PROGRESSI DELLA SCIENZA
CHE STUDIA IL CERVELLO
Aggiornamento 2008
Introduzione di Eve Marder, PhD
La relazione tra arte e cognizione
Saggio di Michael S. Gazzaniga, PhD
La stimolazione cerebrale profonda:
nuovi sviluppi
di Mahlon R. DeLong, MD, e Thomas Wichmann, MD
PROGRESSI DELLA SCIENZA
CHE STUDIA IL CERVELLO
Introduzione di Eve Marder, PhD
La relazione tra arte e cognizione
Saggio di Michael S. Gazzaniga, PhD
La stimolazione cerebrale profonda:
nuovi sviluppi
di Mahlon R. DeLong, MD, e Thomas Wichmann, MD
Aggiornamento 2008
THE EUROPEAN DANA ALLIANCE
FOR THE BRAIN EXECUTIVE COMMITTEE
William Safire, Chairman
Edward F. Rover, President
Colin Blakemore, PhD, ScD, FRS, Vice Chairman
Pierre J. Magistretti, MD, PhD, Vice Chairman
Carlos Belmonte, MD, PhD
Anders Björklund, MD, PhD
Joël Bockaert, PhD
Albert Gjedde, MD, FRSC
Sten Grillner, MD, PhD
Malgorzata Kossut, MSc, PhD
Richard Morris, Dphil, FRSE, FRS
Dominique Poulain, MD, DSc
Wolf Singer, MD, PhD
Piergiorgio Strata, MD, PhD
Eva Syková, MD, PhD, DSc
Executive Committee
Barbara E. Gill, Executive Director
La European Dana Alliance for the Brain (EDAB) riunisce circa 183 tra i più
grandi specialisti delle neuroscienze di 27 paesi, compresi 5 premi Nobel,
che si sono dati come obbiettivo di sensibilizzare il pubblico sull’importanza
della ricerca sul cervello. Fondata nel 1997, questa organizzazione è attiva
a vari livelli dal laboratorio di ricerca fino al pubblico.
Per ulteriori informazioni :
The European Dana Alliance for the Brain
Dr.essa Béatrice Roth, PhD
Centre de Neurosciences Psychiatriques
Site de Cery
1008 Prilly / Lausanne
e-mail: [email protected]
Copertina: Keystone
PROGRESSI DELLA SCIENZA
CHE STUDIA IL CERVELLO
Aggiornamento 2008
La relazione tra arte e cognizione
5
Introduzione
di Eve Marder, PhD
Presidente della Society for Neuroscience
11
La relazione tra arte e cognizione
di Michael S. Gazzaniga, PhD
17
La stimolazione cerebrale profonda: nuovi sviluppi
di Mahlon R. DeLong, MD, e Thomas Wichmann, MD
I progressi della ricerca sul cervello nel 2007
25
Le patologie che appaiono nel corso dell’infanzia
33
I disturbi del movimento
41
Le lesioni del sistema nervoso
49
Neuroetica
57
Le malattie neuroimmunologiche
65
Il dolore
71
I disturbi psichiatrici, del comportamento e le dipendenze
81
I disturbi sensoriali e delle funzioni corporee
89
Cellule staminali e neurogenesi
97
I disturbi del pensiero e della memoria
107
Referenze
117
Immaginate un mondo...
Introduzione
di Eve Marder, PhD
Presidente della Society for Neuroscience
È
in veste di ricercatrice fondamentale
senza preconcetti che affronto senza remore
questo aggiornamento. Esso riassume i recenti
progressi nel campo delle neuroscienze che
sono di primaria importanza per noi e per
le nostre famiglie, per il nostro presente e il
nostro futuro.
Come scienziata ho avuto il privilegio di occuparmi dei problemi fondamentali delle neuroscienze, come ad esempio la regolazione
omeostatica, cioè il mantenimento costante della funzione neuronale nel
corso della vita. In questo contesto ho capito l’utilità che il mio lavoro
poteva avere per i ricercatori che si occupano di problemi clinici come
ad esempio l’epilessia 1, 2. Come figlia ho potuto osservare, con immenso
stupore, mio padre recuperare la salute dopo un trauma cerebrale causato
da un incidente stradale. È incredibile come si sia ricostituito il suo cervello
di 76 anni. Dopo sette anni una persona che lo incontra per la prima volta
non immaginerebbe mai le gravi lesioni che ha subito.
Il suo ristabilimento testimonia la straordinaria abilità del cervello umano di
recuperare, ma evidenzia anche le grandi competenze del chirurgo.
Restano invece misteriosi le ragioni e i meccanismi del suo completo
risanamento. Sapendo quanto sono limitate le nostre conoscenze, non c’è
nulla di più sconcertante per un neuroscienziato che vedere un amico o un
famigliare colpito da trauma o da una malattia del cervello. Tutti i progressi
descritti in questo aggiornamento sono quindi per me un piccolo segno
di speranza.
Come scienziata ricercatrice all’università mi occupo tra l’altro di un corso
sui fondamenti delle neuroscienze di base e delle loro applicazioni sia sulle
questioni cliniche e sia sui problemi quotidiani. Come insegnante trovo
molto soddisfacente il numero di volte in cui dei dettagli apparentemente
5
oscuri studiati dalla ricerca fondamentale preparano il terreno ai progressi
clinici. Mi rallegrano molto anche i numerosi casi in cui lavori perseguiti a
lungo da ricercatori fondamentali concretizzano dei progressi portando un
beneficio reale ai pazienti.
Le neuroscienze possono trovare delle applicazioni agli ambiti più disparati
del nostro quotidiano. Prendiamo un esempio semplice: perché degli individui che crescono in famiglie diverse diventano pittori, musicisti o ballerini? Tutti abbiamo notato una specie di predisposizione che si potrebbe
qualificare come « eredità familiare » in relazione all’arte. È una questione
di geni, di immersione precoce e di esercizio o di entrambi? Si ritiene che
i matematici e i fisici siano dotati per la musica. Esiste veramente una
relazione tra le aree corticali che permettono di formulare dei pensieri
astratti e la musica? Educando i nostri figli all’arte favoriamo lo sviluppo
di altre competenze cognitive? Questi esempi molto concreti sono stati
discussi da un gruppo di persone all’interno del consorzio Arte e Cognizione della Dana.
Ma le neuroscienze cercano anche risposte a numerose malattie, come le
patologie che colpiscono i bambini. L’autismo, il disturbo da deficit di
attenzione e iperattività, il ritardo mentale, ecc., sono tra le malattie neurologiche più strazianti. Sono devastanti anche le patologie neurodegenerative che colpiscono l’adulto, come la corea di Huntington, il morbo di Parkinson e il morbo di Alzheimer. Recenti studi dimostrano l’importanza della
genetica nella comprensione delle cause di alcune di queste malattie.
Decenni di lavoro sui meccanismi genetici di base forniscono ai ricercatori
gli strumenti che permettono di studiare le interazioni tra la moltitudine
di geni che intervengono nelle complesse malattie dell’uomo. Lo stesso
messaggio emerge dai recenti lavori sui tumori cerebrali: lo studio delle vie
cellulari di segnalazione che controllano la crescita e la proliferazione di
numerosi tipi di cancro, compresi i tumori cerebrali, permette di intravedere nuovi trattamenti per i gliomi e per altri tipi di tumori cerebrali.
6
Grazie alla rapidità dell’intervento chirurgico, il cervello di mio padre ha
recuperato. I recenti progressi elencati in questo aggiornamento, realizzati
nell’ambito degli incidenti cerebrovascolari, dimostrano che la rapidità dell’intervento è decisiva per la protezione di un cervello che ha subito sia un
incidente cerebrovascolare sia un attacco ischemico transitorio che apparentemente ha minori conseguenze neurologiche. Gli interventi rapidi realizzati dopo un incidente ischemico transitorio, infatti, riducono il rischio di
Nelle patologie che riguardano l’uomo, può essere particolarmente difficile trasporre le intuizioni e le scoperte realizzate sui modelli animali alla
pratica clinica. Garantire la qualità e il rigore dei test clinici è talvolta difficile. A questo scopo l’International Campaign for Cures of Spinal Cord
Paralysis ha elaborato nuovi criteri di inclusione e di valutazione per i test
clinici di trattamento delle lesioni midollari. L’importanza di questi criteri è
altrettanto rilevante quando si tratta di valutare un qualsiasi trattamento
neurologico o psichiatrico per l’uomo.
Introduzione
ulteriori e più importanti ictus nelle settimane che seguono i primi segnali
di un evento ischemico neurologico.
Nel corso del 2007 c’è stata un’esplosione d’interesse per le domande nate
da una giovane disciplina, la neuroetica, alla quale l’American Journal of
Bioethics consacra tre numeri l’anno. Quattro soggetti hanno sollevato
particolare attenzione: la commercializzazione di dispositivi basati sulle
conoscenze del cervello in grado di identificare se una persona dice la
verità, la stimolazione profonda del cervello nel trattamento della depressione, lo studio genetico della dipendenza e l’imaging cerebrale. In questi
ambiti siamo confrontati con le conseguenze impreviste e spinose dello
sviluppo di tecnologie che in prima analisi erano destinate alla diagnosi e al
trattamento dei disturbi cerebrali. Problemi di questo tipo sorgono contemporaneamente ai notevoli progressi della biologia delle cellule staminali, che forse un giorno ci solleveranno dalle controversie sull’uso delle
cellule staminali embrionali.
Le interazioni tra il sistema immunitario e il sistema nervoso diventano sempre più tangibili. Un’interazione particolarmente evidente si osserva nella
sclerosi multipla. In questa malattia i fattori genetici e ambientali favoriscono l’attacco da parte del sistema immunitario della guaina di mielina
che avvolge le cellule neuronali. Recenti studi hanno dimostrato un legame
tra diversi geni del sistema immunitario e il rischio di sviluppare la sclerosi
multipla. Affascinanti scoperte suggeriscono anche l’importante nesso tra
la vitamina D, l’esposizione al sole (che aumenta la sintesi di questa vitamina), il sistema immunitario e la sclerosi multipla. Il sistema immunitario
sembra svolgere un ruolo anche in certe sindromi di dolori cronici.
I meccanismi che provocano le sindromi di dolori cronici sono spesso
misteriosi, essi possono includere una risposta al dolore inadeguata che si
prolunga oltre l’evento iniziale. Dato che un intenso dolore cronico è molto
7
debilitante, è spesso difficile curarlo con successo. Occorrono quindi
nuove conoscenze sull’organizzazione e sulle funzioni delle vie del dolore,
così come nuovi tipi di trattamento. Sono inoltre necessarie nuove terapie
che possano offrire un’alternativa all’uso prolungato di oppiacei di cui si
conosce l’effetto additivo. Tra i nuovi trattamenti attualmente allo studio, il
più promettente è la neurostimolazione, che consiste nell’impiantare degli
elettrodi nelle vicinanze del midollo spinale o più in periferia. Tale metodo
tende a utilizzare la stimolazione diretta per bloccare i segnali nocicettivi
prima che raggiungano il cervello. In questo aggiornamento, si potranno
leggere anche affascinanti nuovi studi sul modo in cui il cervello produce la
febbre in caso d’infezione 3. Queste nuove scoperte si basano sulle conoscenze dei meccanismi di segnalazione cellulare di base e sono state possibili grazie alla nostra capacità di manipolare geneticamente tali meccanismi
nel modello animale.
Le grandi patologie psichiatriche come la schizofrenia, la depressione, la
dipendenza si manifestano spesso per la prima volta nell’adolescente o nel
giovane adulto, un’età in cui la persona dovrebbe essere pronta a dare il
suo contributo alla società. Le ricerche effettuate nel 2007 annunciano un
cambiamento di paradigma nella comprensione di queste malattie.
Per molto tempo gli scienziati hanno cercato le cause delle patologie
psichiatriche in disfunzioni biochimiche o molecolari, oggi sembra invece
che i disturbi del pensiero e dell’umore potrebbero essere la conseguenza di una connettività difettosa dei circuiti cerebrali, anche se i singoli neuroni funzionano normalmente. Nuove tecniche di imaging e di
manipolazione genetica permettono di affinare la ricerca di geni da cui
dipendono la creazione e il mantenimento dell’architettura dei circuiti
cerebrali atti a resistere ai cambiamenti dell’ambiente. Il cambiamento di
paradigma dovrebbe favorire un supporto all’analisi di nuovi trattamenti
e permettere di comprendere meglio i disturbi cognitivi che sono la conseguenza della perdita di specifici componenti dei circuiti neurali, ad
esempio i neuroni persi nelle patologie neurodegenerative come il morbo
di Alzheimer.
8
Tra le maggiori difficoltà nel trattamento delle patologie psichiatriche
c’è l’estrema eterogeneità della popolazione. Una delle più grandi
speranze per il futuro è disporre di farmaci o altri trattamenti in base alla
costituzione genetica del paziente e che hanno quindi più opportunità di
essere efficaci.
Introduzione
Molti giovani scienziati scelgono le neuroscienze perché attratti dalle
« grandi » questioni: la natura della coscienza, la struttura del pensiero
umano, la capacità dell’uomo di usare il linguaggio, la capacità di apprezzare la musica, l’interesse per i propri simili. Il lavoro svolto nel 2007 ci
avvicina al momento in cui comprenderemo veramente cosa accade in un
cervello composto di circuiti neuronali, durante lo svolgimento di un atto
cognitivo complesso.
Nonostante le straordinarie conoscenze che abbiamo sul cervello sano e
malato, ad ogni passo avanti intuiamo un po’ meglio quel che resta da
capire. Per esempio, tutti abbiamo sperimentato la fatica psichica, eppure
non abbiamo la minima idea del suo correlato biologico. Sappiamo che
ogni cervello è unico, che ciascuno di noi ha ricordi propri e che il modo
con cui ce ne serviamo per interagire con gli altri è senza uguali. Allo stesso
tempo siamo convinti che le regole essenziali secondo le quali il cervello
funziona appartengano non solamente al genere umano ma anche al regno
animale. Concepirsi come individui nel contesto dei meccanismi biochimici, molecolari e genetici condivisi, è la più grande sfida dei prossimi anni
di lavoro.
9
La relazione tra
arte e cognizione
di Michael S. Gazzaniga, PhD
N
el 2004 il consorzio Arte e Cognizione
della Dana ha riunito un gruppo di neuroscienziati cognitivi provenienti da sette università statunitensi, per cercare di comprendere il rapporto tra educazione artistica e
capacità cognitive. In particolare il gruppo ha
cercato di esplorare in quale modo l’educazione artistica sia associata a delle migliori
prestazioni negli studi accademici. Sono le
persone con delle spiccate capacità cognitive
ad essere attratte dalle attività artistiche (musica, danza, teatro) oppure
praticare un’arte fin dalla più giovane età induce dei cambiamenti cerebrali
favorevoli allo sviluppo di altri aspetti importanti della cognizione?
Questo consorzio potrebbe fornire dei risultati che permetterebbero di
comprendere meglio le relazioni esistenti tra l’educazione artistica e
l’apprendimento in altri ambiti cognitivi.
La ricerca offrirà sicuramente anche nuovi elementi che permettono di
valutare le conseguenze della formazione artistica e getterà le basi utili per
successivi studi. Le conclusioni preliminari ottenute in quest’ambito
saranno vantaggiose non solamente per i genitori, gli studenti, gli insegnanti e i neuroscienziati, ma anche per i politici e i responsabili di decisioni
con ricadute istituzionali.
Il rapporto del gruppo di esperti, che può essere scaricato dal sito
www.dana.org., presenta il programma di ricerca dettagliato di ciascuno dei
partecipanti allo studio. Ecco una sintesi delle conclusioni dei neuroscienziati:
1. L’interesse verso le arti sceniche induce un’alta «motivazione» che a
sua volta genera la «concentrazione necessaria» al miglioramento della
prestazione stessa ma anche ad altri ambiti cognitivi.
11
2. Alcuni studi genetici evidenziano l’esistenza di possibili geni che
potrebbero spiegare le differenze individuali nell’interesse per l’arte.
3. Esistono dei nessi tra la formazione musicale ad alto livello e la capacità
di elaborare le informazioni nella memoria a corto e a lungo termine:
queste correlazioni oltrepassano l’ambito musicale.
4. Nel bambino sembra esistere un legame specifico tra la pratica della
musica e le competenze nella rappresentazione geometrica, ma non
nelle altre forme di rappresentazione numerica.
5. Esistono delle correlazioni tra l’educazione musicale e l’acquisizione sia
della lettura, sia dell’apprendimento sequenziale. La conoscenza fonologica, uno degli indicatori centrali dell’acquisizione precoce della
lettura e della scrittura, è correlata con la pratica musicale e con lo
sviluppo di una specifica via cerebrale.
6. Il teatro sembra rinforzare la memoria, il giovane attore sviluppa, infatti,
la capacità generale di manipolare le informazioni semantiche.
7. L’interesse che un adulto prova per l’estetica è in relazione con una
componente di apertura mentale, che a sua volta è influenzata da geni
collegati alla dopamina.
8. Imparare a ballare osservando dei passi di danza è simile all’impararli
eseguendoli fisicamente, sia a livello di risultati sia nell’attivazione dei
substrati neurali che supportano lo svolgimento di azioni complesse.
L’apprendimento attraverso l’osservazione è applicabile anche all’acquisizione di altre competenze cognitive.
Per la prima volta le neuroscienze cercano di capire se un’attività artistica
può modellare il cervello amplificando le competenze cognitive generali.
La questione è di tale portata che, come per alcune patologie organiche,
non mancheranno speculazioni esagerate e affermazioni fantasiose, ma
come spesso accade, se non saranno fondate di sicuro esse si rivolteranno
come un boomerang contro i loro autori.
12
Esiste una difficoltà particolare nelle correlazioni. Proprio la povertà e il
carattere dubbioso di certi studi correlativi hanno motivato la creazione del
consorzio. Non bisogna quindi dimenticare che la «correlazione», sempre
Sebbene gli scienziati debbano ricordare costantemente la necessità di
distinguere tra correlazione e causalità, è importante evidenziare che
nell’ambito delle neuroscienze spesso si parte da una correlazione. Per
esempio spesso si osserva che una specifica attività cerebrale può essere
connessa a un particolare comportamento. Quando si tratta di decidere
quale sarà la ricerca più produttiva però, è importante sapere quanto queste
correlazioni siano forti oppure deboli. Molti degli studi menzionati in questo rapporto contengono delle correlazioni già rilevate in lavori precedenti,
essi pongono quindi le basi per altri studi che fondandosi sulle conoscenze
dei meccanismi biologici e cerebrali che sottendono queste relazioni, permetteranno di spiegarne veramente le cause.
La relazione tra arte e cognizione
interessante da osservare, accompagna, confronta, e completa dei risultati, ma è la comprensione dei meccanismi che fa progredire e cambiare
le cose.
Così come una correlazione può essere stretta o debole, anche il nesso di
casualità può essere forte o debole. Si potrebbe teoricamente ammettere
una causalità generale del tipo « fumare provoca il cancro », con degli studi
prospettici randomizzati che dimostrano che i bambini con un’attività artistica realizzano dei risultati cognitivi migliori degli altri. Per un risultato così
netto, la causalità sarebbe debole, infatti la ricerca non ha ancora scoperto
nemmeno uno dei meccanismi cerebrali dell’apprendimento che permettono di «comprendere» in quale modo ottimizzare l’educazione artistica.
Non si conoscono nemmeno meccanismi generali dell’apprendimento
cerebrale, né gli stadi di sviluppo ai quali il cervello è particolarmente
sensibile a determinate esperienze.
Tra la correlazione stretta e la causalità pura, si estende un vasto e prezioso ambito di ricerca: le questioni basate sulla teoria che utilizzando i
metodi delle neuroscienze cognitive, prevedono delle esperienze che
dimostrano come i cambiamenti cerebrali prodotti da un’attività artistica
arricchiscano la vita e come questo profitto si trasponga agli ambiti che
favoriscono le acquisizioni accademiche. Pur non essendo svolti a livello
cellulare o molecolare, questi studi incrementano in modo significativo le
nostre conoscenze.
Un buon esempio in questo senso è il lavoro del consorzio a proposito
della danza. Le ricerche dimostrano, infatti, che l’allievo ballerino diventa
un eccellente osservatore e che può imparare anche solo guardando. A
13
livello neuronale questo è da attribuire alla notevole sovrapposizione tra le
regioni del cervello che usiamo per osservare e quelle per muoverci. Tali
substrati neuronali condivisi sono più importanti quando si tratta di organizzare un’azione complessa in una serie ordinata di movimenti. In futuro
sarà possibile stabilire se è immaginabile trasferire le competenze di osservazione ad altri ambiti puramente accademici. Tuttavia non è una questione da poco identificare un meccanismo causale in un ambito complesso come quello dei circuiti cerebrali. Gli studi sull’arte e la cognizione
realizzati dal consorzio della Dana nel corso degli ultimi tre anni, hanno
posto delle basi sufficientemente solide per successivi lavori.
Una nuova dimensione sta aprendosi nelle neuroscienze. Scoprire come
la prestazione e l’apprezzamento dell’arte amplifichino le competenze
cognitive, permetterà di imparare meglio, di vivere più serenamente e di
essere più produttivi. Ecco qualche idea per estendere gli studi presentati
in questo rapporto:
1. Studi realizzati in precedenza hanno dimostrato che la musica, le arti
visive, le arti drammatiche e la danza, implicano circuiti neuronali diversi.
Future ricerche dovrebbero esaminare in che misura questi circuiti si
distinguono e in quale si sovrappongono.
2. Sarebbe interessante scoprire per quale ragione i cambiamenti delle reti
neuronali coinvolte in una determinata attività artistica, sono più rapidi
quando la motivazione è elevata e mostrare in quale misura essi influenzano altre forme cognitive.
3. Attraverso recenti tecniche d’imaging è possibile esplorare nel dettaglio
i nessi tra la musica e le arti visive, oltre che certi aspetti della matematica, come la geometria.
4. Il collegamento tra la motivazione intrinseca per una specifica forma
d’arte e l’attenzione continua alle mansioni che sottendono quella
determinata espressione artistica, deve essere esplorato con l’aiuto di
metodi che vertono sul comportamento e con le tecniche di imaging
così da dimostrare che i cambiamenti in certe vie sono più importanti se
la motivazione è alta.
14
5. La ricerca di specifici indicatori dell’interesse e l’influenza dell’educazione artistica, dovrebbe continuare combinando appropriati questionari
Altre questioni potrebbero essere esplorate in futuro:
1. In quale misura è causale il nesso tra l’educazione musicale, la lettura e
l’apprendimento sequenziale? Se è causale, sono modificate le connessioni tra le regioni del cervello implicate?
2. È causale anche il nesso tra la pratica della musica o del teatro e i
metodi di memorizzazione? Se sì, l’imaging cerebrale può evidenziarne
il meccanismo?
La relazione tra arte e cognizione
di ricerca, l’uso di potenziali geni già identificati e le esplorazioni dell’intero genoma.
3. Nelle arti connesse allo spettacolo, qual è il ruolo dell’osservazione e
dell’imitazione? È possibile preparare il sistema motorio a complessi
passi di danza semplicemente osservando e immaginando il movimento
da eseguire? La disciplina e le competenze cognitive necessarie si
trasferiscono anche ad altri ambiti?
Su iniziativa del consorzio, alcuni tra gli eminenti neuroscienziati cognitivi
del mondo hanno analizzato le correlazioni sulle arti e la cognizione e
hanno cominciato ad affrontare la questione della causalità. Le scoperte e i
progressi realizzati in quest’occasione hanno chiarito il seguito da dare al
progetto. Le proposte di analisi appena elencate sono tratte direttamente
dal progetto, il loro scopo è di permettere di approfondire il nuovo ambito
di analisi.
Questo progetto ha permesso d’identificare dei geni potenzialmente implicati nella predisposizione all’arte e di mostrare che il miglioramento delle
capacità cognitive potrebbe estendersi a specifiche competenze intellettive, come il ragionamento geometrico. Si potrebbero identificare delle
vie cerebrali specifiche e osservarne il cambiamento quando una persona esegue un’attività artistica. Talvolta non è il cambiamento a livello
strutturale del cervello, ma piuttosto la variazione di strategia cognitiva
che permette di risolvere un problema. Una formazione musicale precoce
e mirata migliora le competenze cognitive attraverso un meccanismo
non ancora delucidato. Tutte queste sono scoperte importanti e soprattutto avvincenti.
15
La stimolazione cerebrale
profonda: nuovi sviluppi
di Mahlon R. DeLong, MD, e Thomas Wichmann, MD
Introduzione
N
el corso del secolo scorso a causa dell’assenza di trattamenti efficaci che potessero
aiutare i pazienti affetti da forme gravi del
morbo di Parkinson, di tremiti e di altri disturbi motori, i neurochirurghi hanno cercato
di alleviare i sintomi di questi disturbi intervenendo chirurgicamente in diverse aree
cerebrali. Queste pratiche hanno raggiunto
l’apogeo durante gli anni 1950 e 1960. Nello
stesso periodo ci sono stati molti interventi
chirurgici che avevano come obiettivo i disturbi psichiatrici e le anomalie del comportamento. Questi interventi estremi che
potremmo definire di psicochirurgia, sono
stati negli anni ’60 molto ridotti sia in seguito
all’introduzione della levodopa per il trattamento del morbo di Parkinson, sia per le
numerose proteste dell’opinione pubblica
contro gli abusi di queste pratiche.
Potrebbe quindi sorprendere il ritorno ai trattamenti neurochirurgici per i disturbi neurologici e psichiatrici negli ultimi dieci anni. La nuova tendenza è stata
indotta dai grandi progressi della ricerca fondamentale sulla comprensione dell’organizzazione del sistema motorio, ma anche dalla comprensione delle basi neurobiologiche delle affezioni come il morbo di Parkinson. Gli studi sui primati, hanno dimostrato che i disturbi motori di tipo
parkinsoniano sono generati da un’anormale attività in diversi circuiti del
cervello. Con un intervento chirurgico è possibile modulare l’attività in
diversi punti nodali di questi circuiti, alleviando efficacemente i sintomi
della malattia 1.
17
L’approccio chirurgico è favorito da diversi fattori: i farmaci attuali non permettono di trattare con efficacia tutti i sintomi presenti allo stadio avanzato
di numerose affezioni neuropsichiatriche croniche e talvolta generano
effetti collaterali inaccettabili. Gli individui, inoltre, sono più coscienti del
peso che queste malattie rappresentano per i pazienti e le persone che se
ne fanno carico. In ogni caso l’approccio chirurgico per i disturbi psichiatrici così come per altri interventi, si basa sul consenso informato del
paziente che ne garantisce i diritti.
La maggior parte delle misure neurochirurgiche funzionali usate oggi,
hanno come obiettivo un insieme di strutture cerebrali sottocorticali denominate nuclei della base. Queste strutture costituiscono parte di un gruppo
di circuiti cerebrali ben distinto dal punto di vista anatomico che comprende anche la corteccia cerebrale e il talamo. Tali circuiti partecipano ad
alcuni aspetti del comportamento motorio (circuito motorio) delle funzioni
cognitive e comportamentali (circuito associativo) così come delle emozioni e della motivazione (circuito limbico).
I disturbi motori osservati nel morbo di Parkinson sono prodotti da
un’anormale attività dei neuroni del circuito motorio. Una parte dei sintomi
e dei segni di malattie neuropsichiatriche può avere come causa delle
anomalie del sistema limbico o associativo. L’obiettivo degli interventi
chirurgici sarà quindi diverso se una persona soffre di disturbi motori o di
disturbi neuropsichiatrici.
Tra gli approcci chirurgici di nuova generazione, la stimolazione cerebrale
profonda (DBS, dall’inglese «Deep Brain Stimulation») si distingue per la
sua capacità di modificare l’attività di certi circuiti cerebrali. La DBS è stata
sperimentata verso la fine degli anni ’70 per il trattamento dei tremori; poi
con il tempo è stata evidenziata l’enorme efficacia che poteva avere per il
trattamento del morbo di Parkinson e di altri disturbi motori. Contrariamente alle conseguenze dei trattamenti lesivi, la DBS non altera in modo
permanente il cervello, i cambiamenti ottenuti grazie all’applicazione di
una corrente elettrica sono modulabili e reversibili.
18
La DBS consiste nell’impiantare in specifiche regioni cerebrali dei microelettrodi muniti di quattro contatti diversi, diretti da un generatore
d’impulsi programmabile, posto sotto la clavicola come un pacemaker
cardiaco. Il generatore d’impulsi è programmato così da liberare una
stimolazione continua con una frequenza, un’ampiezza e una durata
La stimolazione profonda del cervello offre notevoli benefici ai pazienti che
presentano dei disturbi motori o altre affezioni in stato avanzato, ma non se
ne conosce ancora il funzionamento. In principio gli scienziati ritenevano
che essa imitasse gli effetti degli interventi lesivi, recenti studi realizzati sull’attività cerebrale dell’uomo e dell’animale sembrano tuttavia indicare che
essa modifica le reti cerebrali più lontane ma associate alle regioni da essa
stimolate, attivando gli assoni che entrano o escono da queste aree.
I disturbi motori
L’applicazione più frequente della DBS è lo stadio avanzato del morbo di
Parkinson, una patologia progressiva caratterizzata dalla lentezza dei movimenti, tremito e rigidità muscolare. I sintomi sono secondari alla carenza di
dopamina nei nuclei della base, che limita fortemente l’attività neurale dell’insieme del circuito motorio.
La stimolazione cerebrale profonda: nuovi sviluppi
ottimale nella zona cerebrale determinata. La stimolazione è regolabile e
reversibile, ed è proprio questo uno dei maggiori vantaggi della DBS. La
somministrazione della corrente elettrica è molto precisa e riduce gli effetti
collaterali osservati con i farmaci che esercitano al contrario un effetto
globale sul cervello.
La terapia farmacologica è efficace all’inizio della malattia, mostra però dei
limiti agli stati più avanzati. I farmaci con il tempo provocano dei movimenti involontari (discinesie) e il loro effetto scompare rapidamente. Applicata alla porzione motoria dei due nuclei dei ganglioni della base, il
nucleo sottotalamico e il segmento interno del globo pallido, la DBS elimina
buona parte dei disturbi motori generati dal morbo di Parkinson, oltre
evidentemente agli effetti collaterali dei farmaci 2, 3. Le complicazioni
chirurgiche gravi si limitano all’1-2% dei pazienti e i benefici a lungo
termine sono sostanziali.
Il nucleo sottotalamico e il globo pallido non sono i soli obiettivi della DBS;
sono allo studio anche la stimolazione del nucleo peduncolopontino, che
sembra utile nei casi gravi del morbo di Parkinson con disturbi della locomozione e dell’equilibrio resistenti al trattamento. La DBS è usata con
successo anche nei pazienti che presentano altri disturbi del movimento.
Sono allo studio dei test con la DBS che possono quindi ridare speranza
alle persone poco sensibili ai farmaci per diverse forme di distonia, una
malattia estremamente fluttuante, caratterizzata da movimenti involontari
di torsione e da anomalie della postura 4.
19
I disturbi neuropsichiatrici
Incoraggiati sia dagli eccellenti risultati ottenuti nel morbo di Parkinson e
in altri disturbi motori, sia dall’intuizione che molte patologie neuropsichiatriche frequenti potrebbero essere provocate da un’anormale attività
di alcune reti neurali, prudentemente e per ora solo in modo sperimentale, i neurochirurghi cominciano a esplorare le possibilità della DBS in
altre patologie.
Tra queste i disturbi ossessivo-compulsivi, una patologia caratterizzata
dalla presenza di pensieri intrusivi e comportamenti compulsivi. Il trattamento lesivo in questi casi è sempre stato diretto contro obiettivi empirici,
in particolare la parte anteriore della capsula interna. Uno studio recente
dimostra che la DBS può avere un effetto benefico sia in questa regione 5
sia su una struttura vicina, lo striato ventrale.
La DBS potrebbe essere utile anche per il trattamento della sindrome di
Gilles de la Tourette, nella quale i movimenti bruschi, involontari, stereotipati e le vocalizzazioni (motorie e tic vocali), sono spesso associati a
dei disturbi ossessivo-compulsivi, a dei disturbi di iperattività e deficit di
attenzione, a depressione e difficoltà psicosociali 6. Nella sindrome di Gilles
de la Tourette i sintomi scompaiono all’adolescenza, la DBS è indicata
quindi per i casi gravi, che non migliorano spontaneamente. Facendo
riferimento a degli studi di trattamenti lesivi empirici e considerando l’anatomia dei circuiti limbici, in questi pazienti si è tentato di dirigere la DBS
su differenti obiettivi, tra i quali i nuclei intralaminari e i nuclei mediani
del talamo o verso le porzioni motorie e limbiche del globo pallido. In
certi casi i risultati preliminari evidenziano dei miglioramenti sostanziali
dei sintomi.
20
Sono in corso degli studi che cercano di valutare il potenziale della DBS
anche nei casi gravi di depressione resistenti ai trattamenti abituali.
Secondo un recente studio realizzato con l’imaging, la regione subgenuale
della corteccia cingolare, denominata anche area 25, ha un ruolo chiave
nella depressione. L’applicazione della DBS in questa zona ha migliorato i
sintomi in modo sostanziale 7. La DBS perseguita per sei mesi, ha generato
un miglioramento significativo e sostenuto, quando nessun altro trattamento aveva portato un beneficio. Per confermare questi risultati e fornire
delle informazioni su altri obiettivi, come per esempio lo striato ventrale,
occorrono studi e test rigorosamente controllati su un numero più ampio
di pazienti.
Attualmente la stimolazione profonda del cervello è la tecnica neurochirurgica di prima scelta per i pazienti affetti da invalidanti disturbi motori. La
sua applicazione è allo studio per molte altre gravi patologie neuropsichiatriche. Sebbene le basi neurobiologiche di affezioni come i disturbi ossessivo-compulsivi, la sindrome di Gilles de la Tourette e la depressione siano
meno conosciute rispetto ai disturbi motori, sembra che in queste patologie vi siano, come elementi comuni, delle disfunzioni dei circuiti cerebrali.
In questi casi la DBS può costituire uno strumento efficace per i pazienti i
cui sintomi sono resistenti ad altre forme di trattamento.
La stimolazione cerebrale profonda: nuovi sviluppi
Conclusioni
21
I progressi
della ricerca
sul cervello
nel 2007
Le patologie che appaiono
nel corso dell’infanzia
La genetica dell’autismo
26
Disturbi da deficit di attenzione ed iperattività
27
Progressi nella sindrome di Rett
28
Un enzima importante nella sindrome del
cromosoma X-fragile
31
25
N
el 2007 i ricercatori hanno identificato alcuni degli elementi genetici
responsabili dei disturbi di tipo autistico e dei disturbi da deficit di attenzione e da comportamento dirompente, due tra le più frequenti patologie
dello sviluppo. I ricercatori hanno posto le basi per sviluppare un possibile
trattamento per la sindrome di Rett, una delle malattie più invalidanti tra i
disturbi di tipo autistico. La sindrome di Rett è molto frequente nelle bambine, dato che solo pochi maschietti sopravvivono oltre i due anni. Altre
ricerche hanno permesso di intravedere possibili piste terapeutiche anche
per la sindrome dell’X-fragile, la forma più comune di ritardo mentale
ereditario che predomina nei maschi.
La genetica dell’autismo
Sebbene molti studi realizzati sui gemelli abbiano dimostrato che i disturbi
di tipo autistico possiedono una forte componente ereditaria, non è ancora
stato identificato nessun gene specifico. La maggioranza delle persone
affette da autismo non ha antecedenti famigliari di questa patologia, è
possibile quindi che i fattori di rischio ereditari siano molto complessi. Gli
aspetti genetici di questi disturbi sono stati studiati nel 2007 da un gruppo
diretto da Jonathan Sebat, al Cold Spring Harbor Laboratory.
In un articolo pubblicato nel numero di aprile della rivista Science, Jonathan Sebat e i suoi collaboratori hanno scoperto che una mutazione genetica non presente nel genoma dei due genitori potrebbe rappresentare un
rischio di autismo maggiore di quel che si presupponeva 1.
La particolare mutazione è denominata variazione del numero delle copie
e comporta la delezione di minuscoli segmenti di geni.
Il gruppo di Jonathan Sebat ha ricercato delle variazioni del numero di
copie in 264 famiglie, di cui 118 avevano un solo bambino autistico,
47 famiglie ne avevano vari. 99 famiglie senza figli affetti da autismo sono
state scelte come campione testimone.
26
I ricercatori hanno osservato che tra i bambini affetti da disturbi di tipo
autistico che non avevano dei fratelli autistici, il 10% presentava la delezione di segmenti di geni, rispetto al 2,6% tra i bambini affetti da questi
disturbi con fratelli con la stessa malattia e l’1% nei soggetti testimone.
Le delezioni sono state osservate in numerosi siti del genoma. Questi risultati convalidano l’ipotesi secondo la quale i geni dell’autismo sarebbero
Il fatto che i geni implicati nell’autismo siano parecchi potrebbe insegnarci
qualcosa di fondamentale a proposito di questa malattia, per esempio che
le sue caratteristiche comuni (il ripiegamento su se stessi, le enormi difficoltà di comunicazione, i comportamenti e gli interessi ristretti) non devono
i loro tratti comuni agli stessi geni, ma alla medesima via biologica che
implica un importante insieme di geni diversi.
Tali risultati hanno un’implicazione clinica. Ricercando sistematicamente
nei bambini affetti da disturbi di tipo autistico delle mutazioni genetiche
spontanee, i clinici potrebbero riuscire a informare i genitori sul rischio che
essi corrono di avere un secondo figlio affetto da autismo, pericolo che
apparentemente è minore, quando le mutazioni sono spontanee.
Disturbi da deficit di attenzione ed iperattività
I disturbi da deficit di attenzione ed iperattività (Attention Deficit Hyperactivity Disorder, ADHD) sono molto frequenti, colpiscono da 3 a 7% dei
bambini, hanno un’importante componente ereditaria e tendono ad avere
un impatto minore quando il bambino cresce.
Le patologie che appaiono nel corso dell’infanzia
numerosi e spiega in parte l’incoerenza dei dati forniti da precedenti
studi genetici.
In uno studio pubblicato in agosto in Archives of General Psychiatry, Philip
Shaw e i suoi colleghi del National Institute of Mental Health hanno analizzato gli effetti di uno dei più importanti tra i fattori di rischio genetici
noti in questa malattia 2. Si tratta del gene che codifica per il recettore D4
della dopamina, una forma relativamente rara, che contrariamente agli
altri recettori dopaminergici possiede una variante allelica 7-repeat in una
parte del gene denominata assone 3. Questa variante genetica è responsabile del 30% circa dei casi di ADHD, tale gene è quindi il candidato
più importante.
I ricercatori hanno raccolto dei campioni di DNA, dei dati clinici e delle
immagini del cervello ottenute attraverso la risonanza magnetica di 105 bambini affetti da ADHD e di 103 bambini sani. L’analisi di questi dati dimostra
che le prospettive cliniche sono migliori e l’intelligenza è più elevata nei
bambini affetti da ADHD con il gene 7-repeat rispetto ai bambini che ne
sono privi. I risultati sono molto specifici, nessun nesso di questo genere, né
con i dati clinici né con un particolare sviluppo corticale, è mai stato
mostrato per i due altri fattori di rischio genetici conosciuti nel ADHD.
27
8
9
10
11
12
13
14
15
16
T statistic
–2
–5
I bambini affetti da disturbo da deficit di attenzione ed iperattività hanno una corteccia
cerebrale più sottile dei bambini non colpiti da questa malattia. Le immagini cerebrali
(il numero indica l’età del bambino) dimostrano però che nel 30% dei casi in cui il ADHD
è associato ad una determinata variante genetica rara, la differenza di spessore scompare verso i 16 anni.
I ricercatori hanno costatato inoltre che i bambini con la variante genetica
7-repeat, hanno un’evoluzione particolare dello sviluppo corticale: in certe
aree che intervengono nel controllo dell’attenzione la corteccia all’inizio è
sottile, poi s’ispessisce e verso i 16 anni la crescita raggiunge quella dei
bambini che non sono affetti da questo disturbo.
Lo stesso gruppo di ricercatori, in uno studio precedente ha rilevato che
questo tipo di sviluppo corticale lascia presagire un’evoluzione clinica più
favorevole nei bambini che presentavano un ADHD. Stabilendo un nesso
tra la genetica, la clinica e lo sviluppo corticale, lo studio del 2007 mantiene
viva la speranza che con il tempo la crescita delle conoscenze genetiche
potrà apportare un beneficio clinico diretto.
Progressi nella sindrome di Rett
28
Provocata dalle mutazioni del gene MeCP2 (methyl-CpG-binding protein 2), la sindrome di Rett colpisce principalmente le bambine. Questa
patologia appare molto precocemente, provoca la scomparsa dell’uso del
linguaggio e delle mani, progressivamente scompaiono i movimenti
coordinati. Sono frequenti anche i disturbi respiratori e un tremore di
tipo parkinsoniano.
Le patologie che appaiono nel corso dell’infanzia
Adrian Bird e i suoi colleghi
del Wellcome Trust Centre
for Cell Biology in Scozia,
studiano la proteina denominata MeCP2 nel modello
del topo della sindrome di
Rett. Essi hanno scoperto
che ristabilendo la produzione della proteina MeCP2
è possibile fare scomparire i
sintomi della malattia.
Le bambine che soffrono della sindrome di Rett hanno un gene MeCP2 normale e un gene MeCP2 mutato. I topi femmina che presentano un gene
silenziato sul cromosoma X offrono un ottimo modello genetico per lo studio
della malattia. In questi topi tra i 4 e i 12 mesi appaiono dei tremori e delle
difficoltà della mobilità e della marcia che ricordano i sintomi della sindrome
di Rett che persistono per una durata di vita apparentemente normale.
I prolungamenti neuronali sono meno numerosi del normale, non si trovano segni di morte cellulare né nei topi né nei pazienti portatori della
malattia (mentre i segni di morte cellulare sono presenti nelle patologie
neurodegenerative come il morbo di Parkinson, la corea di Huntington e il
morbo di Alzheimer). Dato che i neuroni malati restano in vita, i ricercatori
del Wellcome Trust Centre for Cell Biology dell’Università di Edimburgo in
Scozia, hanno ipotizzato che per ristabilire la funzione nervosa e «guarire»
i topi sarebbe sufficiente ristabilire la normalità della proteina MeCP2.
Adrian Bird e il suo gruppo, in uno studio pubblicato sul numero di
febbraio di Science, hanno testato quest’ipotesi introducendo nel gene
29
L’espressione di CrH è aumentata nel topo MeCP2308
Controllo
MeCP2308
Ipotalamo
paraventricolare
Livello di espressione
di CrH
alto
basso
La mutazione della proteina MeCP2 provoca la sindrome di Rett. I topi con questa mutazione mostrano nell’ipotalamo elevati livelli dell’ormone dello stress, denominato
ormone di liberazione della corticotropina (CrH). L’aumento di quest’ormone nell’ipotalamo genera lo stress e l’ansia, caratteristici della sindrome di Rett.
MeCP2 dei topi una «cassetta stop» che impedisce la sintesi della proteina
MeCP2 3. Il gene silenziato, poteva essere riattivato con iniezioni di tamoxifen, una sostanza che attiva una sequenza di eventi molecolari che a loro
volta provocano la delezione della cassetta stop e quindi la riattivazione del
gene MeCP2 con conseguente sintesi della proteina.
Prima di somministrare il tamoxifen ai topi, i ricercatori hanno aspettato che
i sintomi della malattia fossero conclamati. La riparazione del gene MeCP2
e la conseguente ripresa della proteina MeCP2 hanno fatto scomparire
completamente il tremito e hanno normalizzato la respirazione, la mobilità
e la marcia anche quando i topi si trovavano a qualche giorno dalla morte.
Questo spettacolare risultato è stato accompagnato da un recupero delle
funzioni elettrofisiologiche. I ricercatori hanno misurato anche la risposta
delle cellule nervose a diversi stimoli.
30
Gli autori hanno somministrato il tamoxifen anche a dei topi maschi che
avevano sviluppato i sintomi della malattia. La maggior parte dei sintomi è
scomparsa anche in questi casi; dopo il ristabilimento del gene MeCP2 la
sopravvivenza ha riacquisito una durata apparentemente normale.
Un enzima importante nella sindrome del cromosoma X-fragile
Un gruppo diretto dal premio Nobel Susumu Tonegawa, ricercatore al
Massachusetts Institute of Technology, ha ottenuto dei risultati incoraggianti nello studio della sindrome del cromosoma X-fragile, la forma ereditaria di ritardo mentale più frequente che predomina nei maschi. Questo
lavoro è stato pubblicato nel numero di luglio di Proceedings of the
National Academy of Sciences 4.
La ricerca è stata realizzata sul modello murino della sindrome del cromosoma X-fragile. I topi presentano sintomi simili a quelli osservati nell’uomo:
iperattività, movimenti stereotipati, deficit di attenzione, difficoltà dell’apprendimento e della memoria.
Anche le anomalie strutturali mostrate dai topi erano simili a quelle osservate nell’uomo. I neuroni cerebrali hanno un alto numero di spine dendritiche che però sono più lunghe e più sottili del normale. La trasmissione
dei segnali elettrici è quindi più debole rispetto all’animale sano. Le spine
dendritiche sono delle piccole protrusioni sui dendriti del neurone, esse
ricevono dei segnali chimici dagli altri neuroni che trasmettono al corpo
della cellula.
Le patologie che appaiono nel corso dell’infanzia
Secondo questi risultati, i sintomi della sindrome di Rett sono potenzialmente reversibili; questa potrebbe essere un’ipotesi da sviluppare anche
per studi sulle patologie dello spettro autistico.
I ricercatori hanno ipotizzato che l’inibizione di un enzima del cervello,
l’enzima PAK (p21-activated kinase), potrebbe contrastare questi cambiamenti strutturali annullando i sintomi invalidanti della sindrome del cromosoma X-fragile. Infatti, questo enzima influisce sul numero, la dimensione e
sulla forma delle interconnessioni neurali del cervello.
Nello studio in questione i ricercatori dopo avere inibito l’enzima hanno
costatato la scomparsa delle anomalie strutturali delle interconnessioni
neurali, il ristabilimento della comunicazione elettrica tra i neuroni dei topi
e la scomparsa delle anomalie comportamentali.
Dato che il gene che inibisce l’enzima PAK è espresso soltanto dopo la
nascita, delle molecole capaci di inibirlo potrebbero in futuro essere utilizzate per prevenire o rendere reversibile il ritardo mentale che colpisce i
bambini affetti dalla sindrome del cromosoma X-fragile.
31
I disturbi
del movimento
La corea di Huntington
34
Il morbo di Parkinson
37
33
N
el 2007 la ricerca realizzata sulla corea di Huntington e il morbo di
Parkinson ha permesso di chiarire alcuni degli aspetti genetici e molecolari,
ma ne ha rivelato anche l’incredibile complessità e ha obbligato i ricercatori
a ridimensionare le speranze riposte nei progressi terapeutici. I ricercatori
ritengono che sarà possibile comprendere meglio queste due malattie,
quando si avrà un’idea più precisa dei meccanismi molecolari delle cellule cerebrali.
La corea di Huntington
La mutazione genetica che provoca la corea di Huntington è presente
alla nascita, i sintomi appaiono tuttavia attorno ai 40 anni. Questo
lungo intervallo sconcerta gli scienziati che cercano di comprenderne
le ragioni.
In una delle pubblicazioni più importanti del 2007 sulla corea di Huntington, Cynthia T. McMurray e i suoi colleghi della Mayo Clinic e di altri
istituti, hanno attribuito lo sviluppo della malattia al normale fenomeno
dell’ossidazione e seguente riparazione del DNA, che svolge un importante e conosciuto ruolo chiave nel processo dell’invecchiamento.
Nel corso della vita gli atomi di ossigeno attaccano i nucleotidi che costituiscono i filamenti di DNA presenti in ogni cellula. Degli enzimi cellulari
tagliano i frammenti ossidati e riparano il DNA. In un articolo pubblicato in
Nature, Cynthia T. McMurray dimostra che nelle persone con la mutazione
genetica responsabile della corea di Huntington si osserva un aumento
di ripetizioni di una sequenza costituita da tre basi – citosina, adenina,
guanina (CAG) – normalmente presenti alla nascita sul cromosoma 4 1.
Questa sequenza contiene le istruzioni necessarie alla sintesi della proteina
huntingtina, cruciale per il trasporto dei neurotrasmettitori dal corpo della
cellula lungo l’assone fino alla sinapsi, il luogo di comunicazione tra le
differenti cellule.
34
Il numero normale di ripetizioni della sequenza CAG sul cromosoma 4
va da 10 a 35. Quando le ripetizioni raggiungono o oltrepassano le 40,
appaiono i sintomi della malattia; più il numero è elevato più questi sintomi
appaiono precocemente. Per esempio un bambino con 95 ripetizioni, ha
sviluppato delle crisi, un indebolimento della facoltà cognitive e dei
disturbi neuromuscolari dall’età di tre anni ed è deceduto a causa della
corea di Huntington a 11 anni.
I disturbi del movimento
Le immagini ottenute
attraverso gli scan
cerebrali mostrano le
notevoli differenze tra
un individuo in buona
salute (a sinistra) e una
persona affetta dalla
corea di Huntington.
Il normale processo di riparazione del DNA aumenta il numero delle CAG,
afferma Cynthia McMurray, che attribuisce questo fenomeno a un enzima
denominato OGG1, grazie al quale i neuroni producono una forma di proteina huntingtina tossica, che contiene delle quantità eccessive di glutammina, un aminoacido che svolge un ruolo chiave nel metabolismo cellulare.
A causa dell’eccesso di glutammina, la proteina huntingtina diventa appiccicosa e si agglutina accumulandosi nel nucleo, ne conseguono diverse
disfunzioni cellulari responsabili dei sintomi coreici.
Questa osservazione coincide con la relazione lineare tra il numero di
ripetizioni della sequenza CAG e l’età di esordio della malattia. L’esordio è
precoce quando le ripetizioni sono numerose, se il loro numero è basso i
sintomi appaiono solo quando il normale meccanismo di riparazione del
DNA porta il numero di queste ripetizioni a un livello più tossico.
Nei topi che non possiedono l’enzima OGG1 si osserva una soppressione
importante dell’amplificazione CAG senza conseguenze cliniche; l’ipotesi
è che in queste condizioni la riparazione del DNA sia realizzata da enzimi
di «soccorso». L’enzima OGG1 potrebbe quindi amplificare la CAG,
bloccando questa molecola si potrebbe ritardare o prevenire i danni generati dalla corea di Huntington.
Con un approccio diverso, i ricercatori di Cambridge e Harvard, hanno
cercato di mitigare gli effetti tossici della proteina huntingtina mutata, inducendo le cellule a sbarazzarsi in modo più efficace dei resti tossici.
In un articolo pubblicato in Nature Chemical Biology, Stuart L. Schreiber,
David C. Rubinsztein e i loro collaboratori, affermano che somministrando
35
delle molecole denominate «small-molecule enhancers» al lievito, si
stimola il processo di autofagia attraverso il quale le cellule eliminano le
proteine alterate e mal ripiegate come la proteina huntingtina mutante 2.
I ricercatori ritengono che stimolando l’autofagia nelle persone che
soffrono della corea di Huntington, anche se non si rallenta o arresta la
produzione di proteina huntingtina, le cellule eliminano meglio i resti
tossici in eccesso, ritardando l’apparizione dei sintomi.
La proteina huntingtina mutante sembra generare anche molti altri problemi, studiati attualmente da Elena Cattaneo e il suo gruppo dell’Università di Milano.
La proteina huntingtina normale induce la produzione di BDNF, (brainderived neurotrophic factor), una proteina che protegge i neuroni e stimola la crescita delle sinapsi e di nuovi neuroni. Nella corea di Huntington,
i neuroni dello striato muoiono, provocando uno stato di spasticità e molti
altri sintomi. Elena Cattaneo e il suo gruppo nel 2001 hanno dimostrato
che le persone affette dalla corea di Huntington hanno dei tassi di BDNF
inferiori ai soggetti sani 3.
I topi con il modello della corea di Huntington mostrano una
carenza di colesterolo, i ricercatori attribuiscono questa mancanza
alla proteina huntingtina mutante che si trova nelle persone
affette dalla malattia.
Nel 2007, i ricercatori hanno attribuito questo fenomeno a un sito genetico
di regolazione che controlla il BDNF nelle persone affette dalla corea di
Huntington 4. Il sito si trova in una regione che contiene oltre mille geni;
questo può significare che anche altri geni neurali potrebbero non funzionare in modo corretto in questa malattia. Elena Cattaneo e il suo gruppo
cercano ora delle molecole che, mimando l’attività della proteina huntingtina normale, rinforzino l’espressione del BDNF e dei geni a lui simili. Fino
ad ora, i ricercatori hanno identificato tre sostanze che aumentano la
produzione di BDNF nelle cellule lese dalla corea di Huntington 5.
36
Il BDNF sembra regolare lo sviluppo delle sinapsi aumentando il livello di
colesterolo nelle vescicole sinaptiche 6. Nel 2005 Elena Cattaneo e i suoi
colleghi hanno constatato che le cellule e i tessuti delle persone affette
dalla corea di Huntington non avevano un tasso di colesterolo sufficiente
e che aggiungendo questa molecola ai neuroni dello striato lesi dalla malattia, era possibile prevenirne la morte 7. In uno studio del 2007 pubblicato
I ricercatori ritengono che la segnalazione BDNF colpisce direttamente la
biosintesi del colesterolo, ipotesi che associa due forme di disfunzione
apparentemente distinte.
I disturbi del movimento
in Human Molecular Genetics, Cattaneo e i suoi colleghi sostengono di
avere scoperto la carenza di colesterolo in modelli della corea di Huntington nel topo. A loro parere, sarebbe proprio questa la conseguenza della
proteina huntingtina mutante presente nelle persone affette dalla corea
di Huntington 8.
Un trattamento curativo della corea di Huntington dovrebbe essere una
forma di terapia genica che permette di regolare il problema della ripetizione del DNA da cui risulta la proteina huntingtina mutante. Un recente
studio ha rivelato che una piccola molecola chiamata C2-8 inibisce
nelle cellule l’aggregazione della proteina huntingtina mutante; questo
potrebbe rallentare lo sviluppo dei sintomi 9.
Il morbo di Parkinson
Nel 2007 i ricercatori hanno creato due nuovi metodi di trattamento per il
morbo di Parkinson, rilanciando in questo modo la speranza di attenuare i
sintomi come il tremito e la rigidità muscolare.
Un gruppo di ricercatori della Northwestern University ha affermato in
Nature di essere riuscito a «ringiovanire» i neuroni dopaminergici di
una regione del cervello, la parte compatta della sostanza nigra. Nel
morbo di Parkinson, i neuroni di questa regione muoiono e nel cervello
non resta sufficiente dopamina per garantire il corretto svolgimento
dei movimenti 10.
Per assicurare il metabolismo normale, queste cellule solitamente usano i
canali al calcio. James Surmeier e il suo gruppo hanno costatato che i topi
nei quali questi canali erano soppressi, funzionavano normalmente dato
che i neuroni dopaminergici continuavano a servirsi dei canali al sodio normalmente attivi solo durante la giovinezza.
I ricercatori hanno utilizzato l’isradipina, un inibitore dei canali al calcio nei
neuroni prelevati da topi normali. I neuroni hanno smesso di funzionare
per trenta minuti, poi hanno ripreso la loro attività di pacemaker riattivando
i canali al sodio, normalmente attivi solo nei topi giovani. Quando i ricercatori hanno impiantato dei granuli di isradipina sotto la pelle di topi portatori
37
di un tipo sperimentale di morbo di Parkinson, gli animali non hanno
sviluppato i deficit motori caratteristici di questa malattia.
Il fatto che l’isradipina appartenga a una classe di farmaci usati per l’ipertensione arteriosa propende in favore di una sua possibile utilità. Uno studio retrospettivo sembra, infatti, indicare che il morbo di Parkinson sia
meno frequente nelle persone la cui ipertensione è curata con delle molecole di questa categoria 11.
La disfunzione dei mitocondri, gli organelli situati all’interno delle cellule
che forniscono l’energia necessaria alle loro attività, potrebbe essere
responsabile della distruzione dei neuroni dopaminergici. Dei ricercatori
della Stanford University hanno dimostrato che una mutazione del gene
pink1 era correlata con un’incidenza maggiore del morbo di Parkinson 12.
Gli scienziati hanno trasposto questa mutazione a dei moscerini della
frutta, costatando in questi insetti una degenerazione dei muscoli alari e
dei loro neuroni dopaminergici.
La degenerazione dei muscoli delle ali era preceduta da anomalie mitocondriali. Si ipotizza una disfunzione dei mitocondri nel morbo di Parkinson
affermano i ricercatori, poiché anche i pesticidi – delle sostanze che possono
aumentare il rischio di contrarre la malattia – inibiscono l’attività dei mitocondri. Tuttavia i moscerini indotti a sovraesprimere la parkina, una proteina
implicata nell’eliminazione delle proteine mal ripiegate, non hanno sviluppato i sintomi muscolari. Questo fatto lascia supporre che la proteina pink1
e la parkina agiscano attraverso una via comune che regola nel moscerino
della frutta la funzione mitocondriale e la sopravvivenza cellulare.
Nell’ambito del trattamento, la ricerca nel 2007 ha dato segni di speranza
per la terapia genica. Nel primo studio sulla terapia genica applicata al
morbo di Parkinson, essa ha migliorato in modo significativo lo stato clinico
senza generare gravi effetti collaterali 13. Dei ricercatori del New YorkPresbyterian Hospital/Weill Cornell Medical Center hanno impiantato a
12 pazienti, un virus inoffensivo che trasporta un gene che codifica per un
enzima denominato decarbossilasi dell’acido glutammico (GAD). Questo
enzima produce il GABA, un neurotrasmettitore che reprime le scariche
neurali eccessive e favorisce la coordinazione motoria.
38
Il virus inoffensivo che trasporta la GAD, è stato impiantato nel nucleo sottotalamico, una struttura situata al centro del cervello che regola l’attività
I disturbi del movimento
Yu-Hung Kuo, a sinistra, osserva Michael Kaplitt del New York-Presbyterian Hospital/
Weill Cornell Medical Center, che si prepara a iniettare un enzima nella speranza di
migliorare i disturbi del movimento nei pazienti affetti dalla malattia di Parkinson.
motoria, con l’obiettivo di accrescere la produzione di GABA e ristabilire la
funzione motoria normale, spiega il ricercatore principale Michael Kaplitt,
autore nel 2003 della prima terapia genica al mondo praticata a una persona affetta dal morbo di Parkinson.
Per minimizzare i rischi, il virus è stato impiantato da una parte sola del
cervello. Dato che i sintomi della malattia colpiscono in modo uguale le
due parti del corpo, questa tecnica ha permesso di identificare e misurare i
miglioramenti. Tre mesi dopo l’interevento, gli autori hanno notato nel
gruppo di persone trattate, un miglioramento dei movimenti del 25-30%
sulla Unified Parkinson’s Disease Rating Scale, con punte fino a 40-65% per
alcuni pazienti.
I risultati così spettacolari rendono questo trattamento un compagno
degno della stimolazione cerebrale profonda, già largamente utilizzata
per il controllo dei disturbi della locomozione e dei movimenti del morbo
di Parkinson nei pazienti che non tollerano il trattamento farmacologico
(vedi anche il capitolo di Neuroetica, pagina 51).
Nei pazienti affetti dal morbo di Parkison, per ora la stimolazione profonda
del cervello resta il metodo più promettente. Essa consiste nell’impiantare
39
in una regione profonda del cervello chiamata nucleo sottotalamico, degli
elettrodi attraverso i quali si modifica la comunicazione tra i neuroni e fra i
circuiti del cervello. La stimolazione cerebrale profonda, blocca i segnali
incontrollati responsabili dei sintomi motori della malattia, in particolare
il tremito.
Nel 2007 dei ricercatori italiani, hanno affinato l’uso della stimolazione
cerebrale profonda collocando per la prima volta degli elettrodi nel nucleo
peduncolo pontino, un’area che svolge un ruolo importante nella locomozione 14. Sei pazienti affetti dalla malattia di Parkinson che non avevano
risposto ai farmaci, hanno reagito senza rischi a una stimolazione di 25 Hz
nel nucleo peduncolo pontino e di 185 Hz nel nucleo sottotalamico. Il
miglioramento generale è stato di oltre 60% sulla scala di valutazione, ben
oltre i risultati ottenuti solo con la stimolazione del cervello o con i farmaci.
Oggi la stimolazione profonda del cervello è un trattamento approvato per
il morbo di Parkinson nei pazienti che non rispondono alla levodopa o in
quelli il cui uso a lungo termine induce invalidanti effetti collaterali.
Gli scienziati continuano a studiare eventuali localizzazioni degli elettrodi
per alleviare i sintomi. Secondo uno studio recente, la stimolazione profonda del cervello potrebbe avere un effetto neuroprotettore sui neuroni
dopaminergici della sostanza nigra che degenera nella malattia 15.
40
Le lesioni
del sistema nervoso
Agire rapidamente dopo un ictus
42
Colpire i tumori cerebrali con una precisione molecolare
44
Traumi midollari: preparare il terreno per i test clinici
47
41
L
e lesioni del sistema nervoso centrale includono diverse affezioni che
colpiscono il cervello e il midollo spinale: l’ictus, i traumi midollari e i
tumori al cervello. Nel 2007 i ricercatori hanno ribadito la necessità di
agire rapidamente dopo un ictus, hanno sperimentato nuovi approcci
per curare i tumori cerebrali e hanno proposto nuove opzioni per perfezionare i test clinici applicati ai traumi midollari.
Agire rapidamente dopo un ictus
La rapidità dell’ospedalizzazione e la qualità della presa a carico ospedaliera restano in primo piano nella ricerca clinica sull’ictus. I nuovi dati
europei estendono l’obbligo d’urgenza di cure mediche anche per le
persone che presentano dei sintomi neurologici transitori.
Nel mese di maggio l’American Heart Association e l’American Stroke
Association hanno aggiornato le loro linee guida per le cure acute dell’ictus, riaffermando il primato dell’attivatore tessutale del plasimonogeno (tPA). Questo farmaco deve essere somministrato nelle tre
ore che seguono l’inizio dell’episodio acuto per dissolvere i coaguli di
sangue e in questo modo minimizzare i danni cerebrali 1. Un ictus ischemico è, infatti, causato da un’ossigenazione cerebrale insufficiente
generata dall’occlusione di un’arteria cerebrale che riduce drasticamente il flusso di sangue al cervello. Le linee guida raccomandano ai
servizi di primo intervento degli ospedali e ai servizi di urgenza di essere
meglio preparati per intervenire con urgenza. I nuovi dati forniti dai
Centri americani di Controllo e di Prevenzione delle Malattie dimostrano, in effetti, che meno della metà dei pazienti vittime di un ictus
arrivano all’ospedale nelle due ore che seguono l’apparizione dei sintomi neurologici 2.
42
Un ictus si manifesta con sintomi come anomalie della vista, difficoltà dell’eloquio, disturbo della sensibilità o paralisi di una parte del corpo.
Alcune delle conseguenze cerebrali dell’ischemia sono temporanee e
non lasciano segni clinici evidenti, questi casi si definiscono incidenti
ischemici transitori. L’imaging cerebrale evidenzia in molti di questi
pazienti danni che evocano delle lesioni subcliniche. Quando la causa di
un’ischemia cerebrale è presente (nel caso di un attacco ischemico transitorio o un evento ischemico minore) se non è adeguatamente curata, ci
sono molte probabilità che persista, rendendo l’attacco transitorio o
minore un fattore di rischio per un ictus.
Nel primo studio, pubblicato sulla rivista Lancet, il neurologo Peter
Rothwell e i suoi collaboratori dell’Università di Oxford, Inghilterra, hanno
costatato nei pazienti posti sotto trattamento preventivo nelle 24 ore che
seguono un attacco ischemico transitorio, un’elevata riduzione del rischio
di subire un ictus grave nel corso dei seguenti tre mesi, rispetto ai pazienti
che non hanno immediatamente beneficiato di un tale trattamento 3. In
cifre, il rischio di recidiva è passato dal 10 al 2%, una riduzione dell’80%,
che secondo gli autori significa una diminuzione di 10 000 ictus l’anno solo
nel Regno Unito. Lo studio ha esaminato 600 pazienti, che provenivano da
uno studio più ampio con circa 100 000 persone, realizzato a Oxford a
proposito dell’incidenza dell’ictus e degli incidenti ischemici transitori.
Le lesioni del sistema nervoso
L’obiettivo della terapia realizzata dopo un incidente ischemico transitorio
è quello di prevenire l’ictus nelle settimane o nei mesi che seguono. In questo ambito sono stati ben documentati l’effetto preventivo della riduzione
della tensione arteriosa e della colesterolemia. Due studi pubblicati in ottobre sottolineano l’importanza di intervenire immediatamente sui fattori di
rischio dopo un incidente ischemico transitorio.
Il secondo studio, pubblicato nella rivista Lancet Neurology, da Pierre
Amarenco, neurologo specializzato in ICV presso l’Ospedale Universitario
Bichat-Claude Bernard a Parigi, rileva i benefici di un intervento rapido
per prevenire l’ictus 4. Gli autori hanno valutato 1085 pazienti con sospetto
di attacco ischemico transitorio ricoverati in ospedale in un servizio specializzato aperto 24 ore su 24. La valutazione d’urgenza includeva l’imaging
del cervello, dei vasi sanguigni e del cuore. Ai pazienti con sospetto o
diagnosi accertata di attacco ischemico transitorio, sono stati somministrati
immediatamente dei farmaci che hanno ridotto la pressione arteriosa e il
tasso di colesterolo oltre che aspirina, per evitare la formazione di coaguli
di sangue.
Circa 5% dei pazienti hanno subito un intervento per disostruire la carotide, l’arteria principale del collo che porta il sangue ossigenato al cervello.
L’intervento è stato realizzato in modalità aperta (endarterectomia carotidea) o trasvascolare, con la posa di uno stent che mantiene aperta l’arteria
(terapia endovascolare). Al 5% dei pazienti che presentavano dei disturbi
del ritmo cardiaco (fibrillazione auricolare) sono stati somministrati farmaci
anticoagulanti per ridurre il rischio di formazione di coaguli di sangue nel
cuore, che raggiungendo il cervello attraverso il flusso sanguigno possono
provocare un ictus.
43
Nei pazienti trattati immediatamente, il tasso di ictus registrato nei 90 giorni
che seguono l’attacco ischemico transitorio è stato leggermente superiore
all’1%, gli studi realizzati in precedenza indicavano un tasso vicino al 6%.
Associate ai risultati pubblicati sul Lancet, queste conclusioni hanno indotto
gli esperti di tutto il mondo a richiedere per i pazienti vittime dell’ictus transitorio, delle nuove linee guida terapeutiche che pongono l’accento sulla
rapidità della valutazione e della somministrazione del trattamento.
Colpire i tumori cerebrali con una precisione molecolare
I tumori del cervello continuano a sfuggire ai trattamenti antitumorali e le
aspettative in questo ambito, così come nella ricerca sul cancro in generale,
vertono nello sviluppo di terapie molecolari mirate. Dato che si tratta di
forme gravi di tumore, sembra scontata l’idea che un solo trattamento non
possa essere sufficiente, da cui l’attenzione agli approcci combinati che
aggiungono nuove opzioni terapeutiche alle misure classiche come la
radioterapia e la chemioterapia.
Molti ricercatori ritengono che queste terapie multimodali siano promettenti in caso di glioma maligno, un tumore raro ma con mortalità elevata;
una volta posta la diagnosi la sopravvivenza è breve. Il glioblastoma multiforme, una tra le forme più aggressive di questo gruppo di tumori, è di
particolarmente difficile trattamento.
La ricerca clinica condotta in questo ambito è basata sulla conoscenza della
patogenesi dello sviluppo del tumore a livello molecolare, acquisita man
mano che gli scienziati scoprono i fattori e le vie di segnalazione che regolano la crescita e la disseminazione dei tumori. La diversità delle neoformazioni esclude però l’idea di un unico trattamento universale. Tuttavia certi
elementi delle vie usate sembrano presentare tratti comuni. Proprio su
quest’ultimo elemento verte il lavoro dei ricercatori.
44
Una pista promettente usata anche per altre forme di cancro, consiste nell’interferire con la vascolarizzazione dei tumori. Nel gennaio 2007, Rakesh
Jain e i suoi colleghi del Massachusetts General Hospital Cancer Center
hanno pubblicato nella rivista Cancer Cell i risultati preliminari ottenuti con
l’AZD2171, una molecola che inibisce lo sviluppo dei vasi sanguigni che
vascolarizzano i tumori 5. L’AZD2171 blocca i tre recettori principali del
VEGF, un potente fattore di crescita vascolare presente sui vasi sanguigni
che vascolarizzano i glioblastomi, ma che però non è necessario alla
sopravvivenza dei vasi sanguigni che alimentano i tessuti normali.
Le lesioni del sistema nervoso
Rakesh Jain e i suoi
colleghi del Massachusetts General Hospital
Cancer Center studiano
un farmaco che blocca
la crescita dei vasi
sanguigni dei tumori.
Realizzato con 16 pazienti affetti da glioblastoma ricorrente, lo studio
clinico di fase 2 ha ridotto la dimensione dei tumori del 50% o più nella
metà dei pazienti e di almeno 25% nei tre quarti dei partecipanti. L’imaging
cerebrale ha evidenziato sia l’effetto rapido sulla normalizzazione dei vasi
sanguigni, che si manifesta in certi casi già dalla prima assunzione del farmaco, sia la riduzione dell’edema cerebrale, una complicazione frequente
di questo tipo di tumore. I test clinici proseguono con la speranza di potere
studiare l’AZD2171 con terapie antitumorali classiche in pazienti con una
diagnosi recente di glioblastoma.
Gli specialisti che si occupano di tumori cerebrali affermano che la
chiave per migliorare il trattamento dei gliomi maligni sta nel
determinare quali pazienti rispondono meglio alle terapie specifiche
e nel migliorare gli approcci combinati di trattamento.
Il gruppo di ricerca della Duke University diretto da James Vredenburgh ha
associato il bevacizumab (Avastin), un inibitore dell’angiogenesi, con
l’irinotecan, un chemioterapico, nell’ambito di un test clinico di fase 2, su
31 pazienti affetti da glioma in stadio avanzato. Secondo i risultati preliminari pubblicati in febbraio sulla rivista Clinical Cancer Research, l’associazione è attiva contro questa forma letale di tumore cerebrale, la sua tossicità sarebbe «accettabile» 6. In circa due terzi dei pazienti, i tumori sono
regrediti di almeno 50% e sei mesi più tardi il 38% non ha manifestato una
recidiva. Diversamente, la chemioterapia usata da sola, ritarda tipicamente
lo sviluppo del glioma per un periodo compreso tra le sei settimane e i
tre mesi.
45
Le immagini ottenute con lo scan cerebrale mostrano un’incoraggiante riduzione del
tumore nel paziente che ha risposto meglio al trattamento con il farmaco sperimentale.
I numeri nella parte superiore corrispondono ai giorni prima o dopo avere iniziato il
trattamento. Le immagini nella prima linea superiore mostrano la diminuzione della
taglia tumorale con il passare del tempo. Le altre linee mostrano rispettivamente la
riduzione della taglia dei vasi sanguigni tumorali, la permeabilità della barriera ematoencefalica e l’edema nelle regioni circostanti il tumore. L’ultima linea mostra la visibilità
della materia bianca quando l’edema scompare.
46
Secondo Vredenburgh e altri specialisti dei tumori cerebrali, si curerà
meglio il glioblastoma, quando sarà possibile determinare con più precisione quali sono i pazienti che hanno una maggiore possibilità di
Traumi midollari: preparare il terreno per i test clinici
Dato che le acquisizioni della ricerca fondamentale cominciano a produrre approcci terapeutici, gli specialisti richiedono di migliorare anche
la metodologia dei test clinici. In marzo, un collegio internazionale multidisciplinare di ricercatori ha pubblicato in Spinal Cord, quattro articoli che
costituiscono le prime linee guida per lo studio clinico dei traumi del
midollo spinale 7-10.
Le lesioni del sistema nervoso
rispondere a determinati trattamenti e quando sarà possibile combinarli al
meglio. Gli specialisti sottolineano la necessità di migliorare la metodologia
dei test clinici, così da potere ottenere un massimo d’informazioni in un
lasso minimo di tempo.
L’International Campaign for Cures of Spinal Cord Paralysis (ICCP) cerca di
delineare solidi criteri di studio, realistici e utili, per stabilire le possibilità
terapeutiche emerse dalle investigazioni precliniche attualmente in corso.
Il collegio ha richiesto una definizione rigorosa e standardizzata dei criteri
di valutazione, di quelli d’inclusione ed esclusione oltre che dei principi
etici, per la metodologia e la realizzazione dei test effettuati nell’uomo.
Gli autori hanno richiesto che per dimostrare la «riconnessione» del
midollo spinale sia realizzata una valutazione anatomica e neurologica, così
come di determinare la qualità della vita e le capacità dei pazienti a svolgere le attività di tutti i giorni. Per quel che riguarda i criteri di inclusione e
di esclusione, il collegio dei ricercatori ritiene che i pazienti che partecipano allo studio, debbano trovarsi a uno stadio del trauma per il quale il
potenziale beneficio di un intervento sia attestato da dati ottenuti sia nell’animale, sia da test anteriori. La gravità, il livello e l’estensione del trauma
devono essere valutati in relazione ai possibili benefici di un trattamento
sperimentale. I pazienti devono dare un consenso informato sui rischi e
benefici e sulla logica scientifica dei trattamenti investigativi.
Ammettendo che esistano anche altre procedure intraprese che possono
essere utili, i ricercatori affermano che la soluzione ottimale sono gli studi
prospettici, a doppio cieco randomizzati, con un gruppo di controllo.
La restrizione dei criteri richiesta dall’ICCP sembra essere motivata in parte
dall’accanimento di certi scienziati occidentali che cercano di giudicare
l’efficacia dei test non controllati nell’uomo. In un ambito della medicina in
cui nessun trattamento ha un’efficacia riconosciuta, i pazienti e i loro fami-
47
gliari sono pronti a intraprendere le soluzioni più azzardate, incontrando
dei ricercatori compiacenti. Questa situazione pone un vero problema
nei paesi in cui i test clinici non sono regolamentati. In Cina per esempio, si
praticano su pazienti vittime di traumi midollari, dei trapianti di cellule
staminali senza che la loro efficacia sia stata dimostrata. Per i test clinici i
ricercatori cercano di evitare dei problemi di metodologia di cui hanno
sofferto la ricerca di trattamenti per disturbi neurologici complessi. In
particolare il problema dell’assenza di criteri di valutazione sufficientemente sensibili per i test clinici che analizzano i trattamenti neuroprotettori
dell’ictus.
48
Neuroetica
La commercializzazione della «macchina della verità»
50
La stimolazione profonda del cervello
per la depressione grave
51
Le basi genetiche della dipendenza
52
L’imaging cerebrale a uso diagnostico
54
49
L’
implicazione etica dei progressi, spesso rapidi, realizzati dalle neuroscienze continua ad alimentare lo slancio della neuroetica, che assume
un posto sempre più importante in seno al vasto ambito della bioetica.
Nel 2007 la rivista American Journal of Bioethics è passata da sei a dodici
numeri l’anno, di cui tre interamente consacrati alla neuroetica. Denominati AJOB Neuroscience, i numeri speciali costituiscono la pubblicazione
ufficiale della Neuroethics Society.
I grandi temi al centro del dibattito neuroetico dell’anno appena trascorso
sono quattro: la commercializzazione della «macchina della verità», le indicazioni per l’applicazione della stimolazione profonda del cervello nel
trattamento della depressione, la conoscenza sempre più precisa delle basi
genetiche della dipendenza e l’uso dell’imaging a scopo diagnostico.
La commercializzazione della «macchina della verità»
In questi ultimi anni l’uso della risonanza magnetica funzionale (fMRI) per
fare una mappa dell’attività nelle differenti regioni cerebrali ha permesso di
applicare questa tecnica anche alla rivelazione delle menzogne. Sebbene
sia solo un tipo di ricerca preliminare e i risultati siano ancora da prendere
con la dovuta cautela, due società – Cephos Corporation e No Lie MRI –
hanno sviluppato dei prodotti e dei servizi per la rivelazione delle menzogne
basate sulla fMRI. Tra le potenziali applicazioni annunciate sono elencate le
inchieste criminali, il diritto di custodia dei bambini, il controspionaggio, le
questioni assicurative e non da ultimo gli interrogatori di sicurezza dello Stato.
L’American Journal of Law and Medicine ha pubblicato nel 2007 un articolo firmato da Henry Greely della Stanford University e Judy Illes dell’University of British Columbia, che analizza le ricerche in corso sulla rivelazione della menzogna basata sulla fMRI 1. Riconoscendone una possibile
utilità, gli autori richiedono con insistenza una regolamentazione; infatti,
essi sostengono che gli studi esistenti sono ben lontani dal dimostrare
un’affidabilità pratica ed evidenziano in particolare la natura artificiale e
insignificante delle menzogne utilizzate per gli studi.
50
Nessuno di questi studi, realizzati su piccola scala è mai stato riprodotto
da scienziati esterni e non sono mai state utilizzate contromisure per confondere i rivelatori. Gli autori preconizzano una regolamentazione simile
a quella che la FDA applica ai farmaci e che come lei, obblighi le società
commerciali a dimostrare sulla base di test su vasta scala l’affidabilità e
Neuroetica
Judy Illes ha richiesto la regolamentazione della «macchina
della verità» realizzata
attraverso la risonanza magnetica funzionale. Gli studi realizzati con questa tecnica non
hanno dimostrato di essere
affidabili, afferma Judy Illes in
un articolo firmato anche da
Henry Greely.
l’efficacia del loro metodo. La commercializzazione di sistemi non omologata sarebbe illecita.
Judy Illes ha commentato (con Margaret Eaton, Stanford University) nel
numero di aprile del 2007 di Nature Biotechnology, alcuni degli aspetti
etici, sociali e politici connessi alla commercializzazione delle neurotecnologie cognitive in generale 2. Gli autori hanno evocato, come problemi, la
precisione di queste tecnologie, il rispetto della privacy cerebrale e i potenziali conflitti d’interesse per le persone che le commercializzano.
Uno dei pericoli dell’industria non regolamentata della rivelazione della
menzogna, è quello dello sfruttamento degli elementi più vulnerabili della
società, come per esempio le persone che soffrono di malattie neurologiche o psichiatriche. Secondo gli autori, la rivelazione della menzogna
riscontra un grande successo nel pubblico, molti sono disposti a credere
anche solo sulla parola a chi pretende che i sistemi siano efficaci.
La stimolazione profonda del cervello
per la depressione grave
I buoni risultati ottenuti con la stimolazione profonda del cervello nel
trattamento dei sintomi somatici del morbo di Parkinson e l’identificazione
tramite l’imaging di una zona del cervello implicata nella depressione, ha
indotto i ricercatori a usare questa tecnica in alcune persone che soffrono
di forme severe di depressione, non trattabili con le cure farmacologiche.
Il notevole miglioramento dei sintomi ottenuto in un buon numero di
questi pazienti, è stato oggetto di numerose pubblicazioni nel 2005.
Parallelamente sono sorte alcune questioni etiche su questa tecnica.
51
Dato che la tecnica della stimolazione profonda del cervello è recente, si
pone il problema dei rischi imprevisti, questione che sorge anche per il
morbo di Parkinson. Nel giugno del 2007 è stato pubblicato in Acta Neuropsychiatrica uno studio che dimostra che dei leggeri cambiamenti nella
posizione degli elettrodi o del voltaggio, hanno indotto in due pazienti
affetti dal morbo di Parkinson delle pericolose depressioni che potevano
portare al suicidio 3.
La sicurezza è sempre fondamentale, ma secondo i ricercatori quando
sono confrontate con malattie invalidanti e talvolta mortali come il morbo
di Parkinson, le persone hanno la tendenza ad assumere rischi significativi.
Il caso della depressione è ancora più controverso: certe associazioni
di pazienti ritengono che questa malattia sia sovradiagnosticata, altre affermano che occorre imparare a conviverci, altre ancora ricordano che
esistono molti farmaci antidepressivi.
La stimolazione cerebrale profonda è indicata unicamente per le depressioni ribelli a ogni trattamento, resistenti a ogni farmaco, con degli effetti
debilitanti e talvolta a rischio di suicidio. Avendo a cuore la sicurezza del
paziente, nel 2007 un gruppo di scientifici coinvolti nella ricerca sulla
stimolazione profonda del cervello ha stabilito delle regole per l’uso sperimentale di questo metodo.
Un’altra preoccupazione etica è il consenso informato. I disturbi cognitivi e
la disperazione che accompagnano le depressioni gravi possono compromettere le facoltà di discernimento dei pazienti. Un dibattito che aleggia
anche sullo spettro della terapia elettroconvulsiva, i cui risultati non sono
contestati, ma l’uso è ancora controverso.
Le basi genetiche della dipendenza
I geni che potrebbero essere alla base di una predisposizione alla dipendenza sono stati oggetto nel 2007 di diversi articoli. Un esempio è il testo
di Colin Haile e dei suoi colleghi intitolato «Genetics of Dopamine and Its
Contribution to Cocaine Addiction», pubblicato in Behavior Genetics 4, o
quello di Joel Gelernter e dei suoi colleghi pubblicato in Biological
Psychiatry, dal titolo «Genomewide Linkage Scan for Nicotine Dependence: Identification of a Chromosome 5 Risk Locus» 5.
52
Per quel che riguarda l’alcolismo, Charles O’Brien 6 ricorda in un commento
pubblicato nel numero di novembre di Addiction, l’esistenza sempre più
Neuroetica
plausibile di un nesso tra una variante del gene che codifica per i recettori
agli oppioidi di tipo mu e una sensibilità maggiore all’euforia indotta dall’alcool, un rischio aumentato di alcolismo e di dipendenza agli oppioidi e i
buoni risultati del naltrexone nei test clinici sull’alcolismo.
I dati a disposizione suggeriscono che alcuni geni predispongono gli
individui a sviluppare dei comportamenti additivi. Non si tratta solo
di un dato biologico, ma anche di una questione etica.
Le indicazioni secondo le quali in certe persone esiste una predisposizione
genetica ai comportamenti di dipendenza solleva molte questioni etiche.
La prima è relativa alla ricerca dei geni. È stabilito che certi geni contribuiscono alla dipendenza ma non che la determinano, occorre quindi cercarli? Quale deve essere la forza predittiva dei geni o il loro valore d’orientamento del trattamento affinché si decida di ricercarli? In quale momento
la ricerca deve essere intrapresa? Sapendo che il figlio rischia di sviluppare
una dipendenza alla nicotina, i genitori potrebbero per esempio metterlo in
guardia contro il pericolo che corre, ma è un’informazione che potrebbe
anche alimentare ansie inutili. Il fatto di sapersi più sensibili a una dipendenza potrebbe generare inoltre anche un certo fatalismo. Diversamente,
se la persona ha già sviluppato un problema di dipendenza, sapere quali
geni la predispongono, può permettere di trovare un trattamento adatto.
Che cosa consigliare? Che cosa deve dire un medico ai genitori di un bambino i cui geni aumentano la probabilità che egli fumi, beva o diventi eroinomane? La questione diventa ancora più spinosa se si conosce questo
dato prima della nascita. Certi genitori potrebbero giudicare questa gravidanza indesiderabile.
Conoscere a priori una predisposizione alla dipendenza pone la questione
di sapere se occorre somministrare farmaci (per esempio il naltrexone)
come profilassi, prima della manifestazione della dipendenza. Dato il costo
di questo potenziale trattamento, i futuri datori di lavoro e le compagnie
assicurative avrebbero tutti gli interessi a scartare i postulanti portatori dei
geni incriminati. (Attualmente, la legge impedisce la trasmissione non autorizzata delle informazioni genetiche agli assicuratori e ai datori di lavoro.)
Un’altra prospettiva da considerare è quella della stigmatizzazione sociale,
come per tutte le anomalie genetiche, anche se comportano un rischio non
elevato. Essere portatore di una predisposizione genetica accertata rischierebbe per esempio di complicare le relazioni sociali, la ricerca di un partner
53
per sposarsi o avere dei figli. I genitori si sentirebbero anche colpevoli di
avere trasmesso dei «cattivi» geni ai loro figli anche se questi non presentano alcun segno di dipendenza. Sono queste alcune questioni che si porranno sempre più spesso alla luce dei risultati sui fattori di rischi genetici
nella dipendenza.
L’imaging cerebrale a uso diagnostico
C’è ancora molta strada da percorrere prima che l’imaging cerebrale
permetterà di diagnosticare la maggior parte delle malattie psichiatriche,
tuttavia nel corso del 2007 sono stati realizzati dei progressi sull’imaging
del morbo di Alzheimer e di altre forme di demenza in fase precoce. In
agosto, Agneta Nordberg ha pubblicato nella rivista Current Opinion in
Neurology 7 la sintesi di un articolo su una nuova tecnica di imaging
della sostanza amiloide che utilizza la tomografia ad emissione di positroni.
Questa tecnica permette di distinguere in modo chiaro il cervello delle persone che soffrono del morbo di Alzheimer da quello di soggetti testimone
in buona salute, dimostrando in questo modo che è possibile una diagnosi
precoce. Simili osservazioni sono state fatte anche da uno studio apparso
nel marzo del 2007 in Archives of Neurology 8, i cui autori affermano di
essere riusciti a scoprire con il marker Pittsburgh Compound B, dei discreti
segni di indebolimento cognitivo.
Questi studi fanno sperare che con l’imaging sarà possibile ottenere una
diagnosi più precisa dei disturbi ansiosi e dei disturbi dello spettro autistico. È tuttavia in alcune situazioni estreme che emerge la necessità di uno
strumento diagnostico più preciso. È il caso per esempio degli stati di
coscienza limite quando occorre fare chiaramente la distinzione tra uno
stato vegetativo persistente e uno stato di coscienza minimo.
54
Mentre nel 2007 non si sono stati importanti progressi tecnici in quest’ambito, la discussione etica ha invece continuato a svilupparsi. In giugno
Judy Illes e Joseph Fins hanno condotto alla Stanford University un atelier
intitolato «Etica, neuroimaging, e stati di coscienza limite», durante il quale
degli specialisti hanno analizzato questo problema. Nel corso del seminario sono stati affrontati diversi aspetti e in particolare quali devono
essere gli obiettivi scientifici e clinici degli studi di neuroimaging sulle persone in stato di coscienza limite. Durante il seminario si sono pure affrontati temi come il problema del consenso informato e dell’autorizzazione da
ottenere per questi studi e la coerenza etica che deve essere alla base della
selezione dei candidati e della concezione dei test. Sarà prossimamente
I neuroetici continueranno a lavorare per cercare di ottenere un consenso
su queste questioni, mentre la qualità delle tecniche di imaging migliorerà
ulteriormente ponendo nuove sfide etiche. I ricercatori e clinici, continueranno a dibattere sulla questione dell’interpretazione delle immagini del
cervello e del valore pronostico che esse possono avere nelle persone che
presentano un disturbo della coscienza. Le priorità sono state definite in un
articolo pubblicato in aprile in Neurology da Joseph Fins, Nicholas Schiff e
Kathleen Foley. I ricercatori hanno raccomandato di delineare innanzitutto
un profilo epidemiologico dello stato di coscienza minimo e che siano
chiariti i meccanismi di recupero. Inoltre sarà necessario identificare dei
marker diagnostici e pronostici al fine di orientare le decisioni cliniche
prese al capezzale del malato 9.
Neuroetica
pubblicato un numero speciale di American Journal of Bioethics Neuroscience su questi problemi.
55
Le malattie
neuroimmunologiche
Il recettore dell’IL-7
58
Il sole illumina la sclerosi multipla
61
57
I
l sistema immunitario protegge l’organismo dagli agenti patogeni che lo
assalgono utilizzando un ampio e variegato arsenale di cellule interdipendenti tra loro e di molecole che permettono la loro interazione. Quando le
cellule e le molecole del sistema immunitario sono mal regolate, possono
generare delle malattie.
L’aggressore nella sclerosi multipla, una malattia neurologica, sembra
proprio essere il sistema immunitario. Non si conosce ancora il motivo di
questo comportamento anomalo del sistema immunitario, ma i danni che
esso infligge alla guaina protettrice che avvolge gli assoni delle cellule
nervose cerebrali e del midollo spinale, interferiscono con la trasmissione
intracellulare dell’influsso nervoso. La sintomatologia della sclerosi multipla è polimorfa, questa malattia può provocare dei sintomi che vanno
dai disturbi della vista fino ai disturbi della marcia. È una patologia cronica,
che evolve tra crisi acute e remissioni con un aggravamento dei sintomi a
ogni crisi.
La suscettibilità alla sclerosi multipla è contrassegnata da numerosi fattori
genetici e ambientali i cui effetti si combinano influenzando lo sviluppo e la
progressione della malattia. L’implicazione del sistema immunitario è
solidamente documentata e le ricerche svolte nel 2007 hanno evidenziato
nuove prove sulla partecipazione dei fattori genetici e ambientali che
agiscono tramite il sistema immunitario.
Il recettore dell’IL-7
Nel 1972, per la prima volta è stato stabilito un nesso tra i fattori genetici
implicati nella sclerosi multipla e il complesso HLA (Human Leukocyte
Antigen), ma da allora la ricerca sui fattori di rischio genetici non era progredita. La pubblicazione nel 2001 della mappatura del genoma umano
(insieme dei geni presenti in ogni cellula di un organismo) ha permesso di
realizzare passi da gigante nell’analisi genetica. Per trovare l’ago nel
pagliaio del groviglio genetico, gli scienziati dispongono ora di nuovi strumenti di laboratorio e di potenti computer che permettono di analizzare
un’enorme quantità di dati.
58
Il genoma umano è costituito da 3 miliardi di paia di basi, la maggior parte
delle varianti genetiche concernono da 250 000 a 500 000 segmenti di
DNA, che il microarray permette di esaminare simultaneamente. Le scansioni dell’intero genoma hanno evidenziato dei geni associati al tumore al
Le malattie neuroimmunologiche
La tecnica del DNA microarray, o «gene chip» ha
contribuito a rivelare i fattori
di rischio genetici della
sclerosi multipla.
seno, alle patologie cardiache e al diabete 1. Quando i fattori genetici sono
numerosi ma i loro effetti poco importanti, per individuare le associazioni
statisticamente significative occorre analizzare un numero elevato di
campioni. (Vedi per quel che riguarda la mappatura dell’intero genoma, il
capitolo sui I disturbi psichiatrici, del comportamento e le dipendenze,
pagina 71)
I risultati della ricerca sul genoma intero, che hanno evidenziato i geni che
conferiscono il rischio di sclerosi multipla, sono stati pubblicati sul numero
del 30 agosto della rivista New England Journal of Medicine 2. Un gruppo
internazionale di ricercatori ha esaminato attraverso la tecnica del microarray di DNA, centinaia di migliaia di cambiamenti genetici su oltre
12 000 campioni. Senza avere alcun preconcetto, i ricercatori hanno confermato l’esistenza di un nesso tra la regione HLA e la sclerosi multipla. Essi
hanno trovato nuovi marker, uno sul gene che codifica per il recettore
dell’interleuchina 2 (IL-2), l’altro sul recettore dell’interleuchina 7 (IL-7). Le
interleuchine sono delle proteine del sistema immunitario attraverso le
quali le cellule comunicano e agiscono sulla funzione di altre cellule.
Nel sistema immunitario questi recettori svolgono un ruolo importante
nella segnalazione da una cellula all’altra. Come le proteine associate al
gene HLA, anche i recettori IL-2 e IL-7 regolano questo sistema; è quindi
ipotizzabile che i geni che li producono possano essere implicati nella
sclerosi multipla. Lo studio in questione aveva tuttavia come unico obiettivo quello di evidenziare un nesso statistico.
59
La proiezione di un laser su un microarray illumina i frammenti marcati con del DNA ibridizzato
DNA non-ibridizzato
DNA ibridizzato
I frammenti di DNA emettono luce in presenza di un fascio laser quando si legano alla
loro sequenza omologa. Nel microarray è possibile analizzare in parallelo milioni di
sequenze di DNA.
Spesso gli studi genetici evidenziano molti fattori di rischio per una malattia,
ma nessuno è molto pronunciato. Inoltre i successivi sforzi messi in atto per
convalidare le ipotesi genetiche falliscono. Ora, grazie ad una tecnica che
combina diversi approcci sperimentali, definita «convergenza genomica»
da Michael Hauser, del centro di genetica umana della Duke University, i
ricercatori hanno la possibilità di individuare i geni candidati più promettenti.
Un importante marker genetico può emergere dalla combinazione di risultati di studi che associano i geni a malattie famigliari, analizzando la modalità di eredità e ricercando nei tessuti malati i geni attivi. Questo metodo è
stato usato per studiare le basi genetiche di diverse complesse malattie
neurologiche tra cui il morbo di Parkinson, il morbo di Alzheimer e la
sclerosi multipla.
60
L’approccio della convergenza genomica applicata alla sclerosi multipla, è
stata oggetto di due studi nel numero di settembre del 2007 di Nature
Tale particolare variazione genetica ha permesso agli autori di ipotizzare
che il recettore non sia collegato alla membrana cellulare, dove adempie la
sua funzione di segnalazione, ma si presenti sotto forma solubile che gli
permette di fissare l’IL-7, impedendogli in questo modo di interagire con la
cellula. Quest’ipotesi è stata verificata sia in laboratorio sia nelle persone
colpite da sclerosi multipla. Teoricamente il cambiamento dovrebbe
ridurre gli effetti dell’IL-7 sull’organismo. Inoltre l’espressione del gene che
codifica per l’IL-7 e per il recettore dell’IL-7 è modificata nel liquido cerebrospinale delle persone malate.
Le malattie neuroimmunologiche
Genetics. In questi studi si sono ricercati in modo mirato dei geni candidati,
cioè dei geni che si erano dimostrati promettenti durante studi funzionali e
genetici realizzati in precedenza 3, 4. Così come la mappatura del genoma, i
due studi hanno indicato il recettore dell’IL-7 e identificato la stessa
variante di una sola base (single-nucleotide polymorphism, o SNP) sul
gene che produce questo recettore.
Sono quindi sempre più forti gli indizi per un ruolo dell’IL-7 e il suo recettore nella sclerosi multipla, tuttavia non si è ancora in grado di comprenderne la portata. L’aumento del rischio di malattia attribuito al gene del
recettore IL-7 è, infatti, debole, ma il suo ruolo sta diventando sempre più
evidente e non può essere ignorato. Successivi studi potranno dimostrare
che esso è implicato nella sclerosi multipla e in questo modo offrire nuove
opzioni terapeutiche 5.
La via basata sull’IL-7 rappresenta solo uno dei numerosi meccanismi che
concorrono alla malattia. L’analisi di questo marker genetico e dei marker
genetici in generale, con il tempo permetterà di scoprire le specificità esistenti a livello individuale e in questo modo personalizzare i trattamenti.
Il sole illumina la sclerosi multipla
Il rischio di sviluppare la sclerosi multipla è strettamente correlato con la
latitudine alla quale si vive; infatti, il rischio aumenta allontanandosi dall’equatore. La suscettibilità differisce anche tra persone con antenati comuni
che vivono a latitudini diverse soprattutto se sono giovani. Secondo
recenti studi questo dato è da correlare con l’irraggiamento solare.
Gli autori di uno studio apparso su Neurology hanno analizzato gli effetti
dell’esposizione al sole durante l’infanzia in gemelli monozigotici dell’America del Nord 6. Il gruppo di ricerca diretto da Thomas Mack, della Keck
61
School of Medicine, University of Southern California, dimostra che il
gemello che nel corso dell’infanzia ha passato più tempo all’aria aperta
(spiaggia, sport di gruppo, ecc.) rispetto al fratello ha un rischio inferiore di
sviluppare la sclerosi multipla. Studiare gemelli monozigotici permette di
evidenziare i fattori ambientali senza preoccuparsi delle complicazioni a
proposito delle differenze genetiche.
Un altro studio norvegese pubblicato sulla rivista Journal of Neurology
dimostra che una buona esposizione al sole durante l’infanzia e un’alimentazione ricca in pesce riducono il rischio di sclerosi multipla 7. Il gruppo di
ricerca diretto da Margitta Kampman ritiene che l’effetto protettivo
potrebbe essere in relazione con la grande concentrazione di vitamina D
nel pesce.
La vitamina D potrebbe avere un effetto diretto sul cervello. Degli studi
sul modello animale dimostrano, infatti, che essa riduce il rischio di ictus.
L’azione protettrice del sole potrebbe essere dovuta all’esposizione diretta
ai raggi ultravioletti o indirettamente alla sintesi di questa vitamina attraverso il sole. Una parte della vitamina D è fornita dall’alimentazione, ma la
quantità maggiore è prodotta dalla pelle dopo essere stata esposta al sole,
da cui il nome che talvolta gli si attribuisce, vitamina solare. D’inverno le
giornate sono corte e c’è meno sole, sono più frequenti le carenze in vitamina D. Da novembre a febbraio, la sintesi della vitamina D equivale a zero
per le persone che vivono sulla linea Boston – Barcellona – Roma – Sofia.
La vitamina D è fondamentale per il mantenimento della densità ossea, non
è ancora noto se essa abbia un ruolo nella regolazione del sistema immunitario. Esistono, infatti, dei recettori della vitamina D sulle cellule del sistema
immunitario. Degli studi hanno stabilito un nesso tra le carenze in vitamina
D e le malattie auto-immuni o infiammatorie, come l’asma, la poliartrite
reumatoide, il diabete e le malattie infiammatorie croniche dell’intestino. I
ricercatori stanno ora cercando di capire il ruolo protettore della vitamina D
nel modello murino della sclerosi multipla.
62
Diversi recenti studi di popolazioni evidenziano una correlazione inversa
tra i livelli sanguigni di vitamina D e il rischio di sviluppare una sclerosi
multipla. Uno studio realizzato in Tasmania (Australia), ha rilevato la riduzione del tasso sanguigno di vitamina D nelle persone che soffrono di
questa malattia 8. Pubblicato il 20 dicembre 2006 nel Journal of the American Medical Association, uno studio effettuato tra il personale militare
Le malattie neuroimmunologiche
Le ricerche realizzate
nel 2007 indicano che la
vitamina D, prodotta dalla
pelle dopo l’esposizione
ai raggi solari, può ridurre il
rischio di sviluppare una
sclerosi multipla.
americano ha dimostrato che l’apparizione dei sintomi della sclerosi multipla è preceduta da un abbassamento dei livelli di vitamina D.
Tali risultati convalidano la tesi secondo la quale la carenza in vitamina D
interviene nella sclerosi multipla e non è la conseguenza di un’esposizione
ridotta al sole a causa della disabilità prodotta dalla malattia 9. Uno studio
finlandese pubblicato nel Journal of Neurology, Neurosurgery, and Psychiatry ha evidenziato un nesso tra la riduzione dei tassi sanguigni di vitamina D e l’aggravamento dei sintomi della sclerosi multipla 10.
Dati i potenziali effetti della vitamina D sulla suscettibilità alla sclerosi multipla e ad altre malattie, i ricercatori stanno riconsiderando le raccomandazioni sull’apporto alimentare di questa vitamina. Secondo l’Institute of
Medicine of the National Academy of Sciences, la dose indicata per persone di meno di 50 anni è 200 unità internazionali (UI), cioè 5 microgrammi
di vitamina D il giorno. Secondo quanto pubblicato dalla Canadian Paediatric Society nel settembre del 2007 per le donne incinte o che allattano
occorre un supplemento quotidiano di questa vitamina, fino a 2000 UI 11.
I ricercatori raccomandano un apporto di 400 UI di vitamina D al giorno per
i bebè nutriti al seno e un supplemento di 800 UI di vitamina D durante i
mesi invernali per i bebè che vivono oltre il 50e parallelo (sud del Canada –
Manica – Francoforte – Praga). Secondo degli studi realizzati sugli animali,
la vitamina D potrebbe essere usata per prevenire e per curare la sclerosi
multipla, ma occorrono nuovi studi prima di intraprendere i primi test clinici.
63
Il dolore
Dolori cronici e dipendenza da oppiacei
66
La segnalazione del dolore
67
La neurostimolazione per il dolore alla schiena
68
65
I
l dolore è la causa più frequente di consultazione medica negli Stati Uniti.
I medici sono sempre alla ricerca di mezzi efficaci per curare e gestire sia il
dolore acuto, sia il dolore cronico.
Nel 2007 gli scienziati che studiano il dolore hanno percorso diverse piste
di ricerca. Alcuni hanno tentato di trovare un mezzo per ridurre la dipendenza da oppiacei, dei farmaci potenti che spesso costituiscono l’arma
più efficace contro il dolore. Altri hanno scoperto una cruciale via di segnalazione del dolore, aprendo nuove prospettive per le persone che soffrono
di gravi dolori « fantasma » sequele di traumi midollari. Un altro gruppo di
ricercatori ha invece trovato un trattamento più efficace per il dolore
neuropatico cronico, una speranza per le persone che soffrono di invalidanti dolori alla schiena.
Dolori cronici e dipendenza da oppiacei
Da migliaia di anni, l’oppio è usato per alleviare il dolore. I suoi numerosi
derivati, gli oppiacei, sono oggi utilizzati a fini leciti e talvolta illeciti. I poteri
euforizzanti di questi farmaci tendono a generare una dipendenza, il
medico deve quindi destreggiarsi tra l’alleviare il dolore e il rischio di rendere il paziente dipendente.
Con il passare del tempo, il dolore cronico riduce l’effetto analgesico di
molti oppiacei. Dei ricercatori della Wake Forest University School of
Medicine hanno costatato che il tempo diminuisce anche la tendenza a
sviluppare una dipendenza ad alcuni di questi farmaci; morfina, idromorfone e fentanil. Pubblicato sul numero del 27 febbraio del 2007 di
Anesthesiology, lo studio indica che se il dolore cronico non è trattato
adeguatamente, i pazienti non assumono i farmaci prescritti dal medico
preferendo alternative come l’eroina o il metadone che sono più efficaci
ma potenzialmente additive 1.
66
I ricercatori della Wake Forest hanno impiantato dei cateteri nel rachide
di alcuni ratti. Dopo avere realizzato una legatura o avere leso i nervi
spinali a metà degli animali, è stato loro insegnato ad autosomministrarsi
clonidina e adenosina, due oppiacei che sopprimono l’ipersensibilità al
dolore. I ricercatori hanno scoperto che entrambi i farmaci non avevano
effetto sul comportamento di ricerca di eroina nel ratto normale, poiché il
luogo che stimola il potenziale abuso di eroina è nel cervello e non nel
midollo spinale.
Il dolore
La somministrazione di clonidina nel rachide riduce in modo spettacolare la
ricerca di eroina nei ratti che soffrono di dolore cronico, lo stesso fenomeno
non si verifica con la somministrazione nel rachide di adenosina, che solitamente allevia l’ipersensibilità al dolore dopo una lesione nervosa. A giudicare
dal modello animale, sembra, dunque, che la somministrazione congiunta di
clonidina e adenosina riduca il dolore senza alterare il desiderio di eroina.
Un sottogruppo di pazienti affetti da dolore cronico è incline
a sviluppare un comportamento additivo.
Un altro studio ha messo in evidenza la dipendenza in un sottogruppo di
pazienti affetti da dolori cronici. I ricercatori del Massachusetts General
Hospital hanno esaminato i nessi tra la dipendenza agli oppiacei e il trattamento del dolore cronico. Nel numero di giugno di Pain gli scienziati affermano che i casi di dipendenza nei pazienti affetti da dolori cronici non
erano così rari come si pensava. Anche se in un numero esiguo di pazienti
colpiti da dolore cronico si osservano sia dei comportamenti additivi, sia
altri problemi comportamentali, per queste persone il passaggio alla dipendenza è insidioso e più difficile da riconoscere 2.
I medici conoscono e sono in grado di prevenire i pericoli delle dipendenze
connessi all’uso cronico degli oppiacei, i ricercatori affermano tuttavia
che è necessario migliorare gli strumenti che permettono di distinguere i
pazienti più vulnerabili. I medici dovrebbero sviluppare, in collaborazione
con dei colleghi specializzati nella dipendenza, dei programmi terapeutici
strutturati come alternativa all’uso di oppiacei.
La segnalazione del dolore
Circa l’80% delle persone che hanno subito un trauma midollare, sviluppa
dei dolori clinicamente significativi, descritti come lancinanti, terebranti o
come una sensazione di bruciore. Molti soffrono anche di dolori che si
definiscono « dolori fantasma » poiché colpiscono una parte del corpo in
cui il trauma ha abolito ogni sensazione.
In seguito a una lesione midollare, si sviluppa un dolore anormale come
conseguenza del malfunzionamento del sistema nervoso, spiegano nel
Journal of Neuroscience del 28 febbraio 2007 dei ricercatori del Yale
University Center for Neuroscience and Regeneration Research. Per la
prima volta questi scienziati hanno evidenziato nel midollo spinale leso
una via di segnalazione diretta tra i neuroni e le cellule della microglia, le
cellule immunitarie del sistema nervoso centrale. Le cellule della microglia
67
In quest’immagine del corno
dorsale del midollo spinale si
possono vedere le cellule della
microglia, visibili come puntini
luminosi tra i neuroni più scuri.
Queste cellule sono coinvolte
nei meccanismi che portano
alla manifestazione del dolore
cronico dopo un trauma
midollare.
generano una risposta infiammatoria che solitamente protegge il sistema
nervoso, ma talvolta peggiora la situazione 3.
Lavorando su ratti adulti che hanno subito sperimentalmente un trauma
contusivo del midollo spinale, i ricercatori hanno scoperto che la prostaglandina E2 (PGE2) svolge un ruolo centrale nel dolore cronico mediato
dalle cellule microgliali. Liberata quando le cellule sono attivate, la prostaglandina E2 contribuisce alla sensibilizzazione dei neuroni dopo un trauma.
Sfruttando questo meccanismo di segnalazione microglia-neuroni, secondo
il gruppo di Yale è possibile curare il dolore conseguente a un trauma
midollare. I ricercatori stanno analizzando delle molecole capaci di bloccare questa via di segnalazione a diversi livelli del midollo spinale. Il prototipo è la minociclina, un antibiotico che la Food and Drug Administration ha
omologato per curare diverse infezioni, ma che ora è oggetto di test clinici
« fuori etichetta » per malattie neurologiche come la corea di Huntington, la
sclerosi laterale amiotrofica e la sclerosi multipla.
Usando la tomografia a emissione di positroni, gli scienziati di Yale cercano
nell’uomo e nel topo dei meccanismi del dolore simili o identici. In caso di
successo cercheranno di determinare nei pazienti vittime di traumi midollari, se la minociclina blocca il meccanismo di segnalazione del dolore
generato dalla PGE2.
La neurostimolazione per il dolore alla schiena
68
Il mal di schiena è uno tra i problemi medici più diffuso negli USA, circa
l’80% delle persone ne soffre in un momento o l’altro della propria vita.
Il dolore
Secondo uno studio della Duke University del 2004, per il mal di schiena
– lombare, cervicale oppure la sciatica – si spendono circa 100 miliardi
di dollari l’anno in onorari medici, indennità lavorative e perdita di produttività. I trattamenti convenzionali e la chirurgia hanno una certa efficacia per i dolori dorsali, mentre il dolore neuropatico cronico della
schiena e delle gambe, invece, risponde meglio alla neurostimolazione.
Questa tecnica consiste nell’impiantare sotto la pelle un apparecchio
che invia nello spazio epidurale della colonna vertebrale delle correnti
elettriche che a loro volta impediscono ai segnali del dolore di arrivare
al cervello.
Un gruppo internazionale di ricercatori diretti da Krishna Kumar, del
Regina General Hospital in Canada, ha realizzato il più grande studio
multicentrico randomizzato controllato con placebo, dimostrando che la
neurostimolazione è più efficace dei trattamenti convenzionali (analgesici,
blocchi farmacologici, iniezioni di steroidi, terapie fisiche e chiropratiche)
per quanto riguarda l’alleviamento del dolore, la qualità della vita e le capacità funzionali.
Secondo lo studio pubblicato in novembre in Pain, sei mesi dopo il trattamento circa la metà dei pazienti trattati con la combinazione di neurostimolazione e terapie convenzionali ha registrato un miglioramento del
dolore nelle gambe del 50% superiore a quello riportato dai pazienti trattati
unicamente con metodi convenzionali 4. Ogni paziente coinvolto nello studio aveva già subito almeno un intervento chirugico per un’ernia discale,
tutti soffrivano di dolori da moderati a forti in una o due gambe oppure alla
schiena nei sei mesi che hanno seguito l’intervento.
Dato che il dolore neuropatico grave è difficile da curare, i ricercatori
affermano che la neurostimolazione dovrebbe essere aggiunta alla lista
dei trattamenti di routine proposti ai pazienti che soffrono di dolori cronici
alla schiena.
In California, dei medici del Coast Pain Management hanno affermato nel
numero di luglio di Neuromodulation che una forma specifica di neurostimolazione, detta stimolazione del campo del nervo periferico, costituisce
una soluzione sicura ed efficace per i pazienti che soffrono di dolori cronici
della parte inferiore della schiena 5. La sua efficacia è stata valutata in sei
pazienti che non avevano risposto ai trattamenti convenzionali. Contrariamente alla stimolazione del midollo spinale o alla stimolazione diretta dei
69
nervi periferici, questa tecnica stimola la regione dei nervi colpita con l’intermediario di conduttori che vengono inseriti attraverso la pelle nella
regione in cui si prova il dolore. Nei sei pazienti analizzati, si è verificata una
riduzione del consumo di analgesici, un più elevato livello di attività e un
miglioramento della qualità di vita.
La stimolazione del nervo periferico presenta rispetto alle altre forme di
neurostimolazione, un numero inferiore di complicazioni e una morbosità
più bassa. Secondo gli autori essa potrebbe costituire un complemento
utile agli altri trattamenti e merita ulteriori ricerche.
70
I disturbi psichiatrici, del comportamento e le dipendenze
La depressione
72
I disturbi bipolari
76
I disturbi ossessivo-compulsivi
76
La schizofrenia
77
L’alcolismo
78
Future direzioni per studi e trattamenti
78
71
N
el corso del 2007 la ricerca sulla salute mentale si è concentrata sulla
comprensione dell’origine di certi disturbi e sulla ricerca di trattamenti più
efficaci. L’interesse sull’implicazione dei fattori genetici è sempre costante e
molti ricercatori studiano ora il ruolo dei geni nella gestione e nel trattamento dei disturbi psichiatrici. La neurobiologia, che fino ad ora si è interessata soprattutto alle differenti regioni cerebrali, sta estendendo gli studi ai
circuiti neurali per capire le conseguenze di un’interruzione o una disorganizzazione dei segnali. Le connessioni che uniscono le differenti parti del cervello potrebbero essere la base per comprendere alcune patologie mentali.
Per esempio, le recenti scoperte sulla depressione hanno permesso di
capire meglio le anomalie dei circuiti neurali presenti in questa patologia.
Per correggerli i ricercatori cominciano a impostare dei trattamenti non
farmacologici.
Anche in altri ambiti sono state fatte scoperte importanti. La ricerca sui disturbi bipolari ha evidenziato un possibile indicatore genetico e ha prodotto
il primo modello murino. Gli studi sulla schizofrenia e l’alcolismo, hanno
permesso di trovare nuove prospettive di trattamenti farmacologici.
La depressione
L’ippocampo appartiene al sistema limbico, una regione cerebrale responsabile della vita emotiva. Esso svolge un ruolo importante nella memoria
e nel trattamento delle informazioni spaziali. Questa regione cerebrale
ha attirato l’attenzione dei ricercatori da quando è stato scoperto che
essa proietta delle fibre sulle regioni implicate nella depressione e che
alcuni farmaci antidepressivi ne stimolano la neurogenesi portando benefici comportamentali.
In un articolo pubblicato il 10 agosto in Science, Karl Deisseroth e un
gruppo interdisciplinare della Stanford University, affermano di avere
scoperto un circuito neurofisiologico che collega l’ippocampo (compreso il
giro dentato) con la depressione. Questo circuito potrebbe essere un
potenziale obiettivo per futuri interventi terapeutici 1.
72
I ricercatori hanno posto dei ratti in situazioni stressanti (privazione di
sonno, illuminazione violenta, rumori intensi), mentre altri che fungevano
da controllo vivevano in condizioni relativamente normali. A una parte dei
ratti sotto stress erano somministrati farmaci antidepressivi.
Dopo diverse settimane, i ratti dei due gruppi sono stati immersi nell’acqua. Gli animali stressati che non hanno ricevuto il trattamento antidepressivo, nuotavano meno vigorosamente rispetto ai loro congeneri
stressati che assumevano farmaci. Secondo i ricercatori questo fatto era
interpretabile come un segno di rinuncia, di mancanza di motivazione.
Con l’ausilio di una tecnica basata sulla visualizzazione di coloranti sensibili
al voltaggio, gli autori hanno misurato l’attività elettrica della regione ippocampale, interessandosi più precisamente a quella proiettata sul giro dentato. I ricercatori hanno costatato che negli animali non stressati e nei ratti
trattati con i farmaci i segnali in questo circuito erano normali, mentre negli
animali stressati erano invece interrotti e seguiti dalla scomparsa completa
del circuito.
I disturbi psichiatrici, del comportamento e le dipendenze
Il ricercatore Karl Deisseroth
e i colleghi all’Università di
Stanford hanno usato una
tecnica, basata sulla visualizzazione di coloranti
sensibili al voltaggio, che
consente di ottenere immagini ad alta velocità. Il
metodo ha permesso di trovare nei cervelli dei ratti una
correlazione tra un difetto
nei circuiti nervosi dell’ippocampo e la depressione.
Tali risultati permettono di ipotizzare che un evento grave come la morte di
un parente o uno stress professionale intenso provochi dei disordini di
questo circuito che generano la depressione, gli autori intravedono quindi
un potenziale obiettivo di trattamento.
È stato stabilito un nesso anche tra la depressione e altri circuiti del
sistema limbico. Questi circuiti comprendono delle regioni cerebrali come
la corteccia prefrontale, l’amigdala e la corteccia cingolata subgenuale, le
aree implicate nel trattamento delle emozioni e nella produzione dei
neurotrasmettitori coinvolti nello stato di tristezza e nella risposta agli
antidepressivi.
73
Pre-op MRI
Pre-op PET
Contatto
con gli
elettrodi
Bersaglio dell’elettrodo:
sostanza bianca di Cg25
Depressione:
iperattività di Cg25
Post-op MRI
6 mesi DBS PET
Confermare la posizione
dell’elettrodo
Guarigione con il DBS:
riduzione dell’attività di Cg25
Esiste una possibile correlazione tra un’attività cerebrale aumentata nell’area Cg25 e la
depressione grave. È quanto suggeriscono gli studi preliminari realizzati nel 2007. La
stimolazione profonda del cervello applicata all’area Cg25 – una regione della corteccia
cingolata subgenuale – ha infatti un effetto antidepressivo. Queste immagini mostrano
una riduzione del flusso sanguigno nell’area Cg25 dopo una stimolazione profonda del
cervello realizzata con degli elettrodi impiantati nel tessuto cerebrale.
74
In un’analisi della letteratura pubblicata nel numero di settembre di Nature
Neuroscience, Kerry J. Ressler e Helen S. Mayberg, del dipartimento di
psichiatria e delle scienze del comportamento della Emory University,
sostengono che i progressi realizzati nella descrizione e nella comprensione dei circuiti neuronali connessi alla depressione e nell’identificazione
delle aree specifiche di sregolazione all’interno dei circuiti associate a dei
sintomi comportamentali, permettono di applicare delle terapie non farmacologiche 2. In effetti, è molto importante trovare delle alternative efficaci
Tra queste c’è la stimolazione profonda del cervello o DBS (vedi i capitoli,
Disturbi motori, pagina 33 e Neuroetica, pagina 49). Gli studi clinici su
questa tecnica nel trattamento della depressione resistente ai farmaci sono
basati su lavori realizzati da Helen Mayberg, con la tomografia a emissione
di positroni, che hanno fatto un nesso tra la corteccia cingolata subgenuale
(Cg25) e la depressione maggiore. La DBS altera la comunicazione all’interno e fra i circuiti di questa regione, attraverso la stimolazione proveniente dagli elettrodi.
Il trattamento con la DBS ha migliorato i sintomi depressivi, ha ridotto
in modo sostanziale la perfusione sanguigna della regione Cg25 e ha generato molti cambiamenti strutturali del cervello implicati nella regolazione
dell’umore e nella risposta ai farmaci. Attualmente sono in corso altri studi
clinici realizzati su un grande numero di pazienti per precisare la sicurezza
e l’efficacia della DBS, stabilire in quale modo i circuiti di questa regione
siano implicati nella depressione e determinare il meccanismo che permette l’interazione della DBS con questi circuiti.
Oltre alla DBS esistono anche altre opzioni ai trattamenti farmacologici, tra
questi ricordiamo la stimolazione vagale, la terapia elettroconvulsiva e la
stimolazione magnetica transcranica ripetitiva. La terapia elettroconvulsiva
è stata usata nel passato per trattare le depressioni resistenti; da qualche
anno, questa terapia è stata reintrodotta e riaccettata. D’altra parte, la
stimolazione profonda del cervello, la stimolazione vagale e la stimolazione
magnetica transcranica ripetitiva sono attualmente analizzate per determinare la loro capacità a correggere le anomalie dei circuiti che intervengono
nella regolazione dell’umore e delle emozioni.
I disturbi psichiatrici, del comportamento e le dipendenze
per curare le persone che soffrono di una depressione che non risponde ai
farmaci antidepressivi.
Attraverso le tecniche di imaging come la tomografia a emissione di positroni e la risonanza magnetica funzionale, i ricercatori possono registrare i
cambiamenti di attività generati nelle diverse regioni cerebrali e nei differenti circuiti neurali. Questi studi permetteranno di conoscere meglio i
circuiti neurali così da ipotizzare l’uso di questi trattamenti anche per altri
disturbi psichiatrici, come i disturbi ossessivo-compulsivi.
La DBS è un trattamento riconosciuto per i pazienti affetti dal morbo di
Parkinson che non sopportano la terapia con la levodopa e ha dimostrato di
75
essere promettente anche per le forme gravi di depressione; Kerry Ressler
e Helen Mayberg ritengono tuttavia che siano necessari ulteriori studi per
conoscere meglio gli effetti a lungo termine e per definire le condizioni
ottimali di trattamento.
I disturbi bipolari
Studi realizzati in precedenza hanno dimostrato che i disordini dei ritmi circadiani dettati dall’orologio interno del corpo, svolgono un ruolo centrale nei
disturbi bipolari, la malattia denominata in passato psicosi maniaco-depressiva. In uno studio pubblicato su Proceedings of the National Academy of
Sciences USA, Colleen McClung e i suoi collaboratori hanno affermato di
avere creato il primo modello murino dei disturbi bipolari, alterando un gene
denominato clock (circadian locomotor output cycles kaput) che sintetizza le
proteine responsabili della regolazione del ritmo circadiano dell’animale 3.
Il gene clock dà origine a una proteina necessaria alla regolazione del complesso feedback che dirige i ritmi circadiani. Se si disattiva il gene, i topi
mutanti presentano un comportamento di tipo maniacale, iperattività, una
riduzione del sonno, un incremento della reattività a stimoli insoliti o a
molecole stimolanti come la cocaina, paragonabili ai disturbi bipolari che
colpiscono le persone.
Quello appena descritto è il primo modello animale del disturbo maniacale,
il topo mutante clock dovrebbe permettere di comprendere meglio la
regolazione neuronale e genetica dei ritmi circadiani e come il cambiamento di questa regolazione genera i sintomi bipolari. È questa una nuova
pista per lo sviluppo di moderne strategie terapeutiche.
I disturbi ossessivo-compulsivi
Gli studi sui disturbi ossessivo-compulsivi (DOC) realizzati in passato
hanno identificato quasi sistematicamente il ruolo di un’area precisa del
cervello: lo striato, il centro degli input del sistema dei nuclei della base.
Tale sistema è implicato nel controllo della motricità, dell’apprendimento e
della ricompensa.
76
Guoping Feng e i suoi colleghi hanno indagato questa ipotesi. In un articolo pubblicato nella rivista Nature spiegano di avere utilizzato delle
tecniche genetiche di knock-out per rimuovere nel topo il gene sapap3,
che svolge un ruolo determinante nella comunicazione sinaptica dei neuroni che usano il glutammato 4.
Questi risultati aprono nuove prospettive sulle cause
neurobiologiche del disturbo ossessivo-compulsivo, ma anche
su nuovi possibili trattamenti futuri.
I risultati aprono nuove prospettive sulle cause neurobiologiche e sui trattamenti dei disturbi ossessivo-compulsivi. Dato che l’obiettivo non è la
serotonina ma il glutammato, questo studio potrebbe essere la base per lo
sviluppo di nuovi farmaci che interferiscono con la trasmissione mediata da
questo neurotrasmettitore.
La schizofrenia
Degli studi apparsi indipendentemente nel 2005 e nel 2006 dimostrano
che gli antipsicotici atipici o di seconda generazione sono meno efficaci
rispetto ai farmaci precedenti. Tuttavia i farmaci più vecchi inducono
più effetti collaterali. A questa regola generale faceva eccezione solo
l’olanzapina, un farmaco di seconda generazione, come riportato da
Jeffrey Lieberman in uno studio pubblicato nel 2005 nella rivista
New England Journal of Medicine 5. L’olanzapina causa un tasso di
abbandono di assunzione da parte dei pazienti inferiore rispetto alle
molecole simili, ma purtroppo provoca un persistente aumento del peso
e altri disturbi metabolici. Questi studi per ora non sono in grado di
chiarire quale sia il miglior trattamento da proporre ai pazienti affetti
da schizofrenia.
I disturbi psichiatrici, del comportamento e le dipendenze
I topi mutanti sapap3 presentano diversi sintomi di tipo ossessivo-compulsivi, tra cui ansia esacerbata e la preoccupazione d’igiene che può arrivare
fino alla perdita del pelo. Questi sintomi scompaiono quando ai topi è reinserito nel loro striato il gene sapap3 oppure quando è somministrata la
fluoxetina (Prozac), un farmaco utilizzato nel trattamento dei disturbi
ossessivo-compulsivi.
Altri ricercatori, diretti da Sandeep Patil, dei laboratori di ricerca Lilly,
hanno testato una nuova molecola che modera l’azione del glutammato, la
LY2140023. In un articolo di settembre di Nature Medicine i ricercatori
hanno confrontato l’azione di questa molecola con quella dell’olanzapina
e di un placebo in 200 pazienti affetti da schizofrenia per un periodo di
quattro settimane 6.
Oltre il 25% dei pazienti ha risposto bene al trattamento, senza manifestare
importanti effetti collaterali. Considerati questi risultati la LY2140023, che
aiuta il cervello ad adattarsi alle conseguenze delle anomalie della via
77
del glutammato, potrebbe rappresentare un’opzione sicura e utile per le
persone colpite da schizofrenia.
L’alcolismo
Il trattamento farmacologico dell’alcolismo offre risultati mitigati. Secondo
uno studio realizzato da Lara Ray e Kent Hutchison pubblicato in settembre
nella rivista Archives of General Psychiatry, il naltrexone, un antagonista
dei recettori agli oppiacei prescritto spesso in caso di alcolismo, sarebbe
più efficace nelle persone con un determinato genotipo 7.
Negli alcolisti portatori del gene OPRM1 gli autori hanno costatato una
maggiore sensazione di ebbrezza, ma anche una risposta all’alcol meno
marcata dopo avere assunto il naltrexone. I risultati potrebbero gettare le
basi per altri studi sugli indicatori genetici dell’alcolismo e sulle interazioni
possibili con i trattamenti.
Future direzioni per studi e trattamenti
Il completamento nel 2005 del progetto internazionale HapMap, che cataloga le varianti genetiche umane più comuni, ha fornito ai ricercatori che
si occupano della salute mentale una nuova occasione per identificare i
fattori genetici che sono alla base di malattie psichiatriche complesse
partendo dall’intero genoma. Gli studi associativi sull’intero genoma, realizzati per la malattia coronarica, il diabete e per certi tipi di tumore hanno
permesso di raccogliere informazioni molto preziose sullo sviluppo e sul
trattamento di queste malattie. Gli scienziati sperano che potranno essere
realizzati simili studi anche sulla schizofrenia, i disturbi bipolari, i disturbi
ossessivo-compulsivi.
78
Thomas R. Insel, direttore del National Institute of Mental Health e
Thomas Lehner, che è a capo della divisione delle neuroscienze e
delle scienze del comportamento dello stesso istituto, hanno affermato
in un editoriale di maggio di Biological Psychiatry che gli studi associativi dell’intero genoma possiedono un potenziale incontestabile, ma
per ottenere un successo occorrono alcune condizioni 8. I campioni analizzati devono essere numerosi e le caratteristiche ben definite, questo
potrebbe essere un problema per i piccoli laboratori di ricerca che
hanno accesso a un numero limitato di pazienti. Inoltre, dato che si
tratta di disturbi di cui i criteri diagnostici sono poco differenziati o
controversi, può essere difficile precisare con esattezza i fattori genetici
in causa.
La banca dati è a disposizione dei laboratori e dei centri di ricerca che desiderano identificare gli indicatori e gli effetti dei geni. Se le banche dati
diventeranno numerose e saranno messe a disposizione per uso pubblico,
sarà possibile capire in modo dettagliato il ruolo dei geni nei disturbi psichiatrici e sviluppare dei trattamenti più efficaci.
I disturbi psichiatrici, del comportamento e le dipendenze
Per affrontare questo inconveniente gli autori sostengono la messa in
comune dei dati delle banche genomiche. Un primo tentativo era già stato
fatto dal NIMH per il genoma dei disturbi bipolari. I ricercatori dell’istituto
avevano realizzato una banca dati con le variabili convalidate per più di
5000 persone affette da disturbi bipolari 9.
79
I disturbi sensoriali
e delle funzioni corporee
La reazione febbrile
82
L’apprezzamento universale della musica
84
Un fenomeno complesso:
la percezione del linguaggio parlato
85
81
N
el 2007 gli scienziati hanno continuato ad esplorare come il cervello
elabora e reagisce agli stimoli che riceve. I ricercatori della Harvard University hanno studiato il meccanismo attraverso il quale ci si sente malati ed
hanno aperto una via che potrebbe offrire a certi pazienti un’alternativa al
trattamento classico del dolore. I ricercatori della Duke University e della
Johns Hopkins University hanno fatto progressi nella difficile esplorazione
della percezione del dolore, essi hanno inoltre indagato la percezione della
musica e del linguaggio chiarendo alcuni meccanismi con cui il cervello
analizza i suoni.
La reazione febbrile
L’impressione di sentirsi ammalati è costituita da una serie di sintomi che
accompagnano la febbre: male alle ossa, fatica, perdita di appetito, brividi
che si alternano a vampate di calore. La febbre è una reazione dell’organismo a diverse situazioni riconosciute come una minaccia. Le più frequenti
sono le infezioni batteriche e virali, oltre alle malattie non infettive che colpiscono il sistema immunitario come per esempio la poliartrite reumatoide
e la malattia di Crohn, che rialzano la temperatura oltre i 37 gradi.
Lo stato febbrile è sgradevole, ma la febbre contribuisce nella lotta contro
l’infezione. Essa stimola l’attività dei globuli bianchi, che resistono più tenacemente all’invasione dei germi. Gli agenti patogeni hanno più difficoltà a
sopravvivere e a moltiplicarsi in un ambiente la cui temperatura è più alta 1.
Fino a poco tempo fa il meccanismo che genera la febbre era sconosciuto.
Gli scienziati sapevano che la temperatura corporea aumenta quando la
prostaglandina E2 (PGE2), un ormone sintetizzato dai vasi sanguigni situati
alla periferia del cervello, è riversata nella circolazione, attraversa la barriera
ematoencefalica e si lega ai recettori della prostaglandina EP3 (EP3Rs).
I recettori in questione si trovano nella parte dell’ipotalamo denominata
nucleo preottico mediano e in altri punti del sistema nervoso centrale.
La questione alla quale Clifford B. Saper e il suo gruppo di Harvard hanno
cercato di rispondere nel 2007 è la seguente: quali sono i recettori che
rispondo alla PGE2 provocando un rialzo della temperatura?
82
Per studiare la reazione dei recettori, il gruppo di Clifford Saper ha utilizzato un vettore virale – cioè un virus modificato e reso inoffensivo, chiamato virus adenoassociato – allo scopo di trasportare nel cervello di un
topo del materiale genetico. Il vettore « esclude » il gene EP3, impedendo
alla PGE2 di legarsi al recettore. I ricercatori hanno lavorato su piccole
regioni, misurando la reazione febbrile dei topi dopo ogni intervento.
I disturbi sensoriali e delle funzioni corporee
I ricercatori sono riusciti a
impedire lo sviluppo
della febbre nei topi,
bloccando i recettori EP3
della prostaglandina (in
bianco) nella regione
sopra il terzo ventricolo.
Le cellule scure sono
state modificate tramite
l’iniezione di un gene che
blocca la funzione dei
recettori EP3. Il riquadro
è un ingrandimento della
stessa regione.
Gli scienziati hanno notato che quando i recettori EP3 del nucleo preottico
mediano non potevano svolgere la loro funzione – a causa dell’esclusione
indotta artificialmente dai ricercatori – l’infezione non provocava febbre
nei topi 2.
Il gruppo di Clifford Saper attribuisce alla PGE2 e ai suoi recettori EP3 i sintomi che si percepiscono quando ci si ammala. I farmaci come l’aspirina o
l’ibuprofene bloccano la sintesi delle prostaglandine e riducono la febbre
e i dolori. Ma perché i ricercatori si sono interessati alla reazione febbrile?
In primo luogo perché è un parametro facile da misurare (più che la sensazione di male alle ossa o la fatica). Secondariamente perché la ricerca sulla
febbre era più in avanti rispetto allo studio delle altre reazioni alle infezioni.
Il gruppo di Harvard nel 2008 analizzerà nel topo, il ruolo che la PGE2 e il
suo recettore EP3 svolgono nel dare avvio alla reazione algica nelle infezioni.
Se il meccanismo attraverso il quale il corpo avverte il dolore quando è
ammalato può essere compreso esattamente quanto il meccanismo che
genera la febbre, il dolore potrebbe allora essere controllato dall’ormone
PGE2 e i relativi recettori.
83
Questa potrebbe essere un’alternativa agli oppioidi e ad altri farmaci
analgesici usati per migliorare le condizioni dei pazienti che soffrono di
malattie croniche o terminali, nei quali la reazione dolorosa non è né profilattica né adattativa. Per migliorare la qualità della vita di queste persone, i
farmaci dovrebbero semplicemente abbassare il livello di intensità della
reazione algica.
L’apprezzamento universale della musica
L’orecchio umano percepisce una grande varietà di suoni. I musicologi che
studiano la musica di tutte le culture hanno notato che per creare la musica
sono usati praticamente gli stessi insiemi di suoni, o gamme. Dale Purves e
i suoi colleghi della Duke University ipotizzano che questo fatto sia in
relazione con i suoni usati per parlare. Nel 2007 essi hanno scoperto i nessi
tra il linguaggio e le note musicali gradevoli da ascoltare.
I ricercatori hanno ipotizzato che gli intervalli tra le note preferite mimassero le inflessioni della lingua parlata. Essi ritenevano di potere cartografare le modulazioni della voce con scale di uso corrente si sono però accorti
che gli intervalli non erano gli stessi. Per delucidare il possibile nesso
hanno preso in considerazione i formanti.
Quando uno strumento musicale produce una nota, essa può essere rappresentata sotto forma di uno spettro. I gruppi di armoniche che più spiccano nello spettro di un suono emesso da uno strumento musicale oppure
dalla voce umana sono detti formanti.Quando una persona emette un
suono vocale, sono i formanti che lo rendono intelligibile e permettono di
distinguerlo da altri suoni vocali.
Dale Purves e i suoi colleghi hanno fatto un’analisi statistica degli spettri
sonori creati dalla musica e dall’emissione di vocali (lo spettro era rappresentato visivamente). I ricercatori hanno scoperto che nel 68% dei casi gli
stessi intervalli che generano un suono gradevole, in tutte le epoche e in
tutte le culture, sono quelli che si usano quando si pronunciano le vocali 3.
Le armoniche che si accentuano parlando, cioè le frequenze che armonizzano e formano un suono di una vocale, sono spesso gli stessi intervalli cromatici musicali, quindi i suoni prodotti dalla musica preesistono
nel linguaggio.
84
Secondo il principio evolutivo, che procede per eliminazione, i gusti estetici dell’uomo devono essere radicati in un contesto pratico. Quindi le
Dale Purves intende esplorare in futuro i rapporti tra la musica e le emozioni. Nella composizione, il tono maggiore è quello della luce e della
speranza, mentre il minore è quello della malinconia. Dale Purves ritiene
che le modificazioni della laringe indotti dal sistema nervoso producono
dei cambiamenti che riflettono questi due modi a livello dei formati.
Secondo questa teoria, il sistema nervoso comanda alla laringe di produrre
dei formati in maggiore in una persona contenta e in minore se è triste.
I disturbi sensoriali e delle funzioni corporee
armonie che il cervello trova gradevoli riconoscono nel nostro ambiente
degli aspetti che portano o che portavano delle informazioni importanti.
Ascoltare quello che diceva l’altro, poteva (e può ancora) essere una questione di vita o di morte; le persone che provavano piacere nel sentire,
ascoltavano, traendo importanti insegnamenti e quindi vantaggi. Gli individui che ottenevano più successo nella vita pratica potevano quindi
anche crescere e accedere alla riproduzione meglio di altri. Secondo
questa teoria, proprio con gli intervalli usati da questi primi uomini inventarono la musica.
Un fenomeno complesso:
la percezione del linguaggio parlato
Murray Sachs e Eric D. Young, della Johns Hopkins University, hanno
scoperto negli anni 1970 il meccanismo cerebrale che codifica e comprende il linguaggio parlato. Essi hanno costatato che i suoni facevano
vibrare le cellule ciliate dell’orecchio interno y e che all’interno di queste
cellule la vibrazione è trasformata in segnale elettrico che raggiunge il
cervello attraverso il nervo uditivo.
Negli anni 1980, i ricercatori hanno cercato di capire come il cervello rappresenta i differenti tipi d’informazioni che giungono attraverso l’orecchio. Ciascuna delle 30 000 fibre nervose uditive rappresenta un numero
molto piccolo di frequenze. Le frequenze dominanti che equivalgono ai
formanti studiati da Dale Purves e il suo gruppo, sono estratte a livello del
nucleo cocleare, che interpreta la risposta delle fibre nervose uditive a
differenti frequenze.
Xiaoqin Wang, un ricercatore associato al gruppo, si è interessato al modo
in cui il cervello tratta gli stimoli come il linguaggio a livello della corteccia
uditiva. Egli ha cercato di capire come l’uistiti, una piccola scimmia che
possiede un repertorio vocale particolarmente esteso, sceglie gli stimoli
uditivi che preferisce. I suoni che questa scimmia emette le permettono di
85
Gli intervalli fra le note nella scala
musicale cromatica (i tasti segnati nella
figura) corrispondono ai toni della voce
umana (le creste della linea bianca
illustrata). Questi picchi permettono il
riconoscimento dei suoni delle vocali e
potrebbero spiegare perché gli esseri
umani apprezzano determinati suoni.
comunicare ogni sorta d’informazione di ordine sociale o pratico, anche in
cattività. Xiaoqin Wang e i suoi colleghi hanno fatto sentire a delle scimmie
e a dei gatti dei suoni registrati di un urlo della scimmia. Le registrazioni
erano fatte sentire prima normalmente e poi al contrario. I ricercatori si
sono accorti che l’urlo della scimmia era percepito in modo diverso dalla
scimmia e dal gatto. La risposta dei gatti all’urlo registrato della scimmia era
la stessa, quando il magnetofono girava in un senso o nell’altro. I neuroni
delle scimmie della stessa specie, invece, reagivano più intensamente,
quando l’urlo era riprodotto nel verso giusto. Questa esperienza dimostra
che gli animali trattano unicamente i suoni delle loro specie, e conferma le
differenze osservate a livello di una struttura cerebrale denominata collicolo inferiore.
Questa struttura studiata attentamente da Eric Young introduce il fattore
tempo nella comprensione del linguaggio. Quando si ascolta parlare una
persona si sentono dei suoni che si decifrano e s’immagazzinano nella
memoria a corto termine, anticipando i suoni seguenti. Quando molte persone parlano contemporaneamente, come in un gruppo di discussione, il
cervello percepisce i flussi di parole come dei flussi distinti. La rapidità con
la quale esso riesce a dare un significato al linguaggio è quello che rende
quest’organo un indispensabile mezzo di scambio d’informazione.
86
Eric Young s’interessa ora al modo in cui il sistema uditivo contribuisce alla
memoria a corto termine e al trattamento momento per momento del
Nel 2008 Murray Sachs dovrebbe collaborare con Young e Wang per cercare di comprendere come l’uistiti distingue il grido di uno dei suoi congeneri, quando sono in molti e quando non si guardano. I ricercatori credono
che il nostro cervello e quelli di certi animali siano in grado di formare
quello che viene chiamato « un oggetto uditivo », cioè di isolare un suono
tra tutti quelli che provengono dalla stessa fonte. Secondo loro è proprio
nel collicolo inferiore che si trovano i neuroni che realizzano quest’analisi,
la stessa che permette agli umani di comprendere quello che viene detto
in una folla o di percepire tra tutti i suoni di un’orchestra quello di un preciso strumento.
Il gruppo ha anche l’intenzione di studiare i meccanismi della percezione
della musica. Comme Dale Purves, Murray Sachs s’interessa agli effetti
della musica sulle emozioni.
I disturbi sensoriali e delle funzioni corporee
suono che dà un senso al linguaggio. La tappa seguente consisterà nello
studiare i meccanismi grazie ai quali l’uomo è capace di anticipare quel che
gli è detto.
87
Cellule staminali
e neurogenesi
Cellule staminali che provengono dalla pelle
90
Cellule staminali provenienti da embrioni che
non possono generare un essere vivo
91
Le cellule staminali neuronali non sono tutte uguali
92
Delle cellule staminali proteggono i neuroni
nella Sclerosi Laterale Amiotrofica
93
Strumenti potenti per studiare le malattie
94
89
L
e cellule staminali sono i precursori immaturi e polivalenti dei tessuti
umani. Esse costituiscono anche uno strumento importante per la comprensione e il trattamento delle malattie, in particolare le patologie neurodegenerative che provocano la morte di popolazioni di cellule cerebrali. Nel 2007,
degli scienziati hanno annunciato di avere scoperto il modo di ottenere
importanti quantità di cellule staminali per tutti gli organi, cervello compreso, senza sollevare dei problemi etici. Altri studi hanno riferito che le
cellule staminali possono aiutare a chiarire i processi neurodegenerativi ed
essere utilizzate con successo per le cellule cerebrali che stanno per morire.
Cellule staminali che provengono dalla pelle
Nel 2007 la ricerca sulle cellule staminali ha compiuto un importante passo
avanti verso un obiettivo da lungo tempo ambito: disporre di cellule che
provengono dai tessuti umani adulti ma con le proprietà delle cellule staminali embrionali, così da evitare le questioni etiche poste dall’utilizzo degli
embrioni. Sul numero della rivista Cell del 20 novembre, Shinya Yamanaka
e i suoi colleghi della Kyoto University in Giappone, hanno inserito in un
virus quattro geni attivi durante lo sviluppo embrionale. Il virus è stato
poi introdotto nei fibroblasti, delle cellule prelevate da individui adulti. I
quattro geni hanno «riprogrammato» le cellule della pelle così da produrre
una linea di cellule staminali che si rinnovano e producono cellule simili a
quelle generate dalle cellule staminali embrionali 1. Un altro gruppo diretto
da James Thompson dell’Università del Wisconsin a Madison, ha utilizzato
una combinazione di geni un po’ diversa per riprogrammare allo stesso
modo le cellule epiteliali, che però erano state prelevare da neonati. I risultati sono stati pubblicati il 19 novembre nella versione online della rivista
Science e il 21 dicembre su quella cartacea 2.
Le cellule staminali prodotte con questo metodo possiedono la medesima
«pluripontenzialità» delle cellule staminali embrionali, cioè la capacità di
trasformarsi in tutti i tipi di cellula. Due studi pubblicati nel numero di
Nature del 19 luglio, uno di Yamanaka e uno di Rudolph Jaenisch e i suoi
colleghi del Whitehead Institute di Boston, utilizzando la stessa tecnica
hanno dimostrato la pluripotenzialità di linee cellulari prodotte dalle cellule
della pelle di topo 3, 4.
90
L’uso più immediato di questa tecnica sarà quello di produrre delle linee
cellulari che contengono i geni noti per essere responsabili di specifiche
malattie come la forma ereditaria del morbo di Alzheimer o di quello di
Cellule staminali e neurogenesi
Parkinson. L’obiettivo è cercare di capire in quale modo il gene influisce
sulla neurodegenerazione così da scoprire potenziali terapie. Queste
nuove tecniche potrebbero aprire una nuova era della medicina, un’epoca
in cui molte delle malattie cerebrali potrebbero essere curate sostituendo
le cellule neurali lese con nuove popolazioni cellulari derivanti dalle cellule
staminali del paziente stesso. Per ora, i problemi sono ancora molti. Per
esempio, l’uso di virus modificati per introdurre i geni nelle cellule della
pelle potrebbe indurre lo sviluppo di tumori. Le cellule staminali che derivano dalla pelle non sono identiche a quelle prodotte dagli embrioni e le
differenze potrebbero essere importanti. Quando questi problemi saranno
risolti, la possibilità di produrre cellule staminali in grande quantità senza
usare embrioni umani provenienti dalla fertilizzazione in vitro, sarà un
importante passo avanti.
Cellule staminali provenienti da embrioni che
non possono generare un essere vivo
Nel 1997 la clonazione della pecora Dolly con la tecnica denominata trasferimento nucleare di cellule somatiche, aveva fatto sperare che questo
metodo potesse essere utilizzato per produrre un’infinita quantità di cellule staminali sia sane prelevate dai pazienti, sia portatrici di determinate
anomalie genetiche a scopo di ricerca. Questo metodo presuppone tuttavia che il materiale genetico delle cellule che si desidera produrre sia inserito in un ovocita, e ottenere degli ovociti umani in numero sufficiente pone
numerosi problemi, sia tecnici che etici.
Secondo lo studio pubblicato nel numero di Nature del 7 giugno, una
nuova tecnica permette di oltrepassare molti di questi ostacoli. Lavorando
sui topi, Dieter Egli e un gruppo della Harvard University hanno dimostrato
per la prima volta che era possibile inserire del DNA di cellule staminali in
ovuli fecondati, gli zigoti.
I ricercatori hanno utilizzato zigoti portatori di cromosomi soprannumerari,
che non sono vitali e quindi non generano un essere vivente. Dopo avere
tolto i cromosomi in eccesso hanno inserito il DNA delle cellule staminali
che volevano ottenere. Secondo il rapporto della American Society for
Reproductive Medicine/Society for Assisted Reproductive Technology
Registry pubblicato nel 2000, da 3 a 5% degli zigoti presentano questo tipo
di aberrazioni cromosomiche 5. Lo studio dimostra per la prima volta che è
possibile generare grandi quantità di cellule staminali partendo da zigoti
non utilizzabili – che sono decine di migliaia.
91
Gli zigoti con le aberrazioni cromosomiche utilizzati in questo studio non
erano vitali e quindi tale tecnica non distrugge potenziali vite, inoltre il
DNA delle cellule staminali ottenute in questo modo è differente da quello
dei donatori. Questo metodo potrebbe offrire quindi una possibilità
eticamente accettabile per generare delle cellule staminali su una scala
sufficientemente importante per studiare molte malattie genetiche 6.
Le cellule staminali neuronali non sono tutte uguali
Per ottenere delle possibili applicazioni terapeutiche dalle cellule staminali
neuronali è indispensabile una conoscenza approfondita dei fattori che ne
controllano lo sviluppo. Secondo le conoscenze attuali, le cellule staminali
neuronali all’inizio della loro vita possiedono un potenziale di differenziazione uniforme e quasi illimitato.
Questa ipotesi si basa tuttavia su degli studi realizzati con cellule ottenute
in coltura. Che cosa accade alle cellule staminali che si trovano nel cervello?
Uno studio pubblicato nel numero di Science del 20 luglio, dimostra che il
destino delle cellule staminali dipende dalla loro localizzazione 7.
Lavorando su topi neonati e adulti, Arturo Alvarez-Buylla e i suoi colleghi
dell’Università della California a San Francisco hanno studiato la progenie
di piccole formazioni di cellule staminali, marcate con una proteina verde
fluorescente. Questa tecnica ha permesso di seguire il percorso delle
cellule staminali in 15 luoghi diversi di una vasta regione « germinativa » del
cervello adulto nella quale si formano dei neuroni e altre cellule cerebrali
anche dopo la nascita.
92
I neuroni maturi marcati in verde si erano formati in tutti luoghi, ma il
tipo di neurone prodotto differiva a seconda della sua origine. Le cellule
staminali avevano inoltre una notevole resistenza ai cambiamenti di
luoghi. Una volta tolte dal cervello dei topi e allevate in coltura, anche se
esposte a diversi fattori di crescita o inserite in differenti siti delle regioni
germinative di altri animali, le staminali continuavano a dare origine a
neuroni e ad altre cellule cerebrali, ma sempre cellule specifiche della
loro localizzazione di origine. Questa scoperta potrebbe significare che
le cellule staminali sono versatili, ma che i neuroni che ne derivano
sono specifici della regione del cervello da cui provengono e non cambiano identità alla variazione del luogo. Questa specificità potrebbe
restringere le possibilità terapeutiche di una determinata popolazione di
cellule staminali.
Cellule staminali e neurogenesi
Clive Svendsen e i suoi
colleghi dell’Università del
Wisconsin a Madison
hanno sviluppato delle cellule staminali che secernono il fattore neuroprotettivo GDNF (glial-derived
neurotrophic factor). Gli
impianti di queste cellule
permettono la sopravvivenza dei neuroni motori
nei ratti con una SLA a uno
stadio precoce.
Delle cellule staminali proteggono i neuroni
nella Sclerosi Laterale Amiotrofica
Le cellule staminali sono apprezzate per la loro capacità di produrre generazioni di cellule sane, capaci di assumere il ruolo delle cellule distrutte
dalle malattie neurodegenerative; esse possono inoltre essere utilizzate
per produrre degli agenti terapeutici utili ai neuroni lesi.
Clive Svendsen e i suoi colleghi dell’Università del Wisconsin a Madison,
hanno manipolato delle cellule staminali embrionali affinché producessero
una sostanza denominata GDNF (glial-derived neurotrophic factor), che
alimenta e protegge i neuroni. Secondo l’articolo pubblicato il 31 luglio
nella rivista online PLoS One, della Public Library of Science, gli autori
hanno trapiantato delle cellule staminali che sintetizzano il GDNF nel
midollo spinale di ratti portatori del modello animale della sclerosi laterale
amiotrofica (SLA), una malattia che lede i neuroni motori 8.
Nei ratti allo stadio iniziale della malattia, i trapianti hanno protetto praticamente tutti i neuroni malati. Dando prova di un alto grado di affinità per i
neuroni lesi, le cellule manipolate hanno direttamente raggiunto e alimentato in GDNF le zone lese.
L’intervento non ha né ristabilito la comunicazione tra i neuroni motori e i
muscoli, né ha procurato un miglioramento funzionale agli animali. Sul
piano terapeutico esso si è quindi limitato a mantenere in vita i neuroni.
Attualmente questa capacità meno nota di trasportare agenti terapeutici
verso le lesioni è allo studio per il trattamento dei tumori cerebrali.
93
Strumenti potenti per studiare le malattie
Grazie alle cellule staminali, due gruppi di ricercatori hanno scoperto informazioni molto importanti sulla sclerosi laterale amiotrofica. Il 90% dei casi
di SLA sono sporadici, si manifestano quindi in assenza di antecedenti
famigliari. In alcune persone è stato identificato un gene mutato che
potrebbe partecipare alla malattia. Il gene in questione codifica per un
enzima chiamato superossido dismutasi-1 (SOD1).
Non è ancora noto il meccanismo attraverso il quale il gene mutato lede i
neuroni. S’ignora in particolare, se esso agisca direttamente sulla funzione
dei neuroni motori o se siano coinvolte altre cellule. Degli studi recenti
mostrano che se dei neuroni motori sani sono posti in coltura con cellule
non neuronali portatrici della mutazione, anche le cellule sane manifesteranno le caratteristiche della SLA.
Secondo questi due studi, pubblicati nel numero di Nature Neuroscience
di maggio, il problema nasce dagli astrociti, le cellule a forma di stella che
svolgono numerose funzioni di sostegno. Lavorando con i neuroni motori
prelevati da embrioni di topo e da altri neuroni tratti da cellule staminali
embrionali di topo, un gruppo della Columbia University diretto da Serge
Przedborski ha constatato nel primo dei due studi, che i neuroni motori
portatori della mutazione SOD umana presentavano delle anomalie ma
non i segni di neurodegenerazione 9.
Gli astrociti con la mutazione, invece, provocavano la morte dei neuroni
motori; i meccanismi degenerativi erano gli stessi osservati nella SLA. Gli
autori hanno constatato che i danni provocati dagli astrociti erano dovuti
alla secrezione di una sostanza con una tossicità selettiva per i neuroni
motori, contrariamente alle sostanze inoffensive liberate da altri tipi di
cellule di sostegno, in particolare le cellule gliali.
94
Nel secondo studio, Kevin Eggan e due gruppi delle università di Harvard
e di Perugia hanno creato un modello animale con delle cellule staminali
embrionali di topo per affrontare la stessa questione 10. I ricercatori hanno
modificato queste cellule affinché presentassero il gene SOD umano
normale e la sua versione mutata, poi hanno lasciato che le cellule si differenziassero in neuroni motori. Gli scienziati hanno costatato che le cellule
mutate percorrevano tutti gli stadi classici della malattia, fino alla morte
dei neuroni motori. Questo permette di supporre che l’approccio costituisce un modello efficace della SLA utile per la ricerca. I neuroni motori,
Le ultime ricerche dimostrano che la SLA potrebbe essere dovuta agli
astrociti quindi a fattori esterni ai neuroni, questa scoperta potrebbe aprire
nuove piste terapeutiche. Gli studi evidenziano inoltre che le cellule staminali sono uno strumento utile per studiare i meccanismi di sviluppo di una
malattia; il secondo studio in particolare propone nuovi farmaci potenziali
e un metodo di screening basato sulle cellule.
Cellule staminali e neurogenesi
sia normali che mutati, presentavano inoltre dei segni di neurodegenerazione quando erano posti in coltura in compagnia di cellule di supporto
SOD mutanti.
95
I disturbi del pensiero
e della memoria
La proteina beta amiloide ed il morbo di Alzheimer
98
Varianti genetiche
100
Altri obiettivi terapeutici
101
Predire il morbo di Alzheimer
103
Ricordarsi ed immaginare
103
97
N
el 2007 la ricerca ha fatto passi avanti nella comprensione e nel trattamento delle patologie neurodegenerative come il morbo di Alzheimer. Le
ricerche hanno permesso di progredire nella conoscenza dei meccanismi
che permettono al cervello di usare la memoria del passato per preparare
il futuro.
Finora nessun farmaco si è rivelato efficace nel bloccare il progredire del
morbo, tuttavia in certi ambiti sono stati fatti progressi che messi insieme
potrebbero migliorare i trattamenti e forse anche la prevenzione di questa
malattia. La proteina beta amiloide è uno degli argomenti della ricerca, ma
non l’unico.
La proteina beta amiloide ed il morbo di Alzheimer
Molti studi si sono concentrati sulle placche di beta amiloide e le neurofibrille che si depositano nel cervello delle persone affette dal morbo di
Alzheimer. Le placche si formano negli interstizi tra le cellule cerebrali,
mentre i grovigli di neurofibrille all’interno delle cellule. I ricercatori ritengono però che i danni neuronali e i deficit funzionali precedano l’apparizione di queste strutture.
Sono unanimi i risultati di diversi studi realizzati con colture di cellule di topi
transgenici (geneticamente modificati per contenere del DNA umano) o
nel cervello umano: l’accumulo progressivo della sostanza beta amiloide
esercita un effetto tossico sulle cellule molto prima che siano visibili le placche e i grovigli di neurofibrille. Nel 2007 molte ricerche hanno analizzato le
sottounità che costituiscono la proteina beta amiloide.
Un gruppo di ricerca diretto da Lennart Mucke dell’Università della California a San Francisco, ha studiato dei topi transgenici che presentavano
delle quantità importanti di sottounità di beta amiloide nel cervello. Gli
animali mostravano numerosi sintomi del morbo di Alzheimer, compresi i
deficit cognitivi 1.
98
I ricercatori hanno evidenziato un’elevata attività di crisi non convulsive nell’ippocampo e nella corteccia cerebrale, due regioni che svolgono un ruolo
importante nella memoria. In queste regioni cerebrali le sottounità di beta
amiloide provocavano un tasso importante di scariche nei circuiti neuronali
eccitatori. In risposta a questo fenomeno si rimodellano i circuiti inibitori, la
conseguenza è una riduzione del numero di scariche nei circuiti eccitatori.
Secondo i ricercatori, i deficit cognitivi osservati nel morbo di Alzheimer
potrebbero risultare dalla combinazione dell’eccesso di scariche neuronali
dovute alle sottounità di beta amiloide seguita dal rimodellamento compensatorio dei circuiti inibitori, che ha un influsso negativo sulla funzione
dei circuiti eccitatori.
I disturbi del pensiero e della memoria
I ricercatori nel 2007 hanno studiato
l’effetto delle ADDL, delle proteine
tossiche che si accumulano nel cervello
e nel liquido cerebrospinale nel morbo
di Alzheimer. Queste molecole si legano
alle sinapsi e interferiscono con i
processi mnemonici che avvengono
nelle cellule del cervello.
Secondo Mucke, dei trattamenti che bloccano la sovraeccitazione dei neuroni generata dalla sostanza beta amiloide potrebbero impedire l’attivazione delle vie inibitrici, il loro conseguente rimodellamento e le alterazioni
cognitive che ne derivano.
Un gruppo di ricerca della Northwestern University diretto da William
Klein ha studiato l’effetto delle sottounità della sostanza beta amiloide
denominate ADDL sulla composizione, la struttura e la densità delle
sinapsi 2. Accumulandosi nel cervello e nel liquido cerebrospinale, queste
molecole si legano alle sinapsi e interferiscono con la loro plasticità provocandone la degenerazione, da cui risultano i disturbi della memoria osservati all’inizio nel morbo di Alzheimer.
Klein e il suo gruppo hanno studiato le spine dendritiche, cioè i sottili prolungamenti neuronali situati sui dendriti che conducono l’influsso nervoso
dalla periferia verso il corpo del neurone.
Utilizzando in coltura i neuroni prelevati dall’ippocampo, Klein e i suoi
colleghi hanno costatato che le ADDL si legano alle spine dendritiche
di determinati neuroni, aumentando il numero di certi recettori che
99
intervengono nella memoria. Un’esposizione prolungata a queste proteine
rende le spine dendritiche anormalmente lunghe e sottili e il loro numero
diminuisce. Il risultato è un deterioramento delle sinapsi. I ricercatori
hanno constatato che la memantina, utilizzata nel trattamento del morbo di
Alzheimer, blocca i due fenomeni.
In uno studio analogo, un gruppo di Harvard diretto da Bernardo Sabatini,
ha dimostrato che le sottounità composte di due o tre molecole di beta
amiloide (non quelle composte di un’unica molecola), provocavano una
perdita progressiva delle sinapsi delle cellule ippocampali 3. I ricercatori
hanno osservato sui neuroni piramidali esposti a queste piccole molecole
solubili una diminuzione della densità delle spine dendritiche e del numero
delle sinapsi attive.
La somministrazione di anticorpi specifici diretti sulla sostanza beta amiloide e di un agente che impedisce alle piccole molecole di formare unità
più grandi, ha interrotto la scomparsa delle spine dendritiche. Sabatini ha
concluso quindi che la perdita di sinapsi sarebbe provocata dalle piccole
unità solubili di beta amiloide.
Sebbene non sia ancora chiara l’esatta struttura molecolare di queste
sottounità solubili che unendosi formano delle placche e delle fibrille visibili, stanno per essere sviluppati e testati dei farmaci che cercano di impedirne la formazione. L’obiettivo del trattamento è rallentare o arrestare il
deterioramento dei circuiti neuronali prima che appaiano i sintomi del
morbo di Alzheimer 4.
Varianti genetiche
La sostanza beta amiloide si forma dal precursore proteico dell’amiloide
(APP) in diverse parti della cellula. Una delle tappe importanti della sua
costituzione si situa al momento in cui attraverso una precisa via, l’APP
passa dalla superficie verso l’interno della cellula ed è riciclato. Un gruppo
internazionale di ricercatori diretto da Peter St. George-Hyslop all’Università di Toronto, ha ipotizzato che l’esistenza di differenze ereditarie a questo
livello possono avere delle ripercussioni sia sul metabolismo dell’APP e sia
sul rischio di sviluppare il morbo di Alzheimer.
100
I ricercatori hanno pubblicato nella rivista Nature Genetics che delle differenze del gene SORL1 sono associate con l’apparizione tardiva del morbo
di Alzheimer 5. Le varianti sono state osservate in almeno due gruppi di
Secondo questo studio il gene SORL1 dirige l’APP sulle vie del riciclaggio.
Quando il SORL1 viene meno, l’APP è collocato nei compartimenti cellulari
dove si forma la proteina beta amiloide. I ricercatori hanno concluso che i
cambiamenti ereditari o acquisiti dell’espressione o della funzione del
gene SORL1 fanno parte dei fattori che causano il morbo di Alzheimer.
Altri obiettivi terapeutici
La proteina beta amiloide non è l’unico bersaglio dei trattamenti per il
morbo di Alzheimer, ce ne sono altri, tra i quali la proteina tau.
La proteina tau abbonda nei neuroni normali. Essa interagisce con la tubulina per promuovere e stabilizzare i microtubuli delle strutture che costituiscono lo scheletro cellulare fondamentale per il trasporto.
I disturbi del pensiero e della memoria
DNA non codificante del gene SORL1, essi potrebbero però regolarne
l’espressione nel tessuto cerebrale.
Esistono delle varianti anormali della proteina tau, che possono formare i
grovigli neurofibrillari osservati nei neuroni delle persone affette dal
morbo di Alzheimer. Gli scienziati stanno cercando di capire se dei trattamenti mirati contro questa proteina arrestano il declino cognitivo indotto
dalla sostanza beta amiloide.
A San Francisco, un gruppo del Gladstone Institute of Neurological Disease diretto da Eric Roberson ha cercato di delucidare questa questione
usando dei topi geneticamente modificati in modo da esprimere alti livelli
di proteina precursore dell’amiloide. Studiando i topi in un labirinto acquatico finalizzato all’apprendimento e alla memoria, i ricercatori hanno costatato che i topi con un basso livello di proteina tau nei tessuti conservavano
la facoltà di memorizzare il labirinto anche quando il livello della proteina
beta amiloide era elevato.
Un altro potenziale strumento terapeutico è il peptide NAP
che protegge i neuroni contro la distruzione indotta dalla sostanza
beta amiloide.
I ricercatori hanno notato che la riduzione del tasso di proteina tau
protegge sia i topi geneticamente modificati sia quelli non transgenici
dall’effetto tossico denominato eccitotossicità che un particolare aminoacido esercita sui neuroni. La conclusione dello studio pubblicato in
Science è che l’abbassamento del livello di proteina tau nei tessuti può
101
arrestare il disfunzionamento neuronale provocato dalla sostanza beta
amiloide e l’eccitotossicità 6. La riduzione della proteina tau potrebbe
essere una strategia terapeutica efficace per il morbo di Alzheimer e altri
tipi di demenza.
Un altro potenziale strumento terapeutico è il peptide NAP, che protegge i
neuroni contro la distruzione indotta dalla sostanza beta amiloide. Questo
peptide sembra impedire la formazione di placche e fibrille da parte della
sostanza beta amiloide. Il NAP si lega alla tubulina, prevenendo la disorganizzazione dei microtubuli osservata nel morbo di Alzheimer.
Paul Aisen e il suo gruppo di ricercatori della Georgetown University
hanno studiato dei topi transgenici che presentano i due grandi segni
del morbo di Alzheimer: l’accumulo di beta amiloide e le anomalie
della proteina tau associate alla disfunzione microtubulare. Per tre mesi, i
ricercatori hanno somministrato quotidianamente ai topi che avevano
nove mesi all’inizio dello studio, delle dosi di NAP prima dell’apparizione
dei sintomi.
Come spiegato nel Journal of Molecular Neuroscience, il trattamento ha
ridotto in modo significativo i tassi cerebrali della sostanza beta amiloide
e i livelli della proteina tau anormale 7. La conclusione dei ricercatori è
che il peptide NAP potrebbe essere un trattamento possibile per il morbo
di Alzheimer.
Al Massachusetts Institute of Technology, un gruppo di scienziati ha studiato dei topi nei quali per un breve intervallo era possibile controllare la
perdita di neuroni in precise aree cerebrali. Una parte dei topi è stata posta
in un ambiente arricchito, con ruote, tunnel, scale, ecc. Questi topi, anche
dopo avere perso i neuroni e dopo che il loro cervello si era atrofizzato,
hanno ritrovato le facoltà di apprendimento e memoria a lungo termine.
I ricercatori hanno studiato il materiale genetico del tessuto cerebrale dei
topi, in particolare la struttura di base dei cromosomi composta di cromatina. I filamenti di cromatina contengono gli istoni, delle proteine attorno
alle quali si avvolge il DNA. Gli istoni sono i principali costituenti delle code
o della fine dei filamenti di cromatina.
102
I ricercatori hanno notato che arricchendo l’ambiente dove vivevano i
topi, si producono dei cambiamenti chimici a livello delle code degli istoni.
Altri ricercatori studiano il meccanismo d’azione degli inibitori dell’enzima
HDAC. Prima di un loro eventuale utilizzo è importante capire se questi inibitori alterano l’espressione di molti geni e se hanno un effetto globale sul
processo mnesico o al contrario agiscono in modo mirato. Uno studio ha
permesso d’identificare due effetti specifici. Uno è in relazione con la proteina CREB. Sintetizzata all’interno del neurone, essa ha un ruolo importante nella formazione dei memoria. Gli inibitori dell’enzima HDAC interferiscono anche sull’espressione di diversi geni che intervengono nel
meccanismo della consolidazione dei memoria 9.
I disturbi del pensiero e della memoria
Gli stessi cambiamenti sono indotti da farmaci che inibiscono l’attività
dell’enzima HDAC. Si osserva infatti la gemmazione dei dendriti, aumenta
il numero di sinapsi, migliorano le facoltà di apprendimento e l’accesso alla
memoria a lungo termine. La conclusione di questo studio, pubblicato nel
numero di Nature del 10 maggio, è che i farmaci che inibiscono l’enzima
HDAC potrebbero essere utili nel trattamento del morbo di Alzheimer e in
altre forme di demenza 8.
Predire il morbo di Alzheimer
Un gruppo diretto da David Holtzman della Washington University a
St. Louis, ha affermato in Archives of Neurology del mese di marzo
del 2007 che la proporzione di certi tipi di beta amiloide e di proteina tau
permettono di stabilire se una persona senza disturbi cognitivi ha nel
cervello degli accumuli di amiloide e di conseguenza ha un maggiore
rischio di sviluppare una demenza.
I ricercatori hanno analizzato il liquido cerebrospinale e il sangue di
139 volontari tra 60 e 91 anni, le cui capacità cognitive erano normali
oppure presentavano segni di demenza leggeri o molto leggeri 10. Gli
scienziati hanno trovato nel liquido cerebrospinale dei soggetti con leggeri
segni di demenza dei tassi meno elevati di un particolare tipo di beta amiloide e dei livelli di proteina tau più elevata rispetto ai soggetti testimone
in buona salute. I livelli nei tessuti di questo tipo di beta amiloide hanno
predetto se il beta amiloide era presente nel cervello dei soggetti con o
senza demenza.
Ricordarsi ed immaginare
Molti ricercatori si sono occupati nel 2007 della relazione tra il ricordo del
passato e il modo con cui si immagina il futuro. Secondo uno studio realizzato da Arnaud D’Argembeau, Università di Liegi in Belgio, pubblicato nel
103
Journal of Abnormal Psychology, le persone che presentano una lesione
nell’ippocampo e i soggetti affetti da schizofrenia hanno difficoltà a stabilire questo nesso 11.
Una delle conseguenze della perdita della memoria episodica
nelle persone anziane è la difficoltà nell’integrare le informazioni
e di creare nessi tra i vari elementi.
Conclusioni simili sono tratte anche da uno studio realizzato ad Harvard e
pubblicato in Psychological Science. Lo studio in questione aveva come
oggetto la memoria episodica o autobiografica, che i ricercatori hanno
valutato in adulti di una certa età e in giovani studenti in buona salute. Grazie alla memoria episodica l’individuo evoca gli eventi che appartengono al
proprio vissuto e può proiettarsi in un tempo soggettivo che si estende dal
passato al futuro.
Invitati dai ricercatori a evocare degli eventi passati e futuri, gli adulti di una
certa età fornivano meno dettagli autobiografici con un nesso al passato
rispetto ai soggetti giovani. Il risultato è identico per gli eventi futuri immaginati, che erano meno ricchi in informazioni episodiche negli anziani
rispetto ai più giovani 12. La perdita della memoria episodica nelle persone
anziane provoca delle difficoltà nell’integrare l’informazione e nel mettere
in rapporto gli elementi che la compongono.
Gli studi realizzati con il neuroimaging dimostrano che le regioni del cervello che permettono di ricordarsi del passato e immaginarsi il futuro sono
in parte le stesse. In uno studio effettuato con la risonanza magnetica,
dopo avere chiesto a 21 volontari di 18-32 anni di evocare dei ricordi o di
immaginare eventi futuri è emersa un’impressionante sovrapposizione
delle zone attivate 13. Queste aree appartengono a un sistema che comprende le regioni prefrontali e mediane del lobo temporale e le regioni
posteriori (che includono il precuneo e la corteccia retrospleniale) associate a una rete di recupero dei ricordi.
104
Dagli studi simili a quello appena citato è nato il concetto di « cervello prospettico », che immagazzina delle informazioni di cui si serve per immaginare, simulare e predire gli eventi futuri. Questo concetto offre una nuova
via per rinnovare il modo di concepire la memoria, affermano gli psicologi
di Harvard Daniel Schacter, Donna Rose Addis e Randy Buckner 14. Questo
suggerisce che il cervello usa delle reti condivise del recupero dell’informazione, per ricordare e immaginare.
I disturbi del pensiero e della memoria
Per immaginare è tuttavia necessario ricombinare i dettagli in modo
diverso facendo intervenire altre regioni cerebrali. A causa di questa
sovrapposizione il ricordo non è mai una registrazione perfetta del passato
ma un processo che si costruisce. Schacter, Addis e Buckner sostengono
che la capacità di riorganizzare e modificare l’informazione immagazzinata
nella memoria potrebbe essere cruciale per pianificare il futuro.
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Illustrazioni / Fotografie
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115
Immaginate
un mondo . . .
…
in cui la malattia di Alzheimer, la malattia
di Parkinson, la sclerosi laterale amiotrofica,
la retinite pigmentosa e le altre cause di
cecità, saranno facilmente diagnosticate ad
uno stadio precoce e immediatamente curate
con medicinali che ne impediscono il deterioramento prima che le lesioni divengano
troppo gravi.
… in cui saranno noti i fattori ambientali
e genetici che predispongono le persone
alle malattie mentali. Dove esistono dei precisi test diagnostici e dei trattamenti mirati
– medicinali, sostegno psicologico, interventi
preventivi – disponibili e utilizzati su vasta
scala.
… in cui le nuove conoscenze sullo sviluppo
del cervello permetteranno sia di trarre un
maggior beneficio dai primi anni di apprendimento sia di combattere le patologie associate
all’età.
…
in cui le lesioni del midollo spinale non
saranno più sinonimo di paralisi a vita, poiché
sarà possibile programmare il sistema nervoso
così da ricostruire i circuiti neurali e ristabilire
l’attività muscolare.
… in cui gli individui non saranno più
schiavi delle tossicodipendenze e dell’alcolismo, perché esisteranno dei trattamenti
facilmente accessibili, che agendo a livello
delle vie nervose permetteranno d’interrompere i fenomeni responsabili delle crisi di astinenza e il bisogno impellente di consumare
delle sostanze generatrici di dipendenza.
…
in cui la vita delle persone non sarà
più in balia della depressione e dell’ansia
perché per curarle disporremo di efficaci
medicinali.
118
Anche se tale visione può sembrare irreale ed
utopica, stiamo vivendo un momento della
storia delle neuroscienze straordinariamente
promettente e fecondo. I progressi realizzati
dalla ricerca nel corso dell’ultimo decennio,
oltrepassano le nostre aspettative. Le conoscenze sui meccanismi fondamentali del funzionamento cerebrale si sono ampliate e oggi
possiamo cominciare a trarre un beneficio
pratico dal loro potenziale.
Abbiamo già cominciato a concepire delle
strategie, delle nuove tecniche e delle terapie
per combattere differenti malattie e disturbi
neurologici. Fissando degli obiettivi terapeutici e applicando le conoscenze attuali, sarà
possibile sviluppare dei trattamenti efficaci
che, in alcuni casi, permetteranno di ottenere
la guarigione completa.
I grandi progressi delle neuroscienze ci permettono inoltre di valutare l’entità di ciò che
ancora non conosciamo. Questo fatto costituisce senza dubbio uno stimolo che sprona
la ricerca fondamentale ad esplorare questioni più ampie sul funzionamento della
materia vivente, per formulare le domande di
ordine complesso che portano alle scoperte
scientifiche.
La ricerca clinica e fondamentale svolta in
modo coordinato da migliaia di scienziati, ha
generato un insieme di conoscenze nelle
diverse discipline, che variano dagli studi
delle strutture molecolari e dei medicinali, alla
visualizzazione cerebrale, alle scienze cognitive e alla ricerca clinica, che possono essere
messe al servizio della lotta contro le malattie
e i disturbi neurologici.
Come scienziati continueremo a progredire
sia individualmente nei nostri rispettivi ambiti,
sia cooperando con i nostri colleghi di altri
campi scientifici, moltiplicando le occasioni di
collaborazioni interdisciplinari.
La Dana Alliance for Brain Initiatives e la European Dana Alliance for the Brain riuniscono
degli specialisti nelle neuroscienze pronti
ad intraprendere progetti ambiziosi, come
abbiamo potuto osservare nel 1992 a Cold
Spring Harbor, New York, dove fu stabilito un
vero e proprio calendario di ricerca per gli
Stati Uniti e una seconda volta nel 1997,
quando si è costituito il gruppo europeo con
i suoi peculiari obiettivi e mete. Si tratta ora,
da una parte e dall’altra dell’Atlantico, di fissare nuovi scopi per orientare i progressi che
possono essere realizzati a corto e a medio
termine. Provando ad immaginare i futuri benefici, cerchiamo di accelerare l’andamento di
questa nuova era delle neuroscienze, per
riuscire a raggiungere più rapidamente gli
obiettivi prefissati.
Gli obiettivi
Combattere gli effetti devastanti della
malattia di Alzheimer. In questa patologia si
osserva il deposito cerebrale di una piccola
frazione proteica denominata proteina amiloide, estremamente tossica per le cellule
nervose. Grazie alla sperimentazione animale
oggi si conosce il meccanismo biochimico e
genetico di quest’accumulo. Utilizzando il
modello animale sono stati sviluppati nuovi
medicinali e un vaccino potenzialmente efficace, sia per prevenire il deposito della proteina amiloide sia per cercare di rimuoverlo.
Tali terapie che saranno prossimamente sperimentate nell’uomo, offrono la speranza
di combattere efficacemente questo meccanismo patologico.
Scoprire la miglior terapia per la malattia di
Parkinson. I medicinali che agiscono sulle vie
dopaminergiche del cervello, hanno dato
buoni risultati nel trattamento dei disturbi
motori nella malattia di Parkinson. Sfortunatamente in molti pazienti, dopo 5 a 10 anni
questo effetto terapeutico tende a diminuire.
Attualmente sono in via di sviluppo nuove
molecole che cercano, da un lato di prolungare l’azione dei medicamenti dopaminergici,
dall’altro di frenare la selettiva perdita neurale
che è all’origine della malattia. Per i pazienti
che non rispondono alla terapia medicamentosa, esiste la possibilità di trarre un beneficio
dall’approccio chirurgico denominato stimolazione cerebrale profonda. Nuove forme di
visualizzazione cerebrale permetteranno di
determinare se questi trattamenti riescono a
salvare i neuroni dalla distruzione e a ristabilire
il normale funzionamento dei circuiti neurali.
Immaginate un mondo ...
La fiducia del pubblico nella scienza è essenziale per adempiere la nostra missione. Il dialogo tra i ricercatori e la gente sarà basilare
soprattutto in considerazione delle conseguenze etiche e sociali del progresso della
ricerca sul cervello.
Diminuire l’incidenza degli ictus cerebrali e
perfezionare il trattamento degli episodi
acuti. Smettere di fumare, mantenere il tasso
di colesterolo e il peso corporeo a livelli ragionevoli con un’alimentazione e un’attività fisica
appropriate, sono, associati al depistaggio e al
trattamento del diabete, i modi per ottenere
una diminuzione spettacolare del numero degli
incidenti cerebrovascolari e delle malattie cardiache. Nel caso degli ictus, con una diagnosi
ed un intervento precoce, il paziente migliora
rapidamente e i postumi della malattia sono
minori. In futuro esisteranno nuovi trattamenti
volti a ridurre l’impatto acuto degli incidenti
cerebrovascolari sulle cellule del cervello. Le
nuove tecniche di riabilitazione, che traggono
profitto dalle conoscenze sulla capacità del
cervello di recuperare dopo un trauma, permetteranno di progredire in questa via.
Sviluppare trattamenti più efficaci per i disturbi dell’umore come la depressione, la
schizofrenia, i disturbi ossessivi e il disturbo bipolare. Grazie alla determinazione della 119
sequenza del genoma umano, saranno scoperti i geni che predispongono ad alcune di
queste malattie. Le recenti tecniche di visualizzazione cerebrale offriranno l’opportunità
di osservare l’azione esercitata da questi geni
nel cervello. Sarà quindi possibile esaminare
la disfunzione dei circuiti neurali nelle persone colpite dalle patologie dell’umore. Disporremo di una diagnosi più sicura, l’uso di
medicinali già esistenti sarà più efficace e la
ricerca porrà nuove basi teoriche per sviluppare agenti terapeutici innovativi.
Scoprire le cause genetiche e neurobiologiche dell’epilessia e migliorarne il trattamento. Comprendere l’origine genetica dell’epilessia e i meccanismi neurologici che
scatenano le crisi, fornirà l’opportunità per
una diagnosi preventiva e per trattamenti
mirati. I progressi realizzati nel campo delle
terapie chirurgiche offriranno in futuro delle
alternative terapeutiche molto preziose.
Scoprire vie innovative per prevenire e
curare la sclerosi multipla. Per la prima volta
disponiamo di medicinali che modificano il de
corso di questa malattia. Queste nuove molecole alterano le risposte immunitarie dell’organismo, riducendo il numero e la gravità
delle crisi. Nuovi metodi permetteranno di
arrestare la progressione a lungo termine
della sclerosi multipla, che è dovuta alla
distruzione delle fibre nervose.
Sviluppare dei trattamenti più efficaci per i
tumori del cervello. Molte forme di tumori
cerebrali sono difficili da curare, soprattutto
quelle maligne o secondarie a tumori di origine non cerebrale. Le tecniche di visualizzazione, la radioterapia mirata, i differenti
metodi che trasportano le sostanze medicamentose al tumore, così come l’identificazione di marker genetici, faciliteranno la diagnosi e permetteranno di sviluppare nuove
120 piste terapeutiche.
Migliorare il recupero dopo lesioni traumatiche al cervello o al midollo spinale. Attualmente sono allo studio dei trattamenti che
limitano i danni ai tessuti consecutivi ai traumi
e si sperimentano sostanze che promuovono
il ristabilimento delle connessioni nervose.
Ben presto alcune tecniche di rigenerazione
cellulare che permettono la sostituzione dei
neuroni morti oppure lesi, passeranno dallo
stadio della sperimentazione animale ai test
clinici sull’uomo. Da segnalare anche il trapianto di microchip miniaturizzati che controllano i circuiti nervosi e ridanno una certa
mobilità agli arti paralizzati.
Trovare soluzioni innovative per la gestione
del dolore. Il dolore non deve essere più sottovalutato. La ricerca sulla sua origine e sui
meccanismi neurologici che lo mantengono,
fornirà agli specialisti delle neuroscienze gli
strumenti di cui necessitano per sviluppare
dei trattamenti antalgici efficaci e mirati.
Combattere la tossicodipendenza all’origine, nel cervello. I ricercatori hanno identificato i circuiti nervosi implicati in ognuno dei
differenti tipi di dipendenza e hanno clonato
alcuni dei recettori più importanti di queste
sostanze. I progressi realizzati nella visualizzazione cerebrale, identificando i meccanismi
neurobiologici che trasformano un cervello
normale in un cervello sottomesso alla dipendenza, permetteranno di sviluppare dei trattamenti per annullare o compensare tali alterazioni.
Comprendere i meccanismi cerebrali implicati nella risposta allo stress, all’ansia e alla
depressione. La salute mentale è il requisito
indispensabile per una buona qualità di vita.
Lo stress, l’ansia e la depressione, oltre a perturbare la vita delle persone, possono avere
un effetto devastante sulla società. Se capiremo meglio i meccanismi della risposta allo
stress e i circuiti neurali implicati nell’ansia e
La strategia
Trarre vantaggio delle conoscenze fornite
dalla genomica. Disponiamo oggi della sequenza completa dei geni che costituiscono il
genoma umano. Nel corso dei prossimi 10 a
15 anni avremo la possibilità di stabilire quali
geni sono attivi in ogni regione del cervello, in
tutti gli stadi dell’esistenza dalla vita embrionale a quella adulta, passando dall’infanzia e
dall’adolescenza. Sarà allora possibile identificare nelle diverse patologie neurologiche o
psichiatriche, i geni alterati e le proteine assenti
o anormali. Questo approccio ha già permesso agli scienziati di stabilire l’origine genetica di malattie come la corea di Huntington,
l’atassia spinocerebellare, la distrofia muscolare e la sindrome del cromosoma X fragile.
Le conoscenze fornite dalla genetica e le sue
applicazioni nella diagnosi clinica, promettono di rivoluzionare la neurologia e la psichiatria e rappresentano una delle maggiori
sfide delle neuroscienze. La disponibilità di
un nuovo e potente strumento, i microchip di
DNA, accelererà notevolmente questo processo aprendo nuove vie per la diagnosi clinica e la concezione di nuovi trattamenti.
Applicare le nostre conoscenze sullo sviluppo del cervello. Dal concepimento alla
morte, il cervello passa attraverso differenti
stadi dello sviluppo con periodi di vulnerabilità e di crescita che possono essere favoriti
oppure ostacolati. Per migliorare il trattamento dei disturbi dello sviluppo come l’autismo, i disturbi da deficit di attenzione e le difficoltà dell’apprendimento, le neuroscienze
dovranno elaborare un quadro più dettagliato
dello sviluppo cerebrale. Siccome il cervello è
l’unico organo ad avere dei problemi specificamente collegati agli stadi dello sviluppo
come l’adolescenza o la vecchiaia, capirne le
trasformazioni in quelle precise fasi, permetterà di sviluppare trattamenti efficaci.
Utilizzare l’enorme potenziale offerto dalla
plasticità cerebrale. Traendo profitto dalla
neuroplasticità, cioè dalla capacità del cervello di adattarsi e di modellarsi, i neuroscienziati faranno progredire le terapie per le malattie neurodegenerative e offriranno metodi
per migliorare la funzione cerebrale sia nei
soggetti sani sia nelle persone malate. Nei
prossimi dieci anni, le terapie di sostituzione
cellulare e di promozione della formazione di
nuove cellule neurali, daranno l’opportunità
di ottenere nuovi trattamenti per gli ictus
cerebrali, i traumi del midollo spinale e la
malattia di Parkinson.
Immaginate un mondo ...
nella depressione, sapremo sviluppare delle
strategie preventive e dei trattamenti efficaci.
Comprendere l’essenza dell’essere umano.
Come funziona il cervello ? Oggi gli specialisti
nelle neuroscienze sono in grado di porre le
grandi domande sul funzionamento del cervello dell’uomo e di fornire le prime risposte.
Quali sono i meccanismi e quali i circuiti nervosi che permettono all’essere umano di formare dei ricordi, di prestare attenzione, di
percepire ed esprimere delle emozioni, di
prendere delle decisioni, di utilizzare il linguaggio, di essere creativo ? Lo sforzo per
sviluppare una teoria del funzionamento
cerebrale, offrirà importanti opportunità per
massimizzare il potenziale dell’essere umano.
Gli strumenti
La sostituzione cellulare. I neuroni adulti
non possiedono la facoltà di riprodursi per
sostituire le cellule perse in seguito a traumi o
a malattie. Le tecniche che utilizzano la capacità delle cellule staminali neurali (i progenitori dei neuroni) di differenziarsi in neuroni,
potrebbero rivoluzionare il trattamento delle
patologie neurologiche. Il trapianto delle cellule staminali neurali, correntemente usato 121
nella sperimentazione animale, sarà ben presto applicato all’uomo. Controllare lo sviluppo
di queste cellule, dirigerle verso le precise
regioni del cervello e indurle a stabilire le
connessioni appropriate, sono le molteplici
questioni sulle quali la ricerca lavora senza
sosta.
I meccanismi di riparazione neurali. Utilizzando i meccanismi di riparazione propri del
sistema nervoso, che in alcuni casi rigenerano
i neuroni e in altri ristabiliscono i circuiti, il cervello ha la capacità di « riparare se stesso ».
Rinforzare questa capacità significa ridare una
speranza di guarigione alle persone vittime di
traumi cranici o di lesioni del midollo spinale.
Delle tecniche per arrestare o prevenire la
neurodegenerazione. Molte patologie come
la malattia di Parkinson, la malattia di Alzheimer, la corea Huntington o la sclerosi laterale
amiotrofica, sono la conseguenza della degenerazione di una specifica popolazione di cellule in una determinata regione cerebrale. I
trattamenti attuali agiscono unicamente sul
sintomo, non alterano la perdita progressiva
dei neuroni. Le nuove conoscenze sui meccanismi che sottendono la morte cellulare, offriranno metodi per prevenire la degenerazione
cellulare e quindi arrestare la progressione di
queste malattie.
Le tecniche che modificano l’espressione
genetica nel cervello. Nell’animale da laboratorio è possibile rinforzare oppure bloccare
l’azione che certi geni specifici esercitano sul
cervello. Attualmente le mutazioni genetiche
che provocano nell’uomo malattie neurologiche come la corea di Huntington e la sclerosi
laterale amiotrofica, sono sperimentate nei
modelli animali per scoprire dei trattamenti
capaci di prevenire i fenomeni di neurodegenerazione. Queste tecniche hanno fornito tra
l’altro dati interessanti sul normale funzio122 namento del cervello durante lo sviluppo,
l’apprendimento e la formazione dei ricordi.
La modulazione dell’espressione dei geni è
uno degli strumenti più efficaci per studiare i
fenomeni normali e patologici del cervello, in
futuro potrà essere utilizzata per curare
numerosi disturbi cerebrali.
I progressi delle tecniche di visualizzazione. Sono stati effettuati notevoli progressi
nella visualizzazione strutturale e funzionale
del cervello. Sviluppando delle tecniche in cui
l’immagine della funzione cerebrale è dettagliata e rapida quanto le funzioni stesse,
avremo a disposizione delle immagini in
tempo reale. Queste tecnologie permetteranno allora ai ricercatori di osservare le
regioni del cervello implicate nella riflessione,
nell’apprendimento e nelle emozioni.
Dispositivi elettronici capaci di sostituire le
vie cerebrali non funzionali. Nel prossimo
futuro sarà certamente possibile aggirare le
vie cerebrali non funzionali utilizzando dei
microelettrodi capaci di registrare l’attività
cerebrale. Il loro compito sarà quello di convertire l’attività del cervello in segnali elettrici
che saranno inviati al midollo spinale, ai nervi
motori o direttamente ai muscoli. Dei trapianti
costituiti da batterie di questi elettrodi collegati a dispositivi informatizzati e miniaturizzati, ridaranno speranza alle persone che
hanno subito una lesione permettendo il
recupero dell’integrità funzionale.
I nuovi metodi della ricerca farmaceutica. I
progressi realizzati nel campo della biologia
strutturale, della genomica e della chimica
computerizzata, permettono ai ricercatori di
creare una quantità di molecole senza precedenti, molte delle quali possiedono un grande
interesse clinico. In determinati casi le nuove
tecniche di screening ad alto flusso, utilizzate
in particolare dalle « gene chips » e da altre
tecnologie, potranno diminuire il tempo che intercorre tra la scoperta di un nuovo principio
Il nostro obiettivo,
il malato
Oggi le neuroscienze hanno a disposizione
opportunità senza precedenti. Abbiamo ampliato le conoscenze sul funzionamento cerebrale, sull’origine delle malattie e sulla loro
evoluzione. Un sofisticato arsenale di strumenti e di tecniche, ci permette di applicare le
nozioni acquisite e di accelerare il progresso
nella ricerca cerebrale.
Gli scienziati continueranno ad essere gli artigiani del progresso. Non è possibile affrontare patologie cerebrali come la malattia di
Alzheimer, la malattia di Parkinson, o gli incidenti cerebrovascolari, senza che la ricerca
fondamentale fornisca ai clinici gli elementi
necessari per concepire trattamenti innovativi
e terapie rivoluzionarie. Abbiamo la responsabilità sia di proseguire le ricerche sia di promuovere il sostegno del pubblico.
Inserire la ricerca in un contesto di vita quotidiana è sempre stata un’impresa ardua. Il
pubblico non vuole solamente sapere come e
perché si ricerca, desidera sapere in che
misura egli stesso è implicato. Nell’interesse
delle persone che soffrono di malattie neurologiche o psichiatriche, è indispensabile dissipare la paura che la ricerca sul cervello
possa essere utilizzata a fini nocivi o eticamente dubbi.
Immaginate un mondo ...
attivo e la sua valutazione clinica. In alcuni
casi la riduzione di tempo passerà da diversi
anni a qualche mese.
La nostra missione come neuroscienziati non
si limita alla ricerca propriamente detta,
abbiamo la responsabilità di spiegare in modo
chiaro dove ci condurranno i nuovi strumenti
e le nuove tecnologie scientifiche. I membri
della Dana Alliance degli Stati Uniti e della
Dana Alliance Europa si assumono volentieri il
compito di affrontare un nuovo decennio di
speranza e di intenso lavoro in collaborazione
con il pubblico.
Occorre divulgare quegli ambiti della ricerca
scientifica che presto forniranno delle applicazioni interessanti per l’essere umano. In collaborazione con il pubblico, dobbiamo percorrere le fasi cliniche che seguono gli stadi di
laboratorio. I progressi scientifici dovranno
tradursi con autentici benefici per il malato.
I nostri mezzi e le nostre tecniche diventano
sempre più sofisticate, il pubblico potrebbe
credere che vi siano degli abusi e che la
ricerca sul cervello dia agli scienziati la possibilità di alterare ciò che costituisce la specificità umana, il cervello e il comportamento. È
molto importante che la gente non dubiti dell’onestà degli scienziati, della sicurezza dei
test clinici – pietra angolare della ricerca applicata – e della riservatezza dei dati medici.
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Members of EDAB
AGID Yves* Hôpital de la Salpêtrière, Paris, France
AGUZZI Adriano University of Zurich, Switzerland
CARLSSON Arvid University of Gothenburg,
Sweden
ANDERSEN Per* University of Oslo, Norway
CASTRO LOPES Jose University of Porto, Portugal
ANTUNES João Lobo University of Lisbon, Portugal
CATTANEO Elena University of Milan, Italy
AUNIS Dominque INSERM Strasbourg, France
CHANGEUX Jean-Pierre Institut Pasteur, Paris,
France
AVENDAÑO Carlos University of Madrid, Spain
AZOUZ Rony Ben-Gurion University of the Negev,
Israel, TM
BADDELEY Alan University of York, UK
BARDE Yves-Alain* University of Basel, Switzerland
CHERNISHEVA Marina University of Saint
Petersburg, Russia
CHVATAL Alexandr Institute of Experimental
Medicine ASCR, Prague, Czech Republic
CLARAC François CNRS, Marseille, France
BATTAGLINI Paolo University of Trieste, Italy, TM
CLARKE Stephanie University of Lausanne,
Swiss Society for Neuroscience, TMP
BELMONTE Carlos Instituto de Neurosciencias,
Alicante, Spain
CLEMENTI Francesco* University of Milan, Italy
BENABID Alim-Louis INSERM and Joseph Fourier
Universtiy of Grenoble, France
BEN-ARI Yehezkel INSERM-INMED, Marseille,
France
BENFENATI Fabio University of Genova, Italy
COLLINGRIDGE Graham* University of Bristol, UK
British Neuroscience Association president, P
CUÉNOD Michel* University of Lausanne,
Switzerland
CULIC Milka University of Belgrade, Yugoslavia
BERGER Michael University of Vienna, Austria
BERLUCCHI Giovanni* Università degli Studi di
Verona, Italy
DAVIES Kay* University of Oxford, UK
DEHAENE Stanislas INSERM, Paris, France
BERNARDI Giorgio University Tor Vergata-Roma,
Italy
DELGADO-GARCIA José Maria Universidad
Pablo de Olavide, Seville, Spain
BERTHOZ Alain* Collège de France, Paris, France
DEXTER David Imperial College London, UK, TM
BEYREUTHER Konrad* University of Heidelberg,
Germany
DE ZEEUW Chris Erasmus University,
The Netherlands, TM
BJÖRKLUND Anders* Lund University, Sweden
BLAKEMORE Colin* University of Oxford, UK
DICHGANS Johannes University of Tübingen,
Germany
BOCKAERT Joel CNRS, Montpellier, France
DIETRICHS Espen University of Oslo, Norway, TM
BORBÉLY Alexander University of Zurich,
Switzerland
DOLAN Ray University College London, UK
BRANDT Thomas University of Munich, Germany
DUDAI Yadin* Weizmann Institute of Science,
Rehovot, Israel
BRUNDIN Patrik Lund University, Sweden
BUDKA Herbert University of Vienna, Austria
BUREŠ Jan* Academy of Sciences, Prague, Czech
Republic
BYSTRON Irina University of Saint Petersburg,
Russia
ELEKES Károly Hungarian Academy of Sciences,
Tihany, Hungary
ESEN Ferhan Osmangazi University, Eskisehir,
Turkey
EYSEL Ulf Ruhr-Universität Bochum, Germany
FERRUS Alberto* Instituto Cajal, Madrid, Spain
FIESCHI Cesare University of Rome, Italy
INNOCENTI Giorgio Karolinska Institute,
Stockholm, Sweden
FOSTER Russell University of Oxford, UK
IVERSEN Leslie University of Oxford, UK
FRACKOWIAK Richard* University College
London, UK
IVERSEN Susan* University of Oxford, UK
FREUND Hans-Joachim* University of Düsseldorf,
Germany
JACK Julian* University of Oxford, UK
FREUND Tamás University of Budapest,
Hungary
FRITSCHY Jean-Marc University of Zurich,
Switzerland
JEANNEROD Marc* Institut des Sciences
Cognitives, Bron, France
JOHANSSON Barbro Lund University, Sweden
KACZMAREK Leszek Nencki Institute of
Experimental Biology, Warsaw, Poland
GARCIA-SEGURA Luis Instituto Cajal, Madrid,
Spain
KASTE Markku University of Helsinki,
Finland
GISPEN Willem* University of Utrecht,
The Netherlands
KATO Ann Centre Médical Universitaire, Geneva,
Switzerland
GJEDDE Albert* Aarhus University Hospital,
Denmark
KENNARD Christopher Imperial College School
of Medicine, UK
GLOWINSKI Jacques Collège de France, Paris,
France
KERSCHBAUM Hubert University of Salzburg,
Austria
GRAUER Ettie Israel Institute of Biological
Research, Israel, TM
KETTENMANN Helmut Max-Delbrück-Centre for
Molecular Medicine, Berlin, Germany
GREENFIELD Susan The Royal Institution of Great
Britain, UK
KORTE Martin Technical University Braunschweig,
Germany
GRIGOREV Igor Institute of Experimental Medicine,
Saint Petersburg, Russia
KOSSUT Malgorzata* Nencki Institute of
Experimental Biology, Warsaw, Poland
GRILLNER Sten* Karolinska Institute, Stockholm,
Sweden
KOUVELAS Elias University of Patras, Greece
HAGOORT Peter F.C. Donders Centre for Cognitive
Neuroimaging, Nijmegen, The Netherlands, TM
HARI Riitta* Helsinki University of Technology,
Espoo, Finland
HARIRI Nuran University of Ege, Izmir, Turkey
KRISHTAL Oleg* Bogomoletz Institute of
Physiology, Kiev, Ukraine
LANDIS Theodor* University Hospital Geneva,
Switzerland
LANNFELT Lars University of Uppsala, Sweden
HERMANN Anton University of Salzburg, Austria
LAURITZEN Martin University of Copenhagen,
Denmark
HERSCHKOWITZ Norbert* University of Bern,
Switzerland
LERMA Juan Instituto de Neurociencias, Alicante,
Spain
HIRSCH Etienne Hôpital de la Salpêtrière, Paris,
France, French Neuroscience Society, P
LEVELT Willem* Max-Planck-Institute for
Psycholinguistics, Nijmegen, The Netherlands
HOLSBOER Florian* Max-Planck-Institute of
Psychiatry, Germany
LEVI-MONTALCINI Rita* EBRI, Rome, Italy
HOLZER Peter University of Graz, Austria
LOPEZ-BARNEO José* University of Seville, Spain
HUXLEY Sir Andrew* University of Cambridge, UK
LYTHGOE Mark University College London, UK, TM
LIMA Deolinda University of Porto, Portugal
MAGISTRETTI Pierre J* University of Lausanne,
Switzerland
POCHET Roland Université Libre de Bruxelles,
Belgium
MALACH Rafael Weizmann Institute of Science,
Rehovot, Israel
POEWE Werner Universitätsklinik für Neurologie,
Innsbruck, Austria
MALVA Joao, University of Coimbra, Portugal,
Portuguese Society for Neuroscience, TMP
POULAIN Dominique Université Victor Segalen,
Bordeaux, France
MARIN Oscar Universidad Miguel HernandezCSIC, Spain
PROCHIANTZ Alain CNRS and Ecole Normale
Supérieure, France
MATTHEWS Paul University of Oxford, UK
PYZA Elzbieta Jagiellonian University, Krakow,
Poland
MEHLER Jacques* SISSA, Trieste, Italy
MELAMED Eldad Tel Aviv University, Israel
MOHORKO Nina University of Ljubljana,
Slovenia, TM
MOLDOVAN Mihai University of Copenhagen, TM
MONYER Hannah* University Hospital of
Neurology, Heidelberg, Germany
MORRIS Richard* University of Edinburgh,
Scotland; President of FENS
MOSER Edvard Norwegian University of Science
and Technology
NALECZ Katarzyna Nencki Institute of
Experimental Biology, Warsaw, Poland
RAFF Martin* University College London, UK
RAISMAN Geoffrey Institute of Neurology, UCL,
London, UK
REPOVS Grega University of Ljubljana, Slovenia.
Slovenian Neuroscience Association (SINAPSA), TMP
RIBEIRO Joaquim Alexandre University of Lisbon,
Portugal
RIZZOLATTI Giacomo* University of Parma, Italy
ROSE Steven The Open University, Milton
Keynes, UK
ROTHWELL Nancy University of Manchester, UK
RUTTER Michael King’s College London, UK
NALEPA Irena Polish Academy of Sciences, TM
NEHER Erwin Max-Planck-Institute for Biophysical
Chemistry, Göttingen, Germany
NIETO-SAMPEDRO Manuel* Instituto Cajal,
Madrid, Spain
NOZDRACHEV Alexander State University of
Saint Petersburg, Russia
SAKMANN Bert Max-Planck-Institute for Medical
Research, Heidelberg, Germany
SCHWAB Martin* University of Zurich, Switzerland
SEGAL Menahem Weizmann Institute of Science,
Rehovot, Israel
SEGEV Idan Hebrew University, Jerusalem, Israel
SHALLICE Tim* University College London, UK
OERTEL Wolfgang* Philipps-University, Marburg,
Germany
OLESEN Jes Glostrup Hospital, Copenhagen,
Denmark; Chairman European Brain Council
ORBAN Guy* Catholic University of Leuven, Belgium
SINGER Wolf* Max-Planck-Institute for Brain
Research, Frankfurt, Germany
SKALIORA Irini Biomedical Research Foundation
of the Academy of Athens, TM
SMITH David University of Oxford, UK
SPERK Günther University of Innsbruck, Austria
PARDUCZ Arpad Institute of Biophysics, Biological
Research Centre of the Hungarian Academy of
Sciences, Szeged, Hungary
STAMATAKIS Antonis University of Athens,
Greece,TM
STEWART Michael The Open University, UK
PEKER Gonul University of Ege Medical School,
Izmir, Turkey. Turkish Neuroscience Society, P
STOERIG Petra* Heinrich-Heine University,
Düsseldorf, Germany
PETIT Christine Institut Pasteur & Collège de
France, Paris
STOOP Ron University of Lausanne, Switzerland, TM
STRATA Pierogiorgio* University of Turin, Italy
SYKOVA Eva Institute of Experimental Medicine
ASCR, Prague, Czech Republic. Czech Neuroscience
Society, P
BANDTLOW Christine Austrian Neuroscience
Association, Innsbruck Medical University, Austria
THOENEN Hans* Max-Planck-Institute for
Psychiatry, Germany
DI CHIARA Gaetano Italian Society for
Neuroscience (SINS) University of Cagliari, Italy
TOLDI József University of Szeged, Hungary
EFTHYMIOPOULOS Spyros Hellenic Neuroscience
Society, University of Athens, Greece
TOLOSA Eduardo University of Barcelona, Spain
TSAGARELI Merab Beritashvili Institute of
Physiology, Tblisi, Republic of Georgia
VETULANI Jerzy Institute of Pharmacology, Krakow,
Poland
VIZI Sylvester* Hungarian Academy of Sciences,
Budapest
WALTON Lord John of Detchant* University of
Oxford, UK
WINKLER Hans* Austrian Academy of Sciences,
Austria
DE SCHUTTER Erik Belgian Society for
Neuroscience, University of Antwerp, Belgium
FRANDSEN Aase Danish Society for Neuroscience,
Copenhagen University Hospital, Denmark
GALLEGO Roberto Spanish Neuroscience Society,
Instituto de Neurociencias/Universidad Miguel
Hernández, Spain
GORACCI Gianfrancesco European Society for
Neurochemistry, University of Perugia, Italy
JOELS Marian Dutch Neurofederation, University of
Amsterdam, The Netherlands
KHECHINASHVILI Simon Georgian Neuroscience
Association, Beritsashvili Institute of Physiology,
Tblisi, Republic of Georgia
KOSTOVIC Ivica Croatia Society for Neuroscience,
Institute for Brain Research, Zagreb, Croatia
ZAGREAN Ana-Maria Carol Davila University of
Medicine and Pharmacy, Romania, TM
NUTT David, European College of
Neuropharmacology, University of Bristol, UK
ZAGRODZKA Jolanta Nencki Institute of
Experimental Biology, Warsaw, Poland, TM
PITKANEN Asla FENS Secretary General University
of Kuopio, Finland
ZEKI Semir* University College London, UK
ROTSHENKER Shlomo Israel Society of
Neuroscience, The Hebrew University of Jerusalem
ZILLES Karl* Heinrich-Heine-University,
Düsseldorf, Germany
* Original signatory to the EDAB Declaration
P = Full Member and NSS president
TMP = NSS president term member
TM = BAW Term member
SAGVOLDEN Terje Norwegian Neuroscience
Society, University of Oslo, Norway
SKANGIEL-KRAMSKA Jolanta Polish Neuroscience
Society, Nencki Institute of Experimental Biology,
Warsaw, Poland
STENBERG Tarja Finnish Brain Research Society,
Institute of Biomedicine/Physiology Biomedicum
Helsinki, Finland
ZAGREAN Leon National Neuroscience Society of
Romania, Carol Davila University of Medicine,
Bucharest, Romania
Federation of European Neuroscience
Societies Presidents
ANTAL Miklós Hungarian Neuroscience Society,
University of Debrecen, Hungary
BÄHR Mathias German Neuroscience Society,
University Hospital Göttingen, Germany
June 2008
A Dana Alliance for the Brain Inc Publication prepared by EDAB,
the European subsidiary of DABI
Stampato in Svizzera 6.2008