Architetture a confronto_Palazzo Tarsia e Villa

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ROBERTO CASTELLUCCIO
ARCHITETTURE A CONFRONTO
PALAZZO SPINELLI DI TARSIA
VILLA CARAFA DI BELVEDERE
STORIA - EVOLUZIONE - RECUPERO
© 2012 by Luciano Editore
Via P. Francesco Denza, 7 - 80138
Piazza S. Maria la Nova, 44 - 80134
Napoli
Tel./Fax 081 5525472 - 081 5521597 - 081 5538888
http: //www.lucianoeditore.net
e-mail: [email protected]
Vietata la riproduzione anche parziale
Tutti i diritti riservati
ISBN 978-88-6026-164-9
L’AUTORE
Roberto Castelluccio, classe 1968, si laurea nel 1996 in Ingegneria civile
edile presso Università degli Studi di Napoli “Federico II” ed è iscritto
all’Albo degli Ingegneri della Provincia di Napoli dal 1997; approfondisce
la formazione tecnica scientifica con un lungo percorso di studi e ricerche
post universitario; sviluppa l’attività didattica presso la Facoltà di ingegneria dell’Università degli Studi di Napoli Federico II con passione e continuità sia nei laboratori di Architettura Tecnica sia come relatore e
correlatore di tesi di laurea, nello sviluppo delle quali approfondisce prevalentemente i temi del recupero edilizio e della progettazione degli impianti sportivi; è autore di alcune pubblicazioni e di numerose docenze
presso corsi di formazione e seminari tecnici; si dedica alla attività professionale con particolare attenzione ai temi del recupero edilizio ed al calcolo
strutturale, essendo progettista e/o direttore dei lavori di importanti interventi pubblici e privati, nei quali applica i metodi dell’approccio scientifico e dell’innovazione tecnologica; ricopre il ruolo di sostituto
consulente tecnico presso il C.O.N.I. provinciale di Napoli dal 2002 al
2006; ricopre il ruolo di assessore all’Urbanistica, Edilizia ed allo Sport
del Comune di Giugliano in Campania dal 2008 al 2012, applicando i risultati delle ricerche nel settore dell’impiantistica sportiva e della riqualificazione ambientale.
Nel dettaglio la formazione scientifica e l’attività didattica post laurea:
– nel 1997 è vincitore del concorso di Dottorato di ricerca in “Ingegneria
per il recupero edilizio e l’innovazione tecnologica” – 12° ciclo presso
l’Università degli Studi di Napoli Federico II.
– nel Marzo del 2000 consegue il titolo di dottore di ricerca
– dal Novembre del 2000 al 2001 collabora con la Orfè Costruzioni con
contratto equiparato al Ricercatore Universitario e finanziato da
M.U.R.S.T. (ai sensi del D.M. 397 del 05.08.1999) per la progettazione
ed il coordinamento scientifico della ricerca “Tecnologia di applicazione delle fibre di carbonio nel recupero edilizio”
– nel Maggio 2001 è vincitore del 10° concorso per attività di ricerca
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Biografia
post-dottorato presso la Facoltà di Ingegneria dell’Università degli
studi di Napoli per lo sviluppo della ricerca “Durabilità degli interventi
di recupero delle strutture in muratura ed in cemento armato mediante
applicazione di fibre di carbonio”
– nell’anno Accademico 2004 - 2005 è Professore a contratto presso il
Master C.I.T.T.A.M. dell’Università degli Studi di Napoli Federico II
– Dal 2006 al 2012 è Professore a contratto per l’insegnamento di “Laboratorio di Architettura tecnica I” presso la facoltà di Ingegneria
dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”
Dal 2006 al 2012 è Professore a contratto per l’insegnamento di “Laboratorio di Architettura tecnica I” presso la facoltà di Ingegneria dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”
Nel settore del recupero edilizio ha sviluppato diverse progettazioni e
direzioni dei lavori, tra le quali si evidenziano:
Recupero della facciata del Palazzo Tarsia, Napoli
Restauro e consolidamento di Palazzo Maddaloni, Napoli
Ringraziamenti
Ringrazio la prof. Marina Fumo, per me più semplicemente Marina, per
la passione che ha saputo infondermi nel coltivare i temi del recupero edilizio,
fin dal lontano primo corso di “Recupero e conservazione degli edifici” che
ho frequentato nel lontanissimo 1994, che ha caratterizzato gran parte della
successiva attività di ricerca, di didattica oltre che la mia attività professionale. Devo ancora ringraziarla per gli stimoli che, ancora dopo 18 anni riesce
a mantenere vivi, per le opportunità che ha voluto concedermi e per esserci
in tutti i momenti importanti………..Grazie
Ringrazio l’ing. Luigi Cosenza che ha collaborato alla redazione di questo
lavoro in misura più che amichevole, dedicandomi tempo e fornendomi testi
e materiali di sua proprietà senza i quali non sarei riuscito a collezionare questo testo. A buon rendere e grazie
Ringrazio i miei fidi collaboratori che mi consentono di sviluppare l’attività di ricerca ed universitaria assistendomi ed occupandosi, con impegno
e continuità, della gestione dello studio.
Infine ed ovviamente non per importanza ringrazio le persone che hanno
da sempre creduto in me e la mia famiglia, mia moglie Stefania ed i piccoli
Gabriele Maria e Jacopo a cui dedico tutta la mia vita.
Grazie a tutti
Roberto
INDICE
L’Autore . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Ringraziamenti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Prefazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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1 - ARCHITETTURE A CONFRONTO . . . . . . . . . . . . .
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2 - IL PALAZZO SPINELLI DI TARSIA . . . . . . . . . . . . .
2.1 - Note storiche ed evoluzione architettonica . . . . . .
2.2 - Lo stato attuale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
2.3 - Il recupero della facciata principale . . . . . . . . . . . .
2.4 - Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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3 - VILLA CARAFA DI BELVEDERE . . . . . . . . . . . . . . .
3.1 - Note storiche ed evoluzione architettonica . . . . . .
3.2 - Lo stato attuale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
3.3 - Il recupero della facciata prospiciente il giardino .
3.4 - Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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4 - DOCUMENTAZIONE GRAFICA E FOTOGRAFICA . . .
4.1 - Il Palazzo Spinelli di Tarsia . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
4.2 - Villa Carafa di Belvedere . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
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PRESENTAZIONE
Sono lieta che questo volume vada in stampa a beneficio di quanti lo
leggeranno e dello stesso autore che ha deciso di ritagliarsi uno spazio di
pausa e di sintesi nella sua attività professionale per dedicarsi a raccontare
e condividere le conoscenze scaturite da alcune sue esperienze “sul campo“.
La lettura è fluida, all’apparenza è un racconto, il racconto della storia
di due episodi architettonici salienti nella vita urbana della nostra antichissima città. Ma ai tecnici che si occupano di urbanistica, di costruzioni,
di architettura, di storia dell’arte e della tecnologia possono trovare innumerevoli spunti interessanti perché il palazzo Spinelli di Tarsia e la villa
Carafa di Belvedere non sono due edifici qualunque, ma sono due esempi
paradigmatici delle trasformazioni di quanto l’architettura, anche quella
più innovativa all’atto della costruzione, sia destinata ad adattarsi ai bisogni di chi ne fa uso nel corso del suo ciclo di vita.
Il testo è strutturato in tre capitoli: il primo introduce al tema delle residenziali nobiliari napoletane e traccia un confronto tra i due casi proposti, il secondo ed il terzo trattano rispettivamente del Palazzo Spinelli e
della Villa Carafa.
Ma perché mettere a confronto le due architetture?
La costruzione di palazzo Tarsia avvenne tra il 1617 ed il 1619, mentre
la villa Belvedere tra il 1671 ed il 1673. Il progettista del primo edificio
venne prescelto dal nobile Giuseppe Vespasiano Spinelli tra gli esperti di
fortificazioni, ma di buona scuola architettonica e tale era Orazio Gisolfo
allievo di Giacomo Conforto; il progettista del secondo edificio è, invece,
il monaco certosino Bonaventura Presti di origine bolognese incaricato da
Ferdinando Vandeneynden.
E’ sorprendente individuare i due edifici nelle rappresentazioni urbane
seicentesche, riportate in questo volume, e scoprire che il risultato in entrambi i casi era stato quello di un’abitazione massiccia con torri e spazio
aperto centrale! Successivamente, un secolo dopo, in epoca di grande rinnovamento di stile architettonico e di concezione urbana, i proprietari
delle residenze Spinelli e Carafa si adeguarono ai tempi e trasformarono
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Prefazione
le loro proprietà in spettacolari gioielli architettonici.
Domenico Antonio Vaccaro con grande maestria progettò il nuovo palazzo del Principe di Tarsia che, seppure incastonato nel fitto tessuto urbano, riecheggiava i criteri compositivi della Reggia di Portici con la corte
passante, le terrazze, i dislivelli, i volumi di servizio ed i giardini.
Diversa l’ubicazione della villa dei Principi di Belvedere che, intorno
al 1730, trasformarono in “villa” ovvero in residenza extraurbana la propria abitazione, valorizzando gli ampi spazi esterni di pertinenza per integrare l’edificio nel paesaggio e creare prospettive ad effetto spettacolare.
Mettere a confronto queste due architetture, arrivando fino ai giorni
nostri col racconto delle trasformazioni intervenute, equivale ad attraversare la storia della città e dell’edilizia napoletana partendo dai più alti livelli
qualitativi per giungere al degrado ed all‘oblio... L’autore menziona tecniche e maestranze scelte, artigiani di eccezionale valore che hanno concorso
a rendere oggi “patrimonio culturale” i prodotti del proprio lavoro tecnico.
Mettere a confronto palazzo Tarsia e villa Belvedere significa trattare
due casi di studio di straordinario valore scientifico, per la ricchezza e la
complessità della loro storia costruttiva e dell’evoluzione morfologica, che
ci perviene però nascosto nell’avanzato degrado dello stesso edificio, nel
caso del palazzo Tarsia ovvero offuscato nell’obliterazione del contesto
paesaggistico, nel caso della villa Belvedere.
Mettere a confronto le due architetture, per l’ingegnere Roberto Castelluccio, ha significato mostrare una metodologia operativa e professionale: non si può intervenire in un contesto storicizzato se non andando a
ripercorrere tutte le fasi precedenti all’attuale configurazione. Il metodo
scientifico non è solo quello accademico e non riguarda solo i “monumenti”, ma è un metodo di approccio conoscitivo indispensabile e propedeutico al progetto di recupero edilizio: senza conoscenza non può esserci
intervento corretto, anche nella pratica professionale. Particolarmente se
questa è esercitata con intelligenza, passione e competenza come ci ha dimostrato l’autore al quale vanno i miei complimenti per aver voluto dare
alle stampe una, seppur piccola, porzione del proprio patrimonio di esperienza come progettista e, soprattutto, come direttore dei lavori di importanti edifici storici della nostra città.
Con la certezza che a questa prima iniziativa editoriale inerente reali
interventi di recupero ne seguiranno altre, formulo a Roberto Castelluccio
l’augurio di continuare ad operare nell’ateneo federiciano con l’energia e
la generosità didattica che lo contraddistingue e che gli studenti del corso
di laurea in Ingegneria Edile-Architettura hanno avuto modo di apprezzare in questi anni di collaborazione esterna, ma quanto prima nella veste
istituzionale che gli si addice pienamente.
Marina Fumo
1 - ARCHITETTURE A CONFRONTO
All’interno del centro urbano della città di Napoli, decontestualizzati dai massivi insediamenti edilizi sviluppatisi al contorno, vi
sono due edifici settecenteschi dal peculiare impianto architettonico
che, progettati come ville nobiliari, caratterizzate dal rapporto con
la natura e dalle ampie terrazze disposte a ferro di cavallo alla quota
del primo piano, oggi sono stati trasformati in condomini residenziali: Palazzo Spinelli di Tarsia allo Spirito Santo e Villa Carafa di
Belvedere al Vomero.
Realizzati entrambi nel XVII secolo come residenze degli Spinelli
e dei Vandeneynden, entrambi gli edifici furono ristrutturati ed ampliati nel XVIII secolo proponendosi come elementi emblematici
della evoluzione della tradizione architettonica napoletana ed “in-
Fig. 1 - Immagine satellitare con individuazione del palazzo Tarsia (Fonte Google).
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Capitolo 1
Fig. 2 - Immagine assonometrica con individuazione del palazzo Tarsia (Fonte Google).
Fig. 3 - Immagine satellitare con individuazione della villa Belvedere (Fonte Google).
ternazionale”1. Le ampie terrazze a livello del piano nobile, già presenti nelle grandi residenze del Cinquecento, ed il rapporto tra edificio ed ambiente, anticiparono i temi architettonici che trovarono
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Il progetto del Vaccaro per il palazzo Tarsia ha numerose similitudini alle note realizzazioni di Fischer von Erlach e von Hildebrandt per il palazzo Mansfeld-Fondi. A tal ri-
ARCHITETTURE A CONFRONTO
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Fig. 4 - Immagine assonometrica con individuazione della villa Belvedere (Fonte
Google).
la loro più significativa espressione con la realizzazione delle ville
del Miglio d’oro ed in particolare nell’impianto di Villa Campolieto.
Nella impostazione progettuale, Palazzo Tarsia e Villa Belvedere,
furono fortemente caratterizzati dalla tipica configurazione di palazzo nobiliare di città con una fortissima vocazione verso la posizione arroccata e la vita di campagna; l’elemento predominante
delle due fabbriche divenne il rapporto con il paesaggio che fu esaltato dalla maestria dei loro autori nel relazionare l’opera all’ambiente circostante, definendo un’alternanza di elementi che
coniugarono perfettamente la funzione cittadina di rappresentanza
e le caratteristiche tipiche delle tenute agresti, di isolamento e di
fruizione degli spazi aperti.
Entrambe le costruzioni, furono esempi tipici di “case palaziate”, derivanti da processi di fusione e di ristrutturazione di edifici
preesistenti ricondotti a unità attraverso l’accorpamento di strutture
o mediante demolizione e ricostruzione degli originari corpi di fabbrica, realizzati su terreni extra moenia.
guardo si veda AA. VV., Settecento Napoletano, Sulle ali dell’aquila imperiale 1707 – 1734,
scheda di analisi del progetto di D. A. Vaccaro a cura di L. Di Mauro p. 361, 362 e A. Buccaro, Modelli funzionali della residenza nobiliare napoletana: le fonti catastali. In: Simoncini
G. (a cura di), L’uso dello spazio privato nell’età dell’Illuminismo, Firenze: Olschki, 1995.
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Capitolo 1
Palazzo Tarsia fu realizzato, su commissione di Giuseppe Vespasiano Spinelli, tra il 1617 ed il 1619 nell’area denominata indistintamente “Patruscolo” e poi “Monte Olimpiano”. Il progettista fu
Orazio Gisolfo, allievo dell’architetto Giacomo di Conforto esperto
di fortificazioni2. Successivamente nel 1732 la fabbrica venne ampliata su progetto del Vaccaro, commissionato da Ferdinando Vincenzo Spinelli, ed acquistò le regali sembianze delle quali residua
l’attuale configurazione.
Gli Spinelli, discendenti dal ramo dei “di Somma”, feudatari già
dal periodo normanno, costituivano uno dei più importanti casati
del regno, rivestendo cariche nobiliari in svariate città, nonché ottenendo il Granducato di Spagna e l’abito dei cavalieri dell’Ordine
di Malta.
Come descritto da G. Doria3 «Nella Napoli del pieno Settecento
[…] si costruiscono o ricostruiscono numerosi palazzi: alcuni sorprendono per la perfetta integrazione col tessuto ambientale […]
Anche gli edifici più importanti tentano di allacciare un dialogo con
la città, un dialogo non monotono né meccanico, che cambia da
una costruzione all’altra, che si fa cordiale od autoritario a seconda
della corrente architettonica che lo genera. […] Vaccaro, ricostruendo fra il 1732 e 1739 il palazzo Spinelli di Tarsia a Pontecorvo, immagina uno scenario eccezionale, una nutrita serie di
interventi volti a sfruttare al meglio il sito disponibile, in particolare
il dolce pendio verso Toledo. Egli non si limita a “ritoccare” soltanto l’esterno del palazzo e vi distende innanzi un immenso cortile,
contornato da un volume a forma di ferro di cavallo molto schiacciato, ad un sol piano, ospitante rimesse e scuderie, sul quale gira
una terrazza che pone in comunicazione le due estremità dell’appartamento nobile per mezzo di due cavalcavia, lanciati sopra alla
strada che costeggia la facciata. […] Questo complesso si apre sulla
città, la domina ma nel contempo si offre tutto ai suoi sguardi, in
un succedersi articolato di costruzioni, di scale, di elementi naturali.
[…]. Mentre i palazzi di Vaccaro e Sanfelice si situano agevolmente
nel centro intasato, inestricabile di cui sembrano quasi la quintes2
In base ad un dato archivistico la data di realizzazione è stata anticipata al 1606. A tal
riguardo vedi G. Cantone, Napoli barocca, Laterza, Roma, 2002.
3
G. Alisio (a cura di), G. Doria, I palazzi di Napoli, Guida Editori, Napoli 1992.
ARCHITETTURE A CONFRONTO
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senza, i nuovi venuti rifiutano sistematicamente luoghi affollati, anonimi e ristretti, si spingono verso spazi liberi, ben in vista, che li isolano, arrogandosi poi il ruolo di poli d’attrazione, capaci di
organizzare ed anche di condizionare lo sviluppo urbano immediato
e futuro delle zone dove essi si accampano.»
Villa Carafa di Belvedere fu realizzata sulla “collina del Vomero”
tra il 1671 ed il 1673 su commissione di Ferdinando Vandeneynden
e disegno di Bonaventura Presti, monaco certosino converso di origine bolognese trasferitosi a Napoli intorno al 1650. Nel 1730 il
nuovo proprietario Francesco Carafa di Belvedere, erede dei Vandeneynden, realizzò l’ampliamento del palazzo che acquistò le suntuose forme di principesca villa della quale ora non rimane traccia
se non in alcuni elementi sopravvissuti allo stato di rudere e nell’edificio principale.
I Vandeneynden4 erano mercanti di origine fiamminga. Giovanni
Vandeneynden, poteva vantare una posizione di riguardo presso la
corte vicereale; il figlio Ferdinando divenne marchese di Castelnuovo, a seguito dell’acquisto del feudo omonimo da parte del
padre, e con il matrimonio con Olimpia Piccolomini, nipote del cardinale Celio, si legò ad una delle più importanti famiglie senesi.
Le aree di impianto degli edifici sono rappresentate nella pianta
edita da Antoine Lafréry nel 1566, nella quale si evidenziano le vaste
zone agricole dove erano già tracciati alcuni sentieri che, attraversando l’Olimpiano, si dirigevano verso le pendici del Vomero, denunciando lo sviluppo dell’intera area verso la collina.
Per Palazzo Tarsia si osserva che «La collocazione strategica,
l’estrema vicinanza alla capitale, la disponibilità ancora di ampi
spazi, nonché l’amenità del sito e la sua posizione dominante costituivano, infatti, qualità preziose per coloro che, come i Caracciolo,
i Turboli, i Montemiletto, i de Ruggiero, gli Spinelli, intendevano
affiancare alle comodità della vita di campagna il fascino della vita
di corte offerta dal palazzo di città. Qui, inoltre, era possibile tessere
sempre nuove e importanti relazioni sociali, senza per questo rinunciare all’ubicazione arroccata»5.
S. Attanasio, La Villa Carafa di Belvedere al Vomero, S. E. N., 1985, pag. 25/27.
E. Manzo, La Merveille dei principi Spinelli di Tarsia. Architettura e artificio a Pontecorvo, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1997, pag. 3.
4
5
14
Capitolo 1
Fig. 5 - A. Lafréry, S. Dupérac, 1566, Napoli. Di fronte al bastione accanto alla porta
dello Spirito. Santo (n.8) il lotto sul quale sarà realizzato il palazzo dei principi di Tarsia.
Villa Belvedere, disposta più a monte, si inseriva in un contesto
di lussureggiante vegetazione, punteggiato da piccoli “casini di delizie” e masserie i cui soli elementi di maggiore rilievo erano il Forte
di S. Elmo e la Certosa di S. Martino.
Difatti, mentre l’intervento del Gisolfo comportò la demolizione
di una masseria cinquecentesca costituita da tre corpi di fabbrica,
l’intervento del Presti, fu impostato ristrutturando un casino di
campagna, esistente sul fondo degli Altomare, la cui nuova struttura
inglobò buona parte dell’edificio preesistente. Nella veduta del Baratta del 1670 si evidenzia, accanto alla Calata S. Francesco, il convento omonimo e sul lato orientale, celata dalla vegetazione, la
costruzione degli Altomare.
I due edifici mostravano una forte similitudine anche nel richiamo agli stilemi tipici della dimora fortificata che evidenziava un
retaggio feudale ed un prudenziale approccio alla realizzazione di
nuove forme fortemente caratterizzate dal rapporto aperto con la
natura ed in diretto contatto con l’ambiente esterno.
ARCHITETTURE A CONFRONTO
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Fig. 6 - A. Baratta, 1670, particolare. L’area in cui è ubicato il casino Altomare,
poi inglobato nel palazzo Vandeneynden.
L’incisione di Alessandro Baratta edita nel 1629, mostra su un
terreno in declivio tra le porte Medina e Reale l’imponente edificio
residenziale degli Spinelli, con la compatta cortina sul prospetto anteriore sormontata da due torri angolari ed una torre non in asse;
le due file di bucature corrispondevano ad altrettanti piani nobili.
L’edificio si chiudeva a corte con un orto interno, circondato da
un irregolare complesso di fabbriche, a cui si opponeva la monotona facciata rivolta verso la città che, priva di qualunque ornamento, mancava di interessanti valenze architettoniche rimanendo
ancorata allo schema chiuso e fortificato del castello feudale6.
L’aspetto di dimora fortificata era comune anche al Palazzo Belvedere che, come riportato nella “Pianta ed alzata della città di Napoli” realizzata dal Petrini nel 1698, si sviluppava su un blocco a
corte chiusa su tre lati ed aperta a loggiato sul quarto lato verso Posillipo, con piano terra, piano nobile e quattro torri angolari emergenti.
6
E. Manzo, op. cit., pag. 9.
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Capitolo 1
Fig. 7 - A. Baratta, Fidelissima Urbis Neapolitanae … incisione su rame, Napoli,
1629. Particolare.
Fig. 8 - P. Petrini, 1698, Pianta ed alzata della città di Napoli, il palazzo Vandeneynden.
ARCHITETTURE A CONFRONTO
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L’analisi delle caratteristiche architettoniche e distributive degli
spazi interni dei due edifici evidenzia ulteriori similitudini che sono
fortemente connesse alle inclinazioni culturali delle due famiglie,
particolarmente dedicate al collezionismo d’arte. Infatti in entrambi
gli edifici le Gallerie diventarono i luoghi di rappresentanza per eccellenza ed occupavano le posizioni nobili delle facciate principali.
Da un lato, Carlo Francesco, principe di Tarsia si era impegnato
ad arricchire l’importante quadreria di rari e preziosi dipinti tanto
da costituire, secondo il giudizio del Parrino, un vero e proprio
“museo”. Nel palazzo, infatti, era possibile trovare «prima, seconda
e terza riga di pittori, essendovene cinque del Rafaele, Buonarota,
Sarno, Perin de Vago, Pietro Veronese, Caravaggi, Castiglione, Bassani vecchio, e giovane, Carracci, Rubens, Vannich, [....] molti di
Salvator Rosa, ed altri di Pittori così paesani, come forastieri, che
ci vorrebbe un gran catalogo, oltre i desegni, fra’ quali molti del Cavalier Lorenzo Bernini».
Dall’altro, i Vandeneynden condividevano la loro passione con
l’amico Gaspare Roomer, uno dei maggiori collezionisti del periodo,
da cui Ferdinando ereditò circa novanta quadri, e vantavano nella
loro collezione tele di Rubens, Stanzione, Salvator Rosa, Mattia
Preti, Aniello Falcone, Luca Giordano. L’attenzione per l’arte era
tale che il principale ambiente di rappresentanza sulla facciata del
Palazzo prospettante a mezzogiorno era costituita dalla «Galleria
con intempiatura de quadri indorati, et pitture di Giordano»7 che costituiva il principale ambiente di rappresentanza. La decorazione
fissa era un elemento raro nei palazzi napoletani dell’epoca che non
avevano ancora raggiunto il fasto di quelli romani, bolognesi e genovesi, e la presenza di una Galleria decorata da Luca Giordano su
incarico del Vandeneynden, con due dipinti di scene mitologiche,
pone in risalto il gusto del proprietario e la sua posizione economica, molto superiore al livello della borghesia napoletana e a quello
della stessa nobiltà, ancora legata alle rendite dei terreni.
Come cita G. Labrot8 «All’interno della nuova fioritura che dalla
fine del Seicento si prolunga nel primo Settecento, la galleria, sala
7
Per una dettagliata descrizione del Palazzo Vandeneynden si veda l’Apprezzo eseguito
nel 1688 dai tavolari ingegneri Antonio Galluccio e Mario d’Urso del Palazzo Vandeneynden
al Vomero il cui testo è riportato in S. Attanasio, op. cit., pag. 90/94.
8
Cfr. G. Labrot, Palazzi Napoletani, storia di nobili e cortigiani 1520 – 1570, Electa, 1993
18
Capitolo 1
di rappresentanza per eccellenza, svolse un ruolo decisivo. Più vasta
ancora e più opulenta della Sala, rapidamente questa divenne vetrina privilegiata della gloria familiare nella quale le firme più rinomate in campo pittorico si avvicendarono a creare una decorazione
di inusitato splendore. La galleria suscitò esigenze nuove, impresse
nuovo impulso alla decorazione del palazzo, costringendo le famiglie a rialzare il tono. Né fu appannaggio esclusivo della galleria
l’opera di artisti, pittori, stuccatori, vetrai “riggiolari”; il gusto di
una decorazione fissa di tono più elegante divampò anche nelle altre
stanze dell’appartamento».
Ma l’elemento che più di ogni altro accomunò fortemente le due
fabbriche fu il rinnovato rapporto con la natura e con il paesaggio
che si concretizzò con gli interventi di ristrutturazione ed ampliamento settecenteschi. L’invenzione di nuovi spazi e volumi che diventarono elemento di raccordo tra i palazzi, le pertinenze e
l’ambiente, i due edifici furono trasformati in suntuose e principesche residenze.
L’intervento del 1732 del Vaccaro su Palazzo Tarsia, fuse sapientemente due tipi ricorrenti nell’edilizia civile seicentesca: il palazzo
di città e la villa di campagna9. Il cortile, elemento principale dell’edificio su cui articolare i nuovi spazi, divenne corte esterna attraversata dalla strada, ed il piano nobile si proiettò oltre la facciata,
su di una terrazza a livello da cui era possibile fruire del panorama
e dell’edificio stesso.
A livello della corte, spazi e passaggi voltati, scanditi da pilastri
ed archi, si raccordavano alle rampe protese sul maestoso giardino.
L’intervento per l’ampliamento della fabbrica dei Vandeneynden, successivamente di proprietà dei Carafa, principi di Belvedere,
per effetto del matrimonio dell’ultimogenita dei Vandeneynden nel
1688 con Carlo Carafa IV Principe di Belvedere, venne realizzato
intorno al 1730. La somiglianza con l’opera del Vaccaro era sorprendente. All’originaria fabbrica seicentesca venne aggiunto, dalla
parte del vasto parco con ingresso sulla “via del Vomero”, un loggiato ad un solo piano che chiudeva una corte semiellittica. Dall’altro lato, rivolto sulla vista del Golfo, un altro loggiato chiudeva il
9
Cfr. A. Buccaro, Modelli funzionali della residenza nobiliare napoletana: le fonti catastali.
In G. Simoncini (a cura di), L’uso dello spazio privato nell’età dell’Illuminismo, Firenze: Olschki, 1995.
ARCHITETTURE A CONFRONTO
19
lato orientale della splendida terrazza giardino. Pertanto il piano
nobile venne dotato di due ampie terrazze sui fronti principali del
palazzo, realizzando così la passeggiata all’esterno ed accentuando
la notevole panoramicità dell’intervento del Presti.
Purtroppo non si ha alcuna documentazione che possa consentire una precisa attribuzione dell’ampliamento della villa Belvedere.
L’analisi architettonica degli ampliamenti settecenteschi sia del
Palazzo Tarsia sia della Villa Belvedere ci porta ad individuare molti
degli aspetti peculiari delle ville extraurbane che sorsero numerosissime nella prima metà del Settecento lungo il Miglio d’Oro per
effetto della decisione di “…..Carlo di Borbone e Maria Amalia di
Sassonia, sua moglie, di costruire una nuova reggia a Portici per dare
inizio agli scavi della città romana di Herculaneum. […]. Da quel
momento, tutti i nobili napoletani seguirono la corte dei Borbone e
realizzarono nella zona costiera ai piedi del Vesuvio alcune ville per
il soggiorno estivo, creando un complesso architettonico unico al
mondo per quantità e bellezza, caratterizzato da edifici costruiti da architetti quali Luigi Vanvitelli, Ferdinando Fuga, Domenico Antonio
Vaccaro, Ferdinando Sanfelice, completati da vasti giardini e da decorazioni pittoriche di grande prestigio.”10
Il tema architettonico del connubio tra il palazzo di città e la
villa di campagna è ricorrente anche nelle ville vesuviane, dove è
maggiormente palese la duplicità della configurazione fronte-retro,
ossia l’adozione di un prospetto compatto sulla strada, allineato al
filo delle altre fabbriche e tipico di una dimora di città o di un “palazzo”, a fronte di un articolazione del prospetto posteriore, rivolto
talvolta verso il mare, talvolta verso il Vesuvio o la campagna, più
movimentato ed aperto verso l’ambiente naturale e la sua libera fruizione, tipico delle dimore agresti.
Come per Palazzo Tarsia e Villa Belvedere, anche per le ville vesuviane il primo piano era solitamente collegato ad ampie terrazze
che integravano le sale e costituivano percorsi belvedere aperti sulla
natura circostante e connessi alle funzioni residenziali.
Purtroppo un ultimo e più recente elemento di comunione tra Palazzo Spinelli di Tarsia e Villa Carafa di Belvedere attiene lo stato di
conservazione, l’alterazione delle volumetrie e l’aggressione subita
10
Fondazione Ville Vesuviane.
20
Capitolo 1
Fig. 9 - La Villa Reale di Portici in un dipinto ad olio del ‘700.
Fig. 10 - Villa Campolieto (tratta da U. Cardarelli, P. Romanello, A. Venditti, Ville
Vesuviane, Electa Napoli, 1988, foto di Marina Arlotta).
ARCHITETTURE A CONFRONTO
21
per effetto della cementificazione e dell’uso spregiudicato della
Città di Napoli che ha di fatto decontestualizzato l’edilizia storica
rispetto ai propri significati originali, compromettendone la percezione urbana e cancellando due esempi di rara bellezza artistica ed
architettonica e la loro storia……………………………….…che in
fondo in fondo è anche la nostra storia!
Fig. 11 - Vista assonometrica del palazzo Tarsia dal lato del portico su Largo Tarsia.
Fig. 12 - Vista assonometrica della villa Belvedere dal lato della terrazza giardino.
22
Capitolo 1
Fig. 13 - Il panorama dalla copertura del palazzo Spinelli di Tarsia: Il Vesuvio.
Fig. 14 - Il panorama dalla copertura del palazzo Spinelli di Tarsia: San Martino.
Fig. 15 - La splendida vista del Golfo dalla villa Carafa di Belvedere.
2 - PALAZZO SPINELLI DI TARSIA
2.1 - NOTE STORICHE ED EVOLUZIONE ARCHITETTONICA
Il rilievo anticamente detto “Olimpiano”, posto ai piedi del colle
di S. Martino, occupava un’area oggi delimitata, grosso modo, da
via Tarsia, salita Montesanto, corso Vittorio Emanuele, via Salvator
Rosa, via Francesco Saverio Correra e piazza Dante.
Attraversato dalla via Antiniana (la Neapolis-Puteolim per colles)
che dalla porta Puteolana di Napoli saliva verso il Vomero, doveva
forse il suo nome alla presenza di un tempio dedicato a Giove Olimpio, presso il quale sembra si tenessero anche giochi celebrativi. È
probabile che all’epoca romana debba riferirsi un sistema di canalizzazioni, tutt’oggi presente, che captava una sorgente locale, per
cui l’area, sebbene ancora non abitata, era verosimilmente coltivata
fin d’allora.
Nel 1131 il duca di Napoli, Sergio VII, concesse l’Olimpiano al
monastero dei SS. Severino e Sossio, che lo conservò e sfruttò come
zona agricola per circa quattro secoli, durante i quali il poggio acquistò il nome più popolare di “Limpiano”.
A metà del 1500, i grandi lavori voluti da Pedro di Toledo per il
rinnovo di Napoli e le conseguenti esigenze di nuovi spazi obbligarono il monastero a cedere al governo alcune parti marginali del
Limpiano, oggi corrispondenti a via Tarsia e piazza Dante, necessarie per la costruzione delle nuove mura e per il prolungamento
di via Toledo, attraverso la porta dello Spirito Santo, verso la Sanità
e il Vomero.
Da quel momento i monaci iniziarono progressivamente a disfarsi di tutte le loro proprietà nella zona, a favore di alcune famiglie
nobili in stretti rapporti con i Toledo che apprezzarono particolarmente le caratteristiche di amenità ed isolamento del Limpiano non-
24
Capitolo 2
ché la sua immediata vicinanza alla città. Primi fra tutti ad acquistare alcuni lotti, fin dal 1563, furono i Pontecorvo che diedero presto il nome alla ripida strada lungo la quale affacciavano le loro
proprietà e successivamente all’intero Limpiano.
Intorno al 1573 anche Giuseppe Vespasiano Spinelli comprò tre
lotti, separati dalle vie pubbliche di salita Pontecorvo e del vico ortogonale a questa. Sul lotto ad est della salita gli Spinelli edificarono
il loro primo palazzo, costato decine di migliaia di ducati, mentre
sui due lotti ad ovest serbarono intatti i campi coltivati e le masserie,
alcune delle quali poste di fronte alla nuova cinta muraria cittadina.
Nel 1606 Giuseppe Vespasiano ospitò a palazzo alcune carmelitane scalze alle quali decise di vendere l’edificio per circa 17.000
ducati. L’iniziativa era comune tra le famiglie nobili stanziate nella
zona; nel clima della controriforma, numerosi palazzi a Pontecorvo
finirono per diventare monasteri dediti alla salvaguardia e al recupero della virtù delle giovani locali, continuamente minacciate da
un ambiente in cui prostituzione e malaffare erano fortemente incentivati dalla presenza dei vicini acquartieramenti spagnoli.
Le procedure di cessione durarono alcuni anni, durante i quali
Giuseppe Vespasiano provvide progressivamente a spostare il proprio domicilio sui restanti lotti di sua proprietà, eliminando masserie e coltivazioni.
Divenuto principe di Tarsia nel 1612 ed essendo legatissimo ai
suoi feudi, presso i quali risiedeva la maggior parte dell’anno per
curare i propri affari, egli decise di costruire a Pontecorvo un edificio adeguato al titolo appena acquisito e funzionale alla natura essenzialmente politico - diplomatico - economica delle sue rare
presenze nella capitale.
A partire dal 1617 si hanno notizie di lavori sul lotto a nord del
vico pubblico, diretti da Orazio Gisolfo, allievo del Picchiatti ed
esperto in fortificazioni, ed è documentato al 1619 il trasferimento
del principe Giovanni Vincenzo Spinelli, succeduto un anno prima
al padre Giuseppe Vespasiano, nella sua nuova “casa palaziata”;
nell’edificio di nuova costruzione solo i “piani nobili” ospitavano
la famiglia mentre i restanti ambienti erano destinati ad essere affittati come abitazione o bottega, generando in tal modo un reddito
tale da ottemperare adeguatamente alle pesanti tasse di costruzione
imposte dalle prammatiche vicereali.
PALAZZO SPINELLI DI TARSIA
25
La tipologia costruttiva era quella di un massiccio edificio a corte
dai volumi irregolari, chiuso intorno ad un orto interno cui si accedeva da salita Pontecorvo. L’ala prospiciente il vico pubblico, dov’erano i due piani nobili, era formata da un blocco sormontato da
tre torri che conferivano all’edificio un aspetto di castello feudale,
verosimilmente consono sia ai gusti della committenza sia alle capacità del Gisolfo. Le tre torri che movimentavano la facciata erano
disuguali e per giunta irregolarmente distanziate ed i due portali,
quello centrale e quello di sinistra, ribadivano l’asimmetria dell’impianto originario; i due ingressi sul vico lo mettevano in comunicazione col lotto al di là della strada pubblica, che nel frattempo era
diventato un grande giardino delimitato da un’alta recinzione.
Fig. 1 - Stopendaal, Napoli, incisione su rame, 1653.
26
Capitolo 2
L’intervento degli Spinelli si inseriva in un periodo di intensa attività edilizia, durato fino alla crisi economica del 1622, che portò all’occupazione di tutti i suoli liberi a Pontecorvo con conseguente
scomparsa dei terreni agricoli, ridotti sempre più ad angusti orti e giardini. Nel 1640 la costruzione di porta Medina permise al quartiere,
sviluppatosi quasi in continuità con il tessuto urbano intra moenia e
ormai intensamente abitato, di avere adeguati collegamenti con la città.
Intanto, nel 1623, Ferdinando Spinelli successe al padre Giovanni Vincenzo; amante dell’arte egli radunò in una galleria e due
camerini della sua casa di Pontecorvo un’impressionante raccolta
di quadri, disegni ed oggetti di valore. Morto nel 1654 senza figli,
lasciò la preziosa eredità a suo fratello Carlo a cui, nel 1660, successe il figlio Giovanni Vincenzo II e, nel 1668, il nipote infante
Carlo Francesco, affidato alla tutela della madre Angela Caracciolo.
Con quest’ultima la famiglia Spinelli tornò a risiedere a Napoli con
maggiore frequenza, e si dedicò ad apportare migliorie all’abitazione; in particolare, la principessa si occupò della sistemazione del
giardino grande, mediante la costruzione di una grande vasca in
muratura alimentata dalla sorgente locale, mentre l’orto nella corte
cominciò progressivamente a scomparire.
Nella seconda metà del ‘600 i due piani nobili del palazzo risultavano serviti da uno scalone monumentale e l’edificio padronale
presentava una pianta ad “L”. Il primo dei due piani nobili era formato da quattro ampie camere, di cui un paio finemente arredate,
comunicanti tra loro e collegate, tramite un camerino, alla galleria
della pinacoteca; esso fungeva da piano di rappresentanza dove venivano ricevuti gli ospiti di riguardo. I livelli superiori a quelli nobili
erano stati invece divisi in quartini per essere affittati. Dal lato opposto della corte erano le cucine, le stalle, i depositi, le cantine e i
bassi. Non vi erano logge o belvedere, nemmeno balconi: tutta la
vita di famiglia si svolgeva nel chiuso dell’abitazione.
Carlo Francesco, riprendendo le orme del prozio Ferdinando,
coltivò la passione per l’arte aumentando la pinacoteca di famiglia
e ponendo le basi di una ricchissima biblioteca. Attento alle più
moderne acquisizioni della cultura dell’epoca, egli ospitò nel suo
salotto importanti personalità della filosofia e dell’arte che segnarono le scelte architettoniche e decorative adottate nei successivi
interventi al palazzo.
PALAZZO SPINELLI DI TARSIA
27
L’avvento della dominazione austriaca, col conseguente riassestamento politico-economico di rapporti e alleanze tra nobili e governo, costrinse gli Spinelli a trasferirsi definitivamente a
Pontecorvo.
Grazie alla favorevole congiuntura economica, partita già alla
fine del 1600, gli Spinelli approntarono nuove timide modifiche alla
costruzione, consistenti essenzialmente in opere di consolidamento
per ovviare ai danni causati dai terremoti del 1688 e del 1694. Probabilmente l’incarico di questi lavori fu dato, nel 1709, a Ferdinando Sanfelice, giovane e promettente esponente delle più recenti
tendenze architettoniche, la cui famiglia frequentava i principi di
Tarsia almeno dal 1687, il quale continuò ad occuparsi del palazzo
fino al 1731.
Il matrimonio del 1715 tra Ferdinando Vincenzo, figlio di Carlo
Francesco, e Nicoletta di Capua, portò alla famiglia ben 10.000 ducati. Questa somma, insieme all’abolizione delle tasse edilizie, sancita nel 1718, misero gli Spinelli in condizioni di poter avviare il
completo rinnovamento del palazzo che, divenuto ormai residenza
stabile della famiglia, necessitava di un decoro adeguato al rango
dei principi di Tarsia.
L’abbellimento del palazzo fu curato da Ferdinando Vincenzo,
degno erede culturale del padre e altrettanto accanito collezionista
che, già da prima del 1730, aveva avviato una serie di piccoli interventi. Preferendo al Sanfelice l’opera del maestro Domenico
Antonio Vaccaro, gli affidò l’incarico, alla fine del 1731, di effettuare i primi rilievi e scandagli necessari all’elaborazione del progetto.
Nel 1732, con la morte di Carlo Francesco, Ferdinando Vincenzo poté finalmente disporre del capitale di famiglia per far partire ufficialmente i lavori di cui affidò la direzione al Vaccaro, il
quale effettuò inizialmente ulteriori scandagli ed i primi grandi
sbancamenti nella zona del giardino, senza trascurare di proseguire
anche la decorazione del palazzo.
È probabile che il progetto sia stato completamente definito agli
inizi del 1733 e previde solo il rifacimento e la regolarizzazione della
veste decorativa del Palazzo, con lo spostamento della facciata principale dal lato del vico pubblico, sull’attuale Largo, per fungere da
quinta teatrale dell’intera composizione.
28
Capitolo 2
Fig. 2 - D. A. Vaccaro, Prospetto del Gran Palazzo di Sua Eccellenza il Signor Principe di Tarsia, incisione su rame, Napoli 1737.
L’indicazione progettuale più radicale riguardò il giardino che
venne completamente stravolto, posto a una quota sensibilmente
inferiore e raccordato al vecchio edificio tramite un sistema di
terrazzamenti degradanti che scendevano fino al nuovo ingresso,
posto di fronte al bastione dello Spirito Santo sull’odierna via
Tarsia.
Dai primi piani alle estremità del palazzo si sviluppò un ampio
loggiato che scavalcava il vico pubblico e abbracciava il cortile, oggi
largo Tarsia, collegato, tramite un passaggio a triplice arcata, a due
grandi rampe dal percorso sinuoso, adatto a superare agevolmente
il dislivello per giungere all’ingresso.
Le rampe circoscrivevano una grande esedra sulla quale si aprivano gabbie destinate ad accogliere animali esotici e che, all’occorrenza, poteva anche essere riempita d’acqua per fungere da
suggestivo laghetto.
Ai lati delle rampe vi erano due ampi giardini, sui quali affacciavano altrettanti bassi corpi di fabbrica addossati al loggiato, a
sottolineare l’accesso alla triplice arcata.
La recinzione che delimitava la parte inferiore del complesso era
PALAZZO SPINELLI DI TARSIA
29
dotata di ampie bucature che permettevano al passante, o ai curiosi,
di godere dello straordinario spettacolo architettonico, particolarmente animato in occasione dei ricevimenti e delle feste tenute dal
principe.
Il Vaccaro, in accordo con Ferdinando Vincenzo, impose al
nuovo edificio una veste tipicamente rococò, caratterizzata dalle
forme concavo-convesse utilizzate non solo nelle nuove strutture
ma soprattutto nelle decorazioni in stucco, che ricoprivano i volumi
più bloccati delle preesistenze, così come nel disegno dei giardini,
delle ringhiere e, in particolare, dei coloratissimi pavimenti in maiolica; dappertutto vi erano inoltre statue, fontane, panche, vasi e
tavolini in marmo e diffusissime erano le dorature.
Ugualmente per gli interni era previsto un apparato decorativo
ricchissimo, non solo ai piani nobili e nella pinacoteca, ma anche nei
locali sotto la metà occidentale del loggiato, che il principe aveva destinato ad ospitare una nuova grande biblioteca, comprensiva anche
di una raccolta di macchine scientifiche. Quest’ultima, separata dalla
vecchia biblioteca di famiglia posta negli appartamenti privati, in accordo con il gusto dei principi umanitari ed educativi affermatisi col
successo del pensiero illuminista, venne concepita quale istituto a
disposizione della cittadinanza e pertanto fu provvista di un accesso
pubblico prospiciente l’odierna salita Tarsia.
Nonostante la morte della principessa consorte, avvenuta nel
1733, i lavori, a cui parteciparono decine di maestranze napoletane
tra le più capaci dell’epoca, proseguirono alacremente fino all’anno
successivo. Ferdinando Vincenzo, che aveva impiegato già oltre
22.000 ducati per le lavorazioni, fu costretto a chiederne in prestito
altri 9.000. Il problema economico che si venne a creare fu risolto
in breve tempo grazie ad un nuovo matrimonio contratto nel 1734
con Domenica Maria Sanseverino ed il conseguente incameramento
di una cospicua dote.
Nel 1736 subentrano ulteriori problemi economici: in quell’anno
le spese complessive erano arrivate a 41.000 ducati e questa volta il
prestito concesso fu di 12.000 ducati.
Come osservava Gérard Labrot1 “il cantiere di palazzo Spinelli di
Tarsia è certamente uno dei maggiori cantieri del secolo. Un buon nu1
G. Labrot, Palazzi Napoletani: Storie Di Nobili e Cortigiani 1520-1750, Electa Napoli, 1993.
30
Capitolo 2
mero di pagamenti presenti in archivio e in fonti ufficiali (pubblicati
da Giuseppe Fiengo, cfr. G. Labrot, op. cit.) consente di penetrare tra
la folla degli artisti a lavoro: due stuccatori. Antonio Martinetti e Giuseppe Marra, qualificato di «scultore di stucco»; un venditore di
marmo di Genova, Paganino Ravenna, il quale consegna 28 busti in
marmo; due marmisti, Lorenzo Faccioli e Giovanni Cristoforo Storni;
un indoratore, Giacinto delle Donne e tanti pittori diretti e sorvegliati
da Domenico Antonio Vaccaro in persona. Tra questi, Lorenzo Zecchetella, Nicola Cacciapuoti, «figurista», il quale si affianca nel lavoro
a Giovanni de Simone, fratello di Antonio, pittore anch’egli e figlio di
Francesco, proprietario di una bella quadreria.
I pagamenti effettuati ai vari artisti, spesso consistenti, rivelano
l’ampiezza di programmi ambiziosi che sollecitarono le varie arti.
All’esterno dell’edificio lavora Lorenzo Zecchetella, erede alla lontana di Polidoro, che fu incaricato di dipingere «l’affaciata del cortile e cortiletto». All’interno del palazzo, come nel nuovo «casino»
costruito «avanti il palazzo», le decorazioni toccarono probabilmente l’apice della sontuosità e due luoghi d’eccezione emergono
su tutti, a dispetto della pochezza e della discontinuità dei pagamenti: la scala principale e la galleria dell’appartamento inferiore.
Lorenzo Faccioli costruisce «la scala tutta di marmo principiando
dal cortile fino all’ultimo appartamento di sopra, coi gradini tutti
di un pezzo ... e con il sottogrado di marmo bardiglio». Compiuta
questa fase del lavoro, entrano in scena Giovanni de Simone e Giacinto delle Donne: il primo riceve 70 ducati «per la pittura di ornamenti di tutta la scala», il secondo attua «l’intera doratura ... di tutta
la scala ... cioè doratura di tutte le cornici e tutti i fogilami di stucco,
tutti dorati d’oro fino romano così nelle pareti come delle volte e
tutti i rabeschi che sono dipinti così gialli come verdi da ponerci
oro fino per lumeggiarli»”.
All’inizio del 1737 i lavori, almeno quelli relativi agli esterni, furono quasi completati, per cui il principe potè dare alle stampe, in
2.000 esemplari, il disegno del Vaccaro dal titolo “Prospetto del gran
Palazzo di Sua Eccellenza il Signor Principe di Tarsia”, unica rappresentazione rimastaci del progetto originale le cui lastre d’incisione
erano state ordinate fin dal 1735. Esso aveva ed ha ancor oggi il
compito di celebrare l’importanza assunta dai principi di Tarsia nel
nuovo regno di Napoli, passato da pochi anni nelle mani di Carlo
PALAZZO SPINELLI DI TARSIA
31
di Borbone che nel 1740 nominò Ferdinando Vincenzo cavaliere
dell’ordine di S. Gennaro.
Nella veduta del Vaccaro “gli elementi naturali sono tutt’uno
con la mole armoniosa della fabbrica, la cui tipologia volumetrica è
dettata dalla degradante morfologia del suolo: una scenografica
rampa d’accesso a forcipe s’affaccia su un ampio parco e la grande
loggia è sistemata a giardino pensile”2.
Nella didascalia che corona gli angoli superiori dell’incisione, si
legge la descrizione del paesaggio che si poteva godere dal palazzo:
«una gran città, una amena veduta di mare, una riva tutta di palagi,
ville coperte, un monte che getta fiamme con altra deliziosa collina
che a fianco, tutta sparsa di fabbriche e di forte rocca nella cima
munita, fa grandiosa comparsa»3. Inconsciamente il discorso scivola
su un piano metastorico; Vaccaro si rifugiò in una dimensione naturalistica in cui i contrasti provocati dagli interventi di sfruttamento del suolo apparivano attutiti, raffinatamente smorzati dal
compiacimento per il pittoresco.
Contrariamente all’opinione comune che fino a pochi anni fa induceva a ritenere che il palazzo, come riportato nell’incisione a bulino del febbraio 1737, fosse incompiuto, l’attenta lettura delle
didascalie presenti sulla stampa e delle descrizioni delle guide (in
particolare Sigismondo), l’analisi della cartografia sette e ottocentesca e delle strutture comprese tra la via, il vico, la salita e la piazza
che prendono il nome di Tarsia e la salita Pontecorvo, nonché il rinvenimento di alcuni documenti, confermano che esso fu completato
nelle forme descritte dall’incisione.4
Negli anni successivi vi furono numerosi interventi relativi alla
sistemazione degli interni e, alla fine del decennio, il Vaccaro cessò
di essere costantemente presente sul cantiere per affidarlo al controllo del suo sottoposto Antonio De Lellis. Alla sua morte, avvenuta nel 1745, Domenico Antonio Vaccaro lamentava 2.000 ducati
di credito nei confronti del principe.
Cesare De Seta, Napoli, Laterza, Bari 1995.
Cfr. R. Mormone, Domenico Antonio Vaccaro architetto, in « Napoli Nobilissima », vol.
I, fasc. VI, marzo-aprile 1962, pp. 216-27; Id., L’architettura a Napoli nell’età barocca, in Barocco europeo, barocco italiano, barocco salentino, Lecce 1970.
4
Leonardo Di Mauro, in AA.VV., Settecento napoletano, sulle ali dell’aquila imperiale
1707-1734, Catalogo della mostra, Electa Napoli, 1994.
2
3
32
Capitolo 2
Per quanto attinente la distribuzione degli spazi operata dal Vaccaro, pur non avendo a disposizione ad oggi alcuna documentazione grafica, è possibile fare affidamento sulla copiosa
documentazione dei lavori, costituita da numerosissimi pagamenti
documentati nel conto del principe di Tarsia presso il Banco del
Sacro Monte dei Poveri5, eseguiti per il progetto decorativo degli
ambienti.
Inoltre esiste un rilievo della fabbrica di fine Ottocento6, precedente alle alterazioni più recenti che hanno compromesso la distribuzione interna, che consente di determinare l’organizzazione e la
successione degli ambienti, descritta con particolare minuzia nel
volume di Elena Manzo di cui si propone un estratto.
Suddiviso l’edificio in due differenti piani nobili, furono aumentati
in proporzione gabinetti, camerini, guardarobe, retrocamere. La differenziazione degli spazi fu enfatizzata dalla diversità tra la qualità
privata degli appartamenti e quella di rappresentanza dei saloni. Nonostante ciò, l’impianto strutturale della seicentesca casa palaziata
non subì radicali trasformazioni, ma Vaccaro, senza stravolgerne l’impianto planimetrico, ruotò l’orientamento del palazzo verso il golfo,
spostando verso porta Reale la facciata principale che fino ad allora
era stata prospiciente su via Pontecorvo. In questo modo fu stabilito
un nuovo e differente rapporto tanto tra la fabbrica e l’ambiente naturale, quanto tra l’intero complesso architettonico e il contesto urbano circostante. Infatti, se nel Seicento il prospetto era inserito nella
cortina stradale e allineato agli altri edifici aristocratici e alle mura
dei numerosi monasteri che si ergevano compatti lungo la salita, dopo
la realizzazione della soluzione di Vaccaro, la fabbrica si configurava
protesa imponente sulle falde dell’Olimpiano, dominando lo spazio
della città sottostante. Dalle stanze di rappresentanza e da quelle dei
quartini del principe, disposte verso il cortile e lungo la facciata principale, si poteva ora ammirare lo spettacolare panorama del golfo con
il Vesuvio «che getta fiamme» e si instaurava, così, una relazione di
interdipendenza con lo spazio esterno. Gli altri “appartamenti”, di
contro, si affacciavano su1 cortile interno e su due vanelle.
5
E. Manzo, La Merveille dei principi Spinelli di Tarsia. Architettura e artificio a Pontecorvo, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1997, pag. 69.
6
Nel testo di E. Manzo si richiama la documentazione grafica messa a disposizione dall’ing. Francesco Ricciardi, proprietario di alcuni appartamenti.
PALAZZO SPINELLI DI TARSIA
33
Sebbene ancora delimitato da un’alta recinzione, l’intero complesso si apriva verso il centro del tessuto urbano, nucleo politico della
capitale del nuovo regno borbonico. La sinuosità delle forme, il rivestimento rococò e l’alternanza delle numerose bucature, alleggerivano
la massa muraria e la rendevano palpitante sotto le spinte che, partendo dal giardino, coinvolgevano e univano ogni parte del progetto.
Si instaurava, così, un dialogo intensissimo tanto con l’ambiente costruito, quanto con la natura circostante in cui si integravano il palazzo e il giardino.
L’incisione del 1737, confrontata con la cartografia del XVII secolo, e in particolare con quella realizzata da Alessandro Baratta nel
1629, rivela ulteriori modifiche apportate da Vaccaro alla preesistente
facciata. Infatti, la trasformazione della disposizione degli ambienti
distribuiti su tre livelli, trova un preciso riscontro nella differente organizzazione delle partiture delle bucature.
Al semplice e, oserei dire, spoglio involucro murario, l’architetto,
pur negando motivi fortemente chiaroscurali, sovrappose un registro
decorativo più aderente al gusto rococò. I balconi, “scorniciati”, ma
“coi pezzi intagliati di stucco fino”, avevano ciascuna mostra in legno
intarsiata da “cimase” e correvano lungo l’intero prospetto principale
tavoloni di piperno, appena aggettanti, con ringhiere in ferro battuto
segnavano, orizzontalmente, la continuità visiva delle bianche cornici
marcapiano, mentre schiacciate lesene inquadravano le finestre sormontate da timpani mistilinei e ritmavano la scansione verticale.
Nella facciata Vaccaro, rinunciando al gioco concavo-convesso delle
membrature, abbandonò anche la tensione delle masse che, di contro,
si ritrova, con un ritmo sempre più intenso, nel loggiato e nel giardino.
Dalla “piazza” si accedeva direttamente alle vecchie scuderie e, probabilmente, anche ad alcuni degli alloggi destinati alla servitù. I due
ampi ingressi, coronati da timpani curvilinei, collegavano lo slargo
con un cortile interno il quale affiancato da un piccolo giardino, sugli
altri lati era delimitato da due ali del palazzo. Una di queste, così come
si evince dalle differenti quote degli interpiani e dall’angusta scala di
accesso, era destinata a locali da fittare e ad ambienti di servizio quali
dispense, cantine, depositi o cucine.
L’altra ala era occupata per 2/3 da un ampio scalone in piperno a
doppia rampa che conduceva, attraverso imponenti mostre anche di
34
Capitolo 2
piperno, agli appartamenti del principe. I solai dei ballatoi, ricoperti
da “riggiolette di pietra di Genova», si aprivano sulla corte interna
con arcate tripartite dalle quali penetrava una illuminazione diffusa.
Le membrature architettoniche si trasformavano in un diafano diaframma che, essenziale nella rinuncia del tessuto decorativo, permetteva alle strutture di dialogare con il ristretto spazio del cortile interno.
Il traforo della parete, però, a differenza delle fabbriche sanfeliciane,
fu posto lateralmente all’ingresso principale.
[…] Il rapido passaggio da “casa palaziata” a palazzo ai margini
della città murata, così come fu impresso dalla mano di Domenico
Antonio, pur conservandone l’impianto strutturale, lasciò poche tracce
della precedente fabbrica costituita dall’aggregazione di differenti abitazioni a un edificio padronale a “L”. Condizionato dal nuovo ruolo
che presto avrebbe assunto la residenza, il regio architetto ritenne necessario separare i “quartini” del principe Ferdinando Vincenzo, ubicati al primo piano nobile, da quelli “superiori” destinati ai figli. In
tal modo, ciascun appartamento risultava completamente indipendente. Infatti, così come si evince con certezza dai documenti, furono
costruite due differenti cappelle gentilizie, nonché sui due livelli furono equamente distribuite sia le gallerie che le “camere con baldacchino”. Fu, poi, conferita unità all’intero complesso architettonico
interrelando, in modo armonico, le stanze secondo una sequenza a
enfilade e, poi, disponendole simmetricamente lungo la nuova articolazione a “C” dell’edificio.
La pinacoteca con la preziosa raccolta di quadri si trovava al primo
piano nobile e ad essa erano annessi alcuni gabinetti, la camera del
“baldacchino” e numerose retrocamere. Preceduta da tre anticamere,
affacciava direttamente sulla “piazza” e accedeva al belvedere dal lato
di via Pontecorvo.
Alla semplicità dell’organizzazione spaziale degli interni, conservati per lo più nella soluzione seicentesca fu sovrapposto un registro
decorativo aderente al gusto rococò, i cui stucchi, sapientemente dosati
con gli intarsi dorati, incorniciavano le pareti dipinte o impreziosite
da quadri.
Dalle causali di pagamento delle polizze esaminate si evincono ulteriori indicazioni riguardo alla ripartizione degli ambienti su entrambi i due piani nobili: la distinzione tra “quarto” e “quarto grande”,
per esempio, suggerisce la possibilità che ciascun livello fosse diviso
PALAZZO SPINELLI DI TARSIA
35
solo in due appartamenti. In particolare, come abbiamo già sottolineato, quelli del «piano superiore» sarebbero stati destinati al primogenito se, «accasandosi», fosse stato «il suo matrimonio approvato dai
suoi genitori». Così, anche al “quarto di sopra” fu realizzata una “galleria”, coperta da un’ampia volta, sulla quale Vaccaro giustappose un
suo quadro per impreziosire le tele che mascheravano parti centinate,
chiancole, malte, pietre pomici.
Durante la trasformazione della seicentesca casa palaziata fu costruita una cappella “nova” nell’ala del primo piano nobile prospiciente la chiesa di Sant’Antoniello. Il progetto fu elaborato dallo stesso
Vaccaro che, affidata la costruzione ai mastri fabbricatori Cristofaro e
Gennaro Vecchione, ne seguì personalmente lo svolgimento dei lavori.
L’ambiente era di modeste dimensioni:«canne 35 1/3 d’astrico d’intersuolo» coperto da un soffitto a “lamie”. Nell’invaso tutto “risplendente di oro”, l’elemento di maggiore interesse era l’altare disegnato
dall’architetto e realizzato dal mastro marmoraro Lorenzo Troccoli.
Infatti, alla ricchezza dei materiali pregiati impiegati per l’esecuzione
della struttura principale in intarsi di differenti marmi, soprattutto
broccatello di Spagna, si affiancava il prezioso paliotto dai ricercati colori. Sul «fondo verde antico del migliore si trovi», spiccava una croce
di lapislazzuli circondata da rami dorati e «puttini tutti in rilievo di
marmo bianco statuario lavorato a tutta perfezione [...] dovendo essere il tutto ben lustro».
L’edificio fu concluso da un tetto di tegole e coppi; sulla facciata
elementi ornamentali, busti di marino e volute di timpano segnavano
la continuità visiva delle lesene, mentre un alto cornicione poco aggettante ne marcava il raccordo orizzontale. La composizione era dunque attenta e bilanciata in una ritmata, ma pacata alternanza di pieni
e vuoti.
La scansione tripartita delle ampie arcate, posta sotto il belvedere,
filtro tra l’esuberante e movimentata orchestrazione del giardino e
l’equilibrio formale del palazzo, fu riproposta nel «nobile e adornato
osservatorio astronomico», unico elemento tratto dal repertorio dell’architettura effimera, da sempre campo di sperimentazione linguistica per Domenico Antonio Vaccaro, con cui il “Regio Ingegnero”
chiuse l’organizzazione della facciata.
Tra il 1746 e il 1747 finalmente entrò in funzione la biblioteca
pubblica, prima con la fondazione di un’accademia letteraria, poi
36
Capitolo 2
con una solenne inaugurazione, celebrata con la pubblicazione di
una raccolta di componimenti poetici. La direzione dell’istituto fu
affidata all’abate e letterato Niccolò Giovio.
Ma proprio in quegli anni l’edificio incominciò a soffrire di vari
problemi strutturali, dovuti sia alla cattiva sistemazione delle fondazioni, sotto i tre arconi di collegamento e sotto la vicina biblioteca, sia alle numerose infiltrazioni d’acqua, causate dalla presenza
di fontane e giardini pensili sul loggiato, per le quali già nel 1742 si
era stati costretti a rifare la copertura della biblioteca. Dunque, nel
1747 fu dato incarico a Mario Gioffredo di occuparsi del rafforzamento delle fondazioni, mentre nel resto dell’edificio continuarono
gli interventi di arricchimento dell’apparato decorativo.
Ulteriori decorazioni, sistemazioni d’arredi ed incessanti opere
di manutenzione furono effettuate durante tutta la vita del principe,
che dal 1750 affidò la direzione dei lavori a Niccolò e Pasquale Tagliacozzi Canale (padre e figlio).
Ferdinando Vincenzo morì nel 1753, poco dopo aver assistito al
matrimonio della figlia Maria Antonia, unica erede rimastagli. Ulteriori piccoli interventi almeno fino al 1757, furono promossi dalla
nuova principessa di Tarsia ma, la crisi economica scoppiata alla
fine degli anni ’50, finì per bloccare ogni iniziativa. Il patrimonio
degli Spinelli cominciò a dissolversi; le spese sostenute dalla principessa per la sistemazione e l’adeguato decoro dei figli ed in particolare per il matrimonio del primogenito Vincenzo Maria, che forse
comportò anche un primo rifacimento della facciata del palazzo secondo le più lineari mode neoclassiche in voga alla fine del secolo
la costrinsero alla progressiva vendita di parti del palazzo e dei dipinti della collezione di famiglia ed infine, nel 1790, dell’intera biblioteca, in parte acquisita da Ferdinando IV, comprensiva della
raccolta di strumenti scientifici. Fu poi proprio il re ad emanare nel
1798 una pesante tassa sulle proprietà baronali che costò agli Spinelli ulteriori 9.000 ducati.
Alla morte di Maria Antonia, avvenuta nel 1813, il titolo e il palazzo passarono al nipote Vincenzo, figlio di Vincenzo Maria morto
nel 1806. Sotto la sua guida la residenza dei Tarsia versò in condizioni di grave fatiscenza e, a causa di alcune lesioni verificatesi sotto
i piani nobili, si rese necessario un intervento di rafforzamento delle
pareti con speroni in muratura; il soffitto della galleria della pina-
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Fig. 3 - G. Carafa duca di Noja, 1775, Mappa topografica della città di Napoli e dè
suoi contorni. Al n. 369 il giardino del Palazzo.
coteca risultava inoltre danneggiato al punto tale da consentire all’acqua piovana di entrare e ristagnare in tutto l’ambiente.
Nel 1817, con la morte di Vincenzo, si estinse il ramo degli Spinelli principi di Tarsia e il palazzo passò nelle mani di vari privati,
tra i quali, dal 1821, anche il Regio Istituto d’Incoraggiamento,
scuola tecnica che organizzava periodicamente importanti mostre
di produzioni industriali. Nel frattempo, le rampe del Vaccaro furono occupate da nuovi edifici.
Nel 1840 il Consiglio Edilizio cittadino bandì un concorso per
la costruzione di un nuovo mercato nel giardino di palazzo Tarsia,
struttura ritenuta necessaria per ovviare ai problemi di ordine legale, estetico e igienico posti dal commercio ambulante nella zona
della Pignasecca. Il concorso fu vinto da Ludovico Villani che propose il progetto di un edificio con pianta a ottagono irregolare
molto schiacciato, diviso in due corti trapezoidali da un lungo spazio centrale di tipo basilicale terminante con un’abside.
Giudicato una delle migliori realizzazioni nel settore, nonostante
le scarse risorse municipali messe a disposizione e i brevi tempi di
38
Capitolo 2
Fig. 4 - Pianta dello stato antico col nuovo progetto, Anonimo, Napoli, 1840.
realizzazione imposti, l’edificio fu completato dal Villani nel 1845,
ma già l’anno successivo, visto l’ostinato rifiuto dei commercianti
di trasferirvisi, si decise di destinarlo ad usi differenti per i quali si
elaborano alcuni progetti di trasformazione.
Nel 1853 si giunse alla conclusione di fare del mercato la sede
dell’esposizione industriale “solenne” indetta per quell’anno dall’Istituto d’Incoraggiamento; gli ambienti e le strutture subirono
modifiche trascurabili, se si esclude l’introduzione di coperture in
ferro e vetro, mentre fu completamente rifatto l’apparato decorativo
in uno stile dorico vivacizzato da elementi pompeiani, secondo la
moda dell’epoca.
Contemporaneamente, si provvide a dare un aspetto dignitoso
anche al retrostante palazzo Tarsia; l’operazione comportò il completo smantellamento di quanto rimaneva del gusto settecentesco a
favore di una nuova veste neoclassica, nonché la tompagnatura dei
due ingressi originali, sostituiti da un unico accesso centrale.
Infine anche i bassi avancorpi del loggiato, con le altre fatiscenti
fabbriche che nel frattempo erano state elevate nel giardino, furono
inglobati in un piccolo edificio, ancora in stile dorico-pompeiano,
che congiunse il loggiato all’edificio espositivo. Pochi anni dopo,
gli ambienti di quest’ultimo furono modificati, ingrandendoli e rettificandoli per ospitare locali pubblici ed istituti scolastici.
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Negli anni ‘20 del 1900 palazzo Tarsia fu sopraelevato di due
piani caratterizzati da bucature che scompaginano l’originale simmetria della facciata; nuove finestre furono aperte anche ai lati del
palazzo sulle salite Tarsia e Pontecorvo, mentre furono tompagnate
le arcate del loggiato e usate come alloggi; affianco allo scalone di
collegamento tra i piani nobili venne infine costruito un ascensore
che ne compromise l’aspetto monumentale.
Nell’ultimo dopoguerra, palazzo Tarsia ha subito numerose modifiche e spoliazioni. Il grande cortile, che ha ormai perso tutta la
pavimentazione in piperno, è stato usato come parcheggio per le
auto; alcuni spazi interni al palazzo invece sono stati frazionati per
formare mini appartamenti, con conseguente distruzione di tutto
l’apparato decorativo originario, mentre gli appartamenti disposti
ai due piani nobili prospicienti il Largo Tarsia mantengono la loro
configurazione distributiva.
Nel frattempo alcuni locali dell’ex edificio espositivo sono diventati sede del nuovo teatro Bracco, inaugurato nel 1962, e del
commissariato di Pubblica Sicurezza.
La situazione è ancora peggiorata dopo il terremoto del 1980:
sono state trafugate tutte le statue del loggiato, ed anche la triplice
arcata sottostante è stata tompagnata ed occupata abusivamente; il
palazzo ha subito ulteriori superfetazioni ed è stato assoggettato ad
invasivi interventi di consolidamento che hanno contribuito a deteriorare le superfici voltate dell’androne e delle scale; risultano parzialmente tompagnati anche gli archi di accesso al Largo; le facciate
del corpo principale hanno subito molteplici alterazioni mentre
quelle dell’emiciclo, sottostanti le terrazze, sono in continua evoluzione.
2.2 - LO STATO ATTUALE
L’aspetto odierno del Palazzo è così distante dal progetto di Domenico Antonio Vaccaro, immortalato nella stampa del 1737, che
fino a diversi anni fa era opinione comune che il lavoro del “magnifico” architetto non fosse mai stato ultimato. Emblematica è la
completa scomparsa del giardino che ha lasciato solo una minima
traccia nella conformazione topografica degli attuali assi viari7. L’in-
40
Capitolo 2
tero largo è un immenso e caotico parcheggio e versa in uno stato
di totale abbandono.
La soprelevazione degli anni Venti e la realizzazione delle mansarde ha evidenziato l’asimmetria delle aperture e compromesso
l’equilibrio del prospetto principale che conserva le fattezze del restauro ottocentesco, operato in occasione dell’esposizione del 1853
con l’arco di ingresso centrale.
Fig. 5 - Il prospetto principale sul Largo Tarsia.
Le facciate hanno subito molteplici alterazioni; quelle dell’emiciclo prospiciente il Largo e sottostante le terrazze, i cui volumi sono
stati completamente occupati da abitazioni, si presentano in uno
stato di degrado architettonico ed ambientale terrificante in cui ad
un sistema caotico di bucature si associa un trattamento cromatico
arlecchinesco; quella del corpo principale prospiciente il Largo è
stata ultimamente recuperata, ripristinando l’originario rapporto
tra le cromie; quelle posteriori hanno subito interventi di apertura
di piccoli vani ed accessi e sono caratterizzati da una tinteggiatura
monocromatica; mentre le facciate prospicienti la corte interna e le
vanelle, anch’esse oggetto di libere aperture, versano in una condizione di avanzato degrado.
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L’equilibrio del cortile interno è alterato dal volume dell’ascensore in ferro che, disposto in corrispondenza della scala monumentale, ne occlude parzialmente anche il prospetto.
Il frazionamento interno e le superfetazioni degli anni ‘20 hanno
comportato lo stravolgimento dell’impianto distributivo e la cancellazione degli spazi nobiliari. Gli appartamenti ai piani nobili,
prospicienti il largo, hanno invece mantenuto la loro configurazione.
La cappella è sostanzialmente scomparsa ed è stata spogliata
degli arredi sacri e delle raffigurazioni.
Negli appartamenti non vi è traccia degli apparati decorativi,
degli affreschi e delle decorazioni a stucco delle pareti e gli inestimabili volumi della straordinaria biblioteca sono stati affidati al libero mercato.
Fig. 6 - I tre archi sul cortile interno di cui quello centrale ospita oggi l’unico accesso.
42
Fig. 7 - Il prospetto della scala principale nel cortile interno.
Capitolo 2
PALAZZO SPINELLI DI TARSIA
Fig. 8 - L’ala orientale della terrazza sul portico in Largo Tarsia.
Fig. 9 - L’ala occidentale della terrazza sul portico in Largo Tarsia.
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Capitolo 2
Fig. 10 - La triplice arcata sul loggiato in Largo Tarsia, oggi tompagnata, che conduceva al giardino.
Fig. 11 - La verticale di accesso al palazzo da Largo Tarsia.
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45
2.3 - IL RECUPERO DELLA FACCIATA PRINCIPALE
Il condominio di Palazzo Tarsia ha recentemente avviato un
piano di manutenzione integrata in modo da poter coordinare tutti
gli interventi con un complessivo disegno di recupero che, nel
medio termine, consentirà di restituire all’edifico la propria dignità
storica ed architettonica.
Nell’ambito di tale iniziativa nel 2007 sono stati completati i lavori
di manutenzione straordinaria dei prospetti su Largo Tarsia, salita
Tarsia e parzialmente Salita Pontecorvo, che hanno restituito decoro
alle facciate, proponendo un’alternanza cromatica degli ordini architettonici determinata sulla base di indagini sulle cromie originali.
L’edificio, nel suo complesso è realizzato in muratura piena di
tufo giallo napoletano a conci regolari, il primo impalcato è generalmente costituito da strutture voltate, mentre i successivi due impalcati sono realizzati con solai piani: travi in legno e panconcelli,
per i campi che hanno conservato l’originaria struttura, e travi in
acciaio, per i campi che hanno subito modifiche e sostituzioni. Le
fondazioni sono del tipo diretto e continuo e poggiano sul sottostante banco tufaceo.
La copertura del volume principale prospiciente il Largo Tarsia
è caratterizzata da un tetto a due falde, mentre sulle due ali laterali
e sul volume in sopraelevazione si sviluppano anche alcune superfici
piane.
L’analisi dello stato di conservazione delle superfici del prospetto principale, evidenziava un diffuso stato di degrado. Le principali patologie riscontrate attenevano l’adesione del corpo
dell’intonaco al sub strato murario in tufo.
Non si rilevavano invece patologie di origine statica.
Il degrado delle facciate si evidenziava in maniera diffusa sottoforma di:
– Lacune di intonaco, prodotte dal crollo in alcune zone dello
strato di protezione
– Alterazione cromatica superficiale, provocate dal dilavamento o
dalla sovrapposizione di diversi strati di tinteggiatura
– Scagliatura del basamento, evidenziata dal distacco di parti irregolari di piperno
46
Capitolo 2
Le prevalenti cause delle patologie e del degrado, evidenziate
sull’intera superficie della facciata e sugli aggetti decorativi, erano
dovute alle diffuse infiltrazioni di acqua sia di carattere diretto (da
pioggia) sia di carattere indiretto (cattivo funzionamento delle pluviali) ed alla mancanza di interventi di manutenzione ordinaria e
programmata con effetti degenerativi dello stato conservativo generale.
Le acque di pioggia incidenti sull’intonaco degradato trovavano
facili vie di accesso all’interno della struttura attraverso la diffusa
fessurazione superficiale.
Il contenuto idrico, assorbito per effetto delle caratteristiche porose del tufo, produceva, nella fase evaporativa, una spinta verso
l’esterno con conseguente distacco distribuito e crolli puntuali dell’intonaco.
Analogo effetto era indotto dalle acque infiltrate a causa del cattivo funzionamento delle pluviali, dal degrado degli strati di impermeabilizzazione e protezione della muratura e dai fenomeni
ascendenti.
Per quanto attiene i fenomeni di perdita delle componenti cromatiche originali, le principali cause erano attribuite all’azione degli
agenti atmosferici e alle sovrapposizioni dei diversi strati di tinteggiatura applicati negli anni.
In funzione dell’analisi delle patologie e del degrado sono state
definite le tipologie di intervento da realizzare per il recupero delle
facciate, in modo da:
– eliminare le cause delle infiltrazioni dirette ed indirette;
– ottimizzare l’innesto di nuovi elementi in un contesto materico
preesistente;
– favorire lo scambio igrometrico tra la muratura e l’ambiente, elidendo le componenti della spinta retrostante l’intonaco, garantendo al contempo l’impermeabilità delle superfici;
– ripristinare le cromie originali delle facciate.
Pertanto le lavorazioni realizzati sono consistite in:
– Impermeabilizzazione del canalone sommitale di raccolta delle
acque; sostituzione delle pluviali, disposte sotto traccia, e realizzazione dei pozzetti di ispezione al piede di queste ultime.
– Recupero dell’intonaco esistente e ricostruzione delle ampie
zone di intonaco
PALAZZO SPINELLI DI TARSIA
47
– Ricostruzione delle cornici e del cornicione
– Tinteggiatura superficiale.
Atteso che le murature in tufo erano fortemente coinvolte dai
fenomeni di umidità interna e che gli intonaci erano realizzati con
malta pozzolanica, si è determinato di utilizzare un nuovo intonaco
con caratteristiche elastiche compatibili con i materiali preesistenti
e con alta potenzialità traspirante ed impermeabile, per cui si è
provveduto ad effettuare:
– Idrolavaggio della massa tufacea con acqua a bassa pressione per
pulire ed eliminare quelle parti polverulenti che avrebbero potuto determinare un cattivo ancoraggio dell’intonaco.
– Riconfigurazione della planarità delle superfici con intonaco a
base di calce e pozzolana, caratterizzato da un basso modulo elastico, elevata permeabilità al vapore nonché da idonee caratteristiche meccaniche.
– Realizzazione della finitura superficiale con un tonachino a basso
spessore a base di calce aerea e pozzolana, compatibile con l’intonaco sottostante in modo da attivare il volano termo igrometrico necessario a favorire l’evaporazione.
Il colore delle superfici è stato determinato mediante l’analisi
dell’iconografia storica e la predisposizione di saggi diretti sulle superfici del fabbricato. I risultati delle analisi avevano evidenziato
che le facciate del Palazzo Tarsia erano caratterizzate dalla cromia
giallo tufo, ottenuta dalla presenza della polvere di tufo nel corpo
dell’intonaco, per le zone di fondo e da una cromia marrone chiaro,
ottenuta dalla presenza di terre locali nell’impasto dell’intonaco,
per il cornicione, per gli elementi in aggetto e decorativi.
Per i fondi giallo tufo si è utilizzato un tonachino pigmentato
che riprende la tradizionale lavorazione di impasto delle terre locali
alla malta ed offre buone caratteristiche di protezione e durabilità
garantendo traspirabilità e impermeabilizzazione. Si è pertanto utilizzato un intonaco a basso spessore a base di grassello di calce stagionato per finiture colorate frattazzate, composto da una miscela
di inerti selezionati a base di CaCO3 puri e terre naturali che conferiscono la pigmentazione colorata, con l’aggiunta di additivi nobilitanti e di grassello di calce.
48
Capitolo 2
Per le cornici, le lesene ed in generale per tutte le altre parti aggettanti, sulle quali l’applicazione del tonachino pigmentato risultava particolarmente difficoltosa, è stata utilizzata una tinteggiatura
ai silicati di potassio che garantiscono un’ottima permeabilità al vapore acqueo, una notevole impermeabilità ed una buona resistenza
agli agenti atmosferici.
PALAZZO SPINELLI DI TARSIA
49
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castelli, fabbriche, magnificenze, notizie degli antichi dogi, regnanti, ar-
PALAZZO SPINELLI DI TARSIA
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civescovi, vescovi, nobiltà, popolo, tribunali, quadri, statue, sepolchri, librarie e ciò che più di notabile, bello e buono in essa si contiene, epilogata
da’ suoi autori impressi e manoscritti, che ne hanno diffusamente trattato,
col catalogo de’ viceré, luogotenenti e capitani generali che han governato
sino al presente, Volume primo [della coppia comprendente anche “Di
Napoli il seno cratero...”] nella nuova stampa del Parrino a Strada Toledo, all’insegna del Salvatore, Napoli 1700.
DOMENICO ANTONIO PARRINO, Nuova guida de’ forestieri per l’Antichità
Curiosissime di Pozzuoli, delle Isole adiacenti d’Ischia, Procida, Nisida
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3 - VILLA CARAFA DI BELVEDERE
3.1 - NOTE STORICHE ED EVOLUZIONE ARCHITETTONICA
La Villa Carafa di Belvedere nacque come “casa palaziata” sul
finire del Seicento, in un territorio suburbano, agricolo, su un preesistente “casino di delizie” appartenuto alla famiglia dell’avvocato
Biagio Altomare.
La nuova struttura del Palazzo integrava, come conferma il Celano1, una piccola casina di campagna esistente sul fondo degli Altomare, che si intravede nella veduta Baratta del 1670.
Committente della nuova opera fu il ricco mercante, di origine
fiamminga, Ferdinando Vandeneynden, marchese di Castelnuovo,
sposato con la nobile Olimpia Piccolomini, nipote del Cardinale
Celio. Il marchese, ammalatosi di tisi, su consiglio dei medici decise
di ritirarsi in una più salubre villa in campagna, nell’antico villaggio
del Vomero, completamente immerso nel verde, tra vigneti e qualche masseria, ma non lontano dal centro della città.
Incaricato del progetto del palazzo fu Bonaventura Presti, monaco certosino converso, di origine bolognese, trasferitosi a Napoli
intorno al 1650. Il Presti2, “Certosino Ingegnero di Sua Eminenza”
il Cardinale Ascanio Filomarino, formatosi come artigiano, si affermò ben presto come architetto prestando la sua opera anche per
1
C. Celano, Delle notizie del bello, dell’antico e del curioso della città di Napoli, Napoli,
MDCCXCII, « In questa stessa via vi si vedono bellissimi cafini, e tra questi quello del Marchese Ferdinando Vandeneynden, quanto ricco, tanto virtuoso. A questo stando di poco in buona
salute fu detto, che quest’aria molto giovar poteva: che però, compratosi qui un casino molto
delizioso dagli eredi del dottissimo Donato Antonio Altomare, fra lo spazio di un anno e mezzo
in circa, col modello e disegno di Fra Bonaventuta Presti, e colla spesa di 30000. scudi, vi fece
innalzare il presente casino, ed accomodar la villa. »
2
Sulla vita ed attività napoletana di B. Presti vedi: M. G. Murolo, Una villa napoletana
del Seicento,Villa Belvedere, Roma 1967, pag. 13-14 e S. Attanasio, op. cit., pag. 31-35.
56
Capitolo 3
il restauro del Duomo, il disegno del soffitto ligneo della Chiesa del
Carmine el il consolidamento dello stesso campanile.
Il Palazzo realizzato da Bonaventura Presti tra il 1671 ed il 1673
si può individuare nella “Pianta ed alzata della città di Napoli” realizzata dal Petrini nel 1698, dove si scorge il largo viale di collegamento che conduce dalla “strada del Vomero”, l’attuale Via
Belvedere, alla residenza Vandeneynden e dove, poco lontano, si riconoscono il convento di S. Francesco di Paola, la chiesa di S. Maria
della Libera e la strada che porta al borgo di Chiaia, l’attuale Calata
S. Francesco.
Fig. 1 - P. Petrini, 1698, Pianta ed alzata della città di Napoli, particolare del Palazzo
Vandeneynden.
Un prezioso aiuto per formulare un’ipotesi ricostruttiva del progetto di B. Presti è fornito dall’apprezzo della «masseria con casa
palatiata» di Ferdinando Vandeneynden al Vomero, eseguito nel
1688 dai tavolari ingegneri Antonio Galluccio e Mario d’Urso3.
3
Il testo era riportato in S. Attanasio, op. cit. e presente presso l’Archivio di Stato Napoli
(d’ora innanzi A S Na), Notai, Notaio Nicola Francesco dell’Aversana, sec. XVII, scheda
482, prot 28 ff. 623 ss, Apprezzo eseguito nel 1688 dai tavolari ingegneri Antonio Galluccio e
Mario d’Urso del Palazzo Vandeneynden al Vomero.
VILLA CARAFA DI BELVEDERE
57
La perizia individuava tutto il territorio acquistato dai Vandeneynden nel casale del Vomero, di cui otto moggia di giardino (circa
due ettari e mezzo), tra la via del Vomero e il palazzo sul ciglio della
collina, e la restante «masseria quale era tutta scoscesa, e penninosa»,
in direzione di Chiaia, di circa tredici moggia, con altre «fabriche»,
per un valore stimato di ben 35 mila ducati.
Sulla “via del Vomero” era ubicato il portone del primo corpo
di fabbrica con merlature e superiore torre che conduceva ad un
cortile sui cui lati erano ubicate scuderie, stalle per venti cavalli,
ambienti di servizio e due bocche di cisterna.
In asse al primo portone, oltre il cortile, si sviluppava un lungo
viale delimitato da cipressi che attraversava il fondo ricco di piante
di frutta e conduceva al Palazzo.
L’architettura della Villa era fortemente incentrata sull’organizzazione degli spazi aperti e finalizzata al massimo godimento del
paesaggio.
L’edificio, munito di quattro torri angolari emergenti, si sviluppava su due livelli con un impianto a corte chiusa su tre lati e aperta
sul quarto lato, rivolto verso la collina di Posillipo, dove si sviluppava il loggiato da cui si godeva di un panorama mozzafiato. L’impianto planimetrico della villa aveva dimensioni imponenti rispetto
agli insediamenti locali, avendo un fronte superiore ai 40 m ed una
superficie coperta di circa 1600 mq.
Nel cortile appariva evidente il contrasto tra la luminosità degli
spazi aperti, prospettanti sul bellissimo panorama di Posillipo e del
Golfo, e l’architettura austera della facciata, scandita da finestre regolari racchiuse da cornici semplici e lineari.
Al piano terra trovarono posto: ambienti di servizio e depositi
con accesso diretto dalla corte principale; la cucina, realizzata in un
ambiente doppio, da cui si accedeva ad una seconda corte, presumibilmente già presente all’epoca del casino Altomare, con forno e
bocca di cisterna; la cappella con accesso dal loggiato a tutt’altezza
rivolto verso Posillipo.
Il primo piano ospitava il grande appartamento della famiglia
Vandeneynden ed un ulteriore cucina, ed era articolato in ambienti
regolari che si succedevano lungo i due fronti principali dell’edificio, interrotti solo dalla loggia che si trovava sul lato occidentale del
Palazzo.
58
Capitolo 3
Nei «soppegni», sotto il tetto di copertura, vi erano i depositi
dove venivano conservati i frutti prodotti nella masseria.
La scala, con balaustra in piperno, aveva uno stile molto severo,
gli unici fregi erano all’imposta delle volte dei ballatoi, con il probabile scopo di non distrarre lo sguardo dalla veduta del panorama
che si scorgeva oltre il loggiato.
Sulla facciata prospettante a mezzogiorno, vi era la stanza del
padrone di casa e la «Galleria con intempiatura de quadri indorati,
et pitture di Giordano», che costituiva il grande ambiente di rappresentanza. La Galleria, tipico elemento della casa settecentesca,
era, per la sua importanza, posta «in testa il cortile» con balconata,
mentre la camera principale era invece in posizione d’angolo tra la
Galleria e la loggia.4
La decorazione fissa era un elemento raro nei palazzi napoletani
dell’epoca che non avevano ancora raggiunto il fasto di quelli romani, bolognesi e genovesi, e la presenza di una Galleria decorata
da Luca Giordano su incarico del Vandeneynden, con due dipinti
di scene mitologiche, pose in risalto il gusto del proprietario e la
sua posizione economica, molto superiore al livello della borghesia
napoletana e a quello della stessa nobiltà, ancora legata alle rendite
dei terreni. Oltre a tale decorazione fissa, notevole era l’entità della
decorazione mobile degli ambienti, costituita da argenti, mobili,
arazzi, tappeti e da una ricca collezione di quadri degli artisti maggiori. Gli oggetti che ornavano le sale di rappresentanza dell’appartamento risultavano anch’essi catalogati tra tutti quelli riportati nel
ricchissimo inventario dei beni e dei quadri redatto nel 1688, e testimoniavano la straordinaria ricchezza di questa famiglia.
Non altrettanto ricca era la decorazione esterna del Palazzo:
semplici cornici in piperno segnavano l’imposta degli archi dei porticati e piccoli fregi decoravano le logge e le volte delle scale.
L’aspetto austero da roccaforte era accentuato dalle quattro torrette merlate, ciascuna con due balconi e disposte nei quattro angoli
del palazzo. L’impianto di dimora fortificata era dovuto alla prudente evoluzione del gusto ed alla lenta apertura verso nuovi modelli di abitazione fuori città, diversi dalla rocca. Infatti l’aristocrazia
era intenta ad abbellire e migliorare i propri castelli trasformandoli
4
Cfr. G. Labrot, op. cit.
VILLA CARAFA DI BELVEDERE
59
talvolta in ricche residenze, piuttosto che a costruire nuovi palazzi.
Soltanto alla fine del XVII secolo si potette assistere alla realizzazione di nuove dimore signorili, nelle quali la presenza sempre più
frequente di loggiati, terrazzi e giardini pensili dimostrò la ricerca
di un godimento estetico della natura.5
I possedimenti dei Vandeneynden furono completati da altre costruzioni di minori dimensioni, site lungo il declivio della collina e
destinate alla conservazione dei prodotti agricoli.
Nel 1674 Ferdinando Vandeneynden morì, lasciando ancora incompleti sia i lavori di sistemazione del Palazzo sia quelli dei giardini, oltre che i pagamenti relativi al saldo per le maestranze; lo
stesso Bonaventura Presti ebbe il saldo per le sue competenze professionali soltanto nel marzo del 1679. 6
Il palazzo al Vomero pervenne in dote alla figlia Caterina nel
1688, e solo nel 1717, in occasione della morte di quest’ultima, Elisabetta ereditò il palazzo, che diventò Carafa di Belvedere dopo il
matrimonio del 1688 con Carlo Carafa IV Principe di Belvedere.
Nel Settecento, complice anche la politica di espansione della
Capitale da parte di Carlo di Borbone, divenuto re di Napoli e di
Sicilia nel 1734, anche il Palazzo Carafa venne ampliato, secondo
le esigenze dei nuovi proprietari. Francesco Carafa7, V principe di
Belvedere (1696-1772), figlio di Carlo ed Elisabetta Vandeneynden,
entrato a far parte della corte del re, avviò i lavori di trasformazione
ed il Palazzo assunse intorno al 1730 le caratteristiche di villa e residenza extraurbana della famiglia Carafa, con un nuovo aspetto,
adeguato al rango dei Principi di Belvedere.
Le trasformazioni, avvenute intorno alla metà del secolo si rilevano nella pianta del duca di Noja del 1775 che indica l’antico caCfr. S. Attanasio, op. cit.
C. Celano, op.cit., «I giardinetti che disegnati vi erano nel piano del cortile non furono
terminati per l’immatura morte del buon Marchese il quale essendovi salito ad abitare dopo
pochi giorni fu costretto per consulta dei medici a calarsene, e passò a miglior vita con rincrescimento grande di ognuno che lo conosceva».
7
Il ritrovamento di una targa in marmo risalente alla metà del Settecento conferma la
nostra ipotesi. L’incisione riporta infatti « O passegier che entri nel boschetto Francesco Carraffa sappi il feo per poter poetar con più diletto, qualndo l’infiamma il gran divin Morfeo, vedi
il palaggio e sappi che fu eretto dalla mia madre, a cui pur tanto deo, Vandeneynden Lisabetta,
e questa nelle grandezze ancor umil modesta ». Probabilmente l’incisione fu posta nel lato sud
ovest della villa dove una volta vi era lo scalone che dalla terrazza giardino della villa portava
al boschetto.
5
6
60
Capitolo 3
sino al Vomero come «Palazzo e Villa de’ Carafa detti Belvedere»,
coinvolsero tutto l’impianto a cominciare dall’ingresso sulla “via del
Vomero”, dove venne creata un’esedra, di fronte all’antico portale
in piperno allineato tra le case più modeste della strada pubblica,
per consentire un più agevole accesso alle carrozze.
Attraversato il portale d’ingresso sulla via pubblica ed un ampio
atrio con volta a botte lunettata, si passava in un cortile a pianta rettangolare, ai lati dei quale si aprivano gli inviti a due vialetti che
portavano ai giardini ricchi di una folta vegetazione.
Fig. 2 - G. Carafa duca di Noja, 1775, Mappa topografica della città di Napoli
e dera suoi contorni, particolare del “Palazzo e Villa de’ Carafa detto Belvedere”.
L’antico viale centrale conduceva ad un portico, che racchiudeva
un cortile semiellittico prospiciente la facciata di ingresso del palazzo.
Il loggiato fungeva da elemento di mediazione tra il viale stesso
e il portale di accesso; senza interrompere l’asse prospettico, che
passando per il viale centrale attraversava tutta la fabbrica e conduceva alla terrazza giardino, si accentuò il valore paesaggistico del
percorso a conferma dell’effetto voluto dal Presti.
Il portico venne collegato al piano nobile per permettere un
VILLA CARAFA DI BELVEDERE
61
maggiore godimento della vista del parco, offrendo la possibilità di
un contatto più diretto con la natura.
Attraverso l’antico ingresso, si accedeva all’ampio cortile del palazzo; da qui si potevano raggiungere sia gli appartamenti sia la terrazza giardino che, spartita in quattro aiuole da due vialetti,
consentiva di godere del panorama e del verde insieme.
Il disegno dei giardinetti venne arricchito anche da una bella peschiera8 posta nell’incrocio dei vialetti e da statue di marmo.
Il giardino era cinto da una armoniosa balaustra in piperno e
marmo bianco; sul lato sinistro invece correva un elegante portico
che si elevava fino all’altezza del piano nobile, cui era collegato tramite un ambiente coperto a volta; dall’altra estremità, prolungandosi oltre la balaustra, il giardino era collegato con il livello inferiore
della terrazza. Il portico, chiuso da vetrate, ospitava la serra, dove
in inverno venivano conservate le piante esotiche, apprezzate dagli
ospiti e dai visitatori della villa, non meno delle collezioni di quadri
e di antichità.
Il loggiato sovrastante offriva una lunga passeggiata alla quota del
piano nobile, ed era concepito in funzione scenografica, accentuando
la già notevole panoramicità dell’impianto progettato dal Presti. Questo intervento era sicuramente quello più significativo ed impegnativo
tra le trasformazioni volute dai Carafa di Belvedere9. Oltre a conferire
un aspetto più sontuoso alla villa, arricchiva il piano nobile di un percorso da cui era possibile fruire, da un lato del panorama di Posillipo,
e dall’altro del parco e della collina di S. Martino.
Dello splendore di Villa Belvedere col suo magnifico panorama
si ritrovano numerose testimonianze nel vedutismo settecentesco
della città di Napoli: la villa divenne il simbolo della collina del Vomero, ed i pittori e gli incisori stranieri la rappresentarono come
elemento caratteristico, tanto che Ignazio Sclopis, nella bellissima
“Veduta di Chiaia dalla parte di Levante”, riportò nella legenda in
calce alla tavola: «Il Vomero delizia del Principe di Belvedere».
8
La peschiera, in marmo, con statua centrale raffigurante un puttino, si trova oggi nel
giardinetto posto ad una quota inferiore di quella della terrazza giardino, mentre la statua
era stata rubata.
9
Una suggestiva descrizione dei luoghi che si ammiravano dalla terrazza era riportata in
S. Palermo, Delle notizie del bello, dell’antico e del curioso della città di Napoli, che contengono
le Reali Ville, che servono di continuazione all’opera del Canonico Carlo Celano, Napoli,
MDCCXCII.
62
Capitolo 3
Fig. 3 - I. Sclopis di Borgostura, 1764, Veduta di Napoli dalla parte di Chiaia, particolare.
Alla fine del XVIII secolo, in previsione dell’imminente arrivo e
soggiorno della regina Maria Carolina d’Austria, moglie di Ferdinando
IV di Borbone, incinta nel 1792 per la diciassettesima volta10, vennero
eseguite nuove opere tese a conferire alla villa un aspetto più regale e
imponente. Sono da ascrivere a questo periodo la realizzazione dell’esedra11 sulla “via del Vomero”, costruita con blocchi di tufo lavorati
e spartita da pilastri e nicchie adornate di busti di marmo, di gusto tipicamente settecentesco, ed il disegno più ricco dei giardini e del verde
che si sviluppa intorno ai tre viali di collegamento alla villa.
Anche il porticato che circonda il cortile ad emiciclo, venne arricchito da busti di marmo e da due aiuole circolari poste ai lati
dell’ingresso al palazzo. Tale ingresso e quello sulla strada pubblica
vennero adornati rispettivamente, l’uno con l’aggiunta di colonne
in granito, l’altro con una piccola loggia con lesene all’altezza del
piano superiore in corrispondenza del portale. All’interno della
villa, una copertura con volta a padiglione lunettata e riccamente
decorata, copriva la scala seicentesca, ampliata per il collegamento
col secondo piano12, anch’esso di nuova realizzazione.
Tutte queste opere, realizzate in occasione della visita della regina tendevano, mediante una decorazione più ricca, ad aumentare
il prestigio dei Carafa. La villa mantenne tale aspetto fino ai primi
anni del secolo XIX con Marino Carafa, ottavo ed ultimo principe
di Belvedere.
S. Palermo, op. cit.
L’esedra, in tufo, era ancora visibile in Via Belvedere 33. Oggi si presenta allo stato di
rudere.
12
Per comprendere quale fosse l’aspetto della villa vedi A. Cavallucci, Il Principe di Belvedere, 1793, dipinto olio su tela, Museo Nazionale di Capodimonte, inv. n. 351.
10
11
VILLA CARAFA DI BELVEDERE
63
Nei primi anni dell’Ottocento la collina del Vomero ed in particolare la “via del Vomero”, rappresentavano ormai il luogo preferito
di residenza estiva dell’aristocrazia napoletana legata alla Corte di
Ferdinando IV: numerose le ville presenti sul territorio, quelle delle
famiglie Patrizi, Ricciardi conte dei Camaldoli, e Capece Galeota.
Con l’avvento di Giuseppe Bonaparte, re delle Due Sicilie, e poi
di Gioacchino Murat, durante il cosiddetto decennio francese
(1806-1815), il Vomero conservò le caratteristiche di luogo di villeggiatura esclusivo, al punto che molte personalità vicini al re possiedevano una residenza al Vomero.
In particolare la proprietà del Ministro Cristoforo Saliceti risultava confinante con il parco dei Carafa di Belvedere e godeva dello
stesso magnifico panorama. Nel 1815, Ferdinando IV tornato a Napoli dall’esilio in Sicilia, acquistò la villa Saliceti per farne dono a
Lucia Migliaccio, duchessa di Floridia, sposata nel 1814, poco dopo
la morte della regina Maria Carolina.
Il progetto di trasformazione venne affidato all’architetto A. Niccolini e fu realizzato tra il 1817 ed il 1818; la nuova residenza fu
chiamata Floridiana in onore della moglie del re.
La presenza di una residenza reale sulla “via del Vomero” accrebbe l’importanza della villa dei Belvedere che continuò ad ospitare illustri personaggi come Gioacchino Murat, Lady Blessington
e lo stesso re Francesco I, a testimonianza della posizione di prestigio di cui la famiglia Carafa di Belvedere ha sicuramente goduto
fino alla metà degli anni 20.
Di fatti il principe Marino Carafa, personaggio di rilievo alla
corte del re al punto tale da essere nominato Sindaco di Napoli il
30 marzo 1813, arricchì la sua villa di opere d’arte mantenendola
nell’antico aspetto regale13.
Dalla descrizione del Romanelli14 del 1815, durante la sua visita
alla Villa Belvedere « in compagnia del sig. principe istesso», risulta
che anche l’ambiente era rimasto immutato.
La collezione di quadri, ereditata dal Vandeneynden, fu ampliata
grazie all’acquisto di nuove opere dalle gallerie romane ed al piano
13
Cfr. A S Na, “Catasto Provvisorio della Città di Napoli”, anno 1814, fasci 62-63 (sezione Chiaia del Catasto francese).
14
D. Romanelli, Napoli antica e moderna, Napoli 1815.
64
Capitolo 3
Fig. 4 - H. Oates, 1832, Villa Belvedere, disegno penna e seppia.
terra della villa venne allestita una nuova sala dedicata esclusivamente alla pittura fiamminga, mentre un piccolo museo di statue e
busti romani in marmo fu collocato nel porticato un tempo destinato a serra.
Alla morte di don Marino, in mancanza di un erede diretto, per
la Villa iniziò un lungo periodo di decadenza, dovuto anche all’incremento di costruzioni e masserie che cominciarono a modificare
il paesaggio della collina del Vomero.
La suggestiva veduta della città dal Forte di Sant’Elmo, del 1841,
opera del capitano del IV reggimento Svizzero a servizio del re Ferdinando II, G.F. Heilman De Rondchatel, offre una rappresentazione insolita della collina del Vomero; la villa Floridiana e la stessa
villa Belvedere, i cui giardini furono ancora confinanti, sono rappresentate dal lato posteriore. Tra il verde parco della villa Belvedere si individua il palazzo con le quattro torri angolari, e sullo
sfondo i Campi Flegrei. Tutt’intorno si possono osservare le molte
ville e masserie disseminate sulla direttrice di Posillipo, a testimonianza che era iniziata l’espansione sulla collina ancora ricca di
verde.
VILLA CARAFA DI BELVEDERE
65
Fig. 5 - G.F. Heilman De Rondchatel, Panorama della città di Napoli dal Castel
Sant’Elmo, 1841, particolare.
Fig. 6 - A. Senape, La villa del Principe di Belvedere, Napoli, coll. privata
Il processo di decadimento dell’antica residenza dei Carafa di
Belvedere coincise con l’espansione della città verso la collina del
Vomero e, nell’arco di pochi anni, la proprietà fu frazionata, come
testimonia il Celano nel 1858 che scrive: «... ora appartiene a diversi
proprietari che sogliono locarne alcuni appartamenti ».
La lenta trasformazione della collina verso la metà del secolo è
facilmente riscontrabile dal confronto tra la pianta settecentesca del
duca di Noja (1775), quella ottocentesca di Luigi Marchese (1804,
1813) e la accuratissima planimetria della città redatta tra il 1872
ed il 1880 dall’Ufficio Tecnico del Comune.
66
Capitolo 3
Nelle prime, le uniche costruzioni emergenti al Vomero erano
le ville dei nobili ed i poderi dei conventi, mentre in quella dell’Ufficio Tecnico emerge un notevole numero di masserie e piccoli edifici con lotti di terreno coltivati che si aggiunsero alle antiche
residenze estive ed alle chiese già esistenti, segno di una penetrazione della borghesia nel Casale collinare legata alle trasformazioni
sociali del secolo. Il parco della Villa Belvedere risulta fortemente
ridimensionato ed il giardino che si estendeva fino alla villa Floridiana, risulta appartenere ad altri proprietari.
Fig. 7 - Ufficio Tecnico Comune di Napoli, Pianta della città, (1872 -80).
VILLA CARAFA DI BELVEDERE
67
Anche l’edificio venne frazionato e subì importanti modificazioni finalizzate alla creazione di nuovi vani e di spazi di disimpegno
tra di essi.
Nel 1871 si procedette al tompagnamento delle arcate della loggia sulla terrazza giardino e successivamente a quelle del loggiato
posto nel cortile principale della villa ed alla realizzazione di un ballatoio, in aggetto sulla corte, quale disimpegno degli ambienti posti
al piano nobile.
Le orribili trasformazioni, cominciate a partire dal finire dell’Ottocento sono state perpetrate fino alla creazione dell’attuale vasto
condominio, che ha snaturato completamente la struttura della villa
ed i propri contenuti paesaggistici ambientali.
Il passaggio da villa a condominio è dettagliatamente descritto
in due perizie di stima di fine Ottocento relative alla vendita giudiziaria, disposta dal Tribunale Civile e Correzionale di Napoli, dei
beni del proprietario della Villa Belvedere, Pasquale Carpentieri,
in quanto debitore del Credito Fondiario.
La prima valutazione venne affidata nel 1879 all’architetto Luigi
Caselli, che insieme all’ingegnere Leonardo Mazzella aveva presentato nel 1884 un progetto per un nuovo quartiere al Vomero15.
Nel corso del giudizio di espropriazione a danno di Carpentieri,
lo stesso Carpentieri richiese ed ottenne una revisione di perizia, in
quanto tra gli immobili da espropriare ve ne erano alcuni omessi
dal perito Caselli. Pertanto in data 21 luglio 1879 la 5a Sezione del
Tribunale dette incarico all’ingegnere Augusto Greco di integrare
la perizia precedente con la valutazione dei beni omessi. La perizia
Caselli appare molto dettagliata nel descrivere il “grande casamento
Belvedere” (così era chiamata la Villa Belvedere), i vari “fondi rustici” ed il “boschetto” (costituenti il parco della villa) di proprietà
di Carpentieri.
L’ingegnere Augusto Greco, redisse anche lui una voluminosa
relazione16 ad integrazione della già corposa perizia Caselli.
Dalla lettura delle due perizie ed in particolare da quella eseguita
dall’ing. Greco, si evince che nel settecentesco portico semiellittico
15
L. Mazzella, L. Caselli, Progetto di un novello Rione tra i villaggi Vomero, Arenella e
Case Puntellate, in G. Alisio, il Vomero, Electa, 1987.
16
A S Na, Tribunale Civile Na, Perizie, anno 1880, fascicolo 203, Perizia A. Greco.
68
Capitolo 3
erano stati chiusi molti degli archi, per ricavare dei bassi, usati prevalentemente come locali di servizio. Il porticato Carafa di Belvedere aveva fatto posto a stalle, rimesse ed anche piccole abitazioni.
Il piano terra era stato frazionato prevalentemente in quartini, il
loggiato si presentava già chiuso in una delle sue quattro arcate che
aveva fatto posto ad un quartino.
Il piano nobile, con accesso dal ballatoio servito dalla grande
scala, era stato suddiviso in due appartamenti, uno con ingresso
sulla destra del ballatoio, l’altro con accesso sulla sinistra. Gli ambienti di entrambi gli appartamenti vennero minuziosamente descritti e non risultavano essere stati manomessi.
Il secondo piano era stato suddiviso in quattro appartamenti, di
questi alcuni «decentemente» manutenuti, altri invece «mediocremente».
In corrispondenza poi del « terzo cortile », ovvero quello relativo
al casino degli Altomare posto a nord – est, erano stati disposti gli
ingressi di tre quartini a pianterreno. Tali ambienti avevano occupato l’intero portico posto nella terrazza giardino che quindi risultava interamente tompagnato.
La perizia dell’ing. Greco era poi completata con un’analisi delle
possibilità di realizzare nuovi volumi residenziali con lo sfruttamento dei residuali spazi liberi sopravvissuti. Pertanto il perito consigliava di tompagnare i portici rimasti aperti che «possono essere
benissimo indotti a bassi come i precedenti» e le tre arcate del loggiato per fare spazio ad altri «appartamentini».
Per la « parte rustica » della proprietà in espropriazione, sopravvissuta allo sfruttamento intensivo, ovvero la terrazza con giardino
posta a sud denominata «Flora», i «boschetti» disposti ai lati della
proprietà ed i «fondi rustici» di cui uno risultava ancora collegato
dal grande scalone alla terrazza giardino, il perito pianificò la suddivisione in dieci lotti, indicando diritti e servitù delle costituende
singole proprietà. Tale frazionamento portò inevitabilmente sostanziali trasformazioni, ritenute necessarie per “scorporare” le proprietà ed assicurare ad ogni nuovo proprietario il godimento dei
propri spazi e diritti, motivo per cui il 3 maggio 1882, venne ordinato al proprietario del quinto lotto di demolire lo scalone di collegamento, di cui ancora oggi, lungo la balaustra di piperno, è
evidente l’accomodo seguito alla demolizione.
VILLA CARAFA DI BELVEDERE
69
Infine il perito segnalò la possibilità di edificare al di sopra della
terrazza in quanto presentava una superficie molto ampia e le mura
in grado di sopportare un carico ulteriore; fortunatamente alcuni
dei diritti di edificazione, attribuiti ai proprietari delle terrazze poste
a livello del piano nobile, non sono stati posti in essere.
Una sorte non migliore toccò contemporaneamente alla collina
del Vomero: nel 1873 venne istituita una Commissione, delegata dal
Municipio di Napoli, per elaborare un “piano ordinatore” della
città che includesse anche il Vomero.
Il piano per il risanamento e l’ampliamento della città, prevedeva
per gli antichi Casali del Vomero una rete di strade di passeggio che
si intersecavano sulla spianata della collina.
Fig. 8 - Piano del 1886 come riportato nella planimetria edita da Richter e C. (tratta
da G. Alisio, Il Vomero, Electa, 1987).
70
Capitolo 3
Tale progetto rimase per alcuni anni inattuato, e soltanto in seguito all’epidemia di colera del settembre 1884, fu predisposto un
piano di risanamento ed espansione della città ed il Vomero fu inserito tra le zone di ampliamento.
Il progetto, avviato seguendo gli schemi razionali dell’urbanesimo ottocentesco con maglia quadrangolare e schema radiale, non
si avvalse delle risorse ambientali e paesaggistiche di cui la zona godeva ed il cui sfruttamento avrebbe necessitato che l’urbanizzazione
assecondasse l’orografia del terreno; il piano risultò “bidimensionale”, adeguato per una città in pianura; non fu considerata la terza
dimensione, quella verticale, snaturando definitivamente il paesaggio collinare.
L’11 maggio del 1885 si sancì la trasformazione del Vomero da
“quartiere dei broccoli” a “Nuovo Rione Vomero”. Si realizzò parte
della strada Aniello Falcone, di collegamento fra il Vomero e le zone
sud-occidentali della città, il cui tracciato invase il lato orientale del
residuale parco della Villa Belvedere che contestualmente venne
privata di quell’isolamento che la caratterizzava17. Conseguentemente vennero costruiti, nei giardini della Villa prospicienti la
nuova strada, alcuni edifici che avviarono di fatto la tracimazione
dell’edilizia nell’intera area.
Nel 1935 il Regolamento edilizio comunale indicava la zona della
villa tra quelle semi-intensive della città dando il via ad un’intensa
attività edilizia, per cui dopo la vicina “Muraglia Ottieri”, disposta
su Via Aniello Falcone, e nonostante un decreto del 1924 del Ministro della Pubblica Istruzione avesse dichiarato l’antica residenza
ed il parco dei Carafa di Belvedere di interesse artistico18, venne costruito un gruppo di edifici, proprio nei giardini che fiancheggiano
il viale della villa.
Anche il fabbricato della Villa subì importanti modifiche tra le
quali emerge la realizzazione di un terzo livello, sul lato est.
L’inarrestabile proliferare di costruzioni privò irrimediabilmente
la Villa del suo carattere di paradiso di delizie immerso nel verde e,
con il passare degli anni, al posto degli alberi sono sorti edifici dalle
dimensioni più svariate e dalle tipologie più diverse, così che l’intero
parco è stato progressivamente distrutto.
17
Cfr. M. G. Murolo, op.cit.
VILLA CARAFA DI BELVEDERE
71
Negli anni ‘70 anche l’esedra settecentesca in tufo è stata parzialmente demolita per permettere l’accesso ad un nuovo edificio
da Via Belvedere.
Successivamente, parte di quello che era il “boschetto”, dimora
di elci secolari, ed in particolare l’area a monte del viale principale,
un tempo destinata alle rappresentazioni teatrali e denominata
“Arena Belvedere”, è diventata prima sede locale del consultorio
familiare comunale, poi parcheggio di pertinenza del Commissariato di P.S. e più recentemente parcheggio interrato destinato a
circa 60 box auto.
3.2 - LO STATO ATTUALE
L’architettura della Villa Belvedere al Vomero, così come si presenta oggi, è il risultato di circa cinque secoli di stratificazioni che
si sono susseguite in funzione del gusto, dei modelli di abitazione e
delle esigenze sociali.
Le ampie aree esterne che caratterizzavano l’insediamento sono
state completamente stravolte; neppure un attento osservatore potrebbe immaginare quale fosse l’originaria destinazione degli spazi.
L’analisi architettonica dell’edificio invece offre ancora la possibilità di riconoscerne gli elementi originari e le successive modificazioni ed ampliamenti, tra cui quelli settecenteschi che avevano, senza
dubbio, esaltato i significati dell’impianto originario del Presti in relazione al rapporto dell’edificio con l’ambiente e con la natura.
Il prospetto principale dell’edificio mostra ancora i lineamenti
sobri della progettazione del Presti e nel lato Est conserva, presumibilmente, il ricordo di una delle quattro torri angolari che supera
il tetto a doppia falda posto a copertura del secondo piano.
Tutte le aperture presentano cornici e modanature originali in
tufo grigio per quelle del piano nobile ed in stucco per le restanti.
Il portale conserva il suo rigore formale con una coppia di colonne in granito su basamento in piperno e marmo bianco che sorreggono il balcone del primo piano anch’esso in piperno. Il
cornicione di coronamento del fronte è stato ripristinato semplificandone le linee. Il portone ligneo conserva una buona ed antica
fattura.
72
Capitolo 3
La facciata prospiciente il panoramicissimo giardino presenta
caratteristiche analoghe a quella principale a meno di risultare asimmetrica rispetto al vano di passaggio sulla terrazza.
Il prospetto Ovest, analogamente a quello corrispondente all’interno della corte principale, mostra chiaramente tutte le tamponature realizzate in corrispondenza degli archi e versa in condizioni
manutentive precarie.
I prospetti interni sono quelli maggiormente alterati nel tempo
per la presenza di ballatoi e verande di disimpegno delle unità presenti ai vari piani e per la presenza di un corpo ascensore posto a
ridosso della scala principale.
L’interno dell’ampia scala si presenta sufficientemente conservato nelle originali linee sobrie; il prolungamento della scala, dovuto
alla successiva realizzazione del piano secondo, è evidenziato dal
differente materiale utilizzato per le pedate: in piperno fino al piano
nobile, in conglomerato di lapillo, per le due successive rampe. La
copertura dell’ampliamento settecentesco della scala è del tipo a
volta a padiglione lunettata, realizzata, al di sotto di un orizzontamento piano, con la tecnica dell’incannucciata. Una moderna
rampa serve invece le unità presenti al di sopra del secondo piano,
ricavate in parte negli esistenti livelli sottotetto, in parte con soprelevazione degli stessi.
Nella corte principale si legge la scansione del portico a doppia
altezza un tempo affacciato su Posillipo ed oggi completamente
tamponato; lo spazio esterno è utilizzato per la sosta delle auto ed
è semplicemente asfaltato.
Fig. 9 - L’esedra in tufo presente sulla via Belvedere.
VILLA CARAFA DI BELVEDERE
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Dell’antico portico di ingresso alla villa, oggi completamente
tamponato e frazionato in diverse proprietà destinate a scuola comunale, abitazioni, uffici, depositi, si legge ancora l’antica partitura
di archi e pilastri.
Fig. 10 - Prospetto principale di accesso alla Villa (da S. Attanasio, op. cit.).
Fig. 11 - Prospetto interno alla corte. Dettaglio della loggia rivolta a Posillipo, oggi
tompagnata.
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Capitolo 3
Fig. 12 - Prospetto interno alla corte. L’accesso alla scala ed il corpo ascensore.
Fig. 13 - Prospetto sulla terrazza giardino prospiciente la via A. Falcone.
VILLA CARAFA DI BELVEDERE
Fig. 14 - Il loggiato sulla terrazza giardino ed il Caffehaus.
Fig. 15 - Il loggiato di ingresso alla villa: Lato orientale.
Fig. 16 - Il loggiato di ingresso alla villa: Lato occidentale.
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76
Capitolo 3
3.3 - IL RECUPERO DELLA FACCIATA PROSPICIENTE IL GIARDINO
Recenti lavori hanno interessato la facciata sulla terrazza giardino, che si apre alla vista del Golfo di Napoli.
L’edificio, nel suo complesso è realizzato in muratura piena di
tufo giallo napoletano a conci piuttosto regolari, il primo impalcato
è generalmente costituito da strutture voltate, mentre i successivi
due impalcati sono realizzati con solai piani: con travi in legno e
panconcelli, per i campi che avevano conservato l’originaria struttura, e con travi in acciaio, per i campi che avevano subito modifiche e sostituzioni. Le fondazioni sono del tipo diretto e continuo e
poggiano sul sottostante banco tufaceo.
La copertura del volume principale è caratterizzata da un tetto a
due falde con alcune interruzioni che danno luogo a superfici piane.
La facciata è interamente intonacata e tinteggiata a calce.
Le cornici e le modanature, presenti ai tre livelli del fabbricato,
sono in piperno al piano terra ed in tufo grigio al piano nobile, e risultano in discreto stato di conservazione; gli elementi in aggetto al
piano secondo ed il cornicione sono invece realizzati con struttura a
calce e stucco e necessitano di un ripristino.
Al piano nobile si evidenzia una balconata con gattoni e soglie in
piperno e ringhiera in ferro. Analoga balconata si sviluppa lungo tutto
il secondo piano, risultando tuttavia realizzata in struttura laterocementizia con soglie di marmo e ringhiera di protezione in ferro.
L’analisi dei luoghi ed in particolare dello stato di conservazione
delle superfici ha evidenziato un diffuso stato di degrado, con generale alterazione cromatica della tinteggiatura, distacchi dello
strato di finitura degli intonaci ed un degrado piuttosto marcato dei
supporti in corrispondenza del cornicione di coronamento e del secondo piano, con episodi localizzati di distacco. Al di sopra dell’elemento di coronamento, in prossimità della gronda si è rilevata
la presenza di un canale in muratura posto lungo tutto il prospetto
con la funzione di raccogliere le acque meteoriche incidenti sulla
falda rivolta a Sud-Ovest.
Le principali patologie riscontrate attenenevano pertanto il distacco dello strato di finitura degli intonaci e, soprattutto in corrispondenza dell’aggetto terminale e sulla verticale dell’accesso al giardino,
il distacco del corpo dell’intonaco dal sub strato murario in tufo.
VILLA CARAFA DI BELVEDERE
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Il degrado della facciata si evidenziava in maniera più o meno
diffusa sotto forma di:
– Distacchi di cornicione, prodotti dal crollo delle cornici a stucco
ed intonaci, risultando compromessa l’adesione con il corpo murario sottostante;
– Lacune di intonaco, prodotte dal distacco in alcune zone dello
strato di finitura dell’intonaco, realizzato in occasione degli interventi di manutenzione della facciata eseguiti negli anni ’90 sul
corpo dell’intonaco preesistente;
– Fessurazioni superficiali, prodotte dall’azione nel tempo degli
agenti atmosferici;
– Alterazione cromatica superficiale, provocata dal dilavamento;
– Degrado dei fronti e degli intradossi della balconata posta al secondo piano, prodotto dal rigonfiamento e distacco degli intonaci;
– Distacchi di elementi di ferro, provocate dall’ossidazione degli
elementi metallici del fronte della balconata posta al secondo
piano.
Pertanto le lavorazioni effettuate sono consistite in:
Idrolavaggio della massa tufacea con acqua a bassa pressione per
pulire ed eliminare quelle parti polverulenti che avrebbero potuto
determinare un cattivo ancoraggio dell’intonaco.
Realizzazione di tre strati intonaco realizzati in cantiere mediante
impasto in betoniera di una parte di grassello di calce stagionato e
tre parti di pozzolana naturale, vagliando opportunamente la pozzolana a seconda dello strato da realizzare e degli spessori di intonaco da ripristinare e provvedendo ad un’adeguata bagnatura dei
supporti.
Per quanto attiene il colore delle superfici, è stato determinato
mediante l’analisi dell’iconografia storica e la predisposizione di
saggi diretti sulle superfici del fabbricato.
I risultati delle analisi hanno evidenziato che le facciate di Villa
Belvedere erano caratterizzate da una cromia bianco calce per le
zone di fondo e da una cromia grigio piperno per il cornicione, per
gli elementi in aggetto e decorativi.
Le tinteggiature utilizzate sono a base di calce al fine di garantire la compatibilità con il supporto e con l’intonaco preesistente
ed una buona permeabilità al vapore.
78
Capitolo 3
3.4 - BIBLIOGRAFIA
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Electa, Napoli 2003.
GIANCARLO ALISIO, Napoli e il Risanamento, Edizioni Scientifiche
Italiane, Napoli 1981.
GIANCARLO ALISIO, Il Vomero, Electa, Napoli 1987.
GIANCARLO ALISIO, Napoli nell’Ottocento, Electa, Napoli 1992.
GIANCARLO ALISIO, ALFREDO BUCCARO, Napoli millenovecento,
Electa, Napoli 2000.
SERGIO ATTANASIO, La Villa Carafa di Belvedere al Vomero, Società
Editrice Napoletana, Napoli 1985.
ALFREDO BUCCARO, Modelli funzionali della residenza nobiliare napoletana: Le fonti catastali, in G. Simoncini, L’uso dello spazio privato
nell’età dell’Illuminismo, tomo III, Olschki 1995.
YVONNE CARBONARO, LUIGI COSENZA, Le Ville di Napoli. Venti
secoli di architettura e di arte, dalle colline del Vomero e Capodimonte
fino alla splendida fascia costiera e alle magnifiche isole, Newton e Compton, Roma 2008.
URBANO CARDARELLI, PAOLO ROMANELLO, ARNALDO VENDITTI, Ville Vesuviane, Electa, Napoli 1988.
CARLO CELANO, Delle notizie del bello, dell’antico e del curioso della
città di Napoli, Napoli 1792.
CARLO COCCHIA, L’edilizia a Napoli dal 1918 al 1958, Società pel Risanamento di Napoli, Arte Tipografica, Napoli 1960.
LUIGI DE MARINIS, Cenni storici sulla Villa Belvedere, Napoli 1945.
CESARE DE SETA, La città di Napoli dalle origini al ‘700, Laterza, Bari
1973.
GINO DORIA, Le strade di Napoli, Ricciardi, Napoli 1971.
GINO DORIA, I palazzi di Napoli, Guida, Napoli 1992.
VANNA FRATICELLI, Il giardino napoletano, Settecento e Ottocento,
Electa, Napoli 1993.
GÉRARD LABROT, Palazzi napoletani, storia di nobili e cortigiani, 15201750, Electa, Napoli 1993.
ANTONIO LA GALA, Il Vomero e l’Arenella, Guida, Napoli 2002.
MARIO GERARDO MUROLO, Una villa napoletana del Seicento, Villa
Belvedere, Roma 1967.
PATRIZIA SPINELLI NAPOLETANO, I giardini segreti di Napoli, Liguori, Napoli 1994.
SALVATORE PALERMO, Delle notizie del bello, dell’antico e del curioso
della città di Napoli che contengono le Reali Ville, che servono di conti-
VILLA CARAFA DI BELVEDERE
79
nuazione all’opera del Canonico Carlo Celano, Napoli 1792.
LILIA ROCCO, Villa Belvedere, cronache di arte, amore e musica di una
antica residenza napoletana, Voyage Pittoresque, Napoli 2004.
DOMENICO ROMANELLI, Napoli antica e moderna, Napoli 1815.
GIUSEPPE RUSSO, Il Risanamento e l’ampliamento della città di Napoli,
Società pel Risanamento di Napoli, Arte Tipografica, Napoli 1960.
GIUSEPPE RUSSO, La città di Napoli dalle origini al 1860, Società pel
Risanamento di Napoli, Arte Tipografica, Napoli 1960.
FRANCO STRAZZULLO, Edilizia e urbanistica a Napoli dal ‘500 al ‘700,
Arte Tipografica, Napoli 1995.
4 - DOCUMENTAZIONE GRAFICA
E FOTOGRAFICA
4.1 - PALAZZO SPINELLI DI TARSIA
Fig. 12 - Prospetto principale: Rilievo delle patologie e del degrado.
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Fig. 13 - Prospetto principale: Progetto di recupero.
Fig. 14 - Prospetto principale: Rilievo degli elementi tipologici.
Capitolo 4
DOCUMENTAZIONE GRAFICA E FOTOGRAFICA
Fig. 15 - Planimetria del piano nobile.
Fig. 16 - Prospetto principale: Progetto del colore.
Fig. 17 - Planimetria primo piano ammezzato.
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Capitolo 4
Fig. 18 - Il prospetto principale ripreso dalla terrazza sul loggiato prima dell’intervento di recupero.
Fig. 19 - Prospetto principale: particolare prima dell’intervento di recupero.
DOCUMENTAZIONE GRAFICA E FOTOGRAFICA
Fig. 20 - L’accesso principale prima dell’intervento di recupero.
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Fig. 21 - L’accesso laterale prima dell’intervento di recupero.
Capitolo 4
DOCUMENTAZIONE GRAFICA E FOTOGRAFICA
Fig. 22 - Prospetto principale: Ponteggio.
87
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Capitolo 4
Fig. 23 - Il prospetto principale su Largo Tarsia.
Fig. 25 - La triplice arcata sul loggiato in Largo Tarsia, oggi tompagnata, che conduceva al giardino.
DOCUMENTAZIONE GRAFICA E FOTOGRAFICA
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4.2 - VILLA CARAFA DI BELVEDERE
Fig. 17 - Planimetria generale del corpo principale della Villa con evidenza della
facciata oggetto dei lavori.
Fig. 18 - Prospetto oggetto dei lavori: Analisi del degrado.
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Fig. 19 - Allestimento ponteggio.
Fig. 20 - Stato dei luoghi: secondo piano.
Capitolo 4
DOCUMENTAZIONE GRAFICA E FOTOGRAFICA
Fig. 21 - Stato dei luoghi: cornicione e canale di raccolta acque.
Fig. 22 - Completamento intonaci al piano terra.
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92
Fig. 23 - Ripristino puntuale del cornicione di coronamento.
Fig. 24 - Ripristino puntuale delle cornici dei vani al secondo piano.
Capitolo 4
DOCUMENTAZIONE GRAFICA E FOTOGRAFICA
Fig. 25 - Completamento della finitura degli intonaci.
Fig. 26 - La facciata a tinteggiature ultimate.
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Finito di stampare
nel mese di Giugno 2012
per conto della Luciano Editore - Napoli
dalla Graficart - Formia (LT)
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