Autonomia speciale della Sardegna: studi per una riforma, Cagliari, 24-25 settembre 2015 Un itinerario individuale nella rivendicazione dell’autonomia speciale. Cesare Pitto, Universit della Calabria Questo mio intervento non deve essere letto come un appello alla seduzione dei ricordi, anche se prende le mosse da un tempo assai lontano dalle dispute attuali che coinvolgono la politica regionale sarda sulla concezione dell’autonomia speciale e della salvaguardia del principio costituzionale – che, tra gli altri, riconosce l’esercizio delle funzioni amministrative conformi al rispetto del territorio. In realtà, l’occasione di questo incontro è stata colta per ripensare e provare a comprendere, a distanza di diversi decenni, come la condivisione di certe problematiche della Sardegna delle prospettive di studio di un gruppo di studenti di sociologia di Trento, orientati verso la ricerca etnoantropologica sul terreno, come metodo operativo, in particolare con le peculiarità della “Questione sarda”, convinse alcuni di essi a fare dell’ambiente sardo l’argomentazione della propria prassi politica e della Sardegna il campo dove delineare i temi della ricerca applicata, fondando, nel contesto della situazione dell’Ateneo trentino di allora – a metà strada fra i corsi (più frequentemente gestiti autonomamente dagli studenti con il nome di contro-corsi1) universitari e il Movimento studentesco –, un gruppo di studio che nella situazione si autodenominerà “Gruppo Sardegna”. La posizione politica di questi studenti di allora non va interpretata come la partecipazione emotiva di chi aveva solo legami vagamente affettivi con l’isola ed un esotico senso del “fare inchiesta” radicato (basta ricordare “chi non fa inchiesta non ha diritto di parola”, proclamato da Vittorio Rieser2), che al posto dell’attivismo sessantottino per le fabbriche si muoveva verso una realtà agro-pastorale, per quell’epoca considerata troppo sbrigativamente arcaica. I fatti immediatamente successivi a quegli anni hanno dimostrato quanto fosse essenziale quella scelta, che partendo dalla “Questione Sarda” – anche con riferimento all’incidenza delle “radici” sarde, nella formazione del pensiero e dell’identità politica ed intellettuale di Antonio Gramsci3 – rinsaldò le sue radici nell’idea di riscatto di un popolo, ma anche dell’attualità del progetto dell’Unione Europea, testimoniato dal motto Unità nella diversità. Il Gruppo di Studio sulla Sardegna fu organizzato proprio nel momento di più forte crisi del movimento degli studenti, sotto la spinta di due attività ufficiali dell’Ateneo Trentino, il Seminario di studi sul “potere negativo” ed il Laboratorio di Antropologia culturale. In quella occasione, il Gruppo elaborò, per il Centro Regionale di Programmazione Economica della Sardegna, una proposta di ricerca dal significativo titolo Proposta di ricerca sul ruolo dell’autonomia regionale nel processo di sviluppo socio-economico, che conteneva alcuni specifici riferimenti a tutto il processo produttivo e non solo economico della Sardegna. 1 L’istituto dei contro-corsi fu deliberato a Trento dal Movimento studentesco con un documento politico di rivendicazione dall’assemblea del 27 marzo 1968, denominato Documento politico per l'elaborazione della carta rivendicativa, il quale tra le altre determinazioni prevedeva, perciò, di “impostare, quindi, una lotta "permanente" nel senso che bisogna programmare la "crisi" della struttura, provocandola attraverso le situazioni di fatto con strumenti diversi e contro parti differenti nei vari momenti, comunque non può essere semplicemente una rivendicazione di "cultura negativa" di chi studia ciò che vuole, accettando comunque i controlli e l’organizzazione della vita accademica.[… e…]. Tali istituti, di cui bisogna imporre il riconoscimento, ora sono i comitati di agitazione ed i seminari autogestiti, ma urge individuare ulteriori scadenze e soprattutto ulteriori livelli di espansione della base sociale del movimento.” 2 Cfr. Vittorio Rieser, Giancarlo Cerruti, L’imperfetta modernizzazione, Ediesse, Roma 1995; Vittorio Rieser, Lavorare a Melfi: inchiesta operaia nella fabbrica integrata Fiat, Calice, Potenza 1997. 3 Cfr. Guido Melis (a cura di), Antonio Gramsci e la questione sarda, Della Torre, Cagliari, 1975. 1 Autonomia speciale della Sardegna: studi per una riforma, Cagliari, 24-25 settembre 2015 Nei termini certamente permeati di ottimismo economicista, si proponeva, allora, una scossa autonomistica, che comunque tendesse ad invertire la situazione di subalternità socio-economica dell’intera regione: L’Istituto Regionale […] può dare inizio, nelle aree sottosviluppate del sistema economico, all’avviamento di un processo di accumulazione tendente a bloccare il circolo vizioso dell’arretratezza con una politica che capovolga l’attuale situazione, la quale trasporta il lavoro verso il capitale (emigrazione), per giungere ad un assetto strutturale dove si trasporta il capitale verso il lavoro (industrializzazione); e impedire la perdita di una parte del suo “surplus” a favore della metropoli attraverso una trasformazione programmata della struttura economica regionale.4 Da questo approccio, di ordine quasi-pedagogico, si produsse poco dopo la circostanza, probabilmente non casuale, del principio di una carriera universitaria, con la chiamata nel ruolo di assistente universitario, nell’allora nascente Facoltà di Magistero dell’Università di Sassari. Oltre all’interesse ed al coinvolgimento nel “Gruppo Sardegna”, poi, è indispensabile premettere la scelta dell’itinerario formativo, non soltanto teorico, sul concetto di potere negativo, attraversato con la cattedra di Storia delle istituzioni sociali e politiche, tenuta da Pierangelo Catalano, presso l’allora Istituto Superiore di Scienze Sociali di Trento, che, in estrema sintesi, individuava il concetto di potere negativo nell’esigenza, rilevata in diverse società odierne di quei tempi, di configurare un nuovo strumento costituzionale. Questo approccio di pensiero ricordava la partecipazione del cittadino al potere sovrano, attraverso un dispositivo d’interruzione: la partecipazione del cittadino al potere sovrano (cioè la libertà nel senso originario) deve essere considerata senza timori nella sua potenzialità rivoluzionaria ed espressa nelle nuove forme del “potere negativo”: in forme cioè che, evitando l’assorbimento entro il “potere positivo” o la cooptazione tra gli specialisti del suo apparato, contribuiscano concretamente a una costante adeguazione di questi al volere del popolo e al valore dell’uomo (e della scienza)5. Il riscontro diventò ben più articolato, quando ebbi occasione di approfondire i miei contatti con la realtà della Regione Sardegna, dotata di autonomia speciale, iniziando il mio lavoro nel corso d’insegnamento di Sociologia, nella Facoltà di Magistero di Sassari, allora in fase di istituzione. Questa circostanza spinse l’intero ambito disciplinare ad utilizzare la ricerca applicata, spostando sul terreno (fieldwork) la maggior parte degli interessi, con la sperimentazione dell’approccio conoscitivo alla società sarda. In rapporto alla situazione di dipendenza che contraddistingueva l’ambito regionale in quel momento storico, infatti, si collocavano una serie di ipotesi che si confrontavano con l’esterno e con alcune individualità emergenti presenti nell’Ateneo sassarese. Un modo per indicare una tendenza di linea di ricerca, che si ponesse all’interno del quadro generale di riferimento, costituito dalla teoria della dipendenza della Sardegna – alimentata dall’accettazione implicita di essere una parte della società contemporanea, situandosi in una condizione di subalternità –, secondo la quale: l’unico modo di divenire soggetti è rappresentato dall’accettazione storica di essere una parte del rapporto sociale di produzione capitalistico e di specificarsi nel modello ideale, che riunisce – in 4 Proposta di ricerca del Gruppo di studio sulla Sardegna, Trento, 2 maggio 1970, da Cesare Pitto, Autonomia e “potere negativo” nell’esperienza di lotta-critica dell’Università di Trento, in “Studi Sassaresi”, III, Autonomia e diritto di resistenza, Giuffré Editore, Milano, !972, pp. 789-790. 5 Pierangelo Catalano, “Potere negativo” e sovranità dei cittadini nell’età tecnologica, in “II Congressus Unionis Mundialis Antiquorum Societatis Jesu Alumnorum” (Romae 26-30 Augusti 1967), Engagement et responsabilité des anciens élèves dans un monde en transformation. Actes, Napoli s.d. p. 101, ripubblicato in “Autonomia cronache”, n. 6, Sassari, febbraio 1969, p. 30. 2 Autonomia speciale della Sardegna: studi per una riforma, Cagliari, 24-25 settembre 2015 quanto funzione della parte per il tutto – i momenti determinati di quella globalità e li rende, quindi, partecipanti di essa in tutte le sue espressioni6. La presa di contatto con l’ambiente socio-culturale sardo evidenziò subito il segno di una forte spinta all’autonomia, stratificata nelle situazioni più diverse di una società vista da più parti, troppo superficialmente, come una società arcaica, impermeabile all’innovazione e all’esercizio della politica. Questa partecipazione si evidenziava per un forte senso di appartenenza all’Isola, maturato nel tempo come “sardità”, che esprimeva l’essenzialità della condizione di chi è sardo nel sentimento di appartenenza alla tradizione, ai costumi ed alla cultura sarda. Sostanzialmente, però, questo senso di appartenenza non rifiutava il rinnovamento e la potenza di una condivisione originale alla situazione più progredita verso la quale stava tendendo. L’elemento che appariva immediatamente all’attenzione dello studioso di scienze umane (nel caso specifico dell’antropologo) è che l’indicazione principale dello Statuto della Regione Sarda fosse quella di fondare la sua autonomia specifica sull’archetipo di autonomia e diversità, principi che discendono dall’insularità e dalla condizione storica di separazione da altri territori nazionali e che hanno di fatto ispirato l’organizzazione dell’Unione Europea, al punto che ne è diventato il motto prescelto, Unità nella diversità. Il tema dell'autonomia speciale, nella dimensione europea s'incrocia con il tema della tutela dei diritti fondamentali per i diversi territori. Esso si è configurato soprattutto in alcuni aspetti più settoriali, ma che nei fatti sono risultati essere fondanti per la prospettiva dell’autonomia speciale sarda nell’affermazione della specifica identità – intesa sia nei termini della sua rilevanza storica, sia nell’affermazione attuale democratica e costituzionale –, come la prospettiva di una battaglia per un’informazione autonoma e pubblica, o per una scuola che pianificasse lo sviluppo e la crescita autonoma (con docenti prevalentemente sardi), con il superamento delle contraddizioni della ”Rinascita”, attraverso una ricerca autonoma delle proprie specificità. Gli assunti teorici promossi in questo contesto hanno ritrovato un vigoroso contatto con tutto quel movimento che si muoveva intorno alle proposte dell’autonomia regionale, come processo statutario irrinunciabile, perché essi stessi rivendicavano una verifica esplicita, con la massima attenzione e la valutazione più inclusiva possibile. Il contributo che mi sovviene, al quale allaccio l’inizio della mia esperienza di antropologo sul terreno, è collegato allo sforzo operato dallo studioso Manlio Brigaglia, di mettere a fuoco la realtà dell’informazione sarda, sotto l’impeto del processo di concentrazione delle testate e della riduzione dei giornali a strutture subalterne dell’espansione industriale, in particolare petrolchimica, in modo da promuovere dal punto di vista dell’autonomia regionale un reale contributo alla battaglia per la riforma dell’informazione in Sardegna. I temi che si possono leggere nel volume a sua cura, L’informazione in Sardegna7, ripercorrono e si riallacciano ad un interessante punto di partenza, che nasce dal concetto di potere negativo, collegato all’istituto dell’autonomia speciale, cioè quello di produrre i presupposti per una normativa costituzionale regionale sullo sviluppo d’una cittadinanza attiva e responsabile. In questi termini, anche la realizzazione di forme efficaci di democrazia partecipativa avrebbe rappresentato il riferimento per elaborazione delle metodologie efficaci per la valutazione della correttezza logicoformale delle norme giuridiche, e per la progettazione e l’implementazione dei programmi dell’informazione (giornalistica) pubblica su scala regionale, sorretta da quella che verrà definita intesa autonomistica8. Tale proposta era in linea con la “primavera” dell’informazione, che ben si inscriveva nell’ottica dell’autonomia regionale. 6 Cesare Pitto, Autocritica di una scienza sociale, in AA.VV., I rapporti della dipendenza. Ipotesi di ricerca sulla Sardegna, Editrice Libreria Dessì, Sassari, 1976, pp. 13-14. 7 Cfr. Manlio Brigaglia (a cura di), L’informazione in Sardegna, Editrice Libreria Dessì, Sassari, 1973. 8 “Stipulata nell'ottobre del 1975 da tutti i partiti dell'arco costituzionale. Per l'aspetto che qui interessa, il ruolo contestativo, della Regione (in quanto Regione meridionale) viene individuato e chiarito da un lato per la consapevolezza della dipendenza (vuoi dai centri di potere internazionale, vuoi dallo Stato-apparato) e dall'altro per 3 Autonomia speciale della Sardegna: studi per una riforma, Cagliari, 24-25 settembre 2015 Questo approccio non è disgiunto dal più ampio rapporto di ricerca sul terreno (con la partecipazione di tutta la cattedra di sociologia), che l’ISPROM promosse con l’indagine sul Polo di Sviluppo di Ottana, paradigmatico della condizione di depotenziamento dell’Autonomia Regionale. In rapporto con quanto aveva previsto la strutturazione normativa dello Statuto speciale – che all’art. 13 ha disposto: “Lo Stato, con il concorso della Regione, dispone un piano organico per favorire la rinascita sociale dell’Isola” –, che trovò pratico avvio nella legge 588 del 1962, si era determinata una pressione contraddittoria da parte dello Stato centrale, che attraverso politiche burocratiche, assecondando e favorendo le spinte clientelari e monopolistiche, aveva provocato la crisi dell’autonomia, cedendo ad aspetti di confusione istituzionale. Come faceva scrupolosamente notare Manlio Brigaglia: una situazione come questa sottopone l’istituto autonomistico ad una duplice pressione: dall’esterno si tende a togliergli ogni capacità di iniziativa, per impedire che la linea dello sviluppo isolano possa allontanarsi da quella che viene perseguita a livello nazionale (e che, quand’anche fosse buona in sé o in rapporto all’intera area dello sviluppo nazionale, rischia di compiersi col sacrificio degli spazi geograficamente ed economicamente defilati come il nostro), dall’interno sale una confusa e spesso convulsa ridda di proposte rivoluzionarie che tendono preliminarmente a scavalcare il discorso all’istituto autonomistico, giudicato strumento inidoneo, anacronistico, troppo compromesso con il sistema9. L’impegno da sostenere era quello di realizzare un’importante analisi della situazione, attraverso un’indagine diffusa fra la popolazione sarda, per sensibilizzare i rappresentanti politici regionali verso una nuova prospettiva. Questa esigenza diventò l’imperativo intrinseco delle diverse linee di ricerca sviluppate nei centri di studio delle università regionali, i cui risultati diedero impulso alle politiche di piano ed alla ricerca storica e socio-antropologica dei principi e delle problematiche dell’autonomia sarda. In questa corrente si inseriscono studi come La Rinascita fallita e I rapporti della dipendenza, prodotti dal gruppo di sociologia, coordinato da Marcello Lelli, il memorabile saggio Sardegna perché banditi di Manlio Brigaglia, il periodico bimestrale di politica e cultura “autonomia cronache”, uscito nel periodo 1967–1969 con sette numeri. Allo stesso tempo, si sviluppano ed intensificano numerose ricerche per la valorizzazione del discorso storico sull’autonomia e sulla diversità dei sardi a livello storico-politico, normativo, etnografico e linguistico, fra le quali in questa circostanza mi piace citare La rivolta dell’oggetto di Michelangelo Pira 10 e l’antologia Antonio Gramsci e la questione sarda, curata da Guido Melis. Nel lavoro di Michelangelo Pira viene propriamente specificata la relazione dell'antropologia culturale con i conflitti fra la cultura isolana nel suo complesso e le culture esterne – a differenza di altri studi di area sulla cultura sarda –, ma anche le contraddizioni riferibili ai conflitti interni alla cultura isolana – come emerge dall’attenta analisi del bilinguismo, con riferimenti strutturali alle implicazioni dei conflitti tra fonti e tra codici, che oggi attraggono fortemente l'uomo e la società –, configurando una condizione di cultura osservata, ma anche di cultura osservante, cioè un’ipotesi di cambiamento sociale insieme ad una sostanziale rivoluzione tecnologica. La Sardegna, tra tutte le regioni mediterranee europee, ed in particolare di quelle italiane, è forse la più ricca di specificità culturali ed soprattutto per questa considerazione che l’autonomia speciale ha rappresentato l’elemento distintivo dello studio delle particolari alterità della Sardegna, avviando la necessaria esperienza socio-antropologica. La seconda prospettiva d’analisi ha preso forma nella raccolta antologica di Guido Melis sulla questione sarda di Antonio Gramsci. Questo aspetto dell’elaborazione politica del fondatore del Partito Comunista possiede una particolare rilevanza, perché nel dare centralità alla sardità ha la fiducia nelle potenzialità euro-mediterranee dell'Isola” ”(Pierangelo Catalano, Cooperazione e sicurezza nel Mediterraneo - Convegno di studio, In “Aggiornamenti Sociali”, (luglio-agosto) 1975, p. 510). 9 Manlio Brigaglia, Appunti per un nuovo regionalismo, “Autonomia cronache”, n. 6, Sassari, febbraio 1969, pp. 2-3. 10 Cfr. Michelangelo Pira, La rivolta dell’oggetto. Antropologia della Sardegna, Editore Giuffrè, Milano, 1978 4 Autonomia speciale della Sardegna: studi per una riforma, Cagliari, 24-25 settembre 2015 individuato nell’impostazione della linea del Partito la premessa per una politica unitaria, fondata sulle diversità dei soggetti, che costruiscono un blocco fra contadini e operai delle diverse regioni e dei territori, per diventare alleanza rivoluzionaria. L’elaborazione gramsciana ha permesso di riconoscere la Sardegna come una situazione esemplare sia nei riguardi del problema meridionale in genere che nella specifica questione della alleanza tra operai e contadini: Gramsci aveva appunto usato un’espressione estremamente precisa, in qualche misura programmatica: per far conoscere la Sardegna nuova all’Alta Italia […] e per meglio rinsaldare la coscienza unitaria del proletariato italiano11. La struttura programmatica, che è anche movimento per l’autonomia speciale, affonda le sue radici nelle politiche del territorio, delle quali il Piano di Rinascita ha rappresentato l’impegno maggiore, in anticipo sul resto del paese fin dal 1949, con l’art. 13 dello Statuto speciale e l’avvio pratico della politica di piano, attuato con la Legge 588 del 1962. Le premesse di questo processo, che aveva una posizione di forte innovazione e di avanguardia, si sono confrontate con temi quali lo sviluppo regionale, l’assetto territoriale, il quadro istituzionale e le dimensioni dell’autonomia, che contenevano una dimensione esplicitamente rivoluzionaria, mentre scontavano l’inadeguatezza di scelte mai prima sperimentate, provocando errori di valutazione per le scelte che si volevano praticare “e, sul piano politico, da certe scelte non mantenute”12. La forza di questi stimoli, malgrado le tante contraddizioni, resistette per alcuni anni, incoraggiata da un autonomismo ottimistico, che rintracciamo nelle specificazioni metodologiche delle ricerche empiriche affrontate dal gruppo operativo dell’ISPROM, già nel 1974, la nostra scelta metodologica di base è perciò un tentativo di rovesciare gli approcci suddetti e di leggere in forme scientifiche la politicità del territorio, a partire dalla sua politicità e dalle contraddizioni degli approcci già visti13. Il progetto, purtroppo, si incroda a mezza parete – come ci si esprime nel gergo dei rocciatori –, nel processo di scontro/incontro con l’esperienza del Polo di sviluppo di Ottana, dove tutti i buoni propositi della rinascita si arenarono, dapprima nella scelta di un ulteriore potenziamento coloniale del settore petrolchimico e, poi, nelle scelte subalterne e clientelari delle classi politiche della Sardegna, ridotte dalla dipendenza di grandi complessi multinazionali e monopolistici in una serie di opzioni specifiche. Questa condizione configurò l’inarrestabile perdita delle prospettive di autonomia, avviando l’intera isola verso una fase di declino, precisabile come Rinascita fallita, per le responsabilità imputabili ad una continua crisi congiunturale, che favoriva quel circolo progressivo di espropriazione, che destina quote sempre maggiori di prodotto regionale, sotto forma di interessi su prestiti e sui profitti sui capitali investiti, che prendono la via della emigrazione e vengono così sottratti ai consumi e ed agli investimenti locali14. 11 Guido Melis (a cura di), Antonio Gramsci e…, cit. p. 15. Giuseppe Masia, Premessa, Il Piano di Rinascita della Sardegna. Leggi e programmi, Galizzi, Sassari, 1971, p. 9. 13 Convenzione GESCAL-IPROM (27.12.1973), Il problema della determinazione del fabbisogno abitativo: ricerca sul modello generale di sviluppo della domanda di alloggi nella III Superzona della Sardegna, pubblicazione interna, ISPROM, Sassari, 1974, p. 7. 14 Costanzo Pazzona, I termini economici della realtà sarda, in AA.VV., I rapporti della dipendenza, cit. p. 48. 12 5 Autonomia speciale della Sardegna: studi per una riforma, Cagliari, 24-25 settembre 2015 La produzione surrettizia di un surplus per lo sviluppo esterno all’isola, nei fatti ha composto un rapporto, conosciuto come neocoloniale, cha ha negato alla regione una sua autonomia e generato una serie di rapporti di dipendenza economica, ma, anche e soprattutto, politico-culturale. Nel tessuto sociale dell’isola, allora, riemerse impellente la necessità di prendere nuovamente coscienza delle specificità del proprio contesto, che si rappresentava nell’esperienza di un potere negativo, come diritto di resistenza. In primo luogo si doveva fare necessariamente riferimento alla specificità della propria sardità, recuperando le radici storiche della propria lingua, che rappresenta un’autentica ricchezza. Nel contesto della realtà contemporanea italiana, che tende a privilegiare l’omologazione culturale e, quindi, a non riconoscere le istanze di questa specifica realtà insulare, che molte volte viene presentata dai media come una cultura pastorale arcaica, basata unicamente sull’utilizzazione dello Stato solo in chiave repressiva (come ha osservato Antonio Pigliaru, con la decisa espressione quel sistema penale che è lo Stato), doveva prendere corpo, secondo l’intelligente lettura politica dell’archeologo isolano Giovanni Lilliu, l’idea strutturale di una costante resistenziale sarda, che recentemente Simone Sassu a così riproposto: i sardi, secondo Lilliu, nonostante l’avvicendarsi nei secoli di dominatori e aggressori esterni, nonostante i ripetuti tentativi di integrazione e di assimilazione provenienti da altri popoli, avrebbero mantenuto una fedeltà alle origini, resistendo ad ogni ipotesi di cancellazione forzata della propria identità. Il c.d. banditismo barbaricino, troverebbe così origine e si svilupperebbe in un antico retroterra culturale, appunto di tipo resistenziale, storicamente e strutturalmente antagonista e ribelle15. In quell’occasione Lilliu si soffermò sulle questioni della lingua, elemento fondamentale dell’identità, in particolare sulla necessità che l’uso della lingua sarda non fosse limitato all’ambito familiare e che la Regione intervenisse con un’apposita legge per introdurre l’insegnamento della limba (lingua) nelle scuole. Questo fondamento rappresenta la questione principale dell’autonomia e della specificità del popolo sardo, nelle sue caratteristiche di diversità e di identità storica. La negazione di questo principio, operata costantemente nei confronti della lingua locale, ha determinato una costante dell’oppressione – come viene denunciato anche oggi a livello istituzionale –, assumendo anche il tratto di una ferita storica che ancora oggi porta con sé conseguenze che non sono eliminabili né facilmente né serenamente, ma che, poiché è stata forte e approfondita l’elaborazione e la riflessione sulla perdita, può rappresentare, nel divenire del processo di riacquisizione, un’ulteriore occasione di crescita e di superamento del disconoscimento identitario subito. Oggi che indiscutibilmente l’italiano, a torto o a ragione, è comunque la lingua preminente negli spazi pubblici e formali, si pone ancora più forte il problema della salvaguardia della lingua di identità storica, e degli altri idiomi presenti in Sardegna, al fine di preservare un patrimonio che non può più essere considerato mero folclore o sopravvivenza etnica16. 15 Simone Sassu, Le Rasgioni in Gallura. La risoluzione dei conflitti nella cultura degli Stazzi, Armando Armando, Roma, 2009, p. 50. Il corsivo è tratto da Giovanni Lilliu, La costante resistenziale sarda, Ilisso, Nuoro, 2002, p. 225 ss., dove si precisa, per altro, che “La Sardegna, in ogni tempo, ha avuto uno strano marchio storico: quello di essere stata sempre dominata (in qualche modo ancora oggi), ma di avere sempre resistito. Un’isola sulla quale è calata per i secoli la mano oppressiva del colonizzatore, a cui ha opposto, sistematicamente, il graffio della resistenza. Perciò, i Sardi hanno avuto l’aggressione di integrazioni di ogni specie ma, nonostante, sono riusciti a conservarsi sempre se stessi. Nella confusione etnica e culturale che li ha inondati per millenni sono riemersi, costantemente, nella fedeltà alle origini autentiche e pure”. 16 Regione Autonoma della Sardegna, Relazione di accompagnamento al disegno di legge “Norme per la tutela, valorizzazione e promozione della lingua sarda e delle varietà linguistiche della Sardegna”. 1 . Il patrimonio linguistico dell’isola e la Regione Autonoma della Sardegna, Consiglio regionale della Sardegna, XV Legislatura, Proposta di Legge n. 228 (presentata dai Consiglieri regionali Arbau, Azara, Ledda, Perra), 16 giugno 2015. 6 Autonomia speciale della Sardegna: studi per una riforma, Cagliari, 24-25 settembre 2015 Sottolineare questo aspetto, che giace ancora nella sua forma di proposta di legge, offre la dimensione di quanto sia lungo e difficile questo percorso e di come, invece, lo Statuto di autonomia speciale possa e debba essere strumento di lotta e di difesa della propria identità: la particolarità del riconoscimento della lingua è elemento fondativo del riconoscimento della diversità di un popolo e della partecipazione nella propria autonomia al processo di unità. Del resto, è questo stesso processo che ha determinato l’unità nazionale, anche se attraverso un percorso non rettilineo e molto spesso contradditorio. Nella Regione sarda esso si è prodotto in maniera precorritrice, ha sostanzialmente anticipato l’idea europea di unità nella diversità, soprattutto rivendicando l’importanza identitaria della lingua, con le differenze determinate dai diversi processi di genesi storica, con le diverse influenze culturali, con le tante varietà locali che costituiscono la ricchezza di questa lingua, con gli idiomi particolari, come la varietà di catalano parlata ad Alghero e quella ligure (pegliese) parlata a Carloforte e Calasetta (Isole Sulcitane), che in seguito a migrazioni storiche hanno profondamente modificato il panorama linguistico di alcune aree della Regione. A questo elemento fondamentale per il definirsi del riconoscimento dell’identità si collega, nella formazione specifica dell’idea-forza di autonomia speciale, anche l’idea d’insularità, che si riferisce specificatamente ad una condizione etnologica ricca di tradizioni e di tratti originali, che alimentano mitologie locali con i rispettivi miti di fondazione, anche se questa eredità deve essere coniugata con un altro aspetto dell’insularità, quella che Alessandro Simonicca indica come costitutiva fragilità17. Questa fragilità può essere interpretata in quella sensazione quasi sacrale del distacco dalla propria terra, che è leggibile in tante espressioni di isolani del Mediterraneo Nord-Occidentale (Isole Baleari, Corsica, Sardegna e Sicilia) registrate in questi anni: gli isolani – delle piccole, come delle grandi isole – che devono “andare in continente” sono costretti a compiere necessariamente un viaggio per mare, che, al di là della durata e della sua “normalità” di servizio periodico, sopportano una sensazione di distacco dalla propria terra, decretato dalla colpa (hybris), dovuta ad un’azione che viola leggi divine immutabili, della sacralità dell'acqua e del sacrilegio del ponte ( la nave è un ponte in movimento). Questo comportamento – che costituisce uno degli universali archetipi psichici dell’isolano che lascia la sua terra e si manifesta in un invisibile ed impercettibile senso di trasgressione e di violazione di un sacro precetto – è probabilmente imputabile al retaggio ancestrale delle credenze dei nostri antenati, secondo i quali la condizione di due territori delineati come separati dall’acqua, era certamente da ascrivere al volere di un dio e che, quindi, l’attraversamento degli stretti, o di tratti di mare anche vasti, veniva da essi percepito come un atto oltremodo rischioso. Per il sardo che ha compiuto il salto migratorio, si tratti anche solo di una semplice escursione, si manifesta subito l’orgoglio di mantenere la propria appartenenza all’isola, segno di una diversità e di una caratteristica non assimilabile ad altre realtà insulari. Anche questa caratteristica è riconducibile a quella specificità che pone la sardità come un preciso modo di rendere speciale l’appartenenza al contesto nazionale ed alla costruzione dell’Unione Europea, nel senso di unità nella diversità. Ripensare, oggi, l’esperienza maturata in quegli anni, mi permette di partire dal motto dell’Unione – i principi del riconoscimento del valore di una cultura comune enunciati, come fondamento di strategie di coesione tra genti e territori nell’incontro delle loro diversità e come spinta ai principi di autonomia e diversità – per interpretare le istanze del popolo sardo, per il riconoscimento delle strategie che hanno rappresentato il fondamento della dimensione identificativa del valore politico delle diversità delle culture e facilitare la loro convivenza in uno stesso territorio, come processo culturale, al di là delle ataviche contrapposizioni e delle diverse caratterizzazioni dei rapporti sociali. 17 Alessandro Simonicca, Viaggi e comunità. Prospettive antropologiche, Meltemi, Roma, 2006, p. 112. 7 Autonomia speciale della Sardegna: studi per una riforma, Cagliari, 24-25 settembre 2015 Il riconoscimento dell’obiettivo di dover stare insieme, ha favorito la formulazione di un accordo per una cultura dell'autonomia speciale – che in Sardegna ha radici antiche, antecedenti la Costituzione Italiana stessa –, che nella dimensione europea, sotto la bandiera del pluralismo, s'incrocia con il tema della tutela dei diritti fondamentali. Ed è proprio questa tutela a rappresentare la base di tutto il processo – il percorso dell’autonomia speciale della Sardegna e dell’affermazione dello Statuto speciale, già nel 1948 indicano la particolare condizione di adesione all’unità nazionale. In una recentissima occasione, poi, anche il discorso pronunciato da Papa Francesco al Parlamento europeo, riunito in seduta plenaria, sembra correlarsi strettamente all’esperienza maturata nei lunghi anni di tentativi di applicazione delle norme dell’autonomia speciale, prospettate per la regione sarda. Il motto dell'Unione Europea è Unità nella diversità, ma l'unità non significa uniformità politica, economica, culturale, o di pensiero … ritengo che l'Europa sia una famiglia di popoli, i quali potranno sentire vicine le istituzioni dell'Unione se esse sapranno sapientemente coniugare l'ideale dell'unità cui si anela, alla diversità propria di ciascuno, valorizzando le singole tradizioni … Mettere al centro la persona umana significa anzitutto lasciare che essa esprima liberamente il proprio volto e la propria creatività18. Il contenuto di questo invito, travalicando il tempo e le indicazioni istituzionali per il quale è stato pronunziato, sembra consolidare il rapporto che attraverso i tempi si è manifestato nella realtà sarda, come elemento antesignano di una specifica scelta di autonomia. Il mio incontro con le impostazioni di queste politiche della Regione, la costante elaborazione politica ed antropologica della progettazione per un’autonomia speciale in tutti i settori, con particolare interesse per le caratteristiche della vita quotidiana – come la cultura giuridica su famiglia e società sarda e le relazioni fra autonomia e diritto di resistenza –, insieme alle ricerche socio-antropologiche sul terreno, hanno prodotto un forte impatto sull’applicazione del concetto d’autonomia speciale nella consistenza della società sarda, ma anche in altre, particolari situazioni di minoranze socio-culturali, come quelle delle aree interne agropastorali e quelle dei cosiddetti contesti di minoranza etnico-linguisitica e culturale. Questo contatto con realtà “altre”, riconducibili alle problematiche di una evidente autonomia di popolo, necessita della conoscenza dell’identità culturale del fattore umano, del tutto corrispondente a ciò che ha contraddistinto l’esperienza sarda. La consapevolezza di una identità sarda, attraverso ipotesi ampiamente verificate, mi ha portato a rilevare che essa non è diversa da quella di molte altre situazioni culturali presenti in Italia, tutte accomunate dalla consapevolezza di sentirsi più o meno tutelate nella propria realtà specifica. La Sardegna, però, proprio perché isola, ha una situazione ambientale e sociale del tutto particolare e le caratteristiche delle sue zone interne sono certamente più rilevanti di quelle della maggior parte delle altre realtà territoriali italiane – il riferimento specifico è alle zone interne resistenziali, come l’area barbaricina, o a quei residui di impronta ispanica, che ricordano un periodo di dominazione e dei quali restano segni tangibili nel comportamento delle comunità. Questi ed altri aspetti nell’atteggiamento collettivo disegnano una semplice costruzione che oltrepassa la realtà, per definirsi come elaborazione di una propria caratteristica specifica e non piuttosto una posizione antagonistica nei confronti dello Stato nazionale, o, ancor più, della prospettiva europea. L’identità sarda si è posta come un di più, rispetto al quadro di una cultura nazionale, oggi europea, ponendosi come memoria della propria soggettività, che è composta anche di sofferenza, di privazioni, di insularità e di difesa dei valori del villaggio d’origine. 18 Visita del Santo Padre al Parlamento Europeo e al Consiglio d’Europa, Discorso del Santo Padre Francesco al Parlamento Europeo, Strasburgo, Francia, 25 novembre 2014. 8 Autonomia speciale della Sardegna: studi per una riforma, Cagliari, 24-25 settembre 2015 Questa difesa è rintracciabile anche nell’interpretazione operata da Alfonso Leonetti su Antonio Gramsci, secondo la quale il cerchio del militante della rivoluzione mondiale e grande internazionalista, si circoscrive nella sua sardità originaria: rimane tuttavia iscritto nella storia di Gramsci, per sua volontà, uscendo dalle prigioni fasciste, aveva deciso di ritornare a vivere in Sardegna. Perciò possiamo concludere che il ciclo gramsciano, nato sardo, muore sardo, senza nulla perdere del suo carattere internazionale. Questo anzi spiega quello e viceversa.19 Questo insistente dibattito rappresenta l’epicentro dell’identità culturale sarda, portatrice e custode di un patrimonio che non può in alcun modo identificarsi, o anche solo essere accostato, con le asserzioni di movimenti separatisti, o scissionisti, che si manifestano da qualche tempo in Italia. Questi movimenti di leghe a vario tipo (molte confluite nella Lega Nord) alimentano forme di egoismo piccolo borghese e/o sentimenti identitari di tipo xenofobo e razzista (più precisamente razzismo antimeridionale). Le posizioni provocatorie e, molte volte, l’istigazione alla violenza, definiscono una strategia, che trova fortune nella dilagante insicurezza socio-economica delle classi più povere e costruisce la spinta populista di opposizione insensata all’Euro e all’Unione Europea, attraverso il modello di società che alimenta il mercato della paura, focalizzato sull’immigrato, sul rom, sul meridionale, col rifiuto totale di una unità nella diversità ed il senso di accoglienza che sta, invece, alla base della filosofia di vita sarda (l’ospitalità). Valga su tutti, ricordare le impressioni di Antoine-Claude Pasquin, detto Valery, che nel suo viaggio in Sardegna del 1834 descrive la meraviglia dell’ospitalità dei sardi in questi termini: L’ospitalità è allo stesso tempo una tradizione, un gusto e quasi un bisogno per il sardo. 20 E più avanti, nel testo, leggiamo la sua personale esperienza di ospite in Sardegna: la vostra caratteristica di ospite, in Sardegna, sembra veramente straordinaria: è quasi quella del padrone di casa. Ci sono certe famiglie rurali presso le quali avrei volentieri passato la mia vita21. Nelle nuove prospettive interpretative dell’antropologia contemporanea, però, ritengo che per misurare il problema dell’identità, se si vuole contestualizzare effettivamente l’identità culturale sarda, sia necessario proporre, almeno da un punto di vista antropologico l’identità come concetto non essenziale per il futuro della Sardegna e per quello che essa rappresenta nel mondo. Essenziale è oggi individuare una forma identitaria, che sia piuttosto un processo sempre in divenire e non già un rigido dato immutabile, che non si cristallizzi sulle proprie (improbabili) origini, ma sia una costante creazione di identità, è fatto ormai imprescindibile. Tale identità, culturalmente appresa, diventa un fenomeno creato dalla messa in essere di ben specifiche scelte, di una peculiare e studiata classificazione del mondo, di un'accettazione di alcuni concetti e, di conseguenza, di una negazione di altri. Un continuo compromesso tra essere e divenire, che Francesco Remotti interpreta come dipendente dalle nostre scelte: l'identità non inerisce all'essenza di un oggetto; dipende invece dalle nostre decisioni. L’identità è un fatto di decisioni. E se è un fatto di decisioni occorrerà abbandonare la visione essenzialista e fissista dell’identità, per adottarne invece una di tipo convenzionalistico22. La creazione dell’identità, cioè, è un processo che si iscrive nel continuo "pendolare" tra strutturazione stabile e flusso continuo del mutamento. Per questo motivo, studiosi come Remotti hanno trasformato la ricerca sui tratti caratteristici e sulla fissità della questione identitaria, da molti 19 Alfonso Leonetti, Una lettera di Alfonso leonetti (16 aprile 1975), in Guido Melis (a cura di), Antonio Gramsci e la questione sarda, cit. p.7. 20 Valery (Antoine-Claude Pasquin), Viaggio in Sardegna, Ilisso Edizioni, Cagliari 2002, p. 43. (consultabile anche sul sito www.ilisso.it/e-libri). 21 Ibidem, p. 45. 22 Francesco Remotti, Contro l’identità, Laterza, Bari 1996, p. 5. 9 Autonomia speciale della Sardegna: studi per una riforma, Cagliari, 24-25 settembre 2015 strutturata come elemento caratterizzante di quell’identità definita inequivocabilmente identità etnica (e per noi identità sarda o sardità), come un processo nel quale trovano riconoscimento la propria esistenza e le proprie caratteristiche culturali, con i diritti, gli obiettivi, i progetti che ognuno si propone e che sono elementi fondati sulla capacità di determinare la propria presenza non inerte nell’epoca moderna. Un’identità, quindi, che si presenta in termini non aprioristicamente determinati, ma di costante incontro/scontro fra culture. Per chiarire il concetto bisogna sottolineare l’idea che l’identità non è immutabile. Il frequente ricorso ad essa diventa, piuttosto, un luogo comune, una mozione utilizzata per affermare che “noi” possediamo un nucleo fondamentale che ci caratterizza in maniera permanente, cioè la rivendicazione di identità è postulata preliminarmente e deve essere riconosciuta come elemento codificato di appartenenza. Con questa pulsione l’identità diventa una preclusiva arma di difesa, che funziona nel senso di chiusura del “noi” al confronto con “gli altri” che ci assediano. Questa vera e propria ossessione per la ricerca di un’identità fissa ed immutabile, altro non è che la constatazione che ogni elemento di convivenza è stato smantellato: dall’ospitalità, indice di sicurezza, base della convivenza, si passa alla chiusura egoistica, indice di interruzione, base per la sopraffazione. Per questo motivo optiamo per una rappresentazione della società sarda e della sua valenza autonomistica, concretizzata nei suoi processi di identità e di trasformazione, imponendo fin dall’inizio delle ricerche sul tessuto sociale sardo, almeno dal punto di vista dell’antropologo, la necessità del cambiamento socio-culturale: in questa maniera l’antropologia culturale rivaluta il suo ruolo di scienza totalizzante e nel tempo stesso individua, come soggetto del suo operare, un altro, che non è necessariamente così lontano nello spazio e nel tempo, ma può vivere, come poi di fatto vive, nella cittadella del capitalismo o nel suo satellite23. L’aspetto dei processi d’identità culturale si rivelava come uno degli elementi centrali del riconoscimento dell’autonomia speciale della Sardegna e della sua valenza democratica. Il punto centrale di questa valenza è stato posto nella consapevolezza che l’autonomia è parte integrante della democrazia e l’identità è un processo fondamentale che si relaziona con l’altro come capacità di riconoscimento. Il riferimento esplicito è l’art. 5 della nostra Costituzione, che inscrive la democrazia locale e regionale tra i principi fondamentali. Per la regione Sardegna questo principio sancisce il riconoscimento di una cultura dell'autonomia, che ha guidato il percorso della mia presenza nella ricerca in Sardegna, dove ho potuto interpretare quello che è stato identificato con il senso giuridico della dimensione territoriale speciale, nella percezione della comunità che la rivendica. In questo senso lingua, cultura, ambiente, tutela delle coste, viaggi ed emigrazione, trasporti e sistema fiscale, diventano temi aventi una dimensione plurima, specificatamente culturale, che può diventare strumento, oltre che di dimensione regionale, anche nazionale ed europea. Questa dimensione territoriale speciale è stata il viatico della continuità della mia ricerca nella sua estensione a tante altre realtà territoriali, che sono diventate per me terreno di ricerca-azione. Quando su istanza di Beniamino Andreatta decisi di accettare la sua proposta di affrontare l’esperimento istitutivo della nuova Università della Calabria, tutto questo impegno dell’autodeterminazione del rapporto tra cittadini e istituzioni si configurò come esperimento di estensione dei diritti sulle specificità territoriali esistenti adottabili attraverso l’esercizio dell’autonomia ed il riconoscimento costituzionale, che prescrive alla democrazia locale e regionale il principio fondamentale dell’autodeterminazione dei diritti. Il primo atto di questa lunga ricerca operativa fu il riconoscimento della lingua e cultura arbëreshë (Italo-albanese) in Calabria, la minoranza etnico-linguisitica non di confine (se si esclude la Sardegna, volendola considerare “minoranza”). 23 Cesare Pitto, Autocritica di una scienza sociale, in AA.VV., I rapporti della dipendenza, cit., p. 29. 10 Autonomia speciale della Sardegna: studi per una riforma, Cagliari, 24-25 settembre 2015 Le comunità arbëreshë dell’Italia Meridionale, in particolare della Calabria, risultato di successive immigrazioni dai Balcani nel corso di due secoli (XV-XVII), hanno conservato lingua, cultura e religiosità (sono in maggioranza greco - cattolici) nelle comunità che hanno occupato, ripopolando paesi già esistenti, anche se in qualche caso ne hanno costruito di nuovi. La ricerca si è sviluppata intorno ai temi dell’autonomia delle comunità, del riconoscimento della lingua e del suo insegnamento nelle scuole dei paesi interessati, della difesa dei costumi e della ritualità religiosa, e della promozione delle attività culturali delle comunità. Inoltre si è misurato il peso del processo migratorio, che ha coinvolto queste comunità con tutto il Mezzogiorno d’Italia, in un processo spiegato come diaspora della diaspora dall’attenta ricerca di Mario Bolognari24. Lo studio di questo doppio processo, che ha messo a dura prova il mantenimento di un’identità, si è sviluppato lungo le tracce della diaspora, con attenzione per una serie di indicatori soggettivi, oggettivi e simbolici, come sono stati descritti dall’antropologa Matilde Callari Galli. Se vogliamo individuare uno schema interpretativo più produttivo, più utile di quelli applicati sino alla metà del nostro secolo, è necessario utilizzare una definizione di cultura più ampia e analizzare non più entità statiche ma processi di integrazione e di disintegrazione culturale che non si verificano più solo a livello degli stati nazionali ma anche a livello trans-nazionale e trans-sociale. Solo così è possibile individuare processi culturali che assumono una grande varietà di forme, una grande dinamicità, che alimentano lo scambio, il flusso di beni e di persone, di informazioni e di immagini, che danno vita a processi di comunicazione che ottengono una certa autonomia solo a livello globale.25 Questi processi sono utili per identificare quegli elementi socio-linguistici ed etico-politici che misurano la consapevolezza (awareness) della propria appartenenza etnica alla cosiddetta cultura di minoranza, proprio nei processi migratori, quando si fa più forte il bisogno di non perdere la propria identità. Questa ricerca ha ottenuto vari riconoscimenti a favore delle autonomie della minoranza arbëreshe e, grazie ad una particolare attenzione da parte dell’Università della Calabria, si sono sviluppati insegnamenti, corsi e master di grande interesse per la “Rinascita” delle comunità (Rilindja arbëreshe). Le analogie con l’istituzione del Piano di Rinascita sardo sono molte e anche le modalità applicative dei diritti per la tutela dei diritti sono del tutto simili. Anche gli attacchi ai valori perseguiti ed ai risultati raggiunti sono frutto di uno stesso oscurantismo e di politiche repressive ostili a qualsiasi processo di autonomia. Le battaglie per il riconoscimento della propria identità e la tutela dei propri diritti sono state frutto di una costante attività culturale, espressa in una importante vita associativa, che ha costituito l’espressione di una nostra forma di potere negativo. Grazie a questo lungo e paziente lavoro di equipe, ritengo che la comunità arbëreshe calabrese possa guardare al futuro con ragionevole fiducia, anche se dovrà costantemente vigilare sulle molteplici forme di normalizzazione che verranno messe in atto da politiche avverse e da amministrazioni miopi. Prima di concludere questo esame comparativo dell’estensione della dimensione di un’autonomia speciale per gruppi umani che hanno similari condizioni e situazioni di diversità, voglio ricordare che buona parte della ricerca antropologica affrontata in quarant’anni di attività sul terreno all’Università della Calabria, mi ha permesso di proseguire nell’itinerario dei diritti umani e dell’autodeterminazione dei popoli – sia a livello nazionale, che europeo ed internazionale –, per indagare le tematiche che affrontano la dimensione etico-politica della democrazia e dell’autonomia, partendo dalla dimensione etnica ed individuando i fattori di integrazione e di innovazione, nel confronto fra diverse alterità26. 24 Mario Bolognari (a cura di), La diaspora della diaspora - Viaggio alla ricerca degli Arbëreshë, E.T.S., Pisa, 1989. Matilde Callari Galli, Identità plurali, in Matilde Callari Galli, Mauro Ceruti, Telmo Pievani, Pensare la diversità: idee per un'educazione alla complessità umana, Meltemi Editore, Roma, 1998, p. 196. 26 Per accennare un sommario elenco ricorderò gli studi di insularità sulle isole minori italiane (Isole Eolie, Ustica, Isole Sulcitane), gli aspetti di autonomia europea delle Isole Faroe (Føroyar) e i processi di autodeterminazione e istituzione di forme di governo autonomo in aree insulari caratterizzate da forti movimenti autonomistici: Territory 25 11 Autonomia speciale della Sardegna: studi per una riforma, Cagliari, 24-25 settembre 2015 L’interpretazione di questo itinerario, mi convince che è necessario operare una mediazione fra queste due realtà e sui rapporti fra cittadini di regioni, con due regimi statutari diversi: la Calabria, dotata di Statuto ordinario, e la Sardegna, che è invece dotata di uno Statuto speciale. Le differenze sono derivate dalla natura e dal contenuto dell'atto, che per lo statuto speciale è una legge costituzionale che delimita le forme e le condizioni dell’autonomia speciale, mentre per le altre regioni le forme e le condizioni di autonomia sono stabilite direttamente dalla Costituzione, con uno statuto ordinario che viene approvato con legge regionale statutaria, cioè una legge ordinaria. Viene a proposito una vicenda recente, degna di interesse politico in questo contesto di ricerca: questa diversità è stata condizionata, non sulla base di una considerazione particolare di autonomia regionale, ma piuttosto su una discriminazione per appartenenza nella recente riforma del servizio pubblico (la RAI per intenderci). Infatti, senza alcuna attenzione per la sovranità popolare, o considerazione dell’articolo 6 della Costituzione, che sancisce: “La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche”27, la riforma della Rai, approvata recentemente, ha discriminato le minoranze linguistiche dell’intero paese, dicendo sì a programmi radiotelevisivi in tedesco, francese, ladino e sloveno e rifiutando lo stesso diritto ad altre minoranze, come i grecanici, gli occitani, i sardi, i friulani, i catalani, i croati, i franco-provenzali e gli arbëreshë, surclassando, così, anche la specifica legge n. 482 del 12.12.1999, Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche, che tante battaglie è costata in una vertenza – durata quasi mezzo secolo – con lo Stato centrale, per ottenere finalmente riconoscimento e tutela giuridica. Questo trattamento differenziato, che per inciso ha accomunato Sardegna e Calabria, titolari oltretutto di diverse minoranze interne nelle specifiche condizioni territoriali, ha scatenato una forte protesta dei cittadini, delle istituzioni locali e delle università. La contingenza, poi, comporta una stretta connessione con il mio impegno accademico di ricercatore, nella rinnovata certezza, ormai universalmente accettata, che il codice linguistico è il principale veicolo della comunicazione d'identità. Mi limiterò a citare alcune proteste, che in qualche modo richiamano un impegno di ricerca e di contrasto politico verso questa discriminazione, citando due prese di posizione che, come minimo, promettono una forte mobilitazione culturale su questa questione. Da un lato, per la Calabria e le sue minoranze etnico-linguistiche (in primo luogo gli arbëreshë) raccolgo la presa di posizione di Franco Altimari, docente di letteratura albanese e direttore del Dipartimento di Lingue e Scienze dell’Educazione, che in un recente convegno ha commentato: Siamo alle solite: le minoranze linguistiche per lo Stato italiano non sono tutte uguali! Continua nel nostro Paese la politica di discriminazione verso la minoranza arbëreshe, ma anche verso altre minoranze come i grecanici, gli occitani, i sardi, i friulani, i catalani, i croati e i franco-provenzali. Nella riforma della Rai, approvata in questi giorni, il Parlamento ha detto sì ai programmi in tedesco, francese, ladino e sloveno e no a programmi nelle altre lingue minoritarie28. Per la Sardegna, invece, si è levata fra le altre, la voce di Francesco Pigliaru, Presidente della Regione, che ha voluto commentare negativamente la decisione: Da uno Stato di diritto, impegnato formalmente a garantire la tutela e la valorizzazione delle minoranze linguistiche, ci saremmo aspettati il riconoscimento delle nostre peculiarità culturali in quanto ricchezza inestimabile e unica del patrimonio non solo regionale ma nazionale, specie se si of Nunavut (Canada) (Inuit), Queen Charlotte Islands (Haida Gwaii) (British Columbia – Canada) e Trinidad e Tobago. 27 COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANA, Gazzetta Ufficiale 27 dicembre 1947, n. 298, art., 6. 28 Franco Altimari, Intervento, La Rai discrimina gli arbëreshë, su “L a nuova Provincia di Cosenza” 4 agosto 2015, p. 6. 12 Autonomia speciale della Sardegna: studi per una riforma, Cagliari, 24-25 settembre 2015 tratta di servizio pubblico radiotelevisivo. Vedere invece che la Sardegna è stata penalizzata, non è accettabile29. Il "caso" dell'assurda discriminazione delle minoranze etnico-linguistiche è intrinsecamente connesso con le politiche antimeridionalistiche, portate avanti in maniera ambigua dalle forze più retrive del paese, alle quali, talvolta, una classe politica che dimostra in certe circostanze un livello molto basso di coscienza e di competenza. Nei confronti della Sardegna e dei sardi non è altro che l’ultimo atto di un attacco portato all’autonomia speciale ed alla capacità di riconoscimento della diversità nella tutela dei diritti fondamentali. Ma l’attacco può essere anche più subdolo e circostanziato, quando sul piano giuridico si minano i diritti fondamentali, con il ricorso a formulazioni imprecise, o erronee, e con l’intento di dequalificare la qualità dell’autonomia speciale. In questo frangente si è manifestata una tendenza fortemente dequalificante verso l’importanza strategica dell’autonomia speciale, che ha cercato di eludere un vero processo di re-iscrizione dello Statuto dell’Autonomia: “esigenza che i cittadini sardi hanno riconosciuto come prioritaria ormai da molti anni, ma che i governi sardi sono stati impotenti a soddisfare”30. Il passaggio di questa lenta procedura è entrata in un terrain vague del processo, che ne mette a rischio la capacità di gestione di una riforma statutaria in una regione ad autonomia speciale, dove è necessario il concorso di due legislatori (statale e regionale). Si deve tenere ben fermi tutti i termini del processo. E, perciò, sono profondamente d’accordo sulla necessità di un adeguamento terminologico nel rapporto fra questi legislatori, come sostiene Lobrano, che giudica la terminologia essere “la prima dogmatica giuridica”. La divisione della materia, che si è manifestata nell’opera istituzionale del legislatore, è stata quella tra Statuto e Legge statutaria. Le caratteristiche essenziali di tale terminologia sono facili da individuare. Il nome e, con il nome, anche il rango e la dignità di “Statuto” sono stati riservati a indicare e a qualificare la legge (costituzionale) dello Stato italiano di ‘disciplina’ (uso qui, in modo interlocutorio, una espressione volutamente anodina) della Autonomia sarda. Corrispondentemente, la legge regionale di determinazione della “forma di governo” della Regione sarda è stata denominata (e, con ciò, declassata, dequalificata) come – mera – “Legge statutaria”. La tesi che io qui formulo e sostengo è che la natura di questa terminologia (e, quindi, della dogmatica che la ha prodotta e che da essa è ‘veicolata’) è – e si è rivelata – giuridicamente anti-costituzionale e politicamente anti-democratica31. Questo tipo di analisi non è sostanzialmente formale, ma individua le scelte di priorità che assicurano allo Statuto dell’autonomia la sua possibilità di sostenere, da un punto di vista scientifico, le caratteristiche essenziali di tale terminologia. Il rango e la dignità di “Statuto” servono per indicare e qualificare la legge (Costituzionale) dello Stato italiano, mentre la legge regionale, per determinare la forma di governo della regione si limita ad una legge ordinaria che si definisce come “Legge statutaria” e quindi negazione del potere autonomistico per definizione: il potere statuente. Se si ripropone la diversità nella dimensione nazionale essa assume il nome di autonomia speciale, che la nostra Costituzione riconosce come valore all'articolo 116 e quindi si sostanzia il nostro Statuto, determinando il rapporto tra la Sardegna e lo Stato che deve essere fondato sul riconoscimento della diversità nella tutela dei diritti fondamentali, cioè la tutela dell'ambiente e il 29 Francesco Pigliaru, Il caso, No al sardo in Rai, Pigliaru: «Discriminazione inaccettabile», “La Nuova – Nuova Sardegna”, Edizione Sassari, 01 agosto 2015. 30 Giovanni Lobrano, Dal punto di vista del Diritto romano: la questione di fondo, anche per la Autonomia e lo Statuto “speciali” della Regione Sardegna, è sapere e volere darsi una “forma di governo” democratico, in “Presente e Futuro” n. 22, Un nuovo Statuto per la Sardegna del XXI secolo, a cura di Mariarosa Cardia, Atti del ciclo di Seminari 1948-2006: 60 anni di Autonomia in Sardegna verso un nuovo Statuto speciale (Cagliari, febbraio – dicembre 2008), Aipsa Edizioni, Cagliari, 2009, p. 146. 31 Ibidem, p. 148. 13 Autonomia speciale della Sardegna: studi per una riforma, Cagliari, 24-25 settembre 2015 rispetto del paesaggio, la tutela integrata delle coste e la continuità territoriale, la difesa della lingua e della cultura, il diritto alla salute e all'istruzione. Questo rende lo Statuto speciale strettamente legato alla dimensione territoriale, percepita dalla comunità come suo fattore primario. La nuova frontiera della specialità della Autonomia sarda sta nella capacità (sapienza giuridica e volontà politica) che avrà – o meno – la Sardegna, di prefigurare al proprio interno e di esportare al proprio esterno una forma di governo “democratica”, adatta all’insularità, come del resto preconizzavano Montesquieu e Rousseau, riferendosi alla vocazione speciale delle Isole, come forma di governo contraddistinta dalla libertà32, che si evidenzia nell’affermazione di Giovanni Lobrano nello svelare l’unità di vedute di Montesquieu e Rousseau, che “convenivano sulla vocazione affatto speciale delle Isole alla forma di governo contrassegnata dalla libertà”33: “Si tratta – finalmente! – di una specialità che non dobbiamo chiedere ad altri ma che dobbiamo dimostrare noi stessi”. Questo concetto, connesso all’esperienza che si è sviluppata nel tempo presso la cattedra di Antropologia culturale dell’Università della Calabria, ha sostenuto non solo l’aspetto simbolico dell’insularità come specialità nel suo divenire base strutturale di un potere negativo, operante nei vincoli delle situazioni di specialità dei popoli nella loro condizione di singolarità, ma anche nella scelta di ricerca, che ha fatto dell’essere isola la condizione privilegiata della ricerca antropologica sul campo, in tutti i settori della cattedra: le ricerca sul campo ha sostenuto gli aspetti di originali manifestazioni del potere negativo, come strumento di manifestazione dal basso della produzione di senso dell’esistenza e della libertà nelle isole, affrontato in circa quarant’anni di itinerari di ricerca sul campo. Questa scelta è supportata dalla convinzione che l’autonomia acquisisce il suo valore di specialità nell’esercizio di tutela del suo costituirsi come un vero e proprio diritto umano per il quale essa non è semplicemente un privilegio, che può essere tolto in base al capriccio o alla decisione di qualcuno, ma è caratteristica intrinseca della propria libertà. 32 Giovanni Lobrano, La questione di fondo per l’Autonomia e lo Statuto “speciale” della Regione Sardegna: sapere e volere darsi una “forma di Governo” democratica, Scritto in onore del collega ed amico, Claude Olivesi, ‘Maître de conférences en Sciences Politiques’ presso la Università di Corsica “Pasquale Paoli”, Sindaco della Commune de San-Nicolao e ‘Conseiller général de Haute-Corse’, deceduto improvvisamente e prematuramente il 7 giugno 2007. (http://www.dirittoestoria.it/7/Contributi/Lobrano-Autonomia-Statuto-Regione-Sardegna.htm ). 33 Ibidem. In nota aggiunge i seguenti riferimenti: Secondo Montesquieu, Esprit des lois, XVIII, 5 “Des peuples des îles”: «Les peuples des îles sont plus portés à la liberté que les peuples du continent». Secondo Rousseau, Contrat social, II, 10: «Il est encore en Europe un pays capable de législation; c'est l'Isle-de-Corse. La valeur et la constance avec laquelle ce brave peuple a su recouvrer et défendre sa liberté, mériteroit bien que quelque homme sage lui apprît à la conserver». 14