Interviste sul tarantismo (Anteprima)

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Sergio Torsello
INTERVISTE SUL
TARANTISMO
Con il patrocinio di
Edizioni Kurumuny
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Sede operativa
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Tel. e Fax 0832 801528
www.kurumuny.it • [email protected]
ISBN 978-88-98773-39-8
© Edizioni Kurumuny – 2015
Indice
7
Per Sergio
Prefazione di Gabriele Mina
11
Introduzione
15
Nota editoriale
Interviste a
17
Clara Gallini
33
Amalia Signorelli
45
Donato Valli
57
Antonio Prete
65
Mario Marsella
79
Marino Niola
85
Giovanni Pizza
97
Luigi Chiriatti
121
Chiara Samugheo
129
Eugenio Imbriani
145
Appendice
Per una nuova tarantologia
161
Nota bibliografica
Per Sergio
prefazione di Gabriele Mina
Pochi mesi fa Sergio mi aveva inviato le bozze di questo
libro, chiedendomi di scrivere qualche riga di prefazione.
Aveva avuto le consuete parole affettuose e avevamo scherzato – ricordo – citando improbabili titoli latini di dissertazioni sulle tarantole, scambiati per anni e anni. Avevo
scritto quelle righe e ora riapro il file, scorro i verbi e passo
dal tempo presente al passato, perché nel frattempo Sergio
non c’è più, è morto improvvisamente ad aprile, lasciando
smarriti quanti gli hanno voluto bene, quanti – migliaia e
migliaia, davvero – hanno potuto apprezzare l’intelligenza
e l’umanità di un uomo generoso e schivo, impegnato, privo
di ipocrisie. Qualità che si avvertivano subito, nei suoi gesti
discreti, nel suo porsi un passo indietro per valorizzare l’altrui, nel suo modo di sorridere, nel suo esserci sempre.
Correggo dal presente al passato, però vorrei dire: il lavoro
imponente di Sergio ha un senso ora e continuerà ad
averlo. Tutti noi che abbiamo avuto la fortuna di collaborare con lui siamo convinti, senza esitazioni, che debbano
vedere la luce i progetti in cantiere, così da continuare ad
alimentare i vari dibattiti con la sua voce, i suoi documenti,
le sue istanze culturali. In comunione laica dei morti e dei
vivi.
Sergio Torsello, nella sua lunga e multiforme attività intellettuale sul territorio, spesso privilegiò due approcci che
evidenziano bene alcuni caratteri della sua figura di studioso: l’intervista e la bibliografia, entrambi presenti in
7
questo libro. L’intervista per Sergio era qualcosa di più di
uno strumento tecnico del giornalista: era un’interlocuzione che cresceva nel tempo, che nasceva dalla frequentazione delle persone e dei temi. Per lui era anche uno
strumento di costruzione di dialoghi allargati, di promozione culturale, nella ferma idea che il coinvolgimento di
differenti voci – comprese quelle meno note – fosse un
passo essenziale per l’arricchimento collettivo. Grazie a
questi dialoghi e alla sua rara capacità, riconosciutagli da
tutti, di porre in luce il valore dell’altro – si colga, nelle interviste qui trascritte, la sua attenzione al giudizio di chi
aveva di fronte, allo sguardo interpretativo – Sergio riuscì
a «tessere una tela» (espressione a lui cara) fra le generazioni e le diverse scuole, fra osservatori e osservati, fra puristi e contaminatori, fra il Salento e il mondo. L’altra
strategia, quella bibliografica, tradisce la sua passione per
il documento e per l’infinito gioco dei rimandi nelle fonti.
Sentiva il bisogno, per sé e per gli studiosi, di dare ordine
alle inesauribili liste di titoli (dai trattati eruditi al più piccolo intervento su una rivista locale), un poco esorcizzando
la vertigine bibliografica che talora coglie chi lavora con la
storia. La sua cura nella ricostruzione cronologica dei testi,
per quanto concerne il tarantismo, si appuntava in particolare all’Ottocento, un secolo assai fecondo di osservatori
apuli «sul campo» che – scrutando nelle case dei contadini
o catalogando specie di ragni e di veleni – continuavano ad
alimentare la fortuna di un tema che, fin dal Rinascimento,
aveva coinvolto filosofi e scienziati di tutta Europa. Mi piace
pensare che Sergio, in modo ironico, sentisse l’eredità di
quegli etnografi che battevano il territorio, paese per paese,
interrogando chicchessia, accumulando dati e scrivendo
missive alle accademie. Ora, per una volta, siamo noi a fare
un passo indietro e a mettere in luce lui, leggendo qui le
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sue domande puntuali sull’identità dei luoghi e sulla reinvenzione della memoria, riconoscendo fra le sue note dettagliate la vocazione dell’antropologo militante.
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Introduzione
Et noi vediamo hoggidì, che per via della Musica si oprano
cose meravigliose: imperochè tanta è la forza de i suoni et
de i balli contra il veleno delle Tarantole, che in brevissimo
tempo risana coloro, che da esse sono stati morsi: come si
vede ogni giorno per esperienza nella Puglia, paese abondantissimo de tali animali.
Gioseffo Zarlino, Istituzioni harmoniche, Venetia 1623
Venenum ictus tarantulae mirabiles effectos producit.
Hoffmann. Med. syst. rat.t. II
[Citato in Agostino Fantoni, De tarantulismo. Dissertatio
inauguralis, Ticini Regii 1847].
Queste interviste sul tarantismo, raccolte lungo l’arco di
un quindicennio, sono la testimonianza di un importante
segmento del mio personale percorso di ricerca sul tema.
Un itinerario che prende il via alla fine degli anni Ottanta
e si consolida a metà degli anni Novanta, quando il tarantismo, dopo un lungo periodo di oblio, torna al centro di
un clamoroso interesse scientifico e culturale. Esse rispondono a una duplice esigenza emersa a più riprese e in diversi momenti della ricerca: da un lato la necessità di
verifiche, chiarimenti, approfondimenti, ulteriori messe a
fuoco di particolari aspetti del fenomeno; dall’altro l’importanza del dialogo tra accademia e studi locali, di un fertile
confronto tra «teoria antropologica e conoscenza locale»,
come dice uno degli interlocutori di questo libro, Gianni
Pizza. Non si sorprenda dunque il lettore nel trovare uno
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accanto all’altro nomi prestigiosi della ricerca etnoantropologica italiana impegnati nello studio del tarantismo e del
suo recupero contemporaneo, esponenti di spicco della cultura locale e figure di rilievo del mondo popolare salentino
come l’organettista Mario Marsella. Le interviste riguardano
in molti casi temi ben precisi: l’analisi storico antropologica, la storia degli studi e le alleanze tra studiosi, la figura
e l’opera di Ernesto de Martino, le mutevoli forme di reinvenzione che caratterizzano il recente revival della pizzica
e del tarantismo, la mancata ricezione salentina de La terra
del rimorso, il primo reportage fotografico sul fenomeno, la
memoria dei protagonisti del rituale. L’immagine che ne deriva è quella di una fitta rete discorsiva, una tela infinita
che continuamente si disfa e si ricompone, nella quale convivono osservatori e osservati, sguardi e punti di vista differenti che tuttavia offrono stimolanti spunti di riflessione
su alcuni nodi cruciali della discussione contemporanea
sul tema. Proprio perché legate a momenti particolari di un
più ampio itinerario di ricerca che attraversa il recente dibattito sull’argomento, ho ritenuto opportuno mantenere
la stessa successione cronologica nella quale le interviste
sono apparse e lo stesso taglio pensato per la sede che le
doveva ospitare. Le interviste sono state quasi tutte pubblicate in volumi, quotidiani e riviste (talvolta in diverse
versioni), tranne l’ultima, a Eugenio Imbriani, che è inedita,
e quella a Marino Niola che qui viene pubblicata nella sua
versione integrale.
Vorrei qui ringraziare pubblicamente per la cortesia e la
disponibilità tutti gli intervistati: Clara Gallini, Amalia Signorelli, Donato Valli, Antonio Prete, lo scomparso Mario
Marsella, Giovanni Pizza, Marino Niola, Chiara Samugheo,
Luigi Chiriatti, Eugenio Imbriani. Per il costante dialogo sul
tarantismo degli ultimi quindici anni e per la duratura ami-
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cizia sono riconoscente in particolare a Luigi Chiriatti, Giovanni Pizza, Gabriele Mina, Vincenzo Santoro, Eugenio Imbriani. Un ringraziamento particolare, infine, desidero
rivolgere a Giovanni Chiriatti, delle Edizioni Kurumuny, per
la fiducia incondizionata con la quale accoglie da sempre i
miei lavori nelle collane della sua casa editrice.
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Clara Gallini
17
Clara Gallini (1931), allieva e poi assistente di Ernesto de Martino nell’ultimo periodo della sua vita, ha insegnato Antropologia
Culturale a Cagliari, Napoli e Roma. È autrice di studi fondamentali sull’argia sarda, sul magnetismo e sull’opera di Ernesto de
Martino. Dell’etnologo napoletano, in particolare, ha curato la
pubblicazione di molti inediti e la riedizione di quasi tutte le opere
più importanti.
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Quarant’anni fa veniva pubblicata La terra del rimorso.
Per l’impianto interdisciplinare e per la tensione etica che lo
animava il libro segnò una svolta nel campo delle indagini
etnoantropologiche. Cosa resta oggi di quell’esperienza?
Io credo che di quell’esperienza resti molto, se rivista con
quanto di nuovo oggi abbiamo acquisito nel campo della ricerca etnoantropologica. È uno straordinario punto di riferimento rispetto al quale misurarci per capire quanto sia
stato importante e anche quanto le cose siano cambiate da
allora e quanto sia da riscoprire nella ricchezza di questo
testo. Le opere di de Martino si caratterizzano come opere
stratificate, non solo leggibili da angolature diverse ma
anche a diversi livelli di profondità di analisi. La domanda
sollecita una risposta di carattere storico. Il primo trentennio del dopoguerra in Italia è stato caratterizzato dalla
guerra fredda e da attentati alla struttura democratica del
paese. Un periodo che vide messa in discussione la figura
dell’intellettuale, che allora si propose come “intellettuale
critico”, egualmente impegnato sia nella ricerca che nel
tentativo di collegare ricerca a prassi politica. In anni come
i nostri, in cui il disinganno è forte e lo scollamento tra politica e costruzione critica delle coscienze molto avanzato,
queste figure ci sembrano distanti come la luna, e credo
anche che le guardiamo con una certa nostalgia. Probabilmente allora si pensava ancora all’intellettuale come personaggio magari accademico, capace di distinguersi per la
sua unica dimensione di pensatore. Oggi forse ci va un po’
stretta una figura di questo genere. I processi di diffusione
dell’intellettualità nel sociale, anche con lavori intellettuali
impensabili rispetto a cinquant’anni fa, ci portano a ridefinire in qualche modo la figura più con la mente che con i
muscoli. Ciò detto, si pongono degli interrogativi, spesso
19
Amalia Signorelli
33
A quarant’anni dalla morte di Ernesto de Martino, avvenuta il 6
maggio 1965, il revival demartiniano non conosce battute d’arresto,
consacrando sempre più l’etnologo napoletano come uno «dei maggiori intellettuali del Novecento italiano», per usare le parole di Clara
Gallini. Non sempre infatti le sue anticipatorie posizioni furono capite e condivise (celebre in tal senso la tagliente “recensione in quattro parole” che Paolo Toschi dedicò nel 1962 a Furore, simbolo,
valore: «Furore molto, valore poco»); un atteggiamento che, dentro
e fuori il mondo accademico, durerà per lungo tempo dopo la morte.
Allievo di Adolfo Omodeo all’Università di Napoli, poi crociano inquieto, marxista irregolare e intellettuale costantemente impegnato
a coniugare attività scientifica e passione civile, de Martino fu autore
di opere come Il mondo magico, Morte e pianto rituale, Sud e magia,
considerate ormai dei classici della tradizione antropologica italiana.
Nell’estate del 1959, nel corso dell’inchiesta sul tarantismo, sperimentò proprio nel Salento un raffinato e innovativo metodo di indagine multidisciplinare dei fenomeni culturali. Un’esperienza
fondativa per l’antropologia italiana, dalla quale scaturì poi, due
anni più tardi, La terra del rimorso, un libro di culto, che il revival
della pizzica ha trasformato in un’icona del nuovo rinascimento salentino. Ad accompagnarlo in quel viaggio (con l’etnomusicologo
Diego Carpitella, lo psichiatra Giovanni Jervis, il fotografo Franco
Pinna, l’antropologa Annabella Rossi, Vittoria De Palma e Letizia
Jervis) c’era anche la giovanissima Amalia Signorelli (1934), oggi
docente di Antropologia Culturale all’Università Federico II di Napoli. Autrice di studi e ricerche sull’emigrazione, sulla condizione
femminile e sull’antropologia delle società complesse, Signorelli ha
curato la pubblicazione degli inediti relativi a La terra del rimorso
presso l’editrice Argo di Lecce: un’occasione importante per tornare
a riflettere sulla complessa eredità demartiniana.
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Professoressa Signorelli, come ha conosciuto de Martino?
Incontrai de Martino nel più ovvio dei modi: andando a
sentire una sua lezione. Era l’anno accademico 1954-55 e
de Martino, in qualità di libero docente, teneva un corso di
Etnologia nella Facoltà di Lettere dell’Università di Roma.
Folgorata fin dalla prima lezione che ascoltai, inserii il suo
esame nel mio piano di studi. Come esame complementare
in verità, giacché pensavo di fare l’archeologa. Il corso demartiniano era sul lamento funebre lucano; il programma
d’esame, oltre alle dispense sul lamento funebre (che anticipavano parti di Morte e pianto rituale), comprendeva il secondo capitolo de Il mondo magico. Non eravamo più di
quattro o cinque studentesse a seguire le sue lezioni. Ancora
oggi sono convinta che siano state le più belle e le più formative che io abbia mai ascoltato in tutta la mia vita, non
solo all’università. Il fatto è che in ogni singola lezione de
Martino metteva in gioco quella che poi, con gli anni, ho imparato essere la sua costruzione teoretica: ad ogni lezione,
ad ogni presentazione di materiali etnografici, de Martino riviveva e faceva vivere a noi lo scandalo dell’incontro etnografico. Scandalo intellettuale ben prima che morale o
politico, scandalo dell’insufficienza della ragione occidentale
egemone, scandalo della reciproca cecità e sordità, che ci
impegnava già fin da allora, ben prima che il concetto fosse
da lui stesso formulato, alla pratica dell’etnocentrismo critico e all’elaborazione di un ethos dell’«andare oltre la datità
della situazione». E poi c’era il linguaggio demartiniano. La
mia opinione è che il linguaggio, lo stile, la scrittura demartiniana sono originali e adeguati. Originali perché adeguati,
adeguati perché originali. Adeguati, anzi continuamente in
corso di adeguamento all’espressione di un pensiero che si
alimentava in modi ugualmente rigorosi di riflessione teo-
35
Donato Valli
45
A lungo docente di Letteratura italiana moderna e contemporanea presso l’Università del Salento, già Magnifico Rettore dell’ateneo leccese, Donato Valli (1930) è stato uno dei maggiori
protagonisti del dibattito culturale del secondo Novecento salentino. Gli abbiamo rivolto alcune domande sul revival della pizzica,
il rifiorire degli studi sul tarantismo, la cultura popolare, la riflessione identitaria locale.
46
Nel 1961 apparve La terra del rimorso, il testo di Ernesto
de Martino che raccoglieva i risultati della celebre inchiesta
sul tarantismo pugliese. Come fu accolto il libro nel mondo
intellettuale salentino?
Veramente non ci fu una grande accoglienza. Anzi, la
presenza di de Martino passò quasi inosservata, nel senso
che non si aveva ancora piena coscienza del problema in
tutti i suoi aspetti. In quegli anni il tarantismo era considerato un fenomeno passivo di pura e semplice manifestazione popolare tramandato dall’antichità, intendo dire
senza implicazioni di natura sociologica o di cultura antropologica. Anche per questo il libro, che era in un certo
senso rivoluzionario rispetto a tale concezione, non ebbe
grande diffusione nel Salento. Non solo, ma non ricevette
neppure la dovuta attenzione presso gli intellettuali più
sensibili e accorti. Si doveva giungere agli anni Settanta
perché si facesse strada una consapevolezza diversa. Io ho
avuto la possibilità di conoscere de Martino all’epoca del
suo arrivo in Salento nel 1959. Una delle prime tappe della
sua équipe di studiosi fu alla biblioteca provinciale, dove
io in quel periodo lavoravo. Allora la biblioteca era diretta
da Teodoro Pellegrino (che tra l’altro de Martino scambia
con Teodoro Bernardini, N.d.R.). Ma neppure la stessa biblioteca era in possesso di una documentazione bibliografica soddisfacente. Eccetto il testo di Nicola Caputi e pochi
altri autori salentini minori, non fummo in grado di approntare una bibliografia che potesse soddisfare appieno
le richieste di de Martino. Ne è prova il fatto che La terra
del rimorso è un libro che venne scoperto molti anni dopo,
per esempio attraverso Maria Corti che cominciò a parlarne
nell’università. Un ruolo importante infatti va attribuito
all’università che qualche anno più tardi si aprì verso espe-
47
rienze francesi attraverso l’incontro con Georges Lapassade, uno dei ricercatori più attenti al fenomeno dopo de
Martino. Per quanto mi riguarda personalmente, io ero giovane e non ebbi un’esatta percezione del problema. Ricordavo episodi di tarantismo ai quali avevo assistito nella mia
infanzia, nell’immediato dopoguerra, al mio paese, Tricase.
Ricordo ancora i suonatori, le danze, le crisi delle tarantate,
ma non attribuivo grande importanza al fenomeno; né avrei
potuto farlo data l’età. Anche quando incontrai de Martino
sapevo che era un grande studioso di storia delle religioni,
ma niente di più. Credo che questo sia stato all’epoca un
atteggiamento diffuso tra gli intellettuali salentini.
Secondo alcuni autori, La terra del rimorso sarebbe uno
straordinario romanzo sulla condizione del Mezzogiorno.
Un’opera letteraria più che un classico dell’antropologia. Non
crede che in questo giudizio ci sia il tentativo di decostruire
l’importanza etnografica, storica e metodologica di quell’esperienza?
Non credo che ciò sia dovuto a pregiudizi di natura ideologica consapevole. Credo, invece, che questa interpretazione debba essere riportata a tre elementi sicuramente
determinanti. Primo, la mancanza di una cultura consolidata in questa direzione. Gli scarsi studi al riguardo, in quegli anni, sono quasi tutti di natura descrittiva, non
interpretativa e sociologica. Secondo, anche la cultura nazionale, o soprattutto quella nazionale, accettava acriticamente il semplice atto del fenomeno come pura espressione
di arcaiche sedimentazioni psichiche e mentali. Terzo, una
certa responsabilità va attribuita al libro stesso, il quale a
una prima lettura affascina per il suo stile di scrittura, tra
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Antonio Prete
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Da sempre il mito della taranta stimola l’immaginario creativo
di poeti e scrittori. Basti pensare che già il Berni, nel Cinquecento, dedicava alcuni suoi sonetti alla tarantola di Puglia. Docente di Letteratura comparata all’Università di Siena,
traduttore, autore di importanti saggi di critica e teoria della letteratura, Antonio Prete, salentino di Copertino, ha dedicato alcuni brevi racconti al tarantismo.
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Ne L’imperfezione della Luna ci sono due brevi racconti
dedicati al tarantismo. Memoria, mitografia, immaginario.
Cosa sono per lei il tarantismo e la cultura popolare salentina?
Sono anzitutto un ricordo. Sono le immagini di alcune
scene alle quali da bambino m’è accaduto di partecipare.
Quelle immagini me le sono portate con me nelle perenigrazioni per città e in mezzo a culture altre: gli studi a Milano, i soggiorni parigini, l’insegnamento nelle università
francesi e in quelle di altri paesi. Sono immagini che hanno
rappresentato, in un certo senso, il mito dell’infanzia, mescolate con altri elementi. La luce abbagliante, le ombre
forti, i traini carichi di uva in coda dinanzi alle cantine sociali, la vita di strada dei bambini finita la guerra, la nonna
vestita sempre di nero, gli zii tornati dalla guerra, le tante
partenze di emigranti. La ragazza stesa sulla coperta e la
musica che la muove, i suoi occhi persi, la sensazione di
assistere a un evento che è insieme malattia e rito, tutto
questo ha sì rappresentato un elemento della mia terra
d’origine, ma accompagnato, e spesso sommerso, da molti
altri elementi: voci di personaggi del paese, facciate di
chiese, distese di ulivi, scogliere, dune, ragazze bellissime
che ti hanno procurato i primi affanni amorosi. L’altrove –
le città dove sono vissuto – è molta parte della mia vita,
quel “prima” è l’infanzia, l’adolescenza, il prima della partenza. Se esco dal ricordo, posso rispondere alla domanda
cos’è il tarantismo. Ma posso rispondere attraverso i libri,
i filmati, i resoconti, le canzoni: materiali di una storia divenuta un po’ memoria un po’ folklore, un po’ narrazione
identitaria e un po’ discorso antropologico vulgato e dissipato. La cultura popolare salentina ha un passaggio importante nel fenomeno del tarantismo, ma, come si sa, va
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Mario Marsella
65
Mario Marsella, (1934-2012), organettista e fisarmonicista,
all’epoca di questa intervista era uno degli ultimi musicisti ancora in vita ad aver suonato, con diversi organici strumentali, per
le tarantate. La sua attività si è svolta soprattutto negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, concentrandosi in un’area
ristretta ma estremamente significativa qual è Muro Leccese, un
piccolo centro nel cuore della penisola salentina, e il suo circondario. Contadino, muratore, emigrante in cerca di lavoro negli
anni Sessanta, Marsella ha curato con il suono del suo organetto
decine di “vittime della tarantola”, diventando ben presto uno dei
suonatori più richiesti per esperienza e perizia delle esecuzioni.
Meno noto e celebrato di Luigi Stifani (1914-2000), l’interlocutore
privilegiato di Ernesto de Martino nella celebre inchiesta del ’59
sul tarantismo salentino, Marsella è tuttavia una delle figure più
emblematiche della cultura popolare salentina e in particolare
del microcosmo di Muro Leccese, dove si registrano singolari persistenze di stili strumentali, procedure devozionali e pratiche
simboliche legate al fenomeno del tarantismo.1
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Quando hai iniziato a suonare per le tarantate?
È successo molto tempo fa. A Muro c’era un suonatore
più anziano di me, un certo Mesciu Pippi Benegiamo2 che
mi portava con lui. Io suonavo l’organetto e la fisarmonica
ma ero molto giovane, non potevo suonare per le tarantate.
Però a un certo punto lui capì che sapevo suonare... All’epoca c’erano molti suonatori delle tarantate, perché queste volevano molta musica: due, tre giorni, molte ore,
insomma. Mesciu Pippi era già grande di età e non ce la faceva a suonare per giorni interi. Quando mi sentì suonare
disse che mi avrebbe chiamato e alla fine mi chiamò. Anche
perché io ero più giovane e riuscivo meglio a scazzicarle 3.
In quale anno sei nato?
Sono nato a Muro Leccese il 1° gennaio del 1934.
Hai sempre vissuto a Muro?
Sì, quasi sempre. Però sono stato anche emigrante per
un breve periodo in Svizzera e Germania.
C’erano molte tarantate in quegli anni a Muro?
A Muro erano tante, ma anche a Sanarica, a Giuggianello.4
Chi suonava oltre a te?
67
Io e una suonatrice di tamburello, a volte, una a volte
due e persino tre.
Chi erano i suonatori di tamburello?
La Cristina Stefanizzi, poi altre: la Concetta Caprarica,
la Leonide Pedìo, poi c’era un uomo che suonava.5
Tu compari nelle registrazioni del 1959 di de Martino e
Carpitella. Hai avuto modo di conoscerli?
Sinceramente non me ne ricordo.
Ci sono le tue foto sul libro...
Lo so. Ma non me ne ricordo. Però quelle che ci sono in
queste foto non sono tarantate. Perché a Muro vennero due
volte degli studiosi che cercavano qualcuno che ballasse e
le pagavano, non so quanto ma le pagavano... Quella che
c’è nel libro non era tarantata, faceva la tarantata. Erano
due che dicevano di essere dottori, mi lasciarono anche il
numero di telefono in modo che li potessi chiamare se c’era
una tarantata. Dissero che stavano a Galatina però non li
chiamai mai... A Santa Maria di Miggiano (una località di
Muro, N.d.R.) balla la mamma mia. Allora fecero finta che
mia madre era stata pizzicata dalla taranta e ci chiamarono; c’ero io, Cristina Stefanizzi, e Ucciu Cancelli. Suonammo un po’ e girarono questo film.6
68
Marino Niola
79
Antropologo della contemporaneità presso l’Università Suor
Orsola Benincasa di Napoli, Marino Niola (1953) è autore di raffinati studi sul tarantismo e le metafore del corpo in epoca barocca. Curatore della rubrica Miti d’oggi su «Il Venerdì di
Repubblica», è da sempre un attento osservatore della realtà salentina.
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Alcuni tuoi studi, ad esempio Il corpo mirabile, hanno
posto in evidenza come in epoca barocca il tarantismo sia
stato un tema cruciale, declinato attraverso le categorie del
corpo come luogo in cui si «traducono le metamorfosi incessanti del reale». Cosa resta ancora da scoprire secondo te
dal punto di vista della ricerca storico-antropologica?
Bisogna oltrepassare il piano, pur interessante, del particolare erudito, per guardare invece al ruolo di un fenomeno come il tarantismo nella costituzione di una episteme
complessiva, nel profilo complessivo di un’epoca. Interrogandosi per esempio sul perché la «danza della piccola taranta» susciti attenzione in letterati come Giambattista
Marino, Giacomo Lubrano, scienziati come Andrea Mattioli,
iconologi come Cesare Ripa. Siamo in un momento in cui
le metafore della letteratura, ma anche della scienza, convergono nell’identificare l’equilibrio dell’essere come movimento e non come omeostasi. Dalla scoperta della
circolazione del sangue alle leggi della gravitazione dei corpi
celesti e terrestri, dalla meccanica delle forze alle dinamiche del potere, dal melodramma come macchina delle emozioni alla resa del movimento in pittura. In questo senso il
tarantismo non appare più come un relitto ma, al contrario, come un riflesso della modernità. Ecco perché in un
modo o nell’altro ci rimorde ancora.
Il tarantismo (il Salento) è sempre più un topos letterario
al centro di una produzione che riscopre il luogo incontaminato, incorrotto, contrassegnato dalla sopravvivenza di riti
ancestrali, un luogo rivalutato per la sua autenticità. Non si
corre il rischio di un nuovo esotismo?
81
Giovanni Pizza
85
Tra i primi a introdurre nel dibattito salentino la nozione di
“patrimonializzazione”, Giovanni Pizza (1963), allievo di Alfonso
M. Di Nola e Tullio Seppilli, oggi docente di Antropologia medica
e culturale all’Università di Perugia, è autore di importanti studi
sul tarantismo e le politiche della memoria culturale nel Salento
contemporaneo.
86
Cinquant’anni fa apparve La terra del rimorso, il testo di
Ernesto de Martino, dedicato al tarantismo pugliese. Un
testo chiave non solo per la storia culturale del Salento ma
più in generale per l’antropologia italiana. Cosa resta oggi
di quel libro?
Forse non basta dire che La terra del rimorso è un libro
che resta. Perché si tratta di un’opera che, sul piano scientifico e politico-culturale, ha prodotto molto più che letture
e riletture, nelle diverse epoche trascorse negli ultimi cinquant’anni. È piuttosto un libro che ripensa se stesso nel
tempo. Lo vediamo oggi nelle pratiche sociali e culturali salentine che ruotano intorno a La Notte della Taranta, fenomeni che vanno ben oltre la lettura. Questo accade soltanto
ai classici, cioè a quelle opere la cui vita sociale è costante,
permanente nel tempo, propulsiva, capace di trascendere
il carattere per così dire “libresco” del libro. A conferma
dell’importanza classica di questo libro, poi, accade che
tutti ne parlino e pochi lo leggano. In realtà il compito di
(ri)leggere i classici è quasi un dovere della memoria. Un
gesto che nel presente ripensa il passato per immaginare il
futuro. Solo rileggendo si demoliscono stereotipi creati
nella tradizione del “sentito dire”, e si aprono spazi nuovi e
inesplorati. Per l’antropologia italiana La terra del rimorso
fu il libro più bello mai scritto, bello «per forma e contenuto», come recitava l’incipit della recensione che il grande
storico Arnaldo Momigliano le dedicò. Si tratta di una monografia etnografica tipicamente italiana, quindi per certi
versi periferica rispetto al mainstream antropologico mondiale coevo, ma proprio per questo tuttora originale. La traduzione inglese del 2005 ha avviato, anche se
tardivamente, un dibattito nuovo in campo internazionale,
sulle figure storiche e contemporanee della possessione
87
Luigi Chiriatti
97
Luigi Chiriatti (1953) è una delle figure più emblematiche della
ricerca sulla cultura popolare salentina. Protagonista del folk revival degli anni Settanta con il Canzoniere Grecanico Salentino,
ha pubblicato numerosi studi e ricerche sulle tradizioni musicali
locali, i giocattoli popolari e soprattutto sul tarantismo. Nel 2002
ha fondato la casa editrice Kurumuny, specializzata in pubblicazioni riguardanti la documentaristica antropologica italiana degli
anni Sessanta e la musica di tradizione orale pugliese.
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Mai come nel tuo caso l’attività di ricerca si confonde con
il dato biografico. Nel senso che per lungo tempo sei stato
considerato non tanto uno studioso ma quasi un “testimone”
della cultura popolare salentina.
È vero, forse perché, lo dico senza retorica, sono davvero
figlio della cultura popolare di questa terra. Sono nato a
Martano, nella Grecìa salentina1, 58 anni fa, da padre artigiano e mamma contadina, due condizioni sociali che
hanno influenzato molto la mia conoscenza della cultura
tradizionale del territorio. Mio padre, muratore girovago
nella provincia di Lecce, mi ha permesso di conoscere le diverse declinazioni della cultura popolare salentina nei luoghi in cui svolgeva la sua attività (Lecce, San Cataldo,
masserie come Ciccu Russu, Macchie Chiuse, Curti Russi,
Boncore). Mia madre2 invece è depositaria di un sapere culturalmente più omogeneo, di una cultura contadina intrisa
di riti, miti e storie magiche. La frequenza delle scuole
medie nel Seminario arcivescovile di Otranto, il liceo classico a Maglie e a Lecce, quindi la laurea in Filosofia e Storia
hanno formato la base per i miei studi sulla cultura popolare salentina. Il cantare come memoria, ma anche come
momento esorcizzante del mal di vivere e dell’insidia della
morte, è stato forse il legame più forte della mia famiglia.
Canti alla stisa 3, stornelli, storie di striare 4 e scanzamurrieddhi 5, insieme al poco cibo, sono stati una presenza costante nella mia infanzia e anche oltre. Quando la mia
famiglia non era in movimento, si stabiliva a Kurumuny,
un piccolo appezzamento di terra di proprietà dei miei
nonni, dove una composita umanità dava vita a una sorta
di colonia socialmente autonoma. Lì vivevano le prefiche di
Martano e alcuni grandi cantori che nel loro percorso di
vita sono stati intercettati dall’antropologia audiovisiva na-
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Chiara Samugheo
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Nata a Bari nel 1935, da anni residente a Nizza, Chiara Samugheo ha attraversato sessant’anni di storia della fotografia – dal
Neorealismo alla fotografia di denuncia, fino ai celebri ritratti di
stelle del cinema – con uno stile inconfondibile, innovativo e raffinato che ne ha fatto una delle icone più luminose del fotogiornalismo italiano. Nel 1955, nel fervido clima di “scoperta del
Mezzogiorno” che mobilitò ampi settori della cultura progressista
italiana, realizzò un pionieristico servizio sul tarantismo salentino
per il quindicinale «Cinema Nuovo». Scattate nel giugno del 1954
a Galatina, dentro e fuori la chiesa di San Paolo, le foto ritraggono
per la prima volta – con immagini nitide, forti, intense – i gesti, gli
sguardi e le posture dei protagonisti di un fenomeno ancora misterioso e sconosciuto. Sono immagini di eccezionale valore storico, se si considera che prima della Samugheo si registrano solo
le quattro foto della “danza con la fune” pubblicate nel 1908 da
Francesco De Raho nel saggio Il tarantolismo nella superstizione
e nella scienza. Con sensibilità etnografica, la Samugheo intesse
una narrazione in cui le immagini, per la loro potenza evocativa,
sovrastano lo stesso commento scritto, firmato da Emilio Tadini
e incentrato su due categorie descrittive: quella ripresa nel titolo
(non proprio felice) Le invasate, che richiama l’invasamento delle
menadi danzanti al seguito di Dioniso, e quella dell’isteria, che
colloca il tarantismo nella sfera dell’interpretazione medica. Un
approccio comprensibile, considerato che il ricorso agli antecedenti mitici e la riduzione del tarantismo a malattia erano all’epoca i più diffusi paradigmi interpretativi del fenomeno. Com’è
noto, sarà poi de Martino a inaugurare la prospettiva dell’analisi
culturale dimostrando, proprio contro la tradizionale interpretazione medica, come il tarantismo fosse un dispositivo di salvaguardia della “presenza”, minacciata dall’insorgere del negativo
nei momenti critici dell’esistenza. Inspiegabilmente, però, l’importante servizio della Samugheo non comparirà nella bibliografia de
La terra del rimorso (de Martino scriverà che l’interesse per il tarantismo era nato dalla visione delle foto scattate da André Martin
nel 1957), e solo nel 2002 sarà ripubblicato da Luigi Chiriatti in
un volume di immagini del tarantismo.
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Com’è nata l’idea di un reportage fotografico sul tarantismo?
Sono sempre stata molto sensibile alle problematiche sociali. In quegli anni ero interessata a documentare la condizione delle donne. Sono curiosa e volevo vedere con i miei
occhi cosa fosse quel fenomeno.
Qual è stato l’impatto con le tarantate e i loro familiari?
In quello stato isterico le tarantate facevano cose incredibili, come salire sull’altare o gettarsi per terra, a volte rimanevano in vestaglia bianca e quando erano per terra si
vedevano le gambe, le mutandine, e i familiari allora cercavano di proteggerle dagli occhi indiscreti e da se stesse.
Quando i familiari delle tarantate si accorsero che le stavo
fotografando, all’inizio mi trattarono con indifferenza; poi,
mentre ero al posto del coro e stavo facendo i miei scatti
dall’alto, hanno cominciato a inveire contro di me con improperi. Forse la colpa di tanta aggressività è da ricercarsi
negli abiti sgargianti che indossavo, tali da attirare l’attenzione delle invasate. Mi avevano detto che certi colori potevano irritarle. Ho quasi rischiato di essere linciata.
Nel recente volume Etnografia del tarantismo che raccoglie i materiali inediti della spedizione demartiniana in Salento, si legge che una tarantata di Matino era restia a farsi
intervistare perché era stata fotografata dalla Samugheo e
le foto, riprese da un settimanale francese, erano state viste
da alcuni emigranti provocando uno scandalo in paese. Ricorda qualcosa in proposito?
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Eugenio Imbriani
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Eugenio Imbriani (1958) insegna Antropologia culturale
presso l’Università del Salento. I suoi interessi sono rivolti al folklore, alla scrittura etnografica, alle relazioni tra memoria e oblio
nella produzione di discorsi sulle identità locali. È uno dei maggiori studiosi di tarantismo e di tradizioni popolari dell’area pugliese.
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Oggi il tarantismo è al centro di una vasta produzione
saggistica, ma contestualmente si assiste a una sempre crescente confusione sul reale significato che si è attribuito attraverso i secoli al fenomeno. Come spiegherebbe in breve e
nel modo più chiaro possibile cos’è il tarantismo?
Si tratta di un fenomeno molto complesso, di cui è possibile individuare un nucleo fondamentale, purché si tenga
conto che nel corso dei secoli molte pratiche si sono modificate nel tempo e che, in aggiunta, le stesse variano a seconda dei luoghi in cui è attestato. Si aggiunga che le fonti
antiche spesso non sono attendibili, perché riprendono descrizioni e narrazioni di altri autori coevi o precedenti, e
molte delle più recenti difettano nel metodo, sono spesso
imprecise e sovraccariche di giudizi e pregiudizi, spacciati
magari per ipotesi interpretative. Il tarantismo fornisce un
modello risolutivo di stati di malessere attribuiti solitamente alla puntura di un animale, identificato come un
ragno, la tarantola, particolarmente attraverso la danza,
eseguita con il supporto di musiche e canti graditi alla persona che è stata colpita. Tuttavia, conviene ribadirlo, le
forme attraverso cui il tarantismo è stato rilevato nel corso
del tempo comprendono numerosi elementi – il culto di san
Paolo, il pellegrinaggio a Galatina, il manifestarsi alla vittima dell’animale colpevole, il ritorno periodico del male,
l’abbigliamento dei danzatori, l’allestimento del luogo della
terapia coreutico-musicale, i repertori utilizzati – non sempre ugualmente presenti. I maggiori studiosi recenti del fenomeno ne hanno parlato in termini di transe di
possessione e di culto di possessione, seppure in versione
particolare, non riconoscibile come tale dalla Chiesa neanche nei secoli in cui era possibile ricevere gravi accuse di
peccato e di eresia o stregoneria. Io sono convinto che il
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Nota bibliografica
Il testo chiave per addentrarsi nella complessa fenomenologia del tarantismo resta la monografia di Ernesto de
Martino La terra del rimorso. Contributo a una storia religiosa del Sud, Il Saggiatore, Milano 1961, recentemente ristampato a cura di Clara Gallini (Il Saggiatore, Milano
2008, libro più Dvd allegato). Più recentemente hanno visto
la luce i preziosi materiali etnografici della spedizione salentina, Ernesto de Martino, Etnografia del tarantismo pugliese. I materiali della spedizione nel Salento del 1959, a
cura di Valerio Panza e Amalia Signorelli, Argo, Lecce 2011.
Nella notevole mole degli studi apparsi dopo La terra del rimorso, con un significativo incremento negli ultimi quindici
anni, vanno almeno citati, per un quadro del dibattito più
recente, i saggi raccolti in Quarant’anni dopo de Martino. Il
tarantismo. Atti del convegno di Galatina del 24 e 25 ottobre 1998, 2 voll., Besa, Nardò (LE) 2000; e quelli pubblicati
in Il ritmo meridiano. La pizzica e le identità danzanti del
Salento, a cura di Vincenzo Santoro e Sergio Torsello, Aramirè, Lecce 2002, che offre un compendio del dibattito contemporaneo sulle relazioni tra tarantismo, riflessione
identitaria e revival della pizzica. Su questo tema si veda
anche Vincenzo Santoro, Il ritorno della taranta. Storia della
Dalla presente nota bibliografica sono esclusi i titoli già citati nelle note
a corredo delle interviste.
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rinascita della musica popolare salentina, Squilibri, Roma
2009. Per una rassegna bibliografica ragionata, Gabriele
Mina-Sergio Torsello, La tela infinita. Bibliografia sul tarantismo mediterraneo dal 1945 al 2006, Besa, Nardò (LE)
2006 (seconda edizione rivista e aggiornata), con una sezione dedicata agli studi demartiniani dopo il 1986. Ho pubblicato un’integrazione della sola bibliografia diacronica dal
2007 al 2014 con il titolo La tela infinita 2.0. Bibliografia sul
tarantismo mediterraneo. Integrazioni 1945-2014, sul sito di
Vincenzo Santoro, www.vincenzosantoro.it. Sulle relazioni
tra tarantismo e letteratura, si veda la raccolta di racconti
Mordi e fuggi. Sedici racconti per evadere dalla taranta, introduzione di Marino Niola, Manni, San Cesario (LE) 2007,
e il più recente lavoro di Alexandra Rider, Il (neo)tarantismo
in letteratura. C’è sempre un morso nella Terra del rimorso,
in Gianni D’Elia et alii, Sui patrimoni immateriali del Salento
e del Gargano: problemi e prospettive, a cura di Vincenzo
Santoro e Sergio Torsello, Squilibri, Roma 2010, pp. 73-104.
Tra gli studi più significativi apparsi nell’ultimo decennio si
segnalano inoltre: Gino L. Di Mitri, Storia biomedica del tarantismo nel XVIII secolo, Olschki, Firenze 2006; i saggi raccolti in Storia e memoria del tarantismo, in «Medicina e
Storia», a. XIII, n. 3, n.s., Edizioni ETS, Pisa 2013; la nuova
edizione del classico di Annabella Rossi, Lettere da una tarantata, Squilibri, Roma 2015, a cura di Paolo Apolito; il recente lavoro di Gianni Pizza, Il Tarantismo oggi. Antropologia,
politica, cultura, Carocci, Roma 2015. Tra gli strumenti utili
per accostarsi al pensiero demartiniano vanno segnalati almeno alcuni contributi: Morte e pianto rituale nel mondo antico. Dal lamento funebre antico al pianto di Maria, Bollati
Boringhieri, Torino 2000 (ed. or. 1958) con introduzione di
Clara Gallini; Sud e magia, Feltrinelli, Milano 2001 (ed. or.
1959) con introduzione di Umberto Galimberti; La fine del
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mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Einaudi, Torino 2002, introduzione di Clara Gallini e Marcello
Massenzio (ed. or. 1977). Si vedano inoltre Placido Cherchi,
Il signore del limite. Tre variazioni critiche su Ernesto de Martino, Liguori, Napoli 1994; Clara Gallini-Marcello Massenzio,
(a cura di), Ernesto de Martino nella cultura europea, Liguori,
Napoli 1997; Riccardo di Donato, I greci selvaggi. Antropologia storica di Ernesto de Martino, Manifestolibri, Roma 1999;
Clara Gallini-Francesco Faeta (a cura di), I viaggi nel Sud di
Ernesto de Martino, Bollati Boringhieri, Torino 1999; Gennaro Sasso, Ernesto de Martino fra religione e filosofia, Bibliopolis, Napoli 2001; Pietro Angelini, Ernesto de Martino,
Carocci, Roma 2008; Giordana Charuty, Ernesto de Martino.
Le precedenti vite di un antropologo, Franco Angeli, Milano
2010 e la raccolta di saggi a cura di Floriana Ciccodicola, Ernesto de Martino: storicismo critico e ricerca sul campo, Domograf, Roma 2012.
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