Seminario del 2 maggio 2013 Infine, le cose si rivelano più semplici di quanto non ci appaiano quando siamo confusi, e tali noi siamo soltanto perché stiamo attribuendo un valore eccessivo, sostanziale, a un elemento il cui senso non dovremmo dare per accreditato e che, invece, dovrebbe sciogliersi nella riflessione. L’operazione feticista è all’origine di ogni ideologia. L’animalismo (oppure l’animismo), ovvero la credenza nelle proprietà magiche e taumaturgiche dell’oggetto rappresentato anziché della parola. Quale relazione fra il feticcio e l’oggetto fobico? Quale relazione fra il totem o l’amuleto, e il tabù? Certo, il feticcio è oggetto erotizzato in modo più evidente di quanto non lo sia l’oggetto fobico. Ma entrambi sono il prodotto dell’irrigidimento di un discorso religioso, entrambi diversamente sono il residuo dell’oggetto invischiato nel fantasma di padronanza. Si tratta allora per entrambi di modalità in cui si può declinare il fantasma. Soltanto il feticcio può tramutarsi nell’oggetto fobico. Ostinarsi nel voler vedere a tutti i costi l’oggetto, adorarlo, vuol dire esporsi fatalmente al contraccolpo dello sguardo. Per entrambi, si tratta ora dell’oggetto preso nell’alternativa, fra il buono e il malefico, con la rispettiva accentuazione. E’ il destino in cui può incorrere ogni oggetto rappresentato. E’ l’idea sostanzialista a renderci confusi, come il popolo ebraico che adora il vitello d’oro e trascura che qualsiasi questione per proseguire occorre che si confronti con la legge relativa al nome, con l’etica del significante e con il diritto dell’Altro, vale a dire, inevitabilmente con l’equivoco, la menzogna e il malinteso. Il vitello d’oro è il feticcio ideato come valore fittizio (feticcio, dal latino factitium, attraverso il portoghese feitico, idolo o amuleto, manufatto artificiale, contrapposto a naturale, ma qui per noi da precisare) quando il discorso, considerato come causa, non fa che nutrire il sostanzialismo. Quando l’oggetto è consacrato, idealizzato, dotato di potere magico, al posto della parola. La sostituzione dell’operazione feticista è questa: il sacro, quale attributo originario della parola (nella sua evanescenza e nella sua possibilità di rinvio alla successiva, altra da sé, ciò che la rende altra, e miracolosa, inseguendo un oggetto che non si lascia afferrare) è invece attribuito all’oggetto rappresentato che ne confisca tutte le virtù. La provvidenza non è una virtù dell’oggetto rappresentato ma della parola e del racconto. L’oggetto, ossia la stessa cosa, la cosa stessa e l’altra cosa, che come tali esistono nella tripartizione con l’avviarsi della parola. Isolata, la stessa cosa è già un feticcio, come lo è, isolata, la cosa stessa, mentre l’altra cosa, isolata, è idealizzata. La cosa isolata dal racconto si tramuta in animale. Possiamo constatare che le teorie psicanalitiche postfreudiane, comprese quelle lacaniane, sono generalmente feticiste. L’ideologia dell’animale, della cosa isolata, pervade in genere il discorso scientifico a partire da Aristotele passando per Cartesio. Se vogliamo restare nella traccia dell’invenzione freudiana dovremmo ammettere che, come avviene per i rituali religiosi che presuppongono il fantasma ossessivo, anche l’animismo presuppone l’operazione feticista. Pertanto il fantasma ossessivo deve essere necessariamente originario come lo deve essere l’invenzione del feticcio. In fondo, la nostra clinica dell’oggetto è il modo per allentare la tentazione feticistica che anima ciascun parlante. Precisamente, sospendere la credenza nel feticcio costituisce l’operazione analitica freudiana. Vale a dire, sospendere la credenza nel fatto, che è sempre decaduto a fittizio, vale a dire al feticcio, e che corrisponde direttamente alla divisione fra mondo naturale e mondo trascendente, mondo naturale e mondo artificiale, fra cosa e parola. Il dualismo è diretta conseguenza della creazione del feticcio. Pensare l’oggetto afferrabile, padroneggiabile, è già un atto feticistico. Consiste nell’attribuire la virtù della provvidenza alla rappresentazione dell’oggetto anziché alla parola nel suo viaggio verso l’oggetto che si sottrae o che si getta contro. E’ l’Altro la bussola per la direzione nel viaggio, l’Altro a rilasciare qualsiasi opportunità nel fare con l’oggetto. L’Altro, l’oggetto in quanto ospitato nella parola. Che l’oggetto sia ospite nella parola è ovviamente una metafora; vuol indicare che il saperci fare è in relazione soltanto con il fare e non può obbedire ad alcun principio di padronanza. L’esperienza degli umani intorno all’oggetto può essere acquisita soltanto nel racconto, ovvero attivando la parola, ma attivare la parola significa unicamente lasciare che da essa si sprigioni l’equivoco e la menzogna che costringono al racconto. Ne discende che l’autentica padronanza degli umani non può che consistere nell’abbandono al racconto. Per questo motivo l’ascolto è davvero fondamentale. E la costrizione al racconto coincide con la loro libertà; di vita, di realizzazione e di compimento. Il sostanzialismo è operazione feticista, come lo è l’invenzione della particella di Higgs, come noto, ribattezzata particella di Dio. In assenza di un saperci fare la sostituzione, ovvero la rappresentazione dell’oggetto, la consacrazione, la magia l’incantesimo, l’arresto del tempo e la sua confisca per l’imporsi di un’immagine dell’oggetto. L’immagine dell’oggetto è ancora quella del vitello d’oro: mantiene la sua estrema ambiguità, imponendo la sua fissità, al contempo rinviando, però, al soprannaturale. E’ radicalmente estranea, fino a diventare magica, terrificante, offensiva, proprio in quanto è controllata dal principio d’identità, ma è la stessa cosa. L’immagine può fissare l’alternativa che trionfa sul viaggio nella parola, oppure costringere al viaggio, per la sua estraneità. Ancora l’alternativa. L’immagine marca la deriva della parola, lo scatenarsi della parola, l’impazzire o sbizzarrirsi della parola che diviene l’altra parola, della cosa che può o non può restare la stessa cosa. Le virtù sono dell’oggetto senza immagine, altrimenti la confisca del tempo e dell’Altro e della sessualità. L’erotismo è già feticismo. La sessualità è soltanto in atto, non è mai fittizia, non è mai feticcio. Ecco la chiusura del discorso nevrotico, sostanzialmente feticista: localizzare l’oggetto, situarlo nel tempo e nello spazio. Questa operazione consiste direttamente nell’esautorare l’oggetto, spogliarlo della provvidenza nella parola. Localizzare significa privare immediatamente della provvidenza. Per contro, la virtù della parola è quella della de-localizzazione. Virtù della parola, la voce che instaura il punto di astrazione e, poiché non è possibile uscire dal fantasma di botto, che lo fa mediante il fantasma sottoposto a ripetizione. Virtù della voce di de-localizzare, con il punto di astrazione. Astrazione, vale a dire compiere una de-localizzazione, spogliare l’oggetto dall’immagine feticcio che lo ricopre. Chi sperimenta il fantasma? Chi è alloggiato nella durata, nella credenza della durata. Soltanto “Chi”. Ovvero il soggetto che soffre, patisce la durata. Il fantasma instaura la durata, che dunque esiste davvero, finché siamo nel fantasma. Ecco il paradosso. Occorre un certo tempo per dissipare il fantasma e instaurare il punto di oblio, che è astrazione e conciliazione con l’oggetto. Non è possibile “uscire” dal fantasma di botto. Ma il tempo della durata non è che il tempo della dissipazione, mentre comunemente è inteso come quello della costruzione. Non è che un altro feticcio: il tempo come feticcio. Impossibile “fuoriuscire” dal fantasma senza la voce. La voce può trasformare il fantasma in un’idea operativa ma anche restituire all’oggetto le sue virtù. La vita può spesso trasformarsi nel fantasma che si chiude su se stesso. E’ l’idea della morte, oppure l’idealismo, inteso allora come idealità della vita. E’ la vita fatta coincidere con il secondo principio della termodinamica. Ma è la vita zavorrata dal fantasma materno. Qualsiasi credenza è sempre sostenuta da un feticcio. Fissarsi sull’indumento per contrastare l’inafferrabilità dell’oggetto, sostituendo la magia alla provvidenza. Anche il collezionismo ne è una deriva possibile come lo è il rituale ossessivo. Anche il risparmio, ovvero l’economia del tempo. Peraltro, impossibile fuoriuscire dal fantasma; perciò Lacan si limitava a sostenere che occorre attraversarlo, per noi vale a dire trasformarlo riconducendolo all’idea originaria, all’idea del sembiante: idea dello specchio, dello sguardo e della voce. Impossibile pensare il fantasma dal di fuori. Il fantasma è ancora e soltanto un altro fantasma. Ciascun atto percettivo è ancora nient’altro che un fantasma. E anche il tempo è un altro fantasma. Eppure gli umani non fanno che tentare di pensare il fantasma illudendosi di afferrare la realtà che sfugge loro inevitabilmente, altro non possono fare. Questo altro non possono fare nondimeno è di troppo, già il fantasma con cui pensano il fantasma si è chiuso se pensano che altro non possono fare. Non posso fare! Non posso fare altro! L’Altro, che non potrebbero fare, è in effetti quel resto che è la risorsa del loro pensare, la poesia e il racconto che sono la qualità della vita. Accogliere la castrazione è accogliere il fantasma in quanto idea, affidarsi al racconto, dicevamo la scorsa volta. L’apertura del fantasma, ossia il fantasma che volge all’idea. La castrazione che si presenta minacciosa e come un limite, dicevamo, è invece la loro risorsa vitale: la castrazione è l’istanza della poesia. Siccome il tempo non è che l’idea impossibile, siccome il tempo è escluso dalla percezione, lo avvertiamo soltanto in modo fantasmatico, e lo fissiamo ancora nel fantasma. E’ l’idea impossibile che sopravviene a sostenere la stessa operatività del fantasma. Ecco l’orologio. Resta unicamente il tempo a denunciare la realtà del fantasma, ma anche il fantasma della realtà e quindi anche la sua possibile chiusura. Il tempo che fluisce, allora, lo possiamo percepire fantasmaticamente come uno scorrere lineare. Il fantasma del tempo: più ci affrettiamo, più noi corriamo e più corre il tempo, mentre se noi andiamo piano, se con cautela procediamo, allora anche il tempo rallenta. Sono ancora le metafore, la poesia e il racconto, l’unico modo che abbiamo per sconfiggere la tirannia del tempo, che a noi appare ora soltanto coincidere con la tirannia del fantasma che si stava richiudendo. Il tempo, tra i vari feticci, è quello più difficile da debellare. L’operatività stessa del fantasma ci costringe, per così dire, a consacrarlo, il tempo. Il tempo è il primo feticcio degli umani. Al tempo si appellano; infine lo adorano, lo hanno adorato fino a ricondurlo all’eternità; altrimenti del tempo si lamentano per il suo scorrere che a loro pare inesorabile. Ma quando il tempo è percepito, allora esso finisce per esistere davvero, vale a dire che il fantasma ha ora acquisito i tratti impossibili della realtà. Allorché il tempo è percepito, già è escluso dalla parola, il fantasma si sta chiudendo e la sostanza trionfa. Per questo noi usiamo ancora una metafora impossibile per renderne conto. Per questo diciamo che occorre avvertirlo come eternità dell’istante, affinché l’ossimoro trionfi sulla chiusura del fantasma. Ecco l’abbozzo della questione: il fantasma non si dissolve di botto. Dunque il fantasma genera anche il tempo fantasmatico che ci occorre per dissolverlo. Il fantasma produce invariabilmente un contro-fantasma reale del tempo, finché non si trasforma nell’idea. Per via del tempo, il fantasma ha le sue buone ragioni che la ragione non è in grado di colmare. Come ha le sue buone ragioni per suscitare il lamento. Ma i poeti che si lamentano del tempo non sono più tali. O concediamo loro che quasi sempre lo facciano appigliandosi alle risorse della parola inventiva, concediamo loro che lo stiano in verità attraversando, il fantasma. Consideriamo il loro modo di manifestare l’estrema disperazione per toccare l’autentica speranza. Forse il contro-fantasma è più facile da dissolvere di quanto non lo sia propriamente il fantasma. Voglio dire che il controfantasma non può tramutarsi in feticcio, ma compie il cammino inverso, dato che opera piuttosto a dissolvere la sostanza. La merce, sostiene Marx, ha un carattere mistico, è una «cosa imbrogliatissima, piena di sottigliezza metafisica e di capricci teologici.» (Il capitale, I, 103). Questo carattere mistico non sorge dal suo valore d'uso e nemmeno «dal contenuto delle determinazioni di valore» (ivi). «L'arcano della forma di merce consiste dunque restituisce agli uomini l'immagine dei caratteri sociali del loro proprio lavoro semplicemente nel fatto che tale forma, come uno specchio, facendoli apparire come caratteri oggettivi dei prodotti di quel lavoro, come proprietà sociali naturali di quelle cose, e quindi restituisce anche l'immagine del rapporto sociale tra produttori e lavoro complessivo, facendolo apparire come un rapporto sociale fra oggetti esistente al di fuori di essi produttori» (ivi, 104). Marx non è giunto a formulare che il valore di una merce è dato dalla relazione più o meno evidente con l’oggetto nella parola, il sembiante, anche nella forma di una semplice evocazione. Come quello di ciascun autore, il testo di Marx va letto e, direi, semplificato, ricondotto all’atto di parola mediante una sorta di epoché: nello specifico occorre spogliare la merce dal suo riferimento ideologico alla forza lavoro, all’alternativa fra il valore d’uso e quello di scambio, che, fissandola in una concretezza, la restituisce appunto come immagine feticcio. Proprio quel feticcio ideologico così mirabilmente esposto nel suo primo libro del Capitale. Occorre rileggere Marx alla luce della psicanalisi, operazione non senza illustri predecessori. Ricordo, fra gli altri, il testo di Jean Joseph Goux. Marx, Freud, economia e simbolico. Un testo straordinario, intorno al quale per qualche tempo ci siamo attentamente soffermati in un gruppo di studio. L’espressione feticcio ideologico, che riprendiamo dallo stesso Marx, ora ci appare ridondante, un pleonasmo. Il feticcio è ideologico è il prodotto di un’ideologia, di una rappresentazione dell’oggetto: non è altro che il feticcio.