una sola, oltre i confini invisibili dell'Occidente. Entro quei confini, le nostre tentazioni eurocentriche ci abituano a considerare il pensiero filosofico occidentale la filosofia tout court, e la musica che ci è familiare la musica per eccellenza, quella che "fa storia". Esistono fondate ragioni per non considerare interamente false tali abitudini, e ne abbiamo già discusso: la ragione più vincolante è la storicità che connota la filosofia e la musica d'Occidente, in misura incomparabilmente maggiore rispetto ad altre tradizioni. Su tali tradizioni ci siamo soffermati brevemente per correggere gli eccessi in cui possono incorrere quelle nostre convinzioni, e la loro pretesa di esclusività. Quest'ultima sosta è dedicata a due tradizioni musicali tra loro diversissime. Se le associamo in questa fase del nostro percorso, è proprio per il carattere esemplare della loro opposizione, che è un'autentica polarità di estremi. Ci riferiamo alla cultura islamica e a quella cinese classica, forse i due mondi culturali più dissimili sul pianeta. Come spesso accade, la loro opposizione di fondo si rovescia in opposizioni uguali e contrarie, ed emergono i consueti paradossi grazie ai quali, nella fisionomia delle diverse civiltà, gli estremi si toccano. La filosofia islamica, fiorita accanto a quella tutt'altra realtà che è la teologia islamica, accanto agli aspetti sublimi della mistica e agli aspetti sgradevoli e talora odiosi della precettistica morale, tende all'assoluto, all'aforisma dogmatico, alla metafisica elaborata in sistematiche e vertiginose costruzioni del pensiero. La filosofia cinese esclude ogni dogma, ogni assoluto, ed è tendenzialmente antimetafisica; è fondata su un complesso equilibrio in cui tutto si regge perché è relativo, e tale equilibrio di relazioni sostituisce la cosiddetta Verità. Al muslim, al "fedele" che crede nell'Islam, interessa la Verità in cui è riconoscibile la figura personale di Dio. All'intellettuale della Cina classica interessa piuttosto il Bene, o meglio (poiché anche la parola 'Bene" ha un sentore metafisico) il Giusto, la norma corretta e irreprensibile del vivere; interessa la società, lo Stato, secondo una gerarchia ragionevole in cui la legge è tanto più elegante quanto più è impersonale. Una celebre classificazione di Marcel Mauss, maestro di antropologia culturale, definisce la civiltà islamica (e l'indiana classica, ad essa affine almeno sotto questo aspetto) come una civiltà metafisica, distinta dalla civiltà etica della Cina tradizionale e dalla civiltà estetica del Giappone. Una più ampia classificazione è offerta dal musicologo e sinologo Maurice Courant: nella tradizione cinese, indiana ed ellenica il pensiero musicale è assunto a termine distintivo. I tre grandi ambiti di civiltà, osserva Courant, hanno in comune l'idea che la musica sia la rappresentazione percettibile dei rapporti che uniscono cielo e terra, e tutti gli elementi dell'universo tra loro. Ma l'antico pensiero musicale dei greci, alla luce della speculazione filosofica, tende a una configurazione del mondo entro sfere celesti, e la sua è una visione assoluta e tuttavia non dogmatica, metafisicoscientifica. Il pensiero indiano, come quello islamico, mira all'essenza di Dio, in una visione metafisico-teologica. Il pensiero cinese mira all'ordine mondano, in una visione etica, sociale, psicologica e politica. Ed ecco il capovolgimento dello schema, i piccoli e grandi paradossi. Il primo rovesciamento è la fenomenologia della tradizione musicale coesistente alla tradizione filosofica e alla sua indole fondamentale. La filosofia islamica, pur nelle sue varie scuole, è essenzialmente dogmatica e assoluta, ma la musica islamica è quanto mai libera e mutevole nelle sue norme e varianti: un universo variegato di possibilità inventive, con diversissimi sistemi, modi, scale, melodie. Noi occidentali assimiliamo, nella percezione, tutte queste varietà, e siamo sedotti soprattutto da un carattere della cosiddetta "scala orientale", la successione di un tono, un semitono e un tono e mezzo nel primo tetracordo, il conseguente intervallo di un semitono tra il quarto e il quinto grado, e la successione di un semitono, un tono e mezzo e un altro semitono nel secondo tetracordo. Esempio: DO, RE, MI bemolle, FA diesis, SOL, LA bemolle, SI, DO. Ma questa scala dalla denominazione impropria e approssimativa, teorizzata da Louis-Albert Bourgault-Ducoudray (1840-1910) in età wagneriana (Trente mélodies populaires de la Grèce et de l'Orient, 1876), è un modulo stilizzato e occidentalizzato. E' una scala che interpreta arbitrariamente la musica "orientale" e i suoi intervalli non temperati (come il semitono maggiore e il semitono minore, distanti di circa un quarto di tono) secondo il nostro temperamentum aequabile, e il suo "orientalismo" è un effetto che tale appare agli orecchi di noi occidentali, poiché fu usato ripetutamente da compositori d'Occidente (Saint-Saens, Verdi in Aida, Richard Strauss in Salome, RimskijKorsakov, Balakirev, Ravel), e per noi sa di odalische e di danze del ventre. La scala di Bourgault-Ducoudray trova il suo corrispondente non già in un supposto comune denominatore delle scale usate nella musica islamica, bensì soltanto in uno dei maqam ("modi") arabo-egiziani, il nawa'thar, e in parte (per quanto riguarda il primo tetracordo) nel maqam detto nakriz. In realtà, la varietà dei modi e delle scale è, nella musica islamica, sovrabbondante e spesso coincide (casualmente) con il sistema codificato in Occidente tra il XVII e il XVIII secolo. Noi tendiamo ad omologare quella varietà anche per un'ovvia illusione ottica, generata dalla distanza culturale e psicologica. Pensate alle stelle nel cielo, o almeno così siamo avvezzi a chiamarle: in realtà sono oggetti di natura difforme, nane bianche o giganti rosse, quasar o pulsar, radiostelle o pianeti spenti, e talora in un punto luminoso si nasconde non una sola stella ma un gigantesco ammasso stellare, un'intera galassia. E' questione di maggiore o minore lontananza. Alcune di quelle luci testimoniano di com'è ora l'astro, altre ci rivelano com'era la stella quattromila anni fa, o due miliardi di anni fa: una traccia di caos nel cosmo. Eppure, noi vediamo quelle luci come se fossero tutte sullo stesso piano, trapunte sull'illusoria volta del firmamento. Furono dette, un tempo, le "stelle fisse", e sappiamo che si allontanano costantemente l'una dall'altra, e naturalmente da noi, con velocità inconcepibile. Una similitudine più familiare: chi incontra popoli di altra etnia e di altro colore, con caratteri somatici che non sono i nostri, tende a dire che quegli individui tra loro "sono tutti uguali", e così dicono gli altri di noi. Alla varietà di sistemi nella musica islamica, entro una civiltà tendente al dogma e all'assoluto metafisico in filosofia, si oppone in termini inversi la musica cinese classica, che all'interno di un relativismo filosofico avverso ai dogmatismi e ai rigori tende a un sistema con poche varianti, abbastanza semplice e austero nella scelta delle possibilità inventive. Un secondo rovesciamento dello schema è generale, e investe il rapporto tra speculazione filosofica e pratica quotidiana. Il fedele islamico è intransigente nel dogma e nella fede, ma incline al rilassamento e alla trasgressione nelle scelte private; nella tradizione della Cina classica, priva di una religione vera e propria e guidata da norme etiche e sociali ispirate a tolleranza, l'uomo si assoggetta spontaneamente a una disciplina rigorosamente osservata. Queste opposizioni incrociate sono in equilibrio, e ciò motiva uno sguardo d'insieme. Ma un terzo paradosso nasce proprio da elementi davvero comuni. Il primo, importantissimo, è la tendenza di entrambe le tradizioni, l'islamica e la cinese, ad una filosofia estranea ai movimenti storici, incline a formulazioni astratte di natura logico-matematica: l'assoluto della filosofia islamica astrae dagli eventi i loro caratteri simbolici, così come il relativo della filosofia cinese. Nel rapporto con la filosofia, la tradizione musicale islamica e quella cinese devono fare i conti con simili astrazioni. L'altro elemento comune è l'associazione dei suoni e dei sistemi musicali con un'organica simbologia naturalistica e psicologica, ancora una volta inquadrata, nell'uno e nell'altro ambito culturale, in un codice di luminose astrazioni. Conviene ribadire, in quest'ultima sosta su tradizioni non occidentali, quanto abbiamo detto nelle sommarie incursioni precedenti: è difficilissimo, se non impossibile, valutare l'incidenza del pensiero filosofico orientale sulle strutture della musica in atto, sull'invenzione melodica e sull'impiego degli strumenti. Due sono gli ostacoli: la povertà di connotazioni storiche in quelle tradizioni musicali, corrispondente a una tendenziale immutabilità del linguaggio musicale attraverso epoche successive; la debole possibilità, concessa a noi occidentali, di percepire particolari contrassegni semantici e sfumature espressive in sistemi musicali che ci sono storicamente estranei. L'unico modo serio di intuire il rapporto è l'individuare il posto assegnato alla musica nella visione universale del mondo. Questo tipo di esame, molto più agevole, ci pone dinanzi a un ennesimo paradosso. Mentre la filosofia cinese classica non ha alcun rapporto storico con il pensiero d'Occidente, la filosofia islamica nasce da fonti elleniche ed ellenistiche come da un'incubatrice. I contatti di natura storica sono innumerevoli: quello decisivo è costituito dall'annessione degli scritti pitagorici e aristotelici alla cultura islamica dopo la conquista araba di Alessandria, capitale dell'Egitto ellenistico-romano-bizantino, ad opera di Amr Ibn al-Ass. Se teniamo conto della centralità di Aristotele e delle fonti pitagorico-platoniche nel pensiero occidentale, la filosofia islamica ci appare, fra le altre extraeuropee, l'unica occidentalizzata nelle sue origini. D'altra parte, i suoi esiti sono quanto di più estraneo all'Occidente si possa immaginare, mentre la filosofia cinese, nella sua qualità costante, presenta molte analogie con le filosofie occidentali della fase più recente: per esempio, con la fenomenologia husserliana o con la linea del cosiddetto "pensiero debole". L'innesto dell'aristotelismo nella religione coranica dà alla tradizione filosofica islamica un carattere irripetibile, ibrido e strano, nel quadro di una delicatissima coesistenza di misticismo e di ragione logico-scientifica. Nella rivelazione annunciata dal Corano, il tratto distintivo della natura divina è l'assoluta impersonalità del creatore. Allah è il principio supremo dell'universo, la chiave di volta del creato, il garante della stessa natura umana e dei suoi impulsi. Tutto, nell'islamismo, è di radice divina, anche l'erotismo più accentuato, anzi, ogni forma di edonismo. In nessun modo Allah può essere confuso con il Dio cristiano, e ne è prova, nella tradizione islamica, l'assenza del concetto di grazia, che in quella cristiana contrassegna i rapporti dell'uomo con Dio come relazioni tra entità personali. Allah è dunque l'unica fonte di razionalità; anzi, è l'unica razionalità possibile. Ontologicamente, non esistono razionalità individuali, che gli esseri umani esercitino in piena autonomia; gli uomini pensano perché Dio li fa pensare, ed essi sono soggetti a lui anche in questo atto che la tradizione d'Occidente identifica con la suprema libertà e con la superiorità rispetto agli altri esseri (le roseau pensant di Pascal ... ). Per contrappeso, non c'è rapporto di superiorità e d'inferiorità tra l'uomo e gli altri esseri di natura; tutto l'universo è razionale, e, come l'uomo, è soggetto a Dio. Ed ecco una conseguenza decisiva. Chiunque compia un atto, s'illude di compierlo, ma in realtà è Dio stesso che lo compie, assoggettandolo alla propria suprema razionalità. Un uomo crede di pensare, ma è Dio che pensa per lui. Lo stesso vale per le arti; anche l'invenzione musicale, o l'abilità nel suonare uno strumento, è facoltà individuale soltanto in apparenza, poiché Allah è il supremo artista e il supremo musico. L'arte musicale viene così continuamente "ripresa in mano" da Dio, e non ha luogo la decisiva contrapposizione arte-natura che domina la filosofia, l'estetica, la letteratura nell'Occidente moderno (gli esempi di Kant, Hegel, Leopardi, Schopenhauer, Kierkegaard, Thomas Mann, nella loro molteplice diversità, testimoniano tutti tale dominio). Nel pensiero islamico, l'arte è un aspetto della natura, poiché entrambe sono opera di Allah. Il musico e teorico Ziryab (morto verso l'850 dell'era volgare) teorizzò un vasto sistema pedagogico intorno all'uso dello 'ud, il più illustre fra gli strumenti arabi a plettro, originariamente a quattro corde, cui lo stesso Ziryab aggiunse una quinta. Le cinque corde emettono suoni a intervalli di quarta ascendente, e si chiamano bamm (LA), matlat (RE), matna (SOL), zir (DO), zir di Ziryab (FA). Ciascuna delle cinque corde, grazie alla diversa collocazione delle dita, emette, oltre al suono fondamentale, un tetracordo in scala cromatica ascendente, ed è legata a un elemento cosmico e a un temperamento umano: il bamm alla terra e alla nera bile, il matlat all'acqua e alla flemma, il matna all'aria e al sangue, lo zir al fuoco e alla bile gialla, lo zir di Ziryab alla vita e all'anima. Ciò significa, evidentemente, che ogni musico il quale intoni uno strumento, canti o inventi melodie, muove contemporaneamente gli elementi dell'universo, del corpo e dell'anima; facendo questo, egli si adatta ad essere a sua volta strumento nelle mani di Dio. Di conseguenza, nella tradizione islamica non esistono rigidi limiti all'invenzione musicale: i modi e le scale sono innumerevoli poiché sono "tutti leciti". Malgrado alcuni enunciati del Corano, severi verso l'arte musicale intesa come occasione di puro piacere, un raffinato edonismo domina in pratica la musica islamica. Quanto alle connessioni tra i suoni e gli elementi dell'universo, l'aria, l'acqua, la terra e il fuoco (è superfluo sottolineare la radice aristotelica di questa ideale articolazione), non può sfuggire la natura astratta di tali indicazioni; gli elementi sono meri ideogrammi analogici, fissati in nome di una simbologia stilizzata, e non hanno alcun connotato "descrittivo" o imitativo, come avviene, sotto tutt'altro cielo, nella moderna musica occidentale. E' utile istituire un confronto tra simili connessioni che legano nella tradizione islamica la musica e l'universo, e le connessioni, se non analoghe, almeno omologhe che esistono nel pensiero cinese classico. Poiché la cultura cinese, nel corso dei millenni, non ha mai prodotto un testo "rivelato" paragonabile a quelli delle grandi religioni monoteistiche, ma soltanto una cosmogonia e una mitologia espresse in testi poetici (qualcosa di non molto dissimile accade nella civiltà ellenica ed ellenistica), è arduo orientarsi fra la molteplicità delle scritture, che sono di natura letteraria e non teologica. Nel "paese del Centro" (Chung-Kuo, la denominazione ufficiale della Cina) manca un testo "centrale". E' riconoscibile tuttavia una linea maestra, in cui la simbologia elementare ha formulazioni sostanzialmente univoche. Secondo la splendida sintesi offerta dal sinologo francese Marcel Granet (La pensée chinoise, La Renaissance du Livre, Paris 1934, e Albin Michel, Paris 1968), la serie degli elementi universali ha il suo enunciato capitale nella prima sezione del libro Hong fan, redatto durante il primo millennio avanti Cristo. L'universo è un sistema chiuso, e nessun mistero si nasconde dietro le sue realtà fenomeniche, nessuna metafisica, poiché il pensiero cinese non si pone neppure il problema se esso sia stato "creato" da un ipotetico Dio; anzi, i concetti di "Dio"e di "creazione" sono interamente elusi. L'unica realtà, e l'unico mistero, è l'intreccio di relazioni tra le realtà visibili e tangibili. L'unica disciplina esoterica, l'unica mistica che la cultura cinese abbia elaborato (ed è stata un'elaborazione a livello vertiginoso) è la scienza dei numeri, culminante nel valore simbolico del 5 come sintesi universale. Ai quadrilateri cari all'Occidente (le quattro stagioni, i quattro punti cardinali, i quattro venti, i quattro angoli del mondo, i quattro estremi della croce, i quattro evangelisti), in cui ciò che conta non è lo spazio interno al quadrilatero bensì i punti terminali, i vertici e gli spigoli, la Cina contrappone quadrilateri gravitanti intorno al proprio centro, resi significanti dal loro spazio interno, e trasformati, con l'aggiunta decisiva del punto centrale, in cinquine. Così, alle quattro stagioni si aggiunge, come quinto termine, il momento che stiamo vivendo ora; ai quattro punti cardinali si associa il centro dell'universo, che è il luogo in cui noi ci troviamo. Se non esiste un Dio che crei il mondo, si può dire che ogni elemento sia il creatore degli altri e del loro relativo equilibrio. Le due supreme forze che si contrappongono dialetticamente nel Tao, lo Yang maschile e affermativo, lo Yin femminile e negativo, riassumono e garantiscono il delicato sistema di pesi, contrappesi, sostegni, paralleli e divergenze. Il numero 5 regge, insieme con l'intero universo, il sistema musicale. Il sinologo Jean-Joseph-Marie Amiot (1718-1793) identificò il suono fondamentale teorizzato nel libro Yo-ki (composto all'epoca dell'imperatoreWu-Li, 147-87 a.C.), ossia il huang-chong o "suono regio", con il FA della musica occidentale. Secondo la consueta connessione tra musica e realtà mondana, il FA è detto kong (= palazzo imperiale, stirpe imperiale). Con quattro progressioni di quinte a partire dal FA, si ottengono DO, SOL, RE, LA. Questi cinque suoni, posti in ordine scalare, danno la prima gamma pentafonica: FA (kong, palazzo), connesso con il momento presente, con il centro dei punti cardinali, con la terra, con il colore giallo, con lo zucchero, con il cuore, con il rango di principe, con il serpente; SOL (shang, deliberazione), connesso con l'autunno, con l'ovest, con il metallo, con il bianco, con il sapore piccante, con il fegato, con il rango di ministro, con la tigre; LA (kiao, corno e materiale lavorabile in genere), connesso con la primavera, con l'est, con il legno, con il colore azzurro, con il sapore acido, con la milza, con il popolo degli artigiani, con il drago; DO (chi, manifestazione pubblica), connesso con l'estate, con il sud, con il fuoco, con il rosso, con l'amaro, con il polmone, con i servizi pubblici, con il falco; RE (yu, le ali), connesso con l'inverno, con il nord, con l'acqua, con il nero, con il salato, con i reni, con i prodotti commerciabili, con la tartaruga. Una scala pentafonica può essere costruita su ciascun grado della scala basata sul kong, e si ottengono così cinque "modi", in ciascuno dei quali, naturalmente, gli intervalli si trovano in collocazione diversa: i cinque modi hanno i nomi delle note di partenza, kong, shang, kiao, chi, yu. Ogni musico, strumentista o inventore di melodie, si trova, all'interno dì questo sistema, in una condizione diametralmente opposta a quella del musico di tradizione islamica: egli si assume l'intera responsabilità della sua azione, e modifica ogni volta, cantando, suonando o inventando nuove musiche, l'ordine dell'universo. E' l'assoluto protagonista, e la sua iniziativa musicale è, in quel momento, il centro di tutta la musica terrena, così come i suoi piedi poggiano sul culmine del cosmo. Quirino Principe (Musica Viva, Anno XIV n.4, aprile 1990)