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Autonomia speciale della Sardegna: studi per una riforma, Cagliari, 24-25 settembre 2015
Un itinerario individuale nella rivendicazione dell’autonomia speciale.
Cesare Pitto, Universit della Calabria
Questo mio intervento non deve essere letto come un appello alla seduzione dei ricordi, anche se
prende le mosse da un tempo assai lontano dalle dispute attuali che coinvolgono la politica
regionale sarda sulla concezione dell’autonomia speciale e della salvaguardia del principio
costituzionale – che, tra gli altri, riconosce l’esercizio delle funzioni amministrative conformi al
rispetto del territorio.
In realtà, l’occasione di questo incontro è stata colta per ripensare e provare a comprendere, a
distanza di diversi decenni, come la condivisione di certe problematiche della Sardegna delle
prospettive di studio di un gruppo di studenti di sociologia di Trento, orientati verso la ricerca etnoantropologica sul terreno, come metodo operativo, in particolare con le peculiarità della “Questione
sarda”, convinse alcuni di essi a fare dell’ambiente sardo l’argomentazione della propria prassi
politica e della Sardegna il campo dove delineare i temi della ricerca applicata, fondando, nel
contesto della situazione dell’Ateneo trentino di allora – a metà strada fra i corsi (più
frequentemente gestiti autonomamente dagli studenti con il nome di contro-corsi1) universitari e il
Movimento studentesco –, un gruppo di studio che nella situazione si autodenominerà “Gruppo
Sardegna”.
La posizione politica di questi studenti di allora non va interpretata come la partecipazione
emotiva di chi aveva solo legami vagamente affettivi con l’isola ed un esotico senso del “fare
inchiesta” radicato (basta ricordare “chi non fa inchiesta non ha diritto di parola”, proclamato da
Vittorio Rieser2), che al posto dell’attivismo sessantottino per le fabbriche si muoveva verso una
realtà agro-pastorale, per quell’epoca considerata troppo sbrigativamente arcaica. I fatti
immediatamente successivi a quegli anni hanno dimostrato quanto fosse essenziale quella scelta,
che partendo dalla “Questione Sarda” – anche con riferimento all’incidenza delle “radici” sarde,
nella formazione del pensiero e dell’identità politica ed intellettuale di Antonio Gramsci3 – rinsaldò
le sue radici nell’idea di riscatto di un popolo, ma anche dell’attualità del progetto dell’Unione
Europea, testimoniato dal motto Unità nella diversità.
Il Gruppo di Studio sulla Sardegna fu organizzato proprio nel momento di più forte crisi del
movimento degli studenti, sotto la spinta di due attività ufficiali dell’Ateneo Trentino, il Seminario
di studi sul “potere negativo” ed il Laboratorio di Antropologia culturale. In quella occasione, il
Gruppo elaborò, per il Centro Regionale di Programmazione Economica della Sardegna, una
proposta di ricerca dal significativo titolo Proposta di ricerca sul ruolo dell’autonomia regionale
nel processo di sviluppo socio-economico, che conteneva alcuni specifici riferimenti a tutto il
processo produttivo e non solo economico della Sardegna.
1
L’istituto dei contro-corsi fu deliberato a Trento dal Movimento studentesco con un documento politico di
rivendicazione dall’assemblea del 27 marzo 1968, denominato Documento politico per l'elaborazione della carta
rivendicativa, il quale tra le altre determinazioni prevedeva, perciò, di “impostare, quindi, una lotta "permanente"
nel senso che bisogna programmare la "crisi" della struttura, provocandola attraverso le situazioni di fatto con
strumenti diversi e contro parti differenti nei vari momenti, comunque non può essere semplicemente una
rivendicazione di "cultura negativa" di chi studia ciò che vuole, accettando comunque i controlli e l’organizzazione
della vita accademica.[… e…]. Tali istituti, di cui bisogna imporre il riconoscimento, ora sono i comitati di
agitazione ed i seminari autogestiti, ma urge individuare ulteriori scadenze e soprattutto ulteriori livelli di espansione
della base sociale del movimento.”
2
Cfr. Vittorio Rieser, Giancarlo Cerruti, L’imperfetta modernizzazione, Ediesse, Roma 1995; Vittorio Rieser, Lavorare
a Melfi: inchiesta operaia nella fabbrica integrata Fiat, Calice, Potenza 1997.
3
Cfr. Guido Melis (a cura di), Antonio Gramsci e la questione sarda, Della Torre, Cagliari, 1975.
1
Autonomia speciale della Sardegna: studi per una riforma, Cagliari, 24-25 settembre 2015
Nei termini certamente permeati di ottimismo economicista, si proponeva, allora, una scossa
autonomistica, che comunque tendesse ad invertire la situazione di subalternità socio-economica
dell’intera regione:
L’Istituto Regionale […] può dare inizio, nelle aree sottosviluppate del sistema economico,
all’avviamento di un processo di accumulazione tendente a bloccare il circolo vizioso
dell’arretratezza con una politica che capovolga l’attuale situazione, la quale trasporta il lavoro
verso il capitale (emigrazione), per giungere ad un assetto strutturale dove si trasporta il capitale
verso il lavoro (industrializzazione); e impedire la perdita di una parte del suo “surplus” a favore
della metropoli attraverso una trasformazione programmata della struttura economica regionale.4
Da questo approccio, di ordine quasi-pedagogico, si produsse poco dopo la circostanza,
probabilmente non casuale, del principio di una carriera universitaria, con la chiamata nel ruolo di
assistente universitario, nell’allora nascente Facoltà di Magistero dell’Università di Sassari.
Oltre all’interesse ed al coinvolgimento nel “Gruppo Sardegna”, poi, è indispensabile premettere
la scelta dell’itinerario formativo, non soltanto teorico, sul concetto di potere negativo, attraversato
con la cattedra di Storia delle istituzioni sociali e politiche, tenuta da Pierangelo Catalano, presso
l’allora Istituto Superiore di Scienze Sociali di Trento, che, in estrema sintesi, individuava il
concetto di potere negativo nell’esigenza, rilevata in diverse società odierne di quei tempi, di
configurare un nuovo strumento costituzionale.
Questo approccio di pensiero ricordava la partecipazione del cittadino al potere sovrano,
attraverso un dispositivo d’interruzione:
la partecipazione del cittadino al potere sovrano (cioè la libertà nel senso originario) deve essere
considerata senza timori nella sua potenzialità rivoluzionaria ed espressa nelle nuove forme del
“potere negativo”: in forme cioè che, evitando l’assorbimento entro il “potere positivo” o la
cooptazione tra gli specialisti del suo apparato, contribuiscano concretamente a una costante
adeguazione di questi al volere del popolo e al valore dell’uomo (e della scienza)5.
Il riscontro diventò ben più articolato, quando ebbi occasione di approfondire i miei contatti con la
realtà della Regione Sardegna, dotata di autonomia speciale, iniziando il mio lavoro nel corso
d’insegnamento di Sociologia, nella Facoltà di Magistero di Sassari, allora in fase di istituzione.
Questa circostanza spinse l’intero ambito disciplinare ad utilizzare la ricerca applicata, spostando
sul terreno (fieldwork) la maggior parte degli interessi, con la sperimentazione dell’approccio
conoscitivo alla società sarda. In rapporto alla situazione di dipendenza che contraddistingueva
l’ambito regionale in quel momento storico, infatti, si collocavano una serie di ipotesi che si
confrontavano con l’esterno e con alcune individualità emergenti presenti nell’Ateneo sassarese. Un
modo per indicare una tendenza di linea di ricerca, che si ponesse all’interno del quadro generale di
riferimento, costituito dalla teoria della dipendenza della Sardegna – alimentata dall’accettazione
implicita di essere una parte della società contemporanea, situandosi in una condizione di
subalternità –, secondo la quale:
l’unico modo di divenire soggetti è rappresentato dall’accettazione storica di essere una parte del
rapporto sociale di produzione capitalistico e di specificarsi nel modello ideale, che riunisce – in
4
Proposta di ricerca del Gruppo di studio sulla Sardegna, Trento, 2 maggio 1970, da Cesare Pitto, Autonomia e “potere
negativo” nell’esperienza di lotta-critica dell’Università di Trento, in “Studi Sassaresi”, III, Autonomia e diritto di
resistenza, Giuffré Editore, Milano, !972, pp. 789-790.
5
Pierangelo Catalano, “Potere negativo” e sovranità dei cittadini nell’età tecnologica, in “II Congressus Unionis
Mundialis Antiquorum Societatis Jesu Alumnorum” (Romae 26-30 Augusti 1967), Engagement et responsabilité
des anciens élèves dans un monde en transformation. Actes, Napoli s.d. p. 101, ripubblicato in “Autonomia
cronache”, n. 6, Sassari, febbraio 1969, p. 30.
2
Autonomia speciale della Sardegna: studi per una riforma, Cagliari, 24-25 settembre 2015
quanto funzione della parte per il tutto – i momenti determinati di quella globalità e li rende, quindi,
partecipanti di essa in tutte le sue espressioni6.
La presa di contatto con l’ambiente socio-culturale sardo evidenziò subito il segno di una forte
spinta all’autonomia, stratificata nelle situazioni più diverse di una società vista da più parti, troppo
superficialmente, come una società arcaica, impermeabile all’innovazione e all’esercizio della
politica. Questa partecipazione si evidenziava per un forte senso di appartenenza all’Isola, maturato
nel tempo come “sardità”, che esprimeva l’essenzialità della condizione di chi è sardo nel
sentimento di appartenenza alla tradizione, ai costumi ed alla cultura sarda.
Sostanzialmente, però, questo senso di appartenenza non rifiutava il rinnovamento e la potenza
di una condivisione originale alla situazione più progredita verso la quale stava tendendo.
L’elemento che appariva immediatamente all’attenzione dello studioso di scienze umane (nel
caso specifico dell’antropologo) è che l’indicazione principale dello Statuto della Regione Sarda
fosse quella di fondare la sua autonomia specifica sull’archetipo di autonomia e diversità, principi
che discendono dall’insularità e dalla condizione storica di separazione da altri territori nazionali e
che hanno di fatto ispirato l’organizzazione dell’Unione Europea, al punto che ne è diventato il
motto prescelto, Unità nella diversità.
Il tema dell'autonomia speciale, nella dimensione europea s'incrocia con il tema della tutela dei
diritti fondamentali per i diversi territori. Esso si è configurato soprattutto in alcuni aspetti più
settoriali, ma che nei fatti sono risultati essere fondanti per la prospettiva dell’autonomia speciale
sarda nell’affermazione della specifica identità – intesa sia nei termini della sua rilevanza storica,
sia nell’affermazione attuale democratica e costituzionale –, come la prospettiva di una battaglia per
un’informazione autonoma e pubblica, o per una scuola che pianificasse lo sviluppo e la crescita
autonoma (con docenti prevalentemente sardi), con il superamento delle contraddizioni della
”Rinascita”, attraverso una ricerca autonoma delle proprie specificità.
Gli assunti teorici promossi in questo contesto hanno ritrovato un vigoroso contatto con tutto
quel movimento che si muoveva intorno alle proposte dell’autonomia regionale, come processo
statutario irrinunciabile, perché essi stessi rivendicavano una verifica esplicita, con la massima
attenzione e la valutazione più inclusiva possibile.
Il contributo che mi sovviene, al quale allaccio l’inizio della mia esperienza di antropologo sul
terreno, è collegato allo sforzo operato dallo studioso Manlio Brigaglia, di mettere a fuoco la realtà
dell’informazione sarda, sotto l’impeto del processo di concentrazione delle testate e della riduzione
dei giornali a strutture subalterne dell’espansione industriale, in particolare petrolchimica, in modo
da promuovere dal punto di vista dell’autonomia regionale un reale contributo alla battaglia per la
riforma dell’informazione in Sardegna.
I temi che si possono leggere nel volume a sua cura, L’informazione in Sardegna7, ripercorrono e
si riallacciano ad un interessante punto di partenza, che nasce dal concetto di potere negativo,
collegato all’istituto dell’autonomia speciale, cioè quello di produrre i presupposti per una
normativa costituzionale regionale sullo sviluppo d’una cittadinanza attiva e responsabile. In questi
termini, anche la realizzazione di forme efficaci di democrazia partecipativa avrebbe rappresentato
il riferimento per elaborazione delle metodologie efficaci per la valutazione della correttezza logicoformale delle norme giuridiche, e per la progettazione e l’implementazione dei programmi
dell’informazione (giornalistica) pubblica su scala regionale, sorretta da quella che verrà definita
intesa autonomistica8. Tale proposta era in linea con la “primavera” dell’informazione, che ben si
inscriveva nell’ottica dell’autonomia regionale.
6
Cesare Pitto, Autocritica di una scienza sociale, in AA.VV., I rapporti della dipendenza. Ipotesi di ricerca sulla
Sardegna, Editrice Libreria Dessì, Sassari, 1976, pp. 13-14.
7
Cfr. Manlio Brigaglia (a cura di), L’informazione in Sardegna, Editrice Libreria Dessì, Sassari, 1973.
8
“Stipulata nell'ottobre del 1975 da tutti i partiti dell'arco costituzionale. Per l'aspetto che qui interessa, il ruolo
contestativo, della Regione (in quanto Regione meridionale) viene individuato e chiarito da un lato per la
consapevolezza della dipendenza (vuoi dai centri di potere internazionale, vuoi dallo Stato-apparato) e dall'altro per
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Autonomia speciale della Sardegna: studi per una riforma, Cagliari, 24-25 settembre 2015
Questo approccio non è disgiunto dal più ampio rapporto di ricerca sul terreno (con la
partecipazione di tutta la cattedra di sociologia), che l’ISPROM promosse con l’indagine sul Polo di
Sviluppo di Ottana, paradigmatico della condizione di depotenziamento dell’Autonomia Regionale.
In rapporto con quanto aveva previsto la strutturazione normativa dello Statuto speciale – che
all’art. 13 ha disposto: “Lo Stato, con il concorso della Regione, dispone un piano organico per
favorire la rinascita sociale dell’Isola” –, che trovò pratico avvio nella legge 588 del 1962, si era
determinata una pressione contraddittoria da parte dello Stato centrale, che attraverso politiche
burocratiche, assecondando e favorendo le spinte clientelari e monopolistiche, aveva provocato la
crisi dell’autonomia, cedendo ad aspetti di confusione istituzionale.
Come faceva scrupolosamente notare Manlio Brigaglia:
una situazione come questa sottopone l’istituto autonomistico ad una duplice pressione: dall’esterno
si tende a togliergli ogni capacità di iniziativa, per impedire che la linea dello sviluppo isolano possa
allontanarsi da quella che viene perseguita a livello nazionale (e che, quand’anche fosse buona in sé
o in rapporto all’intera area dello sviluppo nazionale, rischia di compiersi col sacrificio degli spazi
geograficamente ed economicamente defilati come il nostro), dall’interno sale una confusa e spesso
convulsa ridda di proposte rivoluzionarie che tendono preliminarmente a scavalcare il discorso
all’istituto autonomistico, giudicato strumento inidoneo, anacronistico, troppo compromesso con il
sistema9.
L’impegno da sostenere era quello di realizzare un’importante analisi della situazione, attraverso
un’indagine diffusa fra la popolazione sarda, per sensibilizzare i rappresentanti politici regionali
verso una nuova prospettiva. Questa esigenza diventò l’imperativo intrinseco delle diverse linee di
ricerca sviluppate nei centri di studio delle università regionali, i cui risultati diedero impulso alle
politiche di piano ed alla ricerca storica e socio-antropologica dei principi e delle problematiche
dell’autonomia sarda.
In questa corrente si inseriscono studi come La Rinascita fallita e I rapporti della dipendenza,
prodotti dal gruppo di sociologia, coordinato da Marcello Lelli, il memorabile saggio Sardegna
perché banditi di Manlio Brigaglia, il periodico bimestrale di politica e cultura “autonomia
cronache”, uscito nel periodo 1967–1969 con sette numeri. Allo stesso tempo, si sviluppano ed
intensificano numerose ricerche per la valorizzazione del discorso storico sull’autonomia e sulla
diversità dei sardi a livello storico-politico, normativo, etnografico e linguistico, fra le quali in
questa circostanza mi piace citare La rivolta dell’oggetto di Michelangelo Pira 10 e l’antologia
Antonio Gramsci e la questione sarda, curata da Guido Melis.
Nel lavoro di Michelangelo Pira viene propriamente specificata la relazione dell'antropologia
culturale con i conflitti fra la cultura isolana nel suo complesso e le culture esterne – a differenza di
altri studi di area sulla cultura sarda –, ma anche le contraddizioni riferibili ai conflitti interni alla
cultura isolana – come emerge dall’attenta analisi del bilinguismo, con riferimenti strutturali alle
implicazioni dei conflitti tra fonti e tra codici, che oggi attraggono fortemente l'uomo e la società –,
configurando una condizione di cultura osservata, ma anche di cultura osservante, cioè un’ipotesi
di cambiamento sociale insieme ad una sostanziale rivoluzione tecnologica.
La Sardegna, tra tutte le regioni mediterranee europee, ed in particolare di quelle italiane, è forse
la più ricca di specificità culturali ed soprattutto per questa considerazione che l’autonomia speciale
ha rappresentato l’elemento distintivo dello studio delle particolari alterità della Sardegna, avviando
la necessaria esperienza socio-antropologica.
La seconda prospettiva d’analisi ha preso forma nella raccolta antologica di Guido Melis sulla
questione sarda di Antonio Gramsci. Questo aspetto dell’elaborazione politica del fondatore del
Partito Comunista possiede una particolare rilevanza, perché nel dare centralità alla sardità ha
la fiducia nelle potenzialità euro-mediterranee dell'Isola” ”(Pierangelo Catalano, Cooperazione e sicurezza nel
Mediterraneo - Convegno di studio, In “Aggiornamenti Sociali”, (luglio-agosto) 1975, p. 510).
9
Manlio Brigaglia, Appunti per un nuovo regionalismo, “Autonomia cronache”, n. 6, Sassari, febbraio 1969, pp. 2-3.
10
Cfr. Michelangelo Pira, La rivolta dell’oggetto. Antropologia della Sardegna, Editore Giuffrè, Milano, 1978
4
Autonomia speciale della Sardegna: studi per una riforma, Cagliari, 24-25 settembre 2015
individuato nell’impostazione della linea del Partito la premessa per una politica unitaria, fondata
sulle diversità dei soggetti, che costruiscono un blocco fra contadini e operai delle diverse regioni e
dei territori, per diventare alleanza rivoluzionaria.
L’elaborazione gramsciana ha permesso di riconoscere la Sardegna come una situazione
esemplare sia nei riguardi del problema meridionale in genere che nella specifica questione della
alleanza tra operai e contadini:
Gramsci aveva appunto usato un’espressione estremamente precisa, in qualche misura
programmatica: per far conoscere la Sardegna nuova all’Alta Italia […] e per meglio rinsaldare la
coscienza unitaria del proletariato italiano11.
La struttura programmatica, che è anche movimento per l’autonomia speciale, affonda le sue radici
nelle politiche del territorio, delle quali il Piano di Rinascita ha rappresentato l’impegno maggiore,
in anticipo sul resto del paese fin dal 1949, con l’art. 13 dello Statuto speciale e l’avvio pratico della
politica di piano, attuato con la Legge 588 del 1962.
Le premesse di questo processo, che aveva una posizione di forte innovazione e di avanguardia,
si sono confrontate con temi quali lo sviluppo regionale, l’assetto territoriale, il quadro istituzionale
e le dimensioni dell’autonomia, che contenevano una dimensione esplicitamente rivoluzionaria,
mentre scontavano l’inadeguatezza di scelte mai prima sperimentate, provocando errori di
valutazione per le scelte che si volevano praticare “e, sul piano politico, da certe scelte non
mantenute”12.
La forza di questi stimoli, malgrado le tante contraddizioni, resistette per alcuni anni,
incoraggiata da un autonomismo ottimistico, che rintracciamo nelle specificazioni metodologiche
delle ricerche empiriche affrontate dal gruppo operativo dell’ISPROM, già nel 1974,
la nostra scelta metodologica di base è perciò un tentativo di rovesciare gli approcci suddetti e di
leggere in forme scientifiche la politicità del territorio, a partire dalla sua politicità e dalle
contraddizioni degli approcci già visti13.
Il progetto, purtroppo, si incroda a mezza parete – come ci si esprime nel gergo dei rocciatori –, nel
processo di scontro/incontro con l’esperienza del Polo di sviluppo di Ottana, dove tutti i buoni
propositi della rinascita si arenarono, dapprima nella scelta di un ulteriore potenziamento coloniale
del settore petrolchimico e, poi, nelle scelte subalterne e clientelari delle classi politiche della
Sardegna, ridotte dalla dipendenza di grandi complessi multinazionali e monopolistici in una serie
di opzioni specifiche.
Questa condizione configurò l’inarrestabile perdita delle prospettive di autonomia, avviando
l’intera isola verso una fase di declino, precisabile come Rinascita fallita, per le responsabilità
imputabili ad una continua crisi congiunturale, che favoriva quel circolo progressivo di
espropriazione,
che destina quote sempre maggiori di prodotto regionale, sotto forma di interessi su prestiti e sui
profitti sui capitali investiti, che prendono la via della emigrazione e vengono così sottratti ai
consumi e ed agli investimenti locali14.
11
Guido Melis (a cura di), Antonio Gramsci e…, cit. p. 15.
Giuseppe Masia, Premessa, Il Piano di Rinascita della Sardegna. Leggi e programmi, Galizzi, Sassari, 1971, p. 9.
13
Convenzione GESCAL-IPROM (27.12.1973), Il problema della determinazione del fabbisogno abitativo: ricerca sul
modello generale di sviluppo della domanda di alloggi nella III Superzona della Sardegna, pubblicazione interna,
ISPROM, Sassari, 1974, p. 7.
14
Costanzo Pazzona, I termini economici della realtà sarda, in AA.VV., I rapporti della dipendenza, cit. p. 48.
12
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Autonomia speciale della Sardegna: studi per una riforma, Cagliari, 24-25 settembre 2015
La produzione surrettizia di un surplus per lo sviluppo esterno all’isola, nei fatti ha composto un
rapporto, conosciuto come neocoloniale, cha ha negato alla regione una sua autonomia e generato
una serie di rapporti di dipendenza economica, ma, anche e soprattutto, politico-culturale.
Nel tessuto sociale dell’isola, allora, riemerse impellente la necessità di prendere nuovamente
coscienza delle specificità del proprio contesto, che si rappresentava nell’esperienza di un potere
negativo, come diritto di resistenza.
In primo luogo si doveva fare necessariamente riferimento alla specificità della propria sardità,
recuperando le radici storiche della propria lingua, che rappresenta un’autentica ricchezza. Nel
contesto della realtà contemporanea italiana, che tende a privilegiare l’omologazione culturale e,
quindi, a non riconoscere le istanze di questa specifica realtà insulare, che molte volte viene
presentata dai media come una cultura pastorale arcaica, basata unicamente sull’utilizzazione dello
Stato solo in chiave repressiva (come ha osservato Antonio Pigliaru, con la decisa espressione quel
sistema penale che è lo Stato), doveva prendere corpo, secondo l’intelligente lettura politica
dell’archeologo isolano Giovanni Lilliu, l’idea strutturale di una costante resistenziale sarda, che
recentemente Simone Sassu a così riproposto:
i sardi, secondo Lilliu, nonostante l’avvicendarsi nei secoli di dominatori e aggressori esterni,
nonostante i ripetuti tentativi di integrazione e di assimilazione provenienti da altri popoli, avrebbero
mantenuto una fedeltà alle origini, resistendo ad ogni ipotesi di cancellazione forzata della propria
identità. Il c.d. banditismo barbaricino, troverebbe così origine e si svilupperebbe in un antico
retroterra culturale, appunto di tipo resistenziale, storicamente e strutturalmente antagonista e
ribelle15.
In quell’occasione Lilliu si soffermò sulle questioni della lingua, elemento fondamentale
dell’identità, in particolare sulla necessità che l’uso della lingua sarda non fosse limitato all’ambito
familiare e che la Regione intervenisse con un’apposita legge per introdurre l’insegnamento della
limba (lingua) nelle scuole.
Questo fondamento rappresenta la questione principale dell’autonomia e della specificità del
popolo sardo, nelle sue caratteristiche di diversità e di identità storica. La negazione di questo
principio, operata costantemente nei confronti della lingua locale, ha determinato una costante
dell’oppressione – come viene denunciato anche oggi a livello istituzionale –, assumendo anche il
tratto di una ferita storica
che ancora oggi porta con sé conseguenze che non sono eliminabili né facilmente né serenamente,
ma che, poiché è stata forte e approfondita l’elaborazione e la riflessione sulla perdita, può
rappresentare, nel divenire del processo di riacquisizione, un’ulteriore occasione di crescita e di
superamento del disconoscimento identitario subito. Oggi che indiscutibilmente l’italiano, a torto o a
ragione, è comunque la lingua preminente negli spazi pubblici e formali, si pone ancora più forte il
problema della salvaguardia della lingua di identità storica, e degli altri idiomi presenti in Sardegna,
al fine di preservare un patrimonio che non può più essere considerato mero folclore o sopravvivenza
etnica16.
15
Simone Sassu, Le Rasgioni in Gallura. La risoluzione dei conflitti nella cultura degli Stazzi, Armando Armando,
Roma, 2009, p. 50. Il corsivo è tratto da Giovanni Lilliu, La costante resistenziale sarda, Ilisso, Nuoro, 2002, p. 225
ss., dove si precisa, per altro, che “La Sardegna, in ogni tempo, ha avuto uno strano marchio storico: quello di essere
stata sempre dominata (in qualche modo ancora oggi), ma di avere sempre resistito. Un’isola sulla quale è calata per
i secoli la mano oppressiva del colonizzatore, a cui ha opposto, sistematicamente, il graffio della resistenza. Perciò,
i Sardi hanno avuto l’aggressione di integrazioni di ogni specie ma, nonostante, sono riusciti a conservarsi sempre se
stessi. Nella confusione etnica e culturale che li ha inondati per millenni sono riemersi, costantemente, nella fedeltà
alle origini autentiche e pure”.
16
Regione Autonoma della Sardegna, Relazione di accompagnamento al disegno di legge “Norme per la tutela,
valorizzazione e promozione della lingua sarda e delle varietà linguistiche della Sardegna”. 1 . Il patrimonio
linguistico dell’isola e la Regione Autonoma della Sardegna, Consiglio regionale della Sardegna, XV Legislatura,
Proposta di Legge n. 228 (presentata dai Consiglieri regionali Arbau, Azara, Ledda, Perra), 16 giugno 2015.
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Autonomia speciale della Sardegna: studi per una riforma, Cagliari, 24-25 settembre 2015
Sottolineare questo aspetto, che giace ancora nella sua forma di proposta di legge, offre la
dimensione di quanto sia lungo e difficile questo percorso e di come, invece, lo Statuto di
autonomia speciale possa e debba essere strumento di lotta e di difesa della propria identità: la
particolarità del riconoscimento della lingua è elemento fondativo del riconoscimento della diversità
di un popolo e della partecipazione nella propria autonomia al processo di unità. Del resto, è questo
stesso processo che ha determinato l’unità nazionale, anche se attraverso un percorso non rettilineo
e molto spesso contradditorio.
Nella Regione sarda esso si è prodotto in maniera precorritrice, ha sostanzialmente anticipato
l’idea europea di unità nella diversità, soprattutto rivendicando l’importanza identitaria della lingua,
con le differenze determinate dai diversi processi di genesi storica, con le diverse influenze
culturali, con le tante varietà locali che costituiscono la ricchezza di questa lingua, con gli idiomi
particolari, come la varietà di catalano parlata ad Alghero e quella ligure (pegliese) parlata a
Carloforte e Calasetta (Isole Sulcitane), che in seguito a migrazioni storiche hanno profondamente
modificato il panorama linguistico di alcune aree della Regione.
A questo elemento fondamentale per il definirsi del riconoscimento dell’identità si collega, nella
formazione specifica dell’idea-forza di autonomia speciale, anche l’idea d’insularità, che si riferisce
specificatamente ad una condizione etnologica ricca di tradizioni e di tratti originali, che alimentano
mitologie locali con i rispettivi miti di fondazione, anche se questa eredità deve essere coniugata
con un altro aspetto dell’insularità, quella che Alessandro Simonicca indica come costitutiva
fragilità17.
Questa fragilità può essere interpretata in quella sensazione quasi sacrale del distacco dalla
propria terra, che è leggibile in tante espressioni di isolani del Mediterraneo Nord-Occidentale
(Isole Baleari, Corsica, Sardegna e Sicilia) registrate in questi anni: gli isolani – delle piccole, come
delle grandi isole – che devono “andare in continente” sono costretti a compiere necessariamente un
viaggio per mare, che, al di là della durata e della sua “normalità” di servizio periodico, sopportano
una sensazione di distacco dalla propria terra, decretato dalla colpa (hybris), dovuta ad un’azione
che viola leggi divine immutabili, della sacralità dell'acqua e del sacrilegio del ponte ( la nave è un
ponte in movimento).
Questo comportamento – che costituisce uno degli universali archetipi psichici dell’isolano che
lascia la sua terra e si manifesta in un invisibile ed impercettibile senso di trasgressione e di
violazione di un sacro precetto – è probabilmente imputabile al retaggio ancestrale delle credenze
dei nostri antenati, secondo i quali la condizione di due territori delineati come separati dall’acqua,
era certamente da ascrivere al volere di un dio e che, quindi, l’attraversamento degli stretti, o di
tratti di mare anche vasti, veniva da essi percepito come un atto oltremodo rischioso. Per il sardo
che ha compiuto il salto migratorio, si tratti anche solo di una semplice escursione, si manifesta
subito l’orgoglio di mantenere la propria appartenenza all’isola, segno di una diversità e di una
caratteristica non assimilabile ad altre realtà insulari.
Anche questa caratteristica è riconducibile a quella specificità che pone la sardità come un
preciso modo di rendere speciale l’appartenenza al contesto nazionale ed alla costruzione
dell’Unione Europea, nel senso di unità nella diversità.
Ripensare, oggi, l’esperienza maturata in quegli anni, mi permette di partire dal motto
dell’Unione – i principi del riconoscimento del valore di una cultura comune enunciati, come
fondamento di strategie di coesione tra genti e territori nell’incontro delle loro diversità e come
spinta ai principi di autonomia e diversità – per interpretare le istanze del popolo sardo, per il
riconoscimento delle strategie che hanno rappresentato il fondamento della dimensione
identificativa del valore politico delle diversità delle culture e facilitare la loro convivenza in uno
stesso territorio, come processo culturale, al di là delle ataviche contrapposizioni e delle diverse
caratterizzazioni dei rapporti sociali.
17
Alessandro Simonicca, Viaggi e comunità. Prospettive antropologiche, Meltemi, Roma, 2006, p. 112.
7
Autonomia speciale della Sardegna: studi per una riforma, Cagliari, 24-25 settembre 2015
Il riconoscimento dell’obiettivo di dover stare insieme, ha favorito la formulazione di un accordo
per una cultura dell'autonomia speciale – che in Sardegna ha radici antiche, antecedenti la
Costituzione Italiana stessa –, che nella dimensione europea, sotto la bandiera del pluralismo,
s'incrocia con il tema della tutela dei diritti fondamentali.
Ed è proprio questa tutela a rappresentare la base di tutto il processo – il percorso dell’autonomia
speciale della Sardegna e dell’affermazione dello Statuto speciale, già nel 1948 indicano la
particolare condizione di adesione all’unità nazionale.
In una recentissima occasione, poi, anche il discorso pronunciato da Papa Francesco al
Parlamento europeo, riunito in seduta plenaria, sembra correlarsi strettamente all’esperienza
maturata nei lunghi anni di tentativi di applicazione delle norme dell’autonomia speciale,
prospettate per la regione sarda.
Il motto dell'Unione Europea è Unità nella diversità, ma l'unità non significa uniformità politica,
economica, culturale, o di pensiero … ritengo che l'Europa sia una famiglia di popoli, i quali
potranno sentire vicine le istituzioni dell'Unione se esse sapranno sapientemente coniugare l'ideale
dell'unità cui si anela, alla diversità propria di ciascuno, valorizzando le singole tradizioni … Mettere
al centro la persona umana significa anzitutto lasciare che essa esprima liberamente il proprio volto e
la propria creatività18.
Il contenuto di questo invito, travalicando il tempo e le indicazioni istituzionali per il quale è stato
pronunziato, sembra consolidare il rapporto che attraverso i tempi si è manifestato nella realtà sarda,
come elemento antesignano di una specifica scelta di autonomia.
Il mio incontro con le impostazioni di queste politiche della Regione, la costante elaborazione
politica ed antropologica della progettazione per un’autonomia speciale in tutti i settori, con
particolare interesse per le caratteristiche della vita quotidiana – come la cultura giuridica su
famiglia e società sarda e le relazioni fra autonomia e diritto di resistenza –, insieme alle ricerche
socio-antropologiche sul terreno, hanno prodotto un forte impatto sull’applicazione del concetto
d’autonomia speciale nella consistenza della società sarda, ma anche in altre, particolari situazioni
di minoranze socio-culturali, come quelle delle aree interne agropastorali e quelle dei cosiddetti
contesti di minoranza etnico-linguisitica e culturale. Questo contatto con realtà “altre”, riconducibili
alle problematiche di una evidente autonomia di popolo, necessita della conoscenza dell’identità
culturale del fattore umano, del tutto corrispondente a ciò che ha contraddistinto l’esperienza sarda.
La consapevolezza di una identità sarda, attraverso ipotesi ampiamente verificate, mi ha portato a
rilevare che essa non è diversa da quella di molte altre situazioni culturali presenti in Italia, tutte
accomunate dalla consapevolezza di sentirsi più o meno tutelate nella propria realtà specifica. La
Sardegna, però, proprio perché isola, ha una situazione ambientale e sociale del tutto particolare e le
caratteristiche delle sue zone interne sono certamente più rilevanti di quelle della maggior parte
delle altre realtà territoriali italiane – il riferimento specifico è alle zone interne resistenziali, come
l’area barbaricina, o a quei residui di impronta ispanica, che ricordano un periodo di dominazione e
dei quali restano segni tangibili nel comportamento delle comunità. Questi ed altri aspetti
nell’atteggiamento collettivo disegnano una semplice costruzione che oltrepassa la realtà, per
definirsi come elaborazione di una propria caratteristica specifica e non piuttosto una posizione
antagonistica nei confronti dello Stato nazionale, o, ancor più, della prospettiva europea.
L’identità sarda si è posta come un di più, rispetto al quadro di una cultura nazionale, oggi
europea, ponendosi come memoria della propria soggettività, che è composta anche di sofferenza,
di privazioni, di insularità e di difesa dei valori del villaggio d’origine.
18
Visita del Santo Padre al Parlamento Europeo e al Consiglio d’Europa, Discorso del Santo Padre Francesco al
Parlamento Europeo, Strasburgo, Francia, 25 novembre 2014.
8
Autonomia speciale della Sardegna: studi per una riforma, Cagliari, 24-25 settembre 2015
Questa difesa è rintracciabile anche nell’interpretazione operata da Alfonso Leonetti su Antonio
Gramsci, secondo la quale il cerchio del militante della rivoluzione mondiale e grande
internazionalista, si circoscrive nella sua sardità originaria:
rimane tuttavia iscritto nella storia di Gramsci, per sua volontà, uscendo dalle prigioni fasciste, aveva
deciso di ritornare a vivere in Sardegna. Perciò possiamo concludere che il ciclo gramsciano, nato
sardo, muore sardo, senza nulla perdere del suo carattere internazionale. Questo anzi spiega quello e
viceversa.19
Questo insistente dibattito rappresenta l’epicentro dell’identità culturale sarda, portatrice e custode
di un patrimonio che non può in alcun modo identificarsi, o anche solo essere accostato, con le
asserzioni di movimenti separatisti, o scissionisti, che si manifestano da qualche tempo in Italia.
Questi movimenti di leghe a vario tipo (molte confluite nella Lega Nord) alimentano forme di
egoismo piccolo borghese e/o sentimenti identitari di tipo xenofobo e razzista (più precisamente
razzismo antimeridionale). Le posizioni provocatorie e, molte volte, l’istigazione alla violenza,
definiscono una strategia, che trova fortune nella dilagante insicurezza socio-economica delle classi
più povere e costruisce la spinta populista di opposizione insensata all’Euro e all’Unione Europea,
attraverso il modello di società che alimenta il mercato della paura, focalizzato sull’immigrato, sul
rom, sul meridionale, col rifiuto totale di una unità nella diversità ed il senso di accoglienza che sta,
invece, alla base della filosofia di vita sarda (l’ospitalità). Valga su tutti, ricordare le impressioni di
Antoine-Claude Pasquin, detto Valery, che nel suo viaggio in Sardegna del 1834 descrive la
meraviglia dell’ospitalità dei sardi in questi termini: L’ospitalità è allo stesso tempo una tradizione,
un gusto e quasi un bisogno per il sardo. 20 E più avanti, nel testo, leggiamo la sua personale
esperienza di ospite in Sardegna:
la vostra caratteristica di ospite, in Sardegna, sembra veramente straordinaria: è quasi quella del
padrone di casa. Ci sono certe famiglie rurali presso le quali avrei volentieri passato la mia vita21.
Nelle nuove prospettive interpretative dell’antropologia contemporanea, però, ritengo che per
misurare il problema dell’identità, se si vuole contestualizzare effettivamente l’identità culturale
sarda, sia necessario proporre, almeno da un punto di vista antropologico l’identità come concetto
non essenziale per il futuro della Sardegna e per quello che essa rappresenta nel mondo.
Essenziale è oggi individuare una forma identitaria, che sia piuttosto un processo sempre in
divenire e non già un rigido dato immutabile, che non si cristallizzi sulle proprie (improbabili)
origini, ma sia una costante creazione di identità, è fatto ormai imprescindibile. Tale identità,
culturalmente appresa, diventa un fenomeno creato dalla messa in essere di ben specifiche scelte, di
una peculiare e studiata classificazione del mondo, di un'accettazione di alcuni concetti e, di
conseguenza, di una negazione di altri. Un continuo compromesso tra essere e divenire, che
Francesco Remotti interpreta come dipendente dalle nostre scelte:
l'identità non inerisce all'essenza di un oggetto; dipende invece dalle nostre decisioni. L’identità è un
fatto di decisioni. E se è un fatto di decisioni occorrerà abbandonare la visione essenzialista e fissista
dell’identità, per adottarne invece una di tipo convenzionalistico22.
La creazione dell’identità, cioè, è un processo che si iscrive nel continuo "pendolare" tra
strutturazione stabile e flusso continuo del mutamento. Per questo motivo, studiosi come Remotti
hanno trasformato la ricerca sui tratti caratteristici e sulla fissità della questione identitaria, da molti
19
Alfonso Leonetti, Una lettera di Alfonso leonetti (16 aprile 1975), in Guido Melis (a cura di), Antonio Gramsci e la
questione sarda, cit. p.7.
20
Valery (Antoine-Claude Pasquin), Viaggio in Sardegna, Ilisso Edizioni, Cagliari 2002, p. 43. (consultabile anche sul
sito www.ilisso.it/e-libri).
21
Ibidem, p. 45.
22
Francesco Remotti, Contro l’identità, Laterza, Bari 1996, p. 5.
9
Autonomia speciale della Sardegna: studi per una riforma, Cagliari, 24-25 settembre 2015
strutturata come elemento caratterizzante di quell’identità definita inequivocabilmente identità
etnica (e per noi identità sarda o sardità), come un processo nel quale trovano riconoscimento la
propria esistenza e le proprie caratteristiche culturali, con i diritti, gli obiettivi, i progetti che ognuno
si propone e che sono elementi fondati sulla capacità di determinare la propria presenza non inerte
nell’epoca moderna. Un’identità, quindi, che si presenta in termini non aprioristicamente
determinati, ma di costante incontro/scontro fra culture.
Per chiarire il concetto bisogna sottolineare l’idea che l’identità non è immutabile. Il frequente
ricorso ad essa diventa, piuttosto, un luogo comune, una mozione utilizzata per affermare che “noi”
possediamo un nucleo fondamentale che ci caratterizza in maniera permanente, cioè la
rivendicazione di identità è postulata preliminarmente e deve essere riconosciuta come elemento
codificato di appartenenza. Con questa pulsione l’identità diventa una preclusiva arma di difesa, che
funziona nel senso di chiusura del “noi” al confronto con “gli altri” che ci assediano. Questa vera e
propria ossessione per la ricerca di un’identità fissa ed immutabile, altro non è che la constatazione
che ogni elemento di convivenza è stato smantellato: dall’ospitalità, indice di sicurezza, base della
convivenza, si passa alla chiusura egoistica, indice di interruzione, base per la sopraffazione.
Per questo motivo optiamo per una rappresentazione della società sarda e della sua valenza
autonomistica, concretizzata nei suoi processi di identità e di trasformazione, imponendo fin
dall’inizio delle ricerche sul tessuto sociale sardo, almeno dal punto di vista dell’antropologo, la
necessità del cambiamento socio-culturale:
in questa maniera l’antropologia culturale rivaluta il suo ruolo di scienza totalizzante e nel tempo
stesso individua, come soggetto del suo operare, un altro, che non è necessariamente così lontano
nello spazio e nel tempo, ma può vivere, come poi di fatto vive, nella cittadella del capitalismo o nel
suo satellite23.
L’aspetto dei processi d’identità culturale si rivelava come uno degli elementi centrali del
riconoscimento dell’autonomia speciale della Sardegna e della sua valenza democratica. Il punto
centrale di questa valenza è stato posto nella consapevolezza che l’autonomia è parte integrante
della democrazia e l’identità è un processo fondamentale che si relaziona con l’altro come capacità
di riconoscimento.
Il riferimento esplicito è l’art. 5 della nostra Costituzione, che inscrive la democrazia locale e
regionale tra i principi fondamentali. Per la regione Sardegna questo principio sancisce il
riconoscimento di una cultura dell'autonomia, che ha guidato il percorso della mia presenza nella
ricerca in Sardegna, dove ho potuto interpretare quello che è stato identificato con il senso
giuridico della dimensione territoriale speciale, nella percezione della comunità che la rivendica. In
questo senso lingua, cultura, ambiente, tutela delle coste, viaggi ed emigrazione, trasporti e sistema
fiscale, diventano temi aventi una dimensione plurima, specificatamente culturale, che può
diventare strumento, oltre che di dimensione regionale, anche nazionale ed europea.
Questa dimensione territoriale speciale è stata il viatico della continuità della mia ricerca nella
sua estensione a tante altre realtà territoriali, che sono diventate per me terreno di ricerca-azione.
Quando su istanza di Beniamino Andreatta decisi di accettare la sua proposta di affrontare
l’esperimento istitutivo della nuova Università della Calabria, tutto questo impegno
dell’autodeterminazione del rapporto tra cittadini e istituzioni si configurò come esperimento di
estensione dei diritti sulle specificità territoriali esistenti adottabili attraverso l’esercizio
dell’autonomia ed il riconoscimento costituzionale, che prescrive alla democrazia locale e regionale
il principio fondamentale dell’autodeterminazione dei diritti.
Il primo atto di questa lunga ricerca operativa fu il riconoscimento della lingua e cultura
arbëreshë (Italo-albanese) in Calabria, la minoranza etnico-linguisitica non di confine (se si esclude
la Sardegna, volendola considerare “minoranza”).
23
Cesare Pitto, Autocritica di una scienza sociale, in AA.VV., I rapporti della dipendenza, cit., p. 29.
10
Autonomia speciale della Sardegna: studi per una riforma, Cagliari, 24-25 settembre 2015
Le comunità arbëreshë dell’Italia Meridionale, in particolare della Calabria, risultato di
successive immigrazioni dai Balcani nel corso di due secoli (XV-XVII), hanno conservato lingua,
cultura e religiosità (sono in maggioranza greco - cattolici) nelle comunità che hanno occupato,
ripopolando paesi già esistenti, anche se in qualche caso ne hanno costruito di nuovi. La ricerca si è
sviluppata intorno ai temi dell’autonomia delle comunità, del riconoscimento della lingua e del suo
insegnamento nelle scuole dei paesi interessati, della difesa dei costumi e della ritualità religiosa, e
della promozione delle attività culturali delle comunità. Inoltre si è misurato il peso del processo
migratorio, che ha coinvolto queste comunità con tutto il Mezzogiorno d’Italia, in un processo
spiegato come diaspora della diaspora dall’attenta ricerca di Mario Bolognari24.
Lo studio di questo doppio processo, che ha messo a dura prova il mantenimento di un’identità,
si è sviluppato lungo le tracce della diaspora, con attenzione per una serie di indicatori soggettivi,
oggettivi e simbolici, come sono stati descritti dall’antropologa Matilde Callari Galli.
Se vogliamo individuare uno schema interpretativo più produttivo, più utile di quelli applicati sino alla
metà del nostro secolo, è necessario utilizzare una definizione di cultura più ampia e analizzare non
più entità statiche ma processi di integrazione e di disintegrazione culturale che non si verificano più
solo a livello degli stati nazionali ma anche a livello trans-nazionale e trans-sociale. Solo così è
possibile individuare processi culturali che assumono una grande varietà di forme, una grande
dinamicità, che alimentano lo scambio, il flusso di beni e di persone, di informazioni e di immagini,
che danno vita a processi di comunicazione che ottengono una certa autonomia solo a livello globale.25
Questi processi sono utili per identificare quegli elementi socio-linguistici ed etico-politici che
misurano la consapevolezza (awareness) della propria appartenenza etnica alla cosiddetta cultura di
minoranza, proprio nei processi migratori, quando si fa più forte il bisogno di non perdere la propria
identità.
Questa ricerca ha ottenuto vari riconoscimenti a favore delle autonomie della minoranza
arbëreshe e, grazie ad una particolare attenzione da parte dell’Università della Calabria, si sono
sviluppati insegnamenti, corsi e master di grande interesse per la “Rinascita” delle comunità
(Rilindja arbëreshe). Le analogie con l’istituzione del Piano di Rinascita sardo sono molte e anche
le modalità applicative dei diritti per la tutela dei diritti sono del tutto simili. Anche gli attacchi ai
valori perseguiti ed ai risultati raggiunti sono frutto di uno stesso oscurantismo e di politiche
repressive ostili a qualsiasi processo di autonomia. Le battaglie per il riconoscimento della propria
identità e la tutela dei propri diritti sono state frutto di una costante attività culturale, espressa in una
importante vita associativa, che ha costituito l’espressione di una nostra forma di potere negativo.
Grazie a questo lungo e paziente lavoro di equipe, ritengo che la comunità arbëreshe calabrese
possa guardare al futuro con ragionevole fiducia, anche se dovrà costantemente vigilare sulle
molteplici forme di normalizzazione che verranno messe in atto da politiche avverse e da
amministrazioni miopi.
Prima di concludere questo esame comparativo dell’estensione della dimensione di
un’autonomia speciale per gruppi umani che hanno similari condizioni e situazioni di diversità,
voglio ricordare che buona parte della ricerca antropologica affrontata in quarant’anni di attività sul
terreno all’Università della Calabria, mi ha permesso di proseguire nell’itinerario dei diritti umani e
dell’autodeterminazione dei popoli – sia a livello nazionale, che europeo ed internazionale –, per
indagare le tematiche che affrontano la dimensione etico-politica della democrazia e
dell’autonomia, partendo dalla dimensione etnica ed individuando i fattori di integrazione e di
innovazione, nel confronto fra diverse alterità26.
24
Mario Bolognari (a cura di), La diaspora della diaspora - Viaggio alla ricerca degli Arbëreshë, E.T.S., Pisa, 1989.
Matilde Callari Galli, Identità plurali, in Matilde Callari Galli, Mauro Ceruti, Telmo Pievani, Pensare la diversità:
idee per un'educazione alla complessità umana, Meltemi Editore, Roma, 1998, p. 196.
26
Per accennare un sommario elenco ricorderò gli studi di insularità sulle isole minori italiane (Isole Eolie, Ustica, Isole
Sulcitane), gli aspetti di autonomia europea delle Isole Faroe (Føroyar) e i processi di autodeterminazione e
istituzione di forme di governo autonomo in aree insulari caratterizzate da forti movimenti autonomistici: Territory
25
11
Autonomia speciale della Sardegna: studi per una riforma, Cagliari, 24-25 settembre 2015
L’interpretazione di questo itinerario, mi convince che è necessario operare una mediazione fra
queste due realtà e sui rapporti fra cittadini di regioni, con due regimi statutari diversi: la Calabria,
dotata di Statuto ordinario, e la Sardegna, che è invece dotata di uno Statuto speciale. Le differenze
sono derivate dalla natura e dal contenuto dell'atto, che per lo statuto speciale è una legge
costituzionale che delimita le forme e le condizioni dell’autonomia speciale, mentre per le altre
regioni le forme e le condizioni di autonomia sono stabilite direttamente dalla Costituzione, con uno
statuto ordinario che viene approvato con legge regionale statutaria, cioè una legge ordinaria.
Viene a proposito una vicenda recente, degna di interesse politico in questo contesto di ricerca:
questa diversità è stata condizionata, non sulla base di una considerazione particolare di autonomia
regionale, ma piuttosto su una discriminazione per appartenenza nella recente riforma del servizio
pubblico (la RAI per intenderci). Infatti, senza alcuna attenzione per la sovranità popolare, o
considerazione dell’articolo 6 della Costituzione, che sancisce: “La Repubblica tutela con apposite
norme le minoranze linguistiche”27, la riforma della Rai, approvata recentemente, ha discriminato le
minoranze linguistiche dell’intero paese, dicendo sì a programmi radiotelevisivi in tedesco,
francese, ladino e sloveno e rifiutando lo stesso diritto ad altre minoranze, come i grecanici, gli
occitani, i sardi, i friulani, i catalani, i croati, i franco-provenzali e gli arbëreshë, surclassando, così,
anche la specifica legge n. 482 del 12.12.1999, Norme in materia di tutela delle minoranze
linguistiche storiche, che tante battaglie è costata in una vertenza – durata quasi mezzo secolo – con
lo Stato centrale, per ottenere finalmente riconoscimento e tutela giuridica. Questo trattamento
differenziato, che per inciso ha accomunato Sardegna e Calabria, titolari oltretutto di diverse
minoranze interne nelle specifiche condizioni territoriali, ha scatenato una forte protesta dei
cittadini, delle istituzioni locali e delle università. La contingenza, poi, comporta una stretta
connessione con il mio impegno accademico di ricercatore, nella rinnovata certezza, ormai
universalmente accettata, che il codice linguistico è il principale veicolo della comunicazione
d'identità.
Mi limiterò a citare alcune proteste, che in qualche modo richiamano un impegno di ricerca e di
contrasto politico verso questa discriminazione, citando due prese di posizione che, come minimo,
promettono una forte mobilitazione culturale su questa questione. Da un lato, per la Calabria e le
sue minoranze etnico-linguistiche (in primo luogo gli arbëreshë) raccolgo la presa di posizione di
Franco Altimari, docente di letteratura albanese e direttore del Dipartimento di Lingue e Scienze
dell’Educazione, che in un recente convegno ha commentato:
Siamo alle solite: le minoranze linguistiche per lo Stato italiano non sono tutte uguali! Continua nel
nostro Paese la politica di discriminazione verso la minoranza arbëreshe, ma anche verso altre
minoranze come i grecanici, gli occitani, i sardi, i friulani, i catalani, i croati e i franco-provenzali.
Nella riforma della Rai, approvata in questi giorni, il Parlamento ha detto sì ai programmi in tedesco,
francese, ladino e sloveno e no a programmi nelle altre lingue minoritarie28.
Per la Sardegna, invece, si è levata fra le altre, la voce di Francesco Pigliaru, Presidente della
Regione, che ha voluto commentare negativamente la decisione:
Da uno Stato di diritto, impegnato formalmente a garantire la tutela e la valorizzazione delle
minoranze linguistiche, ci saremmo aspettati il riconoscimento delle nostre peculiarità culturali in
quanto ricchezza inestimabile e unica del patrimonio non solo regionale ma nazionale, specie se si
of Nunavut (Canada) (Inuit), Queen Charlotte Islands (Haida Gwaii) (British Columbia – Canada) e Trinidad e
Tobago.
27
COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANA, Gazzetta Ufficiale 27 dicembre 1947, n. 298, art., 6.
28
Franco Altimari, Intervento, La Rai discrimina gli arbëreshë, su “L a nuova Provincia di Cosenza” 4 agosto 2015, p.
6.
12
Autonomia speciale della Sardegna: studi per una riforma, Cagliari, 24-25 settembre 2015
tratta di servizio pubblico radiotelevisivo. Vedere invece che la Sardegna è stata penalizzata, non è
accettabile29.
Il "caso" dell'assurda discriminazione delle minoranze etnico-linguistiche è intrinsecamente
connesso con le politiche antimeridionalistiche, portate avanti in maniera ambigua dalle forze più
retrive del paese, alle quali, talvolta, una classe politica che dimostra in certe circostanze un livello
molto basso di coscienza e di competenza. Nei confronti della Sardegna e dei sardi non è altro che
l’ultimo atto di un attacco portato all’autonomia speciale ed alla capacità di riconoscimento della
diversità nella tutela dei diritti fondamentali.
Ma l’attacco può essere anche più subdolo e circostanziato, quando sul piano giuridico si minano
i diritti fondamentali, con il ricorso a formulazioni imprecise, o erronee, e con l’intento di
dequalificare la qualità dell’autonomia speciale.
In questo frangente si è manifestata una tendenza fortemente dequalificante verso l’importanza
strategica dell’autonomia speciale, che ha cercato di eludere un vero processo di re-iscrizione dello
Statuto dell’Autonomia: “esigenza che i cittadini sardi hanno riconosciuto come prioritaria ormai da
molti anni, ma che i governi sardi sono stati impotenti a soddisfare”30.
Il passaggio di questa lenta procedura è entrata in un terrain vague del processo, che ne mette a
rischio la capacità di gestione di una riforma statutaria in una regione ad autonomia speciale, dove è
necessario il concorso di due legislatori (statale e regionale). Si deve tenere ben fermi tutti i termini
del processo. E, perciò, sono profondamente d’accordo sulla necessità di un adeguamento
terminologico nel rapporto fra questi legislatori, come sostiene Lobrano, che giudica la terminologia
essere “la prima dogmatica giuridica”. La divisione della materia, che si è manifestata nell’opera
istituzionale del legislatore, è stata quella tra Statuto e Legge statutaria.
Le caratteristiche essenziali di tale terminologia sono facili da individuare. Il nome e, con il nome,
anche il rango e la dignità di “Statuto” sono stati riservati a indicare e a qualificare la legge
(costituzionale) dello Stato italiano di ‘disciplina’ (uso qui, in modo interlocutorio, una espressione
volutamente anodina) della Autonomia sarda. Corrispondentemente, la legge regionale di
determinazione della “forma di governo” della Regione sarda è stata denominata (e, con ciò,
declassata, dequalificata) come – mera – “Legge statutaria”. La tesi che io qui formulo e sostengo è
che la natura di questa terminologia (e, quindi, della dogmatica che la ha prodotta e che da essa è
‘veicolata’) è – e si è rivelata – giuridicamente anti-costituzionale e politicamente anti-democratica31.
Questo tipo di analisi non è sostanzialmente formale, ma individua le scelte di priorità che
assicurano allo Statuto dell’autonomia la sua possibilità di sostenere, da un punto di vista
scientifico, le caratteristiche essenziali di tale terminologia. Il rango e la dignità di “Statuto”
servono per indicare e qualificare la legge (Costituzionale) dello Stato italiano, mentre la legge
regionale, per determinare la forma di governo della regione si limita ad una legge ordinaria che si
definisce come “Legge statutaria” e quindi negazione del potere autonomistico per definizione: il
potere statuente.
Se si ripropone la diversità nella dimensione nazionale essa assume il nome di autonomia
speciale, che la nostra Costituzione riconosce come valore all'articolo 116 e quindi si sostanzia il
nostro Statuto, determinando il rapporto tra la Sardegna e lo Stato che deve essere fondato sul
riconoscimento della diversità nella tutela dei diritti fondamentali, cioè la tutela dell'ambiente e il
29
Francesco Pigliaru, Il caso, No al sardo in Rai, Pigliaru: «Discriminazione inaccettabile», “La Nuova – Nuova
Sardegna”, Edizione Sassari, 01 agosto 2015.
30
Giovanni Lobrano, Dal punto di vista del Diritto romano: la questione di fondo, anche per la Autonomia e lo Statuto
“speciali” della Regione Sardegna, è sapere e volere darsi una “forma di governo” democratico, in “Presente e
Futuro” n. 22, Un nuovo Statuto per la Sardegna del XXI secolo, a cura di Mariarosa Cardia, Atti del ciclo di
Seminari 1948-2006: 60 anni di Autonomia in Sardegna verso un nuovo Statuto speciale (Cagliari, febbraio –
dicembre 2008), Aipsa Edizioni, Cagliari, 2009, p. 146.
31
Ibidem, p. 148.
13
Autonomia speciale della Sardegna: studi per una riforma, Cagliari, 24-25 settembre 2015
rispetto del paesaggio, la tutela integrata delle coste e la continuità territoriale, la difesa della lingua
e della cultura, il diritto alla salute e all'istruzione. Questo rende lo Statuto speciale strettamente
legato alla dimensione territoriale, percepita dalla comunità come suo fattore primario. La nuova
frontiera della specialità della Autonomia sarda sta nella capacità (sapienza giuridica e volontà
politica) che avrà – o meno – la Sardegna, di prefigurare al proprio interno e di esportare al proprio
esterno una forma di governo “democratica”, adatta all’insularità, come del resto preconizzavano
Montesquieu e Rousseau, riferendosi alla vocazione speciale delle Isole, come forma di governo
contraddistinta dalla libertà32, che si evidenzia nell’affermazione di Giovanni Lobrano nello svelare
l’unità di vedute di Montesquieu e Rousseau, che “convenivano sulla vocazione affatto speciale
delle Isole alla forma di governo contrassegnata dalla libertà”33: “Si tratta – finalmente! – di una
specialità che non dobbiamo chiedere ad altri ma che dobbiamo dimostrare noi stessi”.
Questo concetto, connesso all’esperienza che si è sviluppata nel tempo presso la cattedra di
Antropologia culturale dell’Università della Calabria, ha sostenuto non solo l’aspetto simbolico
dell’insularità come specialità nel suo divenire base strutturale di un potere negativo, operante nei
vincoli delle situazioni di specialità dei popoli nella loro condizione di singolarità, ma anche nella
scelta di ricerca, che ha fatto dell’essere isola la condizione privilegiata della ricerca antropologica
sul campo, in tutti i settori della cattedra: le ricerca sul campo ha sostenuto gli aspetti di originali
manifestazioni del potere negativo, come strumento di manifestazione dal basso della produzione di
senso dell’esistenza e della libertà nelle isole, affrontato in circa quarant’anni di itinerari di ricerca
sul campo. Questa scelta è supportata dalla convinzione che l’autonomia acquisisce il suo valore di
specialità nell’esercizio di tutela del suo costituirsi come un vero e proprio diritto umano per il
quale essa non è semplicemente un privilegio, che può essere tolto in base al capriccio o alla
decisione di qualcuno, ma è caratteristica intrinseca della propria libertà.
32
Giovanni Lobrano, La questione di fondo per l’Autonomia e lo Statuto “speciale” della Regione Sardegna: sapere e
volere darsi una “forma di Governo” democratica, Scritto in onore del collega ed amico, Claude Olivesi, ‘Maître de
conférences en Sciences Politiques’ presso la Università di Corsica “Pasquale Paoli”, Sindaco della Commune de
San-Nicolao e ‘Conseiller général de Haute-Corse’, deceduto improvvisamente e prematuramente il 7 giugno 2007.
(http://www.dirittoestoria.it/7/Contributi/Lobrano-Autonomia-Statuto-Regione-Sardegna.htm ).
33
Ibidem. In nota aggiunge i seguenti riferimenti: Secondo Montesquieu, Esprit des lois, XVIII, 5 “Des peuples des
îles”: «Les peuples des îles sont plus portés à la liberté que les peuples du continent». Secondo Rousseau, Contrat
social, II, 10: «Il est encore en Europe un pays capable de législation; c'est l'Isle-de-Corse. La valeur et la constance
avec laquelle ce brave peuple a su recouvrer et défendre sa liberté, mériteroit bien que quelque homme sage lui
apprît à la conserver».
14
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