Aspetti psicologici nel bambino oncologico e la sua famiglia L’ultimo decennio ha visto, nel campo dell’oncologia pediatrica, diverse modificazioni positive sia nel settore diagnostico che terapeutico; ciò ha naturalmente determinato un grande cambiamento nella prognosi per un gran numero di casi di neoplasie maligne. L’equazione cancro=morte lascia il posto ad un sentimento di immensa incertezza in chi ne è colpito, nei familiari, nel personale medico e paramedico dei reparti oncologici. Non si può considerare la malattia oncologica come entità a sé, essa si impone infatti nella vita psichica del paziente e della sua famiglia determinando forti sconvolgimenti emotivi e inevitabili modificazioni con l’ambiente esterno. Al momento della diagnosi di neoplasia maligna si apre la prospettiva di un percorso carico di dolore fisico e mentale che comporta profonde ripercussioni nel bambino e nella sua famiglia. I ricoveri, le pratiche terapeutiche con i pesanti effetti collaterali che comportano, l’inabilità fisica che ne deriva per periodi anche lunghi, provocano nel bambino la percezione di una minaccia alla propria vita, vissuta ed espressa in modi e gradi diversi a seconda dell’età, del sesso, della reazione dei genitori. La ripercussione psicologica di un tumore cerebrale è notevolmente superiore rispetto a quella di un tumore emato-oncologico. La prognosi è più infausta e le sequele radioterapiche e chirurgiche incidono pesantemente nel prosieguo della vita del bambino. Il bambino può perdere delle competenze precedentemente acquisite e non raggiungere le tappe dello sviluppo psicomotorie proprie della sua età. Queste difficoltà possono esprimersi da un punto di vista motorio, sensoriale, cognitivo e psicologico. Nel momento in cui una diagnosi di malattia oncologica di un bambino irrompe in una famiglia, una gran quantità di meccanismi di difesa si organizzano nel disperato tentativo di “fermare il tempo”, impedendo così, che il divenire della vita porti allo scempio della morte. Ma la necessità di antagonizzare l’evolvere del tempo trasforma ben presto la fluidità e l’ariosità delle relazioni familiari, garanti peraltro dei processi di individuazione, in una vera e propria cristallizzazione delle relazioni. Il naturale senso di appartenenza, insito nella famiglia, viene modificato in un sentimento tanto soffocante quanto inevitabile di massificazione delle individualità al suo interno e, d’altra parte, ogni istanza di fisiologica separazione, non può che essere vissuta come presentificazione della morte. Le relazioni familiari sono mediate esclusivamente dalla malattia e dall’angoscia di morte a questa legata. Ma proprio questa reciproca protettività porta ad una situazione paradossale che vede la fusione come difesa dalla morte e al tempo stesso causa di morte. La protettività infatti agisce come potente meccanismo omeostatico nell’evoluzione di un ciclo vitale, proprio perché tende a cristallizzare le relazioni tra gli individui. Tutto ciò si traduce in un’anticipazione paradossale della morte nel tentativo sterile di evitarla: bloccare l’evoluzione del ciclo vitale non è che attualizzare la morte. Nella fase di conclusione del trattamento, l’angoscia di morte, presente per un lungo periodo nella fitta trama del tessuto familiare, deve cominciare a fare posto a istanze vitali che si manifestano attraverso una graduale riconquista degli spazi liberi, non più asserviti alla necessità di difendersi dal tempo. La paralisi totale diventa allora una ricerca di vecchi movimenti perduti con tutte le incertezze e lo stupore che ogni cambiamento comporta. In questa ritrovata possibilità di movimento è consueto rilevare l’insorgenza di una sintomatologia depressiva di uno dei genitori, più frequentemente quello maggiormente “attivo” nei confronti della cura del bambino. La modalità che la famiglia utilizza per affrontare le più angoscianti decisioni legate alla fase terminale e cioè la sospensione dei farmaci non più curativi e il dove vivere questa fase, sono strettamente connessi alla situazione emotiva dei familiari e alle dinamiche relazionali che intercorrono tra la famiglia e l’èquipe sanitaria. La possibilità dei genitori di aderire alla scelta medica (sospensione dei farmaci o accanimento terapeutico) è legata alla loro personale possibilità di vivere il lutto preparatorio, di poter cioè disidentificarsi dalle cause della morte del bambino, liberi dal senso di colpa legato a domande, quali “gli ho fatto del male, non gli ho fatto il bene che avrei voluto, non l’ho amato abbastanza, potrei impedire la sua morte”. Nel caso contrario, il genitore continuerà a ricercare un prolungamento delle cure che gli consenta un tempo riparatorio, in realtà quasi mai sufficiente a compensare il suo senso di inadeguatezza. Dott.ssa Patrizia Paglia, Dott.ssa Simona Di Giovanni Servizio di supporto psicologico in Oncologia Pediatrica e Neurochirurgia Infantile