«Essere qualcuno ovunque». A proposito dello studio di Marco

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Luigi Lorenzetti — «Essere qualcuno ovunque».
Luigi Lorenzetti
«Essere qualcuno ovunque».
A proposito dello studio
di Marco Schnyder sul ceto
dirigente di Lugano e Mendrisio
tra Sei e Settecento*
Anche se da lontano, ho avuto modo di seguire i primi passi, la crescita e
la maturazione dello studio di Marco Schnyder che nel 2009 gli è valso il
Premio Migros per la ricerca di storia locale e regionale della Svizzera italiana. Una maturazione che si è ulteriormente perfezionata con la pubblicazione di un corposo volume presso le Edizioni Casagrande di Bellinzona: un’edizione curatissima e apprezzabilissima, anche per il ricco apparato
di appendici e indici che rendono il volume un pratico strumento di lavoro per coloro che desiderassero approfondire i temi che vi sono contenuti
e la storia dei molti personaggi che costellano le sue quasi 400 pagine.
Il libro di Schnyder ci dà innanzi tutto l’occasione di rileggere
un lungo capitolo della nostra storia, troppo spesso dimenticato (anche
dagli storici) e che superficialmente si potrebbe ritenere relegato a un
passato ormai dissolto, cancellato dalla modernità. Un passato, invece,
per certi aspetti ancora ben presente nella realtà attuale, se non altro per
il fatto che, come i baliaggi italiani in Svizzera, anche il Ticino odierno
rimane un territorio di confini politici, linguistici, culturali. In breve,
un territorio «di mezzo» che ne fa nel contempo uno spazio periferico
ma anche in grado di proporsi quale luogo di incontro per uomini, idee,
culture. Ed è proprio su questo piano che il volume di Schnyder coglie
la «modernità» dei ceti dirigenti sudalpini durante i tre secoli di dominazione svizzera: nella loro capacità di afferrare le opportunità offerte dalla
mediazione, sia essa politica, culturale, diplomatica e economica.
Ma se il libro offre molti spunti per rileggere con occhi diversi
l’epoca balivale (non solo un’epoca di asservimento e di marginalità politica), è anche un’ottima occasione per (ri)scoprire un filone di studi –
quello della storia sociale dell’epoca moderna – troppo spesso ignorato e
oscurato dall’aneddotica di certa storia politica contemporanea (sia essa
locale, nazionale o internazionale) e della moda di questi anni che troppo spesso riduce la storia a narrazione. Questo libro viene proprio a ricordarci che anche quando vuole raccontare delle vicende o dei percorsi
(siano essi individuali, familiari, o collettivi), la storia non deve dimenticare di comprendere, spiegare, interpretare, anche a costo di rinunciare
a semplificazioni e schematismi oggi ritenuti basilari per una cosiddetta
* Adattamento del testo della
presentazione del volume di Marco Schnyder,
Famiglie e potere. Il ceto dirigente di Lugano e
Mendrisio tra Sei e Settecento, Bellinzona, Edizioni
Casagrande, 2011, avvenuta alla Biblioteca
cantonale di Lugano il 30 marzo 2011.
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comunicazione efficace. Schnyder ha certamente evitato questa trappola, e – anche se il rischio di perdersi nei meandri delle biografie dei
molti personaggi che appaiono nel libro poteva essere forte –, ha saputo
trovare un giusto equilibrio tra racconto e analisi, sempre comunque
con lo sguardo ben puntato su un approccio critico alle fonti.
Per venire più direttamente ai contenuti del volume, si può certamente dire che siamo di fronte a un’opera importante che viene a colmare molti vuoti sulla storia del nostro paese durante l’epoca balivale.
In essa convergono diversi filoni storiografici: quello delle élite urbane
in antico regime e il loro ruolo politico, sociale, economico, culturale;
quello riguardante la genesi e lo sviluppo dello Stato moderno; quello
che tocca le società alpine e prealpine e la loro collocazione entro lo
spazio europeo; quello della storia della famiglia con le sue molteplici
sfaccettature (la storia del matrimonio, la storia dei sistemi e delle pratiche successorie, la storia delle mobilità e delle migrazioni).
È proprio attorno a quest’ultimo filone che vorrei soffermarmi
per tratteggiare alcune riflessioni sui fenomeni sociali che segnano la realtà balivale vuoi per le similitudini con altri ambiti e contesti, vuoi per
il fatto che attraverso di essi si possono mettere in risalto temi che vanno
ben oltre la storia delle principali famiglie sottocenerine, ma si ricollegano a problemi che riguardano l’intera storia sociale europea, e la storia
degli equilibri politici e di potere.
1. Il primo aspetto sul quale vorrei soffermarmi è quello riguardante la natura dei rapporti tra famiglia e società in epoca moderna. Oggi è
consuetudine distinguere nell’istituzione familiare la sua funzione economica e lavorativa, da quella sociale, che si esplica principalmente nella
dimensione affettiva e relazionale. Ora, è bene ricordare che nelle società
di antico regime la distinzione tra la sfera sociale e quella economica (o,
detto, altrimenti, tra la funzione di produzione e quella di riproduzione)
appare ampia misura inappropriata. Ce lo ricorda il filosofo e economista
ungherese Karl Polanyi: nella società e nella famiglia precapitalista non è
possibile separare nettamente la dimensione sociale da quella economica.
E ciò perché quest’ultima è inglobata (embedded) in quella sociale. In altre
parole, i processi economici del produrre, distribuire e allocare risorse
(sia nelle famiglie che nell’insieme della società) si svolgono entro uno
spazio completamente immerso nei rapporti sociali. Sono i rapporti sociali che definiscono la natura dei meccanismi economici e delle relazioni
economiche. Ed è certamente quanto traspare ripetutamente dal libro
di Schnyder. Le vicende delle famiglie appartenenti al ceto dirigente di
Lugano e Mendrisio (i Riva, i Beroldingen, i Morosini per non citare che
le più note) mostrano come il loro mondo sia basato su una stretta compenetrazione tra la sfera economica e la sfera sociale, sull’intimo legame
tra risorse materiali (finanziarie, commerciali, immobiliari) e risorse immateriali (titoli, cariche pubbliche, onorificenze, …). Per questo motivo,
per capire la società balivale e i meccanismi su cui si basa il potere del ceto
dirigente bisogna tenere presente la centralità dei linguaggi del potere: linguaggi basati sull’accesso e la gestione dei privilegi, dei diritti, degli esclusivismi, e alimentati dal controllo delle risorse nelle sue varie forme.
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Certo, la forza economica non è estranea alla capacità di alcune
famiglie di monopolizzare durante due o tre secoli le principali cariche
politiche dei borghi. Ma la forza economica è innanzi tutto lo strumento per garantire la costruzione di un sistema di simboli e di rappresentazioni in cui l’atteggiamento paternalistico verso il popolo svolge un
ruolo centrale. Per il loro prestigio e il loro ruolo sociale, le famiglie
egemoni sono infatti chiamate a un ruolo di responsabilità che si estende all’intero corpo sociale e che prende la forma di lasciti, donazioni,
offerte, aiuto a enti caritatevoli e a conventi. E se tutto ciò è espressione
di potere e prestigio di cui godono queste famiglie, è anche, nel contempo, lo strumento con il quale assicurare legami di sudditanza da parte
dei ceti popolari borghigiani come pure delle comunità rurali in cui le
famiglie nobili di Lugano e Mendrisio estendono la loro influenza. È un
aspetto importante in un sistema politico ancora segnato dalla debolezza
delle istituzioni ma che può aprire la porta a relazioni asimmetriche basate sul clientelismo e su una concezione ereditaria del potere che, come
sappiamo, non reggerà all’urto delle spinte rivoluzionarie dell’Elvetica
ma che riaffioreranno nel nuovo cantone, segnandone lo sviluppo e il
processo di affrancazione dai sistemi di potere ereditati dal passato.
2. Il secondo aspetto a cui è necessario accennare visto che è
oggetto di un ampio esame nel volume, è il processo di oligarchizzazione del ceto dirigente dei due borghi. Si tratta di un fenomeno ben
conosciuto, che caratterizza gran parte delle élite italiane a partire dal
XVII secolo, come pure i ceti dirigenti delle realtà urbane della Svizzera
di quell’epoca. Detto ciò, vale però la pena ricordare che fenomeni di
esclusivismo cetuale sono rilevabili – anche se in forme diverse – pure
tra le comunità rurali di valle dei baliaggi italiani (e in molte regioni
dell’arco alpino). Basta leggere gli ordini e gli statuti di molte comunità
per constatare che, progressivamente, tra il Cinque e il Settecento, le
regole d’accesso al vicinato si fanno più rigide e esclusive; che i “forestieri” appaiono sempre più discriminati e che l’intero corpo sociale
sembra ripiegarsi su se stesso, quasi a difesa delle proprie prerogative.
Come leggere questa doppia tendenza? Vi è una relazione diretta
tra l’oligarchizzazione dei ceti dirigenti urbani e la chiusura vicinale
delle comunità rurali? Si tratta di un unico processo, oppure siamo di
fronte a tendenze simili ma che dipendono da cause e fattori diversi?
La risposta alla domanda non è facile ma il volume di Schnyder può
aiutarci a meglio capire il problema. Oltre al fattore demografico che
in molti casi ha accresciuto la pressione sulla terra e la concorrenza nei
confronti dell’accesso alle risorse, nelle comunità rurali come nei borghi si fa progressivamente strada il principio di residenza che affianca il
principio della discendenza dalle famiglie originarie. Nei comuni rurali
l’intento è quello di rendere più selettivo il mantenimento dei diritti
vicinali senza però rimettere in discussione l’appartenenza individuale al
vicinato stesso (e quindi l’accesso ai diritti che esso comporta e alle cariche pubbliche). Nei borghi di Lugano e Mendrisio, invece, la partita si
gioca su un altro piano poiché il vicinato borghigiano è un’entità chiusa
che raggruppa una minoranza della popolazione e per di più solo poche
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famiglie hanno accesso ai posti di potere dei vari consigli. In gioco non
vi è tanto l’accesso alle risorse materiali, quanto piuttosto l’accesso a
privilegi e benefici assicurati dalle cariche pubbliche. È in tale ottica che
va letta la progressiva chiusura del ceto dirigente di fronte alle pressioni
dei gruppi sociali esclusi dal potere. Una chiusura condotta soprattutto
sul piano politico e giuridico, che crea uno stretto legame di interdipendenza con il potere balivale svizzero e che, come ha ben sottolineato
Schnyder, se da una parte ha garantito ai baliaggi una perdurante stabilità sociale e politica, dall’altro ha bloccato le spinte di rinnovamento
che si diffondono in Europa a partire dalla metà del Settecento.
3. Il terzo aspetto sul quale desidero soffermarmi brevemente è
quello dei rapporti all’interno della famiglia: rapporti tra mogli e mariti, tra figli e genitori, tra fratelli e sorelle ecc. È un tema che percorre
in filigrana l’intero volume e che può essere usato quale indicatore
delle trasformazioni degli equilibri della vita sociale e politica, non solo
locale. Gli storici che si sono occupati di questo tema hanno più volte
sottolineato come in epoca moderna le relazioni familiari fossero concettualizzate in termini di istruzione e di restrizione. Per i genitori – per
lo meno quelli dei ceti medi e alti – si trattava di avere figli obbedienti
a cui fornire una buona educazione e la giusta «inclinazione» (ovvero
tracciare la via della loro carriera). In tale contesto, era necessario che i
figli rispettassero la volontà dei genitori (il padre), detentori dell’autorità. Si trattava quindi di un rapporto basato sulla gerarchia, ma non per
questo dispotico o che non lasciasse spazio anche a una certa libertà.
Il volume di Schnyder conferma questo ritratto: tra le famiglie del
ceto dirigente di Lugano e Mendrisio le relazioni tra genitori e figli erano
generalmente improntate all’ubbidienza e ai rapporti gerarchici. La precisa definizione dei ruoli individuali e delle carriere dei figli da parte dei
genitori lascia trasparire un ordine domestico e di casata che, detto per
inciso, non va confuso con l’assenza di relazioni di affetto e di amore vicendevole. Detto questo, non bisogna pensare a gruppi familiari esenti da
tensioni o conflitti. Ce lo ricorda lo stesso Schnyder che evoca le relazioni
(a volte turbolente) all’interno di alcune famiglie luganesi e mendrisiensi.
Ma tensioni e conflitti familiari percorrono anche altre realtà sudalpine e altri gruppi sociali. Sappiamo infatti che situazioni di conflittualità
familiare più o meno latente erano lungi dall’essere rare anche nelle realtà
rurali. Per di più, come tra le famiglie dei ceti dirigenti borghigiani, queste
tensioni sembrano inasprirsi proprio nel corso del Settecento. Tensioni
riconducibili alla gestione dell’economia familiare, alla designazione dei
ruoli all’interno della famiglia o ancora, alle prospettive ereditarie e che
sembrano essere più acute proprio tra le famiglie i cui percorsi sono caratterizzati dal successo economico e imprenditoriale. Si tratta di indizi
che certamente non vanno generalizzati, ma che inducono a pensare che
durante l’ultimo secolo dell’antico regime, nei baliaggi italiani si risenta,
come altrove in Europa, un clima sociale e culturale in rapido mutamento.
A questo proposito, Schnyder chiama in causa – credo non senza
ragione – il maggiore individualismo della società settecentesca e quindi la minor attenzione degli individui verso le logiche e gli interessi
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familiari e di casato. È una tesi ampiamente discussa dagli storici e che
si appoggia in buona parte sui dibattiti filosofici dell’epoca riguardanti
la definizione dei diritti e dei doveri in seno alla famiglia e sull’ipotesi
della nascita della famiglia coniugale intima e del matrimonio d’amore che proprio alla fine del Settecento si sarebbero diffusi nel mondo
delle élite europee. È un’ipotesi certamente plausibile, ma che rimane
da approfondire alla luce dell’immobilismo sociale che sembra caratterizzare i baliaggi sudalpini e l’insieme corpo elvetico e che nel volume di Schnyder riecheggiano attraverso le parole di Karl Viktor von
Bonstetten. D’altra parte, rimane da valutare la collocazione di questa
ipotesi rispetto ai recenti orientamenti storiografici per i quali, lungi
dal segnare l’affermazione dell’individualismo, le società settecentesche
avrebbero visto il rafforzamento dei legami di parentela e del loro ruolo
all’interno delle dinamiche politiche, sociali e economiche.
4. Rimane un ultimo aspetto importante da menzionare e che
permette di completare il ritratto che il volume fa del ceto dirigente dei
borghi sottocenerini. Oltre ad essere un’élite di prossimità, esso è anche
un élite «globalizzata» in quanto in grado di far capo a risorse relazionali,
a diritti e a titoli acquisiti al di fuori dei confini locali. È un aspetto particolarmente interessante e certamente tra i più originali sul piano storiografico. La capacità di queste famiglie di svolgere attività diplomatica
per conto degli svizzeri presso le corti straniere, o viceversa, di assumere
compiti di rappresentanza presso i signori svizzeri per conto di Stati
esteri mostra la loro abilità nello sfruttare le funzioni di mediazione per
garantirsi gli spazi di manovra che i cantoni sovrani concedono loro.
È su questo piano, credo, che appare con maggiore evidenza la
specificità dei ceti dirigenti borghigiani rispetto alla popolazione locale.
In effetti, nel Sei e Settecento nelle comunità rurali dei baliaggi sudalpini convive una spiccata apertura economica (attraverso l’emigrazione) e
una chiusura sociale, attuata principalmente attraverso una rigida endogamia matrimoniale. Anche tra le élite borghigiane sottocenerine sembra prevalere una chiara apertura economica (con interessi su più fronti)
e una chiusura rispetto alla gestione del potere politico (oligarchizzazione). Ma se nelle comunità rurali questo aspetto coinvolge direttamente
le pratiche matrimoniali (endogamia), tra le famiglie dirigenti di Lugano e Mendrisio, l’apertura delle strategie di alleanza familiare rientra in
una strategia di allargamento delle risorse che non sono solo materiali
(doti) ma anche – e soprattutto – immateriali sotto forma di prestigio,
reputazione, accesso a reti di relazioni politicamente rilevanti.
Per terminare, la bella formula che dà il titolo alle conclusioni del
volume – «essere (con) qualcuno ovunque» – mi sembra riassuma
perfettamente il bipolarismo delle élite dei baliaggi sottocenerini. Essa
sintetizza questa doppia vocazione alla «prossimità» e alla «globalità»:
riassumibili col termine “glocal”. Rimane la soddisfazione per lo storico
di mostrare come dietro fenomeni oggi ritenuti inediti e originali – riassumibili col termine "glocal" – si celino in realtà processi, comportamenti, meccanismi che trovano origine nel passato.