L’ I M P R E S A I TA L I A N A N E L L ’ E C O N O M I A G L O B A L E 7 Capitalismo e sviluppo Pierluigi Ciocca Il capitalismo italiano: una prospettiva storica Guido M. Rey Creare nuovi rapporti fra industria e finanza Riccardo Varaldo Rifondazione dei Distretti via obbligata per il rilancio BIMESTRALE DI POLITICA ECONOMICA DICEMBRE 2006 L’ I M P R E S A I TA L I A N A N E L L ’ E C O N O M I A G L O B A L E Bimestrale di politica economica n. 7 - Dicembre 2006 Comitato scientifico Paolo Gnes PRESIDENTE Boris Biancheri Patrizio Bianchi Innocenzo Cipolletta Mario Deaglio Sergio Luciano Alberto Majocchi Giorgio Mulè Marco Onado Guido M. Rey Salvatore Rossi Franco Varetto Direttore Responsabile Alberto Mucci Segreteria di redazione Priscilla Bigioni Redazione Global Competition L’impresa italiana nell’economia globale Via G. B. Morgagni, 30/h - 00161 Roma tel. 06-44110735 - fax 06-44110775 email: [email protected] sito: www.cerved.com Proprietario ed Editore Cerved Business Information SpA Via G. B. Morgagni, 30/h - 00161 Roma Stampa Mondadori Printing SpA - Stabilimento grafico Verona Via Mondadori,15 - Verona Distribuzione Mondadori in abbinamento a Panorama Economy il 1° giovedì dei mesi pari Progetto grafico e impaginazione G&Z - Comunicazione integrata - Roma Le opinioni e i giudizi espressi negli articoli non impegnano la responsabilità di Cerved B.I. SpA Copyright 2005 Cerved B.I. SpA. Tutti i diritti di proprietà letteraria e artistica riservati Testata registrata al Tribunale di Roma al n. 409 del 19 ottobre 2005 ‹ editoriale › ‹ editoriale › Il ruolo del manager di Paolo Gnes Abbiamo dedicato i precedenti numeri di Global Competition all’analisi dei principali fattori che condizionano dall’esterno la competitività delle imprese italiane: la globalizzazione dei mercati, l’irrompere delle economie asiatiche nel commercio internazionale, la rivoluzione tecnologica, lo squilibrio energetico, la dotazione di infrastrutture e reti, la formazione del capitale umano. Alcuni di questi fattori comportano limiti e oneri che solo le autorità di governo possono rimuovere; altri costituiscono sfide con cui le imprese possono e devono cimentarsi. La principale sfida che l’industria italiana deve affrontare, nel più generale contesto del suo rafforzamento nell’economia globale, è il riposizionamento competitivo verso settori e produzioni a maggior valore aggiunto e, in particolare, a più elevato contenuto tecnologico. Ma ciò richiede strutture organizzative e manageriali difficilmente compatibili con la frammentazione del nostro tessuto produttivo. Dobbiamo quindi chiederci, spostando l’analisi all’interno dell’impresa, se e come il nostro sistema capitalistico saprà rispondere a questa esigenza di crescita dimensionale, organizzativa e manageriale. Nella piccola e media impresa il capitalismo familiare ha dato nel complesso buona prova, portando al successo il made in Italy e dimostrando, in pochi ma qualificati casi, anche eccellenti capacità di crescità. La figura dell’imprenditore capitalista, che opera in coincidenza di interesse con la propria azienda garantendo continuità di gestione, potrebbe prestarsi quindi a governare anche la transizione verso più adeguate dimensioni e assetti organizzativi, purché ne avverta l’esigenza, acquisisca le necessarie competenze manageriali e professionali e ottenga i finanziamenti necessari anche ricorrendo, ove necessario, al private equity e al mercato azionario. Non occorre – né sarebbe ipotizzabile – una crescita generalizzata. E’ sufficiente una crescita selettiva delle imprese più dotate e dinamiche, che faccia da traino al resto del sistema. Ciò è tanto più vero considerando la realtà dei distretti industriali, così importante per il nostro sistema produttivo, che non resisterebbe restando com’è, ma facilita il riassetto. Come rileva Riccardo Varaldo nell’articolo pubblicato in questo numero, occorre “far emergere dalla foresta gli alberi dotati di un maggiore potenziale di cambiamento e di crescita, con la prospettiva di costituire forze di traino anche per la rifondazione e il rilancio dei distretti industriali”. Bisognerebbe realizzare, in altri termini, una sorta di “via italiana alla globalizzazione” per non disperdere il vasto e qualificato know-how manifatturiero radicato nei distretti industriali riorganizzandolo attorno a più solide imprese orientate al mercato nelle sue nuove dimensioni. Operazione necessaria ma non facile, considerando la scarsa percezione del problema. Se non sarà facile far emergere gli alberi con cui sorreggere il riassetto dei distretti, ben più arduo sarà costruire i pilastri su cui fondare il rilancio della grande impresa tecnologicamente avanzata. Accanto al problema della piccola impresa che non cresce abbastanza, si pone il problema – ben più grave – della grande impresa che scompare. Negli ultimi trent’anni, come rileva Luciano Gallino (La scomparsa dell’Italia industriale, 2003), una serie di insuccessi – per lo più derivanti da errori di strategia aziendale o di politica industriale – ha portato alla scomparsa di interi settori produttivi ad alta tecnologia in cui detenevamo posizioni di rilievo o le avremmo potute acquisire poiché disponevamo delle risorse umane e tecnologiche per farlo. Privo del supporto della grande industria tecnologicamente avanzata, il nostro paese rischia di diventare una “colonia industriale”. Solo la grande impresa infatti può effettuare gli enormi investimenti in ricerca e sviluppo necessari per entrare o per consolidarsi nei settori di punta e può disporre della struttura organizzativa e della forza contrattuale indispensabili per penetrare nei mercati esteri e inserirsi nell’oligopolio internazionale. La crisi della grande industria chiama direttamente in causa l’efficienza del nostro sistema capitalistico, i cui limiti sono evidenziati da Guido Rey nell’articolo qui pubblicato, al quale rinvio. Allo sviluppo dell’economia italiana negli anni Cinquanta e Sessanta contribuirono sia le imprese pubbliche che quelle private. Le prime, e in particolare le imprese a partecipazione statale, assicurarono la crescita delle ‹ editoriale › ‹ editoriale › infrastrutture e delle industrie di base o comunque strategiche, esprimendo nell’insieme un management di alta qualità, dotato di ampia autonomia sul modello della public company americana. Anche le imprese private seppero crescere notevolmente, mantenendo in buona parte carattere familiare grazie all’ampio autofinanziamento e al credito bancario. Entrambi i modelli capitalistici della grande impresa entrarono in crisi negli anni Settanta per il rallentamento economico, il mutato clima sociale e i condizionamenti politici, particolarmente nefasti per le imprese pubbliche, oltre che per gli errori sopra ricordati. Oggi il rilancio della grande impresa, nella dimensione effettivamente congeniale agli spazi occupabili nei settori a media e alta tecnologia, non può fondarsi né su un diffuso capitalismo di stato, che è escluso dalla costituzione economica europea, né sul capitalismo familiare che – con le dovute eccezioni – ha dimostrato, anche in occasione delle privatizzazioni, scarsa propensione all’impegno nella grande impresa manifatturiera. Del resto l’identificazione dell’imprenditore con il capitalista trova piena legittimazione quando quest’ultimo apporta buona parte del capitale, mentre è molto meno giustificata quando, grazie a un sistema di partecipazioni a cascata e patti parasociali, il controllo è conservato o acquisito disponendo magari solo dell’1% del capitale. In questo caso la coincidenza degli interessi tra l’imprenditore/azionista di controllo e l’impresa è tutta da dimostrare, soprattutto quando il primo deve far fronte ai debiti contratti per l’acquisto della partecipazione o per altri investimenti a monte. In tale situazione - rinviando a Silvano Andriani (L’ascesa della finanza, 2006, di seguito presentato) per una lucida analisi dell’evoluzione dalla pubblic company alla active ownership - la soluzione più razionale potrebbe essere l’affermarsi di un moderno capitalismo finanziario-manageriale in cui il ruolo di imprenditore sarebbe svolto dal management dell’impresa con il supporto/controllo degli intermediari finanziari e degli investitori istituzionali, a condizione che si formi all’interno di entrambe le strutture una classe manageriale in grado di svolgere efficientemente i rispettivi ruoli. Il top management dell’impresa industriale dovrebbe essere in grado – per professionalità, capacità e vocazione – non solo di gestire l’azienda, ma anche di promuoverne l’internazionalizzazione e la crescita. Analogamente il management dell’investitore istituzionale dovrebbe essere in grado, per capacità e competenza, di valutare professionalmente le iniziative proposte e controllarne lo svolgimento. Il capitale da acquisire dovrebbe avere caratteristiche compatibili con la rischiosità/maturità dell’iniziativa da finanziare: venture capital, private equity (fondi chiusi), fondi aperti, fondi pensione, pubblico. Gli investitori istituzionali dovrebbero comunque destinare parte dei capitali raccolti a impieghi più stabili in una logica di maggiore attenzione alla redditività reale dell’impresa nel medio-lungo periodo, anziché applicare il paradigma dello shareholder value in una esasperata ricerca di rapidi aumenti delle quotazioni comunque conseguiti. Perché il capitalismo finanziario-manageriale possa colmare il vuoto lasciato nella grande impresa dal ridimensionamento del capitalismo privato e pubblico, occorre non solo che sappia far affluire all’impresa il necessario capitale di rischio, ma soprattutto che riesca a promuovere la formazione, nella banca e nell’impresa, di un management all’altezza del compito da svolgere. Successi anche recenti dimostrano quanto i risultati delle aziende dipendano dalla qualità del top management. Una grande sfida per i grandi gruppi bancari e assicurativi: vorranno raccoglierla? Sarebbe peraltro illusorio pensare che la formazione o la crescita delle grandi imprese tecnologicamente avanzate, cioè dei pilastri sui cui potrà fondarsi il riposizionamento e il rilancio della nostra industria manifatturiera, possa avvenire solo per effetto del mercato. La concorrenza è certamente necessaria – come ricorda Pierluigi Ciocca nell’articolo qui pubblicato affermando che “il problema italiano non risiede nella capacità dei produttori di progredire, bensì nell’attivare stimoli che li inducano a farlo” – ma non può supplire al ruolo di impulso che, in questo caso, deve essere svolto dalla politica industriale e dal mantenimento della presenza pubblica nelle grandi imprese strategiche per la difesa e lo sviluppo del paese. Paolo Gnes sommario N. 7 - DICEMBRE 2006 Capitalismo e sviluppo Pierluigi Ciocca Il capitalismo italiano: una prospettiva storica pag. 4 Guido M. Rey Creare nuovi rapporti fra industria e finanza pag. 12 Riccardo Varaldo Rifondazione dei Distretti via obbligata per il rilancio pag. 22 INTERVENTI Silvano Andriani L’ascesa della finanza. Risparmio, banche, assicurazioni: i nuovi assetti dell’economia mondiale Libri in vetrina IL PROSSIMO GIOVEDÌ 1° NUMERO FEBBRAIO 2007 Europa, riparti! Boris Biancheri, Alberto Majocchi, Luigi Caligaris articoli di pag. 18 pag. 30 ‹ Capitalismo e sviluppo › IL CAPITALISMO ITALIANO : UNA PROSPETTIVA STORICA L’Autore ripercorre le fasi dell’economia italiana (sinistra storica, guerre e fascismo, tempi più recenti), ricorda che i produttori italiani vivono da sempre, storicamente e strutturalmente, uno svantaggio nelle risorse primarie del territorio e nelle fonti di energia e delinea i campi dove agire per il ritorno alla crescita dell’economia (finanza pubblica e pubbliche amministrazioni; infrastrutture fisiche e giuridiche; dimensione e dinamica d’impresa, promozione della concorrenza). La conclusione: è cruciale che i produttori non deviino dalla ricerca incessante GLOBAL COMPETITION 7 - 2006 dell’innovazione, della qualità, dell’aggiunta di valore agli inputs importati, 4 della capacità di esportare, ecc. i lunga durata, preoccupante, è lo smottamento reddito pro capite (Tab. 1). della crescita economica italiana. Avviatosi negli Sono state ampiamente analizzate le concause del ristaanni Sessanta, si accentuò negli anni Settanta. Allora, fu gno in cui l’economia è ricaduta, dopo decenni postbelliin media di 1,5 punti nel PIL e nel ci di vivace ancorché non di rado squilibrato dinamismo. Lo sono PIL pro capite, di 2,5 punti nella prostate con particolare riferimento duttività del lavoro, di poco meno agli anni successivi alla crisi, valudi 3 punti nella produttività totale taria e “reale”, del 1992-1993, dei fattori. Negli anni Settanta, tutche segna uno spartiacque crutavia, il rallentamento nel PIL e nel ciale e inaugura la fase tuttora in PIL pro capite fu inferiore a quelli corso, in cui i risultati dell’economedi dell’Unione europea e mia sono stati massimamente dell’OCSE e i ritmi di sviluppo dell’edeludenti. conomia italiana restarono più PIERLUIGI CIOCCA È prospettabile una interpretasostenuti. Dagli anni Ottanta, invezione di estrema sintesi del décace, il décalage nella crescita proseVice Direttore Generale della Banca d'Italia e 1. Si è fatto intenso il mutare guì in Italia mentre si arrestò o quasi lage suo rappresentante presso vari organismi nazionali e internazionali (G7, Financial Stability nelle due grandi aree. Ne è seguito delle tecniche (la ICT è solo l’eForum, Economic and Financial Committee, l’annullamento prima, il rovesciasempio più noto) e dei vantaggi BCE). È Direttore della Rivista di Storia mento poi, nel divario di sviluppo a comparati (primazia di alcuni Economica. È autore di numerose pubblicazioni favore dell’economia italiana. paesi industriali nell’accesso alla in materia di economia, finanza, storia economiSoprattutto, la dinamica della pronuova tecnologia, irruzione sulla ca fra le quali più di recente: Economia per il diritto. Saggi introduttivi, Bollati Boringhieri, duttività totale dei fattori in Italia si è scena commerciale internazionale Torino, 2006 (con I. Musu); The Italian Financial ridotta drammaticamente nella di paesi come Cina e India capaci System Remodelled, Macmillan, London, 2005 seconda metà degli anni Novanta. È sia di qualità e d’efficienza sia di (Bollati Boringhieri, Torino 2000); Il tempo deldiventata addirittura negativa nel bassi costi del lavoro nelle stesse l’economia. Strutture, fatti, interpreti del 2001-2005, fenomeno rarissimo tradizionali produzioni dell’Italia). Novecento, Bollati Boringhieri, Torino, 2004; L’economia mondiale nel Novecento. Una sintenella storia delle economie di mercaAl tempo stesso la prontezza del si, un dibattito, il Mulino, Bologna, 1998. to capitalistiche. Nello stesso quinsistema produttivo italiano nel quennio si è azzerata la crescita del cogliere queste opportunità, far D 1 P. Ciocca, Il tempo dell’economia. Strutture, fatti, interpreti del Novecento, Bollati Boringhieri, Torino, 2004. ‹ Capitalismo e sviluppo › PIL pro capite PIL per unità di lavoro standard Produttività totale dei fattori 1961-1970 5,5 4,8 5,4 4,4 1971-1980 3,8 3,3 2,8 1,7 1981-1990 2,4 2,4 1,8 0,8 1991-2000 1,6 1,5 1,6 1,0 2001-2005 0,6 0,1 0,0 -0,5 Fonte: elaborazione banca d’Italia su dati Istat, Prometeia, Commissione europea fronte alla sfida che pure in esse è insita, riallocare le risorse è stata ostacolata dal concorso di almeno tre ordini di fattori: diseconomie gravanti sulle imprese dall’esterno; carenze interne al mondo delle imprese; soprattutto, insufficienti stimoli lato sensu concorrenziali sui produttori. Queste forze hanno interagito, interagiscono. Le diseconomie esterne dissuadono dall’affrontare i costi e i rischi insiti nel tentativo di colmare, per vie interne, le carenze del sistema produttivo. Si ricercano modalità collusive e protezionistiche nella difesa del profitto, preservando lo status quo. La minor crescita dell’economia perpetua i gravami nascenti dalla finanza pubblica. Le carenze interne si accentuano. Un circolo vizioso impedisce di rispondere alle sfide internazionali che si fanno più serrate. Impedisce di cogliere appieno le potenzialità dischiuse dal progresso tecnico e dall’atteggiarsi diverso dei vantaggi comparati. La minor pressione concorrenziale non induce ad accumulare di più e ad accrescere la dimensione dell’impresa. Per il ritorno alla crescita dell’economia almeno quattro insiemi di attori – lo Stato, le imprese, i sindacati, la finanza – sono chiamati all’azione in altrettanti campi: a) finanza pubblica e pubbliche amministrazioni b) infrastrutture, fisiche e giuridiche c) dimensione e dinamica d’impresa d) promozione della concorrenza. Le azioni positive su ciascuno dei quattro fronti sono potenzialmente sinergiche. Nessuna fra esse è bastevole. Le interazioni fra le variabili in giuoco configurano effetti non additivi, ma fortemente moltiplicativi. a) Il risanamento della finanza pubblica si misura sulla capacità del settore pubblico di contribuire all’innalzamento del tasso di crescita dell’economia. Si deve risanare per crescere. Al tempo stesso, senza crescita il risanamento non sarà definitivo. Vanno congiuntamente colti tre obiettivi: saldi di bilancio coerenti con i vincoli europei e con una sicura discesa del debito pubblico; riduzione della spesa primaria corrente, e quindi della imposizione fiscale e contributiva più onerosa e distorsiva, per superare disincentivi agli investimenti privati, rimuovere remore e b) Le economie, o diseconomie, esterne all’impresa sono in larga misura connesse con le infrastrutture. Assumono rilievo speciale, fra le infrastrutture fisiche, strade, ferrovie, porti, aeroporti; fra le reti, energia, acquedotti, telecomunicazioni; fra le infrastrutture immateriali, istruzione e sanità, ma anche il quadro giuridico che direttamente presiede all’operare dell’impresa. Particolarmente carenti al Sud, le infrastrutture materiali – che è molto costoso manutenere e ammodernare – dai primi anni Novanta non sono state rafforzate. Non hanno corrisposto alle esigenze crescenti dell’economia. Sono inferiori per quantità/qualità a quelle di altri paesi europei. Anche l’ordinamento giuridico dell’economia si è dimostrato sempre meno acconcio, nelle norme e nella loro applicazione. Urgono riforme giuridiche che in coerenza con il diritto societario vigente dall’inizio del 2004 valorizzino l’imprenditorialità, semplifichino gli adempimenti, amplino la gamma delle soluzioni organizzative e favoriscano la dinamica delle dimensioni aziendali. Deve configurarsi un nuovo ordinamento dell’economia nella direzione di “una economia di mercato con regole”: coerente con i dettami comunitari, ma capace di corrispondere alle esigenze specifiche del sistema economico italiano. Vanno assicurate le coerenze, valorizzate le potenziali sinergie positive, fra le principali componenti del “diritto dell’impresa”: commerciale, societario, fallimentare, del lavoro, della concorrenza, del processo civile, di cognizione e soprattutto esecutivo. Occorre vincere le resistenze degli interessi costituiti, corporativi, settoriali, di fronte a riforme che di per sé non costano e configurano rilevanti benefici generali. La dimensione giuridico-istituzionale influisce notevolmente e pur essa, come la finanza pubblica, per più vie – accumulazione di capitale, migliore utilizzo delle risorse, certezza dei contratti, riallocazione dei rischi – sulla crescita dell’economia. c) La frammentazione del sistema delle imprese e l’incapacità della piccola impresa di accrescere la propria 7 - 2006 PIL distorsioni, accrescere il risparmio nazionale; potenziamento e manutenzione delle infrastrutture fisiche e delle reti, da tempo inadeguate. Il raggiungimento degli obiettivi postula uno sforzo di contenimento della spesa senza precedenti. Si richiede una diminuzione dell’incidenza della spesa primaria corrente di oltre 5-6 punti percentuali del prodotto in un quinquennio. Della difficoltà di tale impegno le parti sociali, e il Paese devono acquisire piena contezza, affinché ne condividano le finalità. Una finanza pubblica e una pubblica amministrazione opportunamente riorientate contribuirebbero allo sviluppo dell’economia per più vie: più alta propensione dei privati a investire; risparmio con cui sostenere l’accumulazione di capitale; minori diseconomie esterne alle imprese; minori distorsioni allocative. GLOBAL COMPETITION Tabella 1- Analisi del 1961-2005 - Reddito 5 GLOBAL COMPETITION 7 - 2006 ‹ Capitalismo e sviluppo › 6 Nei pochi casi in cui la concorrenza è aumentata – come dimensione si sono accentuate. Ricchezza accumulata nel settore bancario e finanziario, dove in passato era negli anni, volontà di conservare il controllo in seno alla molto bassa – i risultati positivi si sono avuti2. famiglia del proprietario-imprenditore, ragioni giuridiche, burocratiche, fiscali inducono l’impresa italiana a restare Nei mercati delle merci gli indici del grado di oligopolio piccola. Ciò ha coinciso con l’era della tecnologia digita(indici di Lerner) in media sono saliti di circa un quarto le, della cosiddetta ICT, dell’elettronica. La condizione di rispetto agli anni Settanta e Ottanta. Il calo della concorpiccole entità che non crescono, tipica delle imprese itarenza è concentrato nei servizi (il cui peso, escludendo liane, lungi dall’essere imposta dal modello di specializzaquelli finanziari e assicurativi, è salito dal 61 al 65 per zione, congela quel modello, restringe l’investimento all’ecento del PIL dopo il 1993). Nei mercati della proprietà e stero, limita le esportazioni. Ne risultano impedimenti alla del controllo dell’impresa la contendibilità degli assetti esiformazione dei lavoratori, alla spesa per ricerca, al prostenti è attutita dall’alta frequenza con cui il primo propriegresso tecnico, alla produttività. Nel rapporto fra il pulvitario detiene quote di maggioranza nelle aziende, in parscolo delle aziende in miniatura – 4 addetti in media – e ticolare al diminuire della loro dimensione. le poche corporations che rimangono, sono carenti la La promozione della concorrenza deve mirare ai minimi complementarità nella ricerca e l’osmosi nell’applicazione costi e ai minimi prezzi, per data struttura dell’economia. delle innovazioni. In assenza di una leadership nella tecDeve anche, forse soprattutto, mirare alla rimozione degli nologia e nella posizione di mercato da parte delle granostacoli che frenano la riallocazione dinamica dei fattori di imprese, anche le piccole e medie produttivi, il rilascio delle risorse di capiaziende sono in difficoltà. Manca loro “Le diseconomie esterne all’im- tale e di lavoro dalle produzioni, impreun punto di riferimento, sia come forse, settori che sono divenuti inefficienti nitori sia come produttori, per nicchie presa sono in larga misura verso quelli in prospettiva più redditizi. di mercato considerate antieconomi- connesse con le infrastrutture. L’azione del primo tipo deve principalche dalle grandi imprese. Assumono rilievo speciale, fra mente orientarsi alle forme di mercato e Tre elementi concomitanti identifica- le infrastrutture fisiche, strade, ai comportamenti dei produttori. Deve no un'impresa moderna: dimensione ferrovie, porti, aeroporti; fra le contrastare posizioni dominanti, abuso correlata alla tecnologia e al mercato di esse, intese anti-acquirenti. Nella legipotenziale, governance, gestione del reti, energia, acquedotti, tele- slazione antitrust del 1990 questa rischio. Le banche devono averli pre- comunicazioni; fra le infra- dimensione è contemplata. I modi spesenti. Le banche, per la propria speci- strutture immateriali, istruzio- cifici e i mezzi per questo tipo di azione fica e naturale funzione nell’econo- ne e sanità, ma anche il qua- antitrust dovrebbero essere potenziati. mia, sono chiamate a scegliere gli affi- dro giuridico che direttamente Informazione, comunicazione, conoscenza sono i pilastri su cui si costruisce dati anche sulla base delle prospettive di crescita delle aziende nel medio- presiede all’operare dell’impresa.” questo aspetto della concorrenza. Il consumatore deve poter compiere le lungo periodo, attraverso fusioni e sue scelte sulla base delle informazioni strettamente rileacquisizioni o attraverso aumento della capacità produttivanti. Dal lato dell’offerta è indispensabile un giusto equiva. Dal realizzarsi di questa prospettiva dipende in ultima librio fra asimmetria informativa, indispensabile per incenanalisi lo sviluppo reddituale di lungo periodo delle bantivare la crescita, e corretta informazione sui costi. Non vi che medesime. Tra le 1.300 aziende italiane con più di può essere dirigismo nella fissazione dei prezzi, ma va 500 addetti non mancano quelle con effettive potenziatutelata la rendita del consumatore nei confronti di aggreslità di crescita. Spetta alle banche selezionarle e sostenersive politiche di prezzo non giustificate da miglioramenti le, con i finanziamenti e con la consulenza, nella separaqualitativi. tezza in materia di partecipazioni di controllo. Carente, nell’antitrust italiano, nei suoi stessi principi d) La possibilità di aumentare l’efficienza, statica e dinamifondanti e quindi nell’azione, è la dimensione dinamica ca, del sistema produttivo italiano è infine affidata a una della concorrenza: la cura per i presupposti della rapida concorrenza più intensa, a più forti pressioni sui produttori. ed efficace riallocazione delle risorse, attraverso la tendenNonostante l’apertura verso l’estero, all’interno dell’ecoza al livellamento dei tassi di profitto fra prodotti, imprese, nomia italiana le sollecitazioni concorrenziali – nella loro settori. È su questo fronte che occorre soprattutto agire, più vasta accezione – sono complessivamente diminuite. minando ogni forma di difesa del capitale “vecchio” Sono diminuite a livello tanto di macrodeterminanti (camrispetto al “nuovo”: monopoli, sussidi pubblici, collusioni bio lasco, salario reale moderato, spesa pubblica larga), fra capitale e lavoro, norme giuridiche, opportunismi, irrequanto di microdeterminanti (nei mercati dei prodotti e sponsabilità. Al di là degli economicismi, il valore della nei mercati della proprietà e del controllo delle imprese). concorrenza così intesa allude in ultima analisi a un 2 P. Ciocca, La nuova finanza in Italia. Una difficile metamorfosi (1980-2000), Bollati Boringhieri, Torino, 2000, cap. 6. ‹ Capitalismo e sviluppo › si, favorendo la concorrenza. Il quadro mutò nella direzione di minori pressioni sui produttori nell’ultimo quarto dell’Ottocento, dopo la vittoria politica della Sinistra storica. Nonostante l’opposizione Concorrenza e paradigmi allocativi della migliore cultura economica liberista, protezionismo, collusione fra Stato e maggiori imprese, cedimenti del È su quest’ultimo aspetto che concentreremo l’attenzione tasso di cambio, repressione anche violenta delle rivendinelle pagine che seguono. Decisivi nella vicenda di ogni cazioni contadine e operaie concorsero a determinare il economia sono l’intensità e i modi con cui la concorrenmoto anticoncorrenziale. Esso lascerà sedimenti permaza e le forze ad essa assimilabili hanno stimolato, disciplinenti nel modus operandi del sistema economico. nato, controllato i produttori. La concorrenza può maniL’età giolittiana registrò una tendenza almeno parzialfestarsi nei mercati dei beni e dei servizi offerti. Può altremente opposta, con l’intensificarsi di sollecitazioni in sì riguardare la proprietà e il controllo delle imprese. Le senso lato competitive. All’attenuarsi o al venir meno delle sue determinanti, settore per settore e nell’intero sistema spinte anticoncorrenziali che erano emerse nell’età della produttivo, sono di natura micro e macro-economica. Le Sinistra si unì un’azione decisa dello Stato contro le posiprime qualificano le forme di mercato, variamente situate zioni dominanti in settori cruciali dell’economia. Sebbene fra la competizione pura e perfetta, a un estremo, e il questa azione non fosse sempre coromonopolio all’altro estremo: numero dei produttori, libertà d’entrata, omoge- “La frammentazione del siste- nata da successo, la pressione sui proneità del prodotto, innovazione e suo ma delle imprese e l’incapacità duttori a ricercare il profitto rischiando diffondersi, rivalità o collusione fra i prodella piccola impresa di accre- e innovando si fece più intensa. Nel prosieguo del Novecento, in duttori, informazione di cui il mercato dispone. Le seconde qualificano il con- scere la propria dimensione si specie durante la prima guerra montesto più generale in cui i produttori, sono accentuate. Ricchezza diale e nel periodo fascista, la concornell’insieme dei settori e dei mercati, accumulata negli anni, renza è stata su più fronti contrastata, sono attivi: grado di apertura dell’eco- volontà di conservare il con- limitata. nomia, regime e gestione dei cambi trollo in seno alla famiglia del Nell’attenuare presso le imprese la spinta alla produttività, al progresso con l’estero, sostegni dello Stato alle imprese, dimensione e struttura della proprietario-imprenditore, tecnico, all’innovazione e al suo spesa e delle entrate pubbliche, quadro ragioni giuridiche, burocrati- diffondersi, il favor per aziende o setgiuridico, relazioni industriali. che, fiscali inducono l’impresa tori insito nella spesa pubblica e nella tassazione, il ricorso a dazi e continNella storia economica Italiana le italiana a restare piccola.” genti, la debolezza dei sindacati si forme di mercato e più in generale le sono uniti alla concentrazione e alle intese fra produttori pressioni competitive sui produttori si sono configurate e in settori industriali, alla commistione tra banca e induhanno agito in varia guisa nel volgere del tempo. Il grado stria, dal 1936 alla debolezza del cambio. medio di concorrenza nell’intera economia ha avuto L’appannamento della concorrenza è avvenuto sia nei andamenti di segno opposto. Onde pluridecennali e il mercati dei prodotti sia in quelli della proprietà e del conloro riflusso nelle sollecitazioni competitive hanno influito trollo delle imprese. Vi hanno concorso la struttura indiviin modo determinante, con segno alterno, sull’innovazioduale o familiare dell’impresa piccolo-media, alcuni istituti ne e sulla produttività. Possono distinguersi alcune grane usi giuridici ovvero l’assenza di altri, il rapporto con la di fasi, sebbene dai contorni sfumati. finanza, la scarsa disponibilità di capitale proprio, la ritroNonostante una maglia relativamente fitta di fiere e sia a quotarsi in Borsa. mercati, nell’Ottocento l’economia restò a lungo frazionaCosì come nella prima, anche nella seconda metà del ta in occasioni organizzate di scambio locali, discontinue, Novecento la tendenza di fondo verso un più basso grado non sempre accessibili, con limitata mobilità di merci e fatdi concorrenza ha visto una fase – sino ai primi anni tori produttivi. Tuttavia, sia la flessibilità di prezzi e costi sia Sessanta – in cui le forze e le sollecitazioni competitive si la competizione nell’offerta – di beni, se non di servizi – sono accentuate, seguita da una più lunga fase in cui esse erano favorite da fattori strutturali già evocati: l’economia si sono attenuate. Quest’ultima fase è tuttora in atto, sebbeaperta e price-taker nei mercati internazionali, l’abbonne nel 1990 sia stata introdotta una legislazione antitrust. danza di forza-lavoro, la modesta dimensione media delle imprese, il basso grado di concentrazione. Trovarono parAl tempo stesso nell’economia italiana, nei due secoli, ziali ostacoli nel “colbertismo” dell’Italia francese, prima, sono stati sperimentati vari paradigmi allocativi. Sono scadella maggioranza degli Stati pre-unitari, poi. Col Regno turiti dal mutevole combinarsi di istituzioni, norme, forme d’Italia, sotto i governi della Destra storica fino al 1876, di mercato, strutture economiche, rapporti fra Stato e anche questi impedimenti vennero in larga misura rimosMercato. Il loro succedersi è strettamente connesso, GLOBAL COMPETITION 7 - 2006 mondo di produttori che facciano conto in primo luogo su se stessi, con assunzione diretta di responsabilità. 7 GLOBAL COMPETITION 7 - 2006 ‹ Capitalismo e sviluppo › 8 ancorché non coincidente, con le già richiamate oscillazioni nel grado medio di concorrenza e più in generale nell’intensità delle spinte all’efficienza, alla dinamica dimensionale, all’innovazione, esercitate sui produttori. Interessi, ideologie, rapporti internazionali hanno fatto sì che si avvicendassero più criteri a cui il modus operandi del sistema economico è stato chiamato a ispirarsi. Si può, schematizzando, delineare una sequenza: - dirigismo e protezionismo pre-unitari (pre-Cavour in Piemonte), limitativi della concorrenza; - laisser faire, con poche regole, liberismo commerciale, concorrenza accentuata nell’età della Destra (1861-76); - protezionismo, collusione pubblico/privato, repressione del movimento dei lavoratori, attenuarsi delle sollecitazioni competitive con la Sinistra, sino alla crisi politicosociale di fine Ottocento; - più Stato (politica economica) ma al tempo stesso più Mercato e concorrenza (impresa in dialettica col sindacato dei lavoratori, governo neutrale rispetto alle parti sociali, azione anti-monopoli) nell’età giolittiana; - salario ridotto a variabile strumentale, economia chiusa, connivenza corporativa fra Stato, grande impresa e banche, cartelli e concentrazioni nell’industria, concorrenza ridotta al minimo nel periodo tra le due guerre; - economia aperta e “mista”, con larga presenza dell’impresa pubblica anche in competizione con l’impresa privata, dal dopoguerra ai primi anni Sessanta; - conati di programmazione, sindacati aggressivi, imprese sostenute dallo Stato, concorrenza meno spinta sino ai primi anni Novanta; - verso una economia di mercato con regole, privatizzazioni, politiche dei redditi consensuali nel periodo più recente. Concorrenza e crescita: l’età giolittiana e il “miracolo economico” L’età di Giolitti – 1900-1913 – segnò una svolta rispetto a quella di Depretis e soprattutto di Crispi. Pressioni competitive e stimoli alla ricerca di produttività e innovazione per i produttori nazionali scaturirono da tre fonti macroeconomiche: la tenuta del cambio, la minor protezione doganale, la neutralità dello Stato di fronte alla dialettica profitto-salario. Il tasso di cambio nominale effettivo della lira si era deprezzato, in precedenza, a più riprese: da ultimo, nel 1889-94, del 10 per cento. Tra il 1902 e il 1913 il cambio restò sostanzialmente invariato, su valori medi dell’8 per cento, più elevati di quelli del quinquennio 1897-1901. Venne meno la cedevolezza della valuta, che avrebbe attenuato la pressione sulle imprese produttrici di beni commerciabili internazionalmente ad aumentare la produttività, contenere costi e prezzi, investire. “La lira fa aggio sull’oro” fu lo slogan del momento. Nel medesimo tempo la competitività di prezzo – il cambio “reale” della lira – non subì variazioni significative. In un quadro di crescente apertura dell’economia agli scambi con l’estero, tra il 1897 e il 1913 il rapporto fra le entrate doganali e il valore delle importazioni scese nettamente, dal 19 al 10 per cento. Il minor grado di protezione scaturì principalmente dalla riduzione delle tariffe unitarie. Concorsero gli aumenti dei prezzi internazionali in presenza di dazi specifici riferiti alle quantità importate, mentre i mutamenti di composizione dell’interscambio agirono in senso contrario. Le relazioni conflittuali tra capitale e lavoro per la prima volta non videro lo Stato e le forze dell’ordine schierarsi con i datori di lavoro. Le richieste di aumenti di salario e più in generale di miglioramenti nella condizione dei lavoratori vennero sostenute dalle organizzazioni sindacali, dai partiti non governativi, da scioperi molto più frequenti e sistematici. Entro il limite del mantenimento dell’ordine pubblico e della libertà di lavoro, nonostante gli incidenti anche gravi che ebbero luogo, lo Stato non prese partito né per i capitalisti né per i lavoratori. L’offerta di manodopera era contenuta dalla massiccia emigrazione, la domanda alimentata dalla dinamica dell’economia. Alla maniera di uno stimolo concorrenziale esercitato dal lato dei costi, il rialzo dei salari reali sollecitò nelle imprese la ricerca della produttività mentre era a propria volta da quest’ultima giustificato. La profittabilità, corrente e attesa, giustificò e sostenne l’intensificarsi dell’accumulazione di capitale. La dinamica dei salari reali non debordò rispetto a quella della produttività del lavoro. Ma la concorrenza venne su più d’un fronte favorita, o quanto meno non più contrastata, anche sul piano microeconomico. Giolitti ereditò il sistema che si era consolidato nei periodi di Depretis e Crispi, nel quale era divenuto decisivo l’intervento dello Stato con protezionismo, commesse, premi, così come era divenuto stretto il connubio tra banca e industria. E tuttavia ai monopoli privati da lui giudicati istituzioni illiberali, egli oppose la forza dello Stato, in alcuni casi la soluzione del monopolio pubblico, ovvero quella della contendibilità da parte di altri gruppi privati. Vi riuscì con le ferrovie e con la telefonia, nazionalizzate nel 1905 e nel 1907; vi riuscì nel 1912 con la fondazione dell’INA e con l’esclusiva di Stato delle assicurazioni sulla vita, sebbene rinviata nell’attuazione; non riuscì, nel 1909, a opporre con successo un altro gruppo – il gruppo Piaggio – e il metodo della pubblica asta alla Società di navigazione generale, alla Comit e a giornali come “Il Corriere della Sera” e “La Tribuna” che ne difendevano gli interessi sulla questione dei servizi marittimi; contrastò la speculazione edilizia sulle aree fabbricabili. Treni, telefoni, assicurazioni e trasporti marittimi nell’insieme funzionarono meglio, essendo i produttori privati e pubblici in varia guisa sollecitati all’efficienza. Giolitti non nutrì mai soverchie simpatie per il latifondo. Mantenne, è vero, a 7,5 lire per quintale il dazio sul grano. Lo fece per la ragion politica di non intaccare “la 3 che negli anni Trenta il paradigma allocativo prevalente nell’economia italiana era stato contrassegnato da chiusura internazionale; salario ridotto a variabile strumentale; acquiescenza sindacale; concentrazione finanziaria, cartelli, intese, abuso di posizioni dominanti; spesa pubblica ampia e disponibile; collusione fra Stato e Mercato; socializzazione delle perdite e privatizzazione dei profitti. Mai come in quegli anni il capitalismo italiano aveva goduto – e mai più avrebbe in seguito goduto – di una siffatta garanzia, implicita ma anche esplicita, di fronte al rischio d’impresa da parte della politica, delle pubbliche amministrazioni, delle istituzioni. Questo quadro cambia negli anni Cinquanta, su più di un fronte. Concorrenza e spinta all’efficienza e all’innovazione si sprigionano con forza inusitata nei mercati dei prodotti e dei fattori. Le pressioni a cui i produttori vengono sottoposti si estendono ai mercati, ufficiali e informali, della proprietà e del controllo delle imprese. La principale rottura col passato non concorrenziale è da ravvisare nella riapertura dell’economia agli scambi internazionali. Contingenti e dazi protettivi vengono ridotti, sia pure in varia misura e in tempi diversi. Il capitale straniero torna a investire in Italia. Il cambio è fisso, percepito come tale. La sollecitazione più vistosa e percepibile rivolta agli animal spirits degli imprenditori italiani, non solo nei settori produttivi di beni commerciabili internazionalmente, scaturisce dalla prospettiva del Mercato comune in Europa. La firma del Trattato di Roma nel marzo del 1957 rende irreversibile l’apertura verso l’estero. Annulla ogni velleità di ritorno al protezionismo da parte dei produttori di beni commerciabili internazionalmente. Se il salario è frenato nella sua dinamica da un eccesso strutturale di manodopera, movimento dei lavoratori e sindacati tornano a essere attivi, ideologicamente motivati. Trovano sostegno in forti partiti politici, di opposizione ma anche di governo. I partiti – compreso il principale partito moderato, perno dei governi di coalizione – sono disponibili alle istanze delle classi lavoratrici. Lo sono anche perché portatori di una cultura in varia guisa e in varia misura critica del capitalismo, quanto meno conscia dei suoi limiti ed eccessi. La dialettica fra capitale e lavoro, che il fascismo aveva spento, torna a configurarsi, almeno potenzialmente, come conflittuale. Ciò avviene sebbene per tutti gli anni Cinquanta la sinistra politica e sindacale venga repressa nelle fabbriche con metodi anche antidemocratici e i suoi aderenti siano nel paese sistematicamente esclusi dai gangli della pubblica amministrazione. Una conflittualità allo stato latente e potenziale, piuttosto che apertamente e duramente manifesta, esercita un effetto di sollecitazione e di disciplina sulle imprese senza minare le loro aspettative P. Ciocca, L’instabilità dell’economia. Prospettive di analisi storica, Einaudi, Torino, 1987, e G. Nardozzi, Miracolo e declino. L’Italia tra concorrenza e protezione, Laterza, Bari, 2004. GLOBAL COMPETITION principale base economica della deputazione parlamentare meridionale”, sostenitrice dei suoi governi. E tuttavia tra il 1900 e il 1913 le importazioni di grano crebbero, dell’80 per cento in quantità. Il prezzo, attestato sulle 18 lire dal 1899 al 1908, salì a 21-22 lire negli anni successivi. Tra il 1897 e il 1913 la protezione nominale sul grano diminuì dal 40 al 33-35 per cento. Nell’intero comparto dei prodotti primari la protezione nominale (ponderata con la struttura corrente del commercio) scese dal 22 al 10 per cento (pressoché interamente attraverso tagli di tariffe), ben più di quella relativa ai manufatti (dal 13 al 9) e ai semimanufatti (dal 10 all’8). Ricardianamente, ne fu favorita la crescita. Nel 1900-1913 l’espansione economica dell’Italia si inscrisse in quella dell’economia mondiale, da cui desunse sostegno. E tuttavia rispetto al 1887-1900 l’accelerazione italiana fu notevole anche nel confronto con l’andamento dell’economia mondiale. Si trattò di una “primavera economica” dell’Italia, che andò ben al di là della belle époque che l’intero mondo sviluppato veniva sperimentando. Il tasso di crescita del PIL italiano balzò dallo 0,9 al 2,6 per cento l’anno, quello del PIL mondiale salì alquanto, dall’1,9 al 2,6 per cento. Nel confronto con l’età di Crispi e della crisi di fine secolo l’accelerazione appare ancor più netta in termini di prodotto pro capite, il cui ritmo di sviluppo si innalzò dallo 0,3 all’1,9 per cento l’anno. Nello stesso periodo 1900-1913 la crescita del reddito pro capite mondiale fu dell’1,6 per cento, rispetto all’1,2 del 1887-1900. Un balzo di mezzo secolo collega l’accelerazione giolittiana con quella, ancor più intensa, che l’economia visse nel 1951-63. Il miracolo post bellico è certo da collegare ad alcune condizioni iniziali: ricostruzione; disinflazione del 1947; apertura verso l’estero; favor per l’industrializzazione. Dipese altresì da alcuni fattori macroeconomici, attivi nel 1951-63: investimenti; innovazioni; caratteristiche dei produttori; integrazione in un’economia europea e mondiale in progresso; stabilità complessiva3. Tuttavia la spinta fondamentale che avviò e alimentò in quegli anni il meccanismo di sviluppo economico dell’Italia – così come era avvenuto al tempo di Giolitti – provenne dalla concorrenza, e più in generale dalla propensione a innovare che una congerie di forze richiese ai produttori italiani. Prima di elencare queste forze, va sottolineato che la sollecitazione – la “minaccia” sui produttori (Pantaleoni) – fu particolarmente avvertita in un sistema di imprese che dalla fine dell’età giolittiana – con la prima guerra, con il fascismo dopo de’ Stefani, con la seconda guerra – avevano per oltre un trentennio agito in un contesto molto poco concorrenziale. In particolare vale ribadire 7 - 2006 ‹ Capitalismo e sviluppo › 9 GLOBAL COMPETITION 7 - 2006 ‹ Capitalismo e sviluppo › 10 di profitto nel lungo periodo. L’ordinamento giuridico manca di dotarsi di una legislazione e di un apparato a tutela e promozione delle forme di mercato concorrenziali. Tuttavia, prima e indipendentemente dall’indagine parlamentare sulla concorrenza vari fattori interagirono nel configurare un contesto più competitivo: l’avversione ai monopoli, il favor per la piccola impresa e per le sue rappresentanze, l’articolazione dimensionale, istituzionale e territoriale del sistema bancario. L’ultimo aspetto è di particolare rilievo. La separatezza fra “banca” e “industria” diviene il presupposto di una relazione di tipo nuovo, dialettica e concorrenziale, fra richiesta e offerta di credito. Le banche – anche perché pubbliche in una misura pari al 70 per cento dell’attivo di bilancio dell’intero settore bancario – solo in rari casi sono soggette all’influenza di imprese non finanziarie, e viceversa. La commistione fra banca e industria aveva fino ad allora esaltato sia i connotati di inefficienza sia il potenziale di instabilità di un sistema economico che fra la prima e la seconda guerra mondiale si era fortemente connotato come oligopolistico. Nel nuovo contesto, presidiato dalla legge bancaria del 1936, la disciplina esercitata da banche indipendenti anche sulle imprese di maggiore dimensione agisce nel senso di comprimere i costi e i rapporti prezzi-costi, stimola le imprese alla ricerca della produttività e del progresso tecnico. Alla concorrenza nell’economia “reale”, attraverso l’articolazione e l’autonomia del sistema bancario spinte sino alla protezione delle banche meno efficienti, la Banca d'Italia del governatore Menichella arriva a sacrificare, in una certa misura e consapevolmente, la concorrenza e l’efficienza all’interno dello stesso sistema bancario. Non solo nel sistema bancario, l’impresa a controllo pubblico viene vista, oltre che come sostituto della privata là dove questa si era dimostrata incapace di produrre e di rischiare, come un agente antimonopolistico nei settori in cui coesiste con l’impresa privata. L’impresa pubblica è affidata a tecnici che – almeno fino al radicarsi nel Ministero delle partecipazioni statali (istituito nel 1956) delle istanze politiche e programmatorie – la governano con margini di autonomia anche più ampi di quelli di una public company. La concorrenza dell’impresa pubblica appare particolarmente temibile agli occhi dei produttori privati operanti nelle stesse industrie presenti negli stessi mercati. Le forme di mercato divengono più concorrenziali anche indipendentemente dal ruolo dell’impresa pubblica. Per le imprese private le barriere all’entrata si attenuano, in ragione dello stesso minor rilievo della quantità di capitale rispetto ad altri fattori qualitativi fra le determinanti della produzione e della produttività. Il grado di concentrazione, industriale e finanziaria, si riduce. Sono più frequenti i casi di imprese dinamiche che dalla piccola dimensione assurgono alla media e alla grande scala produttiva, anche in competizione con i maggiori gruppi. Nella demografia d’impresa il tasso di natalità si accresce, in assoluto e rispetto a quello di mortalità. Una conferma delle pressioni sui profitti che scaturirono dall’insieme di questi sviluppi è offerta dal profilo e dal livello dei rapporti fra prezzi da un lato, costi medi e costi marginali di produzione dall’altro. Nell’intera economia il rapporto tra prezzo e costo medio crollò da valori compresi fra 2 e 1,3 nel 1938-49 a valori compresi fra 1,2 e 1,1 nel 1950-63. Livelli più bassi si registreranno (fino al 1990) soltanto dopo i primi anni Ottanta. La compressione dei margini di profitto fu anche il riflesso di un attenuarsi del potere di mercato delle imprese. Il rapporto fra prezzo e costo marginale similmente crollò da valori compresi fra 1,75 e 1,65 nel 1938-49 a valori compresi fra 1,65 e 1,60 nel 1950-63. Di nuovo, livelli più bassi – lievemente inferiori a 1,60 – si registreranno (sempre fino al 1990) solo nel breve periodo 1964-66. In un ambiente divenuto per molteplici vie maggiormente competitivo i profitti non erano più ex ante assicurati come era avvenuto nel periodo fascista. Questo radicale mutamento non contrasta, è coerente, con il fatto che la crescita della produttività del lavoro – consentita principalmente da accumulazione di capitale, economie di scala, progresso tecnico – risultasse, ex post, superiore a quella dei salari reali. Va sottolineato che le pressioni competitive non si espressero soltanto attraverso i prezzi, ma anche attraverso l’accumulazione di capitale, il progresso tecnico, la diffusione delle innovazioni. Espandendosi rapidamente l’economia, il volume dei profitti aumentava. Dal 1951 al 1963 la società italiana realizzò la più profonda trasformazione della sua storia, non solo economica, in età contemporanea. Il ritmo di sviluppo annuale si situa sui massimi storici: 5,8 per cento il PIL e ben 5,1 per cento il PIL pro capite, avendo la popolazione continuato ad aumentare al tasso medio dello 0,7 per cento. Anno per anno non solo non vi furono contrazioni, ma fino al 1964 la progressione dell’attività economica non scese al disotto del 4,5 per cento (1956), con punte del 7 per cento e oltre. Il progresso del reddito pro capite è scomponibile per 4/5 in aumento della produttività del lavoro (4,6 per cento l’anno) e solo per meno di 1/5 in un più alto tasso di occupazione (rapporto fra occupati e popolazione in età di lavoro, fra i 15 e i 64 anni). L’avanzamento della produttività del lavoro si estese a tutti i grandi comparti del settore privato dell’economia. Fu soprattutto rapido nella manifattura (6,1 per cento l’anno) e nell’agricoltura (5,3 per cento, grazie alla copiosa uscita di lavoratori “eccedenti”), non irrilevante nell’edilizia (3,6 per cento) e nel terziario (3,3 per cento). La produttività, invece, ristagnò nelle pubbliche amministrazioni, dove il numero dei dipendenti passò da 1,8 a 2,4 milioni. Alla base della crescita della produttività è da porre, nella manifattura ma non solo, l’intensificata accumulazio- Una conclusione Quello dello sviluppo, o della crescita, resta il più misterioso e complesso dei fenomeni economici. L’analisi, teorica ed empirica, è in grado di identificare le variabili che vi concorrono, di decomporre, ex post, il loro contributo rispettivo. E tuttavia le determinanti ultime, la “causa delle cause”, anche sul piano storico tendono a sfuggire, come è spesso il caso di fronte a eventi, sì economici, ma intrisi di interrelazioni con i molteplici profili non economici del sociale. In una economia di mercato le imprese e i loro dirigenti sono il luogo cruciale, oltre che dell’accumulazione di capitale, dell’avanzamento di produttività, del progresso tecnico, dell’innovazione, con cui la crescita moderna soprattutto si identifica. La capacità dei produttori è… quella che è, in ogni momento, storicamente determinata. Decisivo è il contesto, da cui scaturisce l’insieme degli incentivi che inducono i produttori a investire, cercare l’efficienza, innovare. L’aspettativa – la ragionevole probabilità – di ottenere profitto è la condizione senza la quale il meccanismo dello sviluppo non si avvia. Soddisfatta questa condizione, sono essenziali le sollecitazioni competitive a produrre di più e meglio. Queste sollecitazioni sono particolarmente preziose in un contesto come quello italiano, la cui economia ha attraversato lunghe fasi – Sinistra storica (1876-1900), guerre e fascismo (1915-1945), tempi più recenti – in cui gli elementi oligopolistici, problematici, collusivi hanno assunto notevole rilievo. Le fasi in cui hanno prevalso impulsi di segno opposto, positivi, sono – come abbiamo inteso rapidamente ricordare – quelle in cui la performance di crescita dell’economia italiana è stata nettamente superiore, formidabile. I produttori italiani vivono da sempre, storicamente e strutturalmente, uno svantaggio nelle risorse primarie del territorio e nelle fonti d’energia che essi stessi non meno dei loro governanti sono chiamati a compensare. Occorre un’azione, una pressione continua, contro monopoli, moral hazard, collusioni, apparenti scorciatoie. Occorre anche contrastare la ricorrente, diffusa, provinciale presunzione di aver raggiunto nazioni più dotate di risorse, di aver definitivamente risolto il problema economico, di essere ormai – gli italiani – “ricchi per sempre”. È cruciale che i produttori non deviino dalla via obbligata: la ricerca incessante di innovazione, qualità, aggiunta di valore agli inputs importati, capacità di esportare. La storia non impartisce lezioni. Consente di… inventare errori sempre nuovi. Sufficiente evidenza si è accumulata, ed è disponibile, per evitare di ripetere l’errore – più volte commesso in un passato anche recente – di sottrarre i produttori italiani alla concorrenza. Il problema economico italiano non risiede nella capacità dei produttori di progredire, bensì nell’attivare stimoli che li inducano a farlo. GLOBAL COMPETITION ne di capitale, primario veicolo di progresso tecnico. Il rapporto fra investimenti fissi e PIL (a prezzi costanti) salì in ciascun anno, senza soluzione di continuità, dal 16 per cento del 1951 al 28 per cento del 1963, il livello più alto dall’Unità a oggi. 7 - 2006 ‹ Capitalismo e sviluppo › 11 ‹ Capitalismo e sviluppo › CREARE NUOVI RAPPORTI FRA INDUSTRIA E FINANZA L’Autore analizza il difficile rapporto in Italia tra capitale industriale e capitale finanziario e si sofferma sulle debolezze del nostro capitalismo, dimostrate ancora una volta dalle recenti esperienze di privatizzazione delle imprese pubbliche: i grandi gruppi finanziari non sono stati in grado di acquisire il controllo delle grandi imprese pubbliche senza l’aiuto essenziale del capitale di debito… GLOBAL COMPETITION 7 - 2006 Il tema della crescita dimensionale delle imprese non può essere risolto senza una strategia 12 di ampio respiro, basata sull’informazione e la conoscenza, indispensabili per gestire il rischio. Gli interventi di politica economica devono creare le condizioni per superare le attuali carenze di produttività, infrastrutture, managerialità, assistenza tecnica e finanzia nel processo di innovazione e nella crescita della dimensione media dell’impresa. opinione diffusa che l’Italia soffra di un problema di importante è stata la privatizzazione del sistema bancario, crescita la cui soluzione può essere trovata solo la sua concentrazione nonché il prudente ritorno alla affrontando i nodi strutturali e fra questi la carenza di banca universale e la crescente importanza dei mercati innovazione, la mancanza di infrastrutture materiali ed esteri come veicoli legali di allocazione del risparmio. immateriali, la revisione del ruolo dello Stato nell’econoAltri cambiamenti sono stati imposti dal Trattato di mia e la crescita dimensionale delle imprese italiane1. Maastricht e dall’UE: la riduzione del disavanzo pubblico, Finita la rincorsa per entrare nel primo gruppo dei paesi specie della spesa per interessi, la riduzione del debito partecipanti all’UEM e osservato il progressivo rallentapubblico accompagnata dalla fine dell’economia mista e mento registrato dal tasso di crescidalla privatizzazione delle imprese ta del prodotto interno lordo, è inipubbliche privatizzabili. ziato il dibattito sulle cause del A cavallo fra aspetti finanziari e ristagno. reali vi sono state: la liberalizzazioVenuti meno i luoghi comuni ne del mercato degli affitti, le sucsulle difficoltà di crescita dell’ecocessive leggi di riforma del sistema nomia (costo del lavoro, costo del pensionistico e del mercato del capitale, attese inflazionistiche, lavoro, la fine del controllo dei incertezza sull’andamento del camprezzi, l’istituzione di autorità a bio, eccessivo disavanzo pubblico, tutela della concorrenza e del corGUIDO M. REY elevato rapporto debito/Pil, ecc.) si retto funzionamento dei mercati. è costatato, finalmente, che molte Effetti di queste riforme istituzioÈ professore ordinario di economia politica di esse erano solo strumentali e nali sono stati: la stabilità dei prezpresso la Scuola Superiore S. Anna di Pisa. È non andavano alle radici delle zi, la fine del dumping valutario stato presidente dell’ISTAT e dell’AIPA. Nato a nostre difficoltà strutturali. con i suoi effetti negativi sull'effiBologna l’8 dicembre 1936, si è laureato in Economia e Commercio presso l’Università Si è data attuazione all’UEM e cienza industriale, la maggiore degli Studi di Genova nel 1959. Nel 1968 ha l’euro è subentrato alla lira come offerta di servizi bancari e la creconseguito la libera docenza in politica econoscente presenza delle banche d’afmoneta legale, ma non meno mica e finanziaria; nel 1995 l'Università degli fari estere. Nello stesso periodo si Studi di Padova gli ha conferito la laurea hono1 P. Ciocca, G. M. Rey, “Per la crescita ris causa in Scienze Statistiche ed Economiche. sono anche osservate delle situadell’economia italiana”, in Economia italiana, n. 2/ 2004. zioni negative come la lenta diffu- È Un tema ricorrente: alla ricerca del capitalismo italiano L’economia italiana si caratterizza per il numero modesto di grandi gruppi industriali e soprattutto per la loro continua diminuzione. In compenso vi è una diffusa presenza di piccolissime, piccole, medie imprese e di lavoratori autonomi. Non sempre queste scelte sono tali, a volte si tratta di soluzioni di ripiego in assenza di alternative migliori. Il richiamo alla crisi industriale e bancaria degli anni Venti e Trenta e la riaffermazione del ruolo dello Stato produttore nella Costituzione del 1948 suggeriscono una visione del capitale privato debole di fronte agli eventi esogeni ma soprattutto dotato di fragili radici e pronto a ricorrere all'intervento pubblico reclamando il ruolo sociale dell'impresa. Sono solo pochi spunti che consentono di ricordare gli anni dell'economia mista durante i quali lo Stato ha assegnato alle imprese pubbliche e a quelle a partecipazione statale il compito di investire nei settori ad alta intensità di capitale, nei settori dell'industria di base e nei settori ad elevata componente di rischio. In seguito, questa strategia ha cominciato ad offuscarsi e sono emersi i punti deboli. La selezione dei managers pubblici non sempre è stata attenta a valutazioni di professionalità, non sempre l'azionista occulto ha favorito l'efficienza e l'innovazione né ha saputo resistere alla tentazione di piegare l'interesse dell'impresa ai propri interessi di bottega. Il giudizio finale è ambiguo perché anche in queste imprese pubbliche, così come nelle private, si sono registrate situazioni di successo accanto a risultati fallimentari talvolta accompagnati da indecenti situazioni di arricchimento personale. In ogni caso si tratta di eventi superati dalla nuova costituzione economica elaborata nell'ambito dell’Unione europea e accettata, più o meno consapevol2 mente dalla classe politica e dirigente del Paese. La recente esperienza di privatizzazione delle imprese pubbliche ha fatto emergere nuovamente la debolezza del nostro capitalismo ossia l'insufficienza del capitale a disposizione dei grandi gruppi finanziari italiani, in prevalenza a carattere familiare. Questi non sono stati in grado di acquisire il controllo delle grandi imprese pubbliche senza l’aiuto essenziale del capitale di debito. Il disegno prevedeva di accollare i debiti contratti a questo fine sull’impresa acquisita, di superare l’iniziale crisi di liquidità ricorrendo ai fondi esistenti nell'impresa acquisita e di ridurre, nel tempo, l'indebitamento con la vendita delle imprese non rientranti nel core business. Una strategia più confacente al capitale finanziario piuttosto che al capitale industriale. La conseguenza è stata l’incertezza sulle scelte strategiche, l‘eccessiva distribuzione di dividendi e di finanza straordinaria per potere consentire al gruppo di controllo di pagare gli interessi sui debiti contratti, un’apparente sopravvalutazione delle prospettive di profitto nonostante la conclamata accresciuta concorrenza seguita alle privatizzazioni. Questa distorsione nel finanziamento delle acquisizioni ha avuto la conseguenza di ridurre il tasso di accumulazione reale delle grandi imprese industriali e di coinvolgere in questo rallentamento anche le medie e piccole imprese con riflessi negativi sui processi di innovazione. Questo, come si è accennato nell'introduzione, è uno dei quattro nodi che impediscono la crescita della nostra economia. Incerte aspettative di profitto nell'industria, mancanza d’innovazione diffusa e scarsa propensione alla concorrenza hanno spinto i grandi gruppi finanziari a vedere con favore la possibilità di subentrare allo Stato nei settori oligopolistici ed a volte monopolistici dei servizi, privati, pubblici e di pubblica utilità, purtroppo senza avere una strategia d’incremento delle infrastrutture materiali ed immateriali. A questo secondo nodo ho accennato in precedenza quando ho richiamato la mancanza di infrastrutture materiali ed immateriali fra gli ostacoli alla crescita dell'economia italiana anche se la responsabilità maggiore ricade, certamente, sulle scelte politiche e sulle amministrazioni pubbliche. Quale struttura del sistema produttivo italiano Prima di approfondire lo studio del capitalismo italiano per capire se anche in questo ambito siano necessarie riforme strutturali per favorire l'aumento della dimensione media dell'impresa italiana (4 addetti nel 2001), è opportuno ricordare che l’Italia si caratterizza per un’eccessiva frammentazione del tessuto produttivo e questa situazione ci differenzia nettamente dalla struttura prevalente negli altri paesi dell'UE a parità di sviluppo raggiunto (fra 6 e 10 addetti in media)2. M. D'Antonio, “La piccola impresa italiana: una formazione ancora vincente?”, Economia italiana, n.3/2002. GLOBAL COMPETITION sione delle TIC presso le imprese, il netto rallentamento nella dinamica della produttività, la lenta trasformazione del nostro sistema industriale nonostante la pressione delle economie emergenti nei mercati delle tradizionali produzioni italiane. Questa introduzione può aiutarci a capire tre cause che rallentano la crescita dell'economia italiana: a) la corretta valutazione del tempo necessario perché riforme così profonde possano modificare comportamenti ed istituzioni, b) se e quanto la crescita delle imprese sia condizionata da fattori finanziari e monetari ed in particolare quanto sia rilevante l’intermediazione fra risparmio ed investimento operata dalle banche oppure dai mercati finanziari, c) la più o meno consapevole resistenza al cambiamento che permane nell’imprenditoria italiana ma anche nei sindacati ed in generale nel nostro sistema politico, economico e sociale. 7 - 2006 ‹ Capitalismo e sviluppo › 13 ‹ Capitalismo e sviluppo › Tabella 1 - Imprese e addetti per classe di addetti e settore di attività economica - 1991 e 2001 - Totale ITALIA CLASSI DI ADDETTI ATTIVITÀ ECONOMICHE GLOBAL COMPETITION 7 - 2006 IMPRESE Industria in senso stretto Costruzioni Servizi TOTALE ADDETTI Industria in senso stretto Costruzioni Servizi TOTALE 14 1 -9 10 - 19 1991 3 452,2 58,1 56,4 28,1 27,5 10,7 11,0 1,7 1,6 557,2 548,7 308,7 490,2 2309,0 2902,4 3106,7 3877,8 16,2 46,8 121,7 18,9 53,3 129,4 6,3 16,4 51,2 5,4 19,7 52,9 1,6 5,4 17,8 1,2 8,2 20,6 0,2 1,0 2,9 0,1 1,6 3,3 333,0 2378,6 3300,3 515,8 2985,2 4084,0 1298,81 787,5 762,7 816,5 812,1 1031,5 1060,1 1547,0 1229,1 5481,3 5059,2 212,9 246,3 608,9 696,1 1617,1 1714,9 180,7 476,1 1481,8 152,6 582,8 1557,0 ISTAT, Rapporto annuale 2004 ISTAT, Roma, 2005, pag. 114. 1991 2001 146,1 104,9 516,4 793,7 1708,2 1972,4 1991 Totale 458,6 Il processo di riduzione della dimensione media delle imprese in termini di addetti si osserva ininterrottamente dal censimento del 1971. Le imprese italiane superano i 4 milioni di unità e sono aumentate fra il 1991ed il 2001 del 23 per cento mentre l’occupazione è aumentata solo del 13 per cento, e in prevalenza nelle imprese dei servizi vari (Tab. 1). La quota dell'occupazione delle imprese da 1-9 addetti è cresciuta di un punto ed è il 46,4 del totale, in compenso il peso dell'ultima classe (oltre 250 addetti) è passato da 21,6 a 20,2. In effetti, se si esclude la classe di addetti delle microimprese, fra il 1991 ed il 2001, si è verificato un modesto spostamento verso l'alto per le tre classi superiori ai 50 addetti anche in questo caso verso i servizi, in parte dovuto all’aumento del numero delle cosiddette grandi imprese nei settori interessati dalla privatizzazione delle imprese pubbliche (energia, trasporti, TIC e banche). Premesso che la struttura produttiva di un paese non dipende solo da decisioni autonome imprenditoriali ma è indispensabile considerare anche la tecnologia, il mercato, le relazioni industriali, per non parlare di localizzazione, infrastrutture, ecc., può essere utile richiamare alcuni dati caratteristici per capire se sia conveniente crescere in una visione di medio periodo. Da un punto di vista aggregato i dati forniti dalle indagini ISTAT3 (Tab. 2) mostrano che la produttività del lavoro cresce con la dimensione e quella della grande impresa industriale è quasi 3 volte quella della microimpresa mentre per il costo del lavoro il rapporto è solo il doppio e perciò nella grande impresa la quota del profitto è pari al 42,6 per cento del valore aggiunto contro il 18,3 per cento della microimpresa. Analoghi rapporti fra la grande impresa e la media impresa, ossia la classe immediatamente precedente, mostrano che la produttività del lavoro della grande impresa è superiore del 40 per cento a quella della media impresa mentre il costo del lavoro è superiore del 20 per cento e la quota di profitto delle medie imprese è pari a 34,5 per cento. Ne deriva che la giustificazione del nanismo delle imprese industriali italia- 2001 250 e più 2001 704,0 981,3 4556,1 5056,8 6621,7 7296,2 2001 50 - 249 1991 195,2 1991 20 - 49 2001 1991 94,0 44,0 1337,7 1501,1 1896,2 7658,6 3145,5 3172,4 14574,3 2001 1529,1 9025,6 15712,9 ne, se si esclude il vantaggio differenziale dell’evasione, non risiede nel costo del lavoro per unità di prodotto, mentre le difficoltà della grande impresa vanno trovate nella ripartizione del profitto fra imprenditori, azionisti, finanziatori, fisco. Poiché il tasso di accumulazione delle grandi imprese industriali è pari al 19,5 per cento del valore aggiunto mentre per le microimprese è il 17,0 per cento e per le medie è il 15,6 per cento, se ne deduce che le difficoltà di innovazione delle grandi imprese industriali hanno coinvolto anche le altre imprese. Nel caso dei servizi, la situazione si presenta meno chiara perché il settore è molto diversificato e, infatti, fra la prima e l’ultima classe dimensionale il differenziale di produttività è 2,0 volte quello delle microimprese mentre per il costo del lavoro il differenziale è 1,65 volte. Rispetto alle imprese medie il differenziale delle grandi imprese è del 14 per cento ed è dell’ 8 per cento per il costo del lavoro. La quota dei profitti per le imprese maggiori si commisura a 35,7 per cento contro 18,9 per le microimprese e 32,1 per le medie. Il tasso di accumulazione della classe oltre 250 addetti è il 23,8 per cento del valore aggiunto contro il 17,6 delle microimprese, ed il 20,6 per cento delle imprese medie ma in questo settore hanno un peso rilevante gli investimenti in tecnologia delle imprese di trasporto e di telecomunicazioni (Figg. 1-2). In sintesi, questi dati mostrano che la diffusione della piccola e piccolissima impresa contribuisce ad abbassare non solo la produttività del lavoro ed il tasso di accumulazione ma anche il tasso di profitto con conseguenze negative sull'innovazione e sulla competitività della nostra economia. In compenso quasi il 60 per cento dell'occupazione aggiuntiva intercensuaria si è avuta nella prima classe ed un ulteriore contributo positivo del 23 per cento viene dalla classe 50-99 addetti, mentre nelle altre classi l'occupazione varia poco. La demografia delle imprese dimostra che i tassi di natalità e di mortalità continuano ad essere elevati ma un'ana- ‹ Capitalismo e sviluppo › Tabella 2 - Imprese e addetti per classe di addetti e settore di attività economica - 2004 - Totale ITALIA Costo del lavoro per dipendente Quota dei profitti sul V.A. (comp. %) (migliaia €) (migliaia €) (%) 100,0 10,9 9,4 13,4 23,7 42,6 100,0 50,0 16,5 14,6 11,6 7,3 100,0 39,0 11,1 11,0 14,7 24,2 100,0 28,5 10,8 12,3 18,1 30,4 47,7 25,5 36,8 44,8 54,3 74,3 30,2 24,6 33,6 42,4 45,3 59,1 34,3 25,1 39,6 43,3 44,8 51,3 37,9 25,1 37,5 43,9 49,6 60,3 32,8 21,1 24,7 29,8 35,6 42,7 26,0 21,0 24,2 31,2 34,3 42,6 27,3 20,0 25,0 28,3 30,5 33,0 29,3 20,4 24,8 29,4 33,3 36,9 34,9 18,3 32,8 33,5 34,5 42,6 20,8 15,3 27,9 26,4 24,3 27,9 28,3 18,9 36,8 34,6 32,1 35,7 30,2 18,3 34,0 33,2 33,0 38,8 lisi compiuta dall'ISTAT ci mostra che dopo quattro anni sopravvive il 60 per cento delle imprese e che l'occupazione nelle imprese sopravvissute consente solo di compensare, con un lieve aumento, la perdita di occupazione delle imprese cessate, ossia le imprese sopravvissute non hanno una strategia di crescita dimensionale ma si limitano a consolidare il decollo. Perché le piccole e medie imprese non crescono e preferiscono il sommerso4 Dalla metà degli anni Settanta, gli economisti, i sociologi ma anche i politologi s’interrogano sulle dinamiche del capitalismo italiano mentre imprenditori e sindacalisti si rimbalzano la responsabilità delle difficoltà di crescita. In compenso vi è accordo nell'attribuire allo Stato, all'inefficienza delle amministrazioni pubbliche e all'eccesso di normativa, comunitaria, nazionale, locale, la creazione di ostacoli quasi insuperabili per la crescita di una piccola e media impresa. Discende da queste osservazioni che i fattori esogeni possono descrivere l’evoluzione del nostro sistema produttivo ma non chiariscono la riluttanza degli imprenditori, piccoli e medi, a crescere anche se, come si è visto, le condizioni esterne all’impresa potrebbero giustificare il salto dimensionale. 4 Valore aggiunto per addetto A questo argomento è dedicato Economia italiana n.3/2002. I distretti e le loro esternalità di aggregazione, a loro volta, rappresentano un elemento di tenuta industriale e di flessibilità dinamica, ma molti dubitano che possano sopravvivere se non emergono nuove occasioni di sviluppo. Sebbene si registrino perdite di quote di mercato in alcuni settori strategici per lo sviluppo dell’Italia, le resistenze al cambiamento riscontrate per la grande impresa si ritrovano nei distretti, seppure con tensioni sociali diverse. È lenta la ristrutturazione produttiva per uscire dai settori a bassa dotazione tecnologica, bassa qualità, bassi costi. Sta emergendo l'idea che la rete di esternalità presenti in un distretto non sia più in grado di fornire quel differenziale di benefici che li rendeva competitivi e, nonostante vi siano state esperienze di ricollocazione internazionale delle imprese leader in alcuni distretti, non sono emerse occasioni alternative di sviluppo. Altra condizione per aumentare la dimensione media dell’impresa italiana è l'emersione delle piccole imprese che operano nel sommerso, specie nei settori delle costruzioni e dei servizi. L’ISTAT stima che questa parte dell’economia italiana si commisuri ad oltre il 13 per cento del lavoro occupato con punte di oltre il 20 per cento nel Mezzogiorno e presenti percentuali del valore aggiunto superiori al 16 per cento se si tiene anche conto della sottodichiarazione del valore aggiunto da parte delle imprese regolari. Per ridurre il sommerso, Il saldo netto fra i van- 7 - 2006 Industria in senso stretto 1-9 10-19 20-49 50-249 250 e oltre Costruzioni 1-9 10-19 20-49 50-249 250 e oltre Servizi 1-9 10-19 20-49 50-249 250 e oltre TOTALE 1-9 10-19 20-49 50-249 250 e oltre Fatturato GLOBAL COMPETITION ATTIVITÀ ECONOMICHE E CLASSI DI ADDETTI 15 GLOBAL COMPETITION 7 - 2006 ‹ Capitalismo e sviluppo › 16 taggi e gli svantaggi del sommerso deve essere modificato rendendo meno conveniente la scelta dell’opacità e dell’evasione e deve migliorare il rapporto rendimento/rischio dell’impresa legale rispetto a quello dell’impresa “sommersa”. Queste indicazioni strategiche sulla dimensione delle imprese restano ininfluenti se non si traducono in decisioni imprenditoriali a loro volta influenzate anche da valutazioni di efficienza, dalla conoscenza dei mercati, dall’accesso al finanziamento, dalla crescita della componente dei servizi e dalla scelta fra make or buy nella definizione del valore dell’impresa. Questo cambiamento di strategia che impone la crescita dimensionale, l’innovazione e l'utilizzo di manodopera con elevata professionalità impone, anche, la reingegnerizzazione dei processi produttivi ed amministrativi e non sempre il piccolo imprenditore è in grado di valutare correttamente i vantaggi ed i rischi di questo cambiamento in assenza di un processo condiviso dalla maggioranza dei suoi fornitori/clienti oppure dagli altri imprenditori del distretto e finanziato dal sistema bancario. A questo punto la domanda torna ad essere se il capitalismo familiare italiano sia in grado di compiere questo cambiamento di strategia e inoltre quali iniziative (normative, tecnologiche, finanziarie, relazionali) sia opportuno prendere per agevolare il cambiamento. Figura 1 - Fatturato (quota percentuale delle classi di addetti sul totale di macrobranca) 50 45 40 35 30 25 20 15 10 5 0 1-9 10 - 19 20 - 49 50 - 249 industria in s.s. costruzioni servizi totale 250 e oltre Il ruolo dell'informazione e della governance può spiegare la preferenza per il piccolo e le difficoltà delle grandi imprese Nonostante l’indubbio richiamo politico, economico e sociale del “piccolo” e la sua presunta flessibilità, è indubbio che in un sistema economico deve esistere un equilibrato rapporto fra dimensione dell’impresa, mercato e accesso alle tecnologie. È compito dell’imprenditore selezionare la tecnologia e le risorse compatibili con il mercato di riferimento e con la concorrenza, ma in questo processo egli deve essere assi- stito da un sistema informativo che diffonda all’interno e all’esterno dell’impresa informazioni e conoscenza in relazioni agli obiettivi di profitto e alla dimensione dell’impresa. Informazione e conoscenza devono aiutare l’imprenditore ed i managers a gestire il rischio e a stimare tempestivamente sia le potenziali occasioni di profitto e sia le fonti di perdita nonché la probabilità del verificarsi degli eventi. È, anche, indispensabile che l’impresa si doti di un sistema di regole, relazioni ed informazioni fra proprietari, managers, finanziatori e stakeholders in grado di tenere conto delle strategie dei singoli operatori e trovare una soluzione di equilibrio dei conflitti potenziali (in sintesi una governance adeguata). Questi elementi si coniugano in modo differente in relazione alla dimensione dell’impresa, alla rischiosità del mercato, alla propensione al rischio dell’imprenditore, dei managers e dei finanziatori ed infine al livello professionale della forza lavoro occupata. È indispensabile un consapevole e mirato investimento in conoscenza e comunicazione per la gestione di sistemi complessi e integrati, ma proprio in questo campo si riscontrano mancanze anche nelle grandi imprese. Purtroppo, se è insufficiente la domanda di conoscenza, le cose non vanno molto meglio dal lato dell’offerta poiché essa è poco diffusa ed è costosa. Anche il ricorso alle grandi società di consulenza, di solito estere, non sempre ha portato i vantaggi attesi, nonostante le risorse impiegate, poiché è spesso mancata un’adeguata trasmissione di conoscenza fra consulenti, managers e proprietà. Se questo è il modello teorico di riferimento, forse è opportuno valutare la distanza del modello dalla prassi e capire se non vi siano soluzioni alternative, com’è sovente possibile in questo campo. Sia la piccola sia la media impresa familiare hanno una governance incentrata sull’opacità nell'informativa aziendale all’interno e all’esterno dell’impresa. Con la dimensione aumentano la visibilità e il mercato potenziale e l’accesso a tecnologie innovative, ma crescono anche i costi amministrativi, organizzativi e del personale qualificato. La decisione è, quindi, legata anche ad uno stretto rapporto incrementale tra profitto e fatturato da un lato e fra costo del personale tecnico e amministrativo, ed accrescimento della produttività e della capacità di gestione dei conflitti, dall’altro. L’esigenza di un aumento della dimensione media delle imprese riguarda pochi settori, decisivi per la competitività dell’economia: i settori esportatori, ma anche la distribuzione commerciale, per ridurre i costi d’intermediazione i trasporti, per gli elevati costi diretti ed indiretti che si scaricano sulle transazioni; i servizi delle TIC ed i servizi avanzati per le imprese, per assistere le imprese nella reingegnerizzazione dei processi. La dimensione ridotta aumenta la flessibilità, riduce il rischio operativo e obbliga ad operare in un mercato concorrenziale, mentre il salto dimensionale, con i suoi maggiori costi fissi e variabili e con i pericoli derivanti da un 80 Valore aggiunto per addetto Costo del lavoro per addetto 70 60 50 40 30 20 10 0 1-9 10 - 19 20 - 49 50 - 249 250 e oltre 1-9 10 - 19 20 - 49 50 - 249 industria in senso stretto costruzioni servizi totale 250 e oltre ampliamento delle occasioni di conflitto, interno ed esterno all’impresa, può indurre l’imprenditore a restare nel suo ambito dimensionale qualndo non abbia la ragionevole attesa di non essere coinvolto in un conflitto qualora decida di operare in un mercato oligopolistico ed amministrato. Modificare le caratteristiche del nostro capitalismo familiare è difficile e non sempre opportuno, ma, in alcuni settori, è inevitabile. Accanto ai fattori di natura economica e tecnologica richiamati in precedenza, troviamo i fattori socio-culturali. Tra i fattori socio-culturali abbiamo la diffusa preferenza da parte dell’imprenditore per una gestione dei diritti di proprietà all’interno della famiglia, semmai allargata, e un elemento di disturbo può essere il problema della successione. Inoltre, gli interessi e i collegamenti che legano l’imprenditore al territorio nel quale opera superano i meri aspetti economici e anch’essi esercitano una resistenza al cambiamento. I difficili rapporti fra capitale industriale e capitale finanziario Un altro aspetto che sovente ostacola il salto dimensionale deriva dai difficili rapporti fra industria e finanza. Il tema dell’interazione fra accumulazione, dimensione di impresa e finanziamento dello sviluppo è al centro della ricerca teorica e politica poiché, secondo Schumpeter, non può esservi innovazione senza una rottura con il passato 5. Inoltre se manca l’assistenza alla crescita da parte delle istituzioni finanziarie, si creano le condizioni per una sclerotizzazione dell’apparato produttivo a cui viene a mancare la spinta per un rinnovamento 6. Per compiere il salto dimensionale si richiede l’acquisizione dei mezzi finanziari che, se appartenenti all’imprenditore, gli garantiscono il pieno controllo dell’impresa ma ne condizionano la crescita, mentre se si ricorre al finan5 6 ziamento esterno si condivide il rischio con il finanziatore ma si introduce, anche, una perdita, seppure parziale, del controllo. È noto, ma non da tutti condiviso, che il finanziamento delle nuove iniziative interagisce con la capacità dell’impresa di generare autofinanziamento, specie per le piccole e medie imprese, e con l’aspettativa di potere accrescere quest’ultimo grazie agli investimenti e all’innovazione. Se questa aspettativa di profitto non c’è perché si basa sulla difficile situazione esistente, allora con fatica si potrà convincere il finanziatore ad investire nell’impresa; se, invece, l’impresa genera profitto allora è l’imprenditore che si porrà l’alternativa fra capitale di rischio e capitale di debito. Questi argomenti si riferiscono al finanziamento dell’innovazione sia nella piccola e media impresa e sia nella grande impresa ed in questo caso si valuta anche la probabilità di take over magari sollecitato proprio dai finanziatori, qualora emergessero difficoltà anche temporanee. In sintesi bisogna tornare ad analizzare la struttura del nostro sistema produttivo e domandarsi se il modesto tasso di accumulazione e l’insistenza sulla piccola dimensione non siano una conseguenza della mancanza di profitto e la preferenza per il sommerso non dipenda dal vantaggio che deriva dall’evasione fiscale e contributiva. In queste condizioni è impensabile che si possa assistere ad un salto dimensionale delle imprese senza una palese compartecipazione al finanziamento ed anche al rischio di emersione da parte dei finanziatori. Ossia, quella che da molti era considerata solo l’ennesima dimostrazione della slealtà e dello scarso senso civico degli italiani si dimostra per quello che è in molti casi, specie nell’industria: una strategia di sopravvivenza in una nicchia di mercato ad alta concorrenza, a bassa qualità senza effettive occasioni di crescita. Se, inoltre, il finanziatore aggiunge la richiesta di garanzie, reali e/o personali, per la copertura del rischio, l’imprenditore ha la netta sensazione, ma non è solo tale, che il suo potere ed il suo ruolo siano sotto tutela. Questa situazione mette in moto reazioni del tipo rischio morale e la conseguenza sarà una rincorsa alla riduzione del finanziamento e all’aumento del suo costo; questo convincerà l'imprenditore a restare nel suo habitat tecnologico, lavorativo, produttivo, commerciale, ecc. soprattutto ad insistere nell’opacità informativa. Nella grande impresa esiste una diversità per quanto attiene il finanziamento delle nuove iniziative, a seconda che vi sia un padrone (persona fisica, giuridica e/o gruppo) oppure vi sia una tale diffusione dei diritti di proprietà da giustificare normativamente lo scambio di informazioni fra management e proprietà, in questo ultimo caso sovente rappresentata da amministratori definiti indipen- F. Vicarelli, “Il capitale industriale e capitale finanziario”, in “La questione economica nella società italiana”, il Mulino, Bologna, 1987, pp. 271 - 293. G. M. Rey, “Sistema finanziario e sistema industriale in Italia”, in “Politica industriale e piani di settore”, F. Angeli, Milano, 1979. GLOBAL COMPETITION Figura 2 - V.A. per addetto e Costo del Lavoro per dipendente (migliaia di euro) 7 - 2006 ‹ Capitalismo e sviluppo › 17 GLOBAL COMPETITION 7 - 2006 ‹ Capitalismo e sviluppo › 18 denti. È il tema della governance che ha modificato in modo sostanziale i rapporti fra mercato, proprietà e management e tuttavia non ha portato ad un aumento del peso reale della grande impresa, anch’essa in conflitto fra trasparenza, condivisione del rischio e orizzonte temporale medio lungo per le scelte strategiche. I potenziali finanziatori sono di solito più numerosi ma anche più invasivi e con strategie di finanziamento che non necessariamente coincidono con quelle del manager oppure del gruppo familiare di controllo. Questo argomento va completato con il ruolo svolto dai finanziatori qualora partecipino ai gruppi di controllo, impliciti o espliciti, delle grandi imprese ed in questo caso il pericolo di collusione fra capitale industriale e capitale finanziario non è solo potenziale, specie se contemporaneamente assistiamo ad un processo di aggregazione nell’ambito della finanza. Finora, non è stato definito cosa s’intende per finanziatori ma le figure riferibili a questa nozione sono molteplici, perché si va dal finanziatore che trasferisce direttamente all’imprenditore la sua disponibilità finanziaria ad intermediari che aiutano gli operatori ad avvalersi del mercato per collegare le decisioni di allocazione del risparmio con le decisioni d’investimento reale, alle banche, agli istituti finanziari ed infine alle holding che detengono posizioni di controllo oppure solo posizioni di minoranza per potere avere accesso alle informazioni sulle imprese interessanti per il loro core business. Alcune di queste operazioni di finanziamento sono precluse ai piccoli e medi imprenditori, altre non sono da questi ultimi accettate perché in conflitto di interesse, per altre, infine, l’intermediario non avrebbe il vantaggio informativo e quindi sarebbero costose. Un ruolo fondamentale compete alle banche presenti sul territorio poiché esse conoscono i flussi monetari e finanziari attivati dall’impresa7, ma il razionamento del credito nei confronti delle piccole e medie imprese è una caratteristica della politica bancaria assillata dall’asimmetria informativa ed incapace di farvi fronte aumentando gli investimenti in conoscenza. Queste distorsioni nell’allocazione delle risorse sono state sovente sottostimate anche da molti economisti che giudicano concorrenziali i mercati dei capitali solo perché globalizzati e hanno un’eccessiva fiducia nella capacità di allocativa dei mercati finanziari e delle banche. Certo, le piccole e medie imprese non potranno mai avere accesso a quei mercati e forse neanche molte grandi imprese italiane a condizioni favorevoli. Il finanziamento esterno costringe l’imprenditore a condividere le sue informazioni e parte delle sue conoscenze con il finanziatore, il passo successivo porta all’inserimento di finanziatori-azionisti fra i proprietari dell’impresa e questo può creare contrasti fra proprietà e manager e fra 7 gruppo di comando e azionisti e soprattutto la redistribuzione dei diritti di proprietà farà aumentare i costi d’informazione e di controllo e quindi la trasparenza ma anche il rischio di disclosure d’informazioni strategiche. Questi conflitti potenziali hanno convinto molti imprenditori a restare piccoli e medi perché i costi informativi e la perdita di potere sono considerati molto superiori ai vantaggi attesi in termini di profitti e di costo del capitale. La concorrenza e i mercati amministrati Prima di esaurire l’indagine sulle difficoltà delle imprese italiane, e di concludere in modo semplicistico che la patologica diffusione delle piccole e medie imprese è la causa della resistenza al cambiamento del sistema Italia, è opportuno considerare l’indubbia interazione fra regole, mercato e operatori in un’economia aperta e con un grado di sviluppo avanzato. Si tratta di capire se la resistenza al cambiamento da parte degli imprenditori, di cui si sono delineate le cause e le responsabilità, non sia anche una conseguenza della forte resistenza al cambiamento nel mercato interno, e questo vale soprattutto per i mercati protetti del terziario e dei servizi di pubblica utilità. Di solito si sente attribuire la mancanza di concorrenza alle norme e alla forza politica delle lobby ma forse vale la pena domandarsi se non vi siano anche altre forze, questa volta di mercato, le quali, sfruttando la loro posizione dominante, impediscono la contendibilità del mercato visto che già la tecnologia non renderebbe economico un eccessivo frazionamento dell’offerta. In sintesi, accanto al tema della tipologia dell’impresa e alla natura del capitalismo è indispensabile trattare il tema della struttura del mercato e delle sue regole e capire le possibili interazioni fra mercato, tecnologia, operatori e dimensione d’impresa. Si tratta di valutare le conseguenze di un mercato oligopolistico per quanto riguarda i rapporti fra grandi imprese e piccole e medie imprese ma anche il ruolo che possono svolgere le grandi imprese per favorire la crescita delle PMI. Ossia dobbiamo domandarci se le condizioni esterne al mercato impediscano la crescita delle imprese oppure se non siano i residui corporativi esistenti nella nostra economia a disincentivare la crescita interna. In queste condizioni, si presenta difficile il ruolo delle diverse autorità poiché vi sono strette relazioni fra il potere delle imprese, il potere politico ed il potere delle burocrazie nazionali ed internazionali e soprattutto è alta la resistenza alla trasparenza dei nostri imprenditori, nonostante le norme ed i costi amministrativi imposti dalle strutture di controllo interne ed esterne. Le vicende della privatizzazione delle imprese pubbliche confermano la continuità del conflitto antico fra settori per i quali il profitto scaturisce dalla capacità imprendito- Purtroppo, nella ricerca della dimensione ottimale delle banche, non sempre è stato adeguatamente valorizzato il loro ruolo a livello locale, forse per la scarsa attenzione prestata alle piccole e medie imprese e per la preferenza accordata al finanziamento delle grandi imprese nonostante le esperienze negative del passato. GLOBAL COMPETITION l’invecchiamento degli imprenditori. L’interazione fra creriale di essere efficiente e di selezionare investimenti innoscita dell’impresa e suo finanziamento, fra innovazione e vativi ad elevata redditività perché glielo impone la conprofessionalità del lavoro, infine la complessità delle relacorrenza ed, invece, settori – di “rendita” – che ottengozioni e dei poteri all’interno dell’impresa richiedono una no margini elevati da vantaggi di posizione, dalla protestrategia che non può limitarsi all’enunciazione dei princizione, da accordi con i potenziali concorrenti. Il pericolo pi e alla dimostrazione dei vantaggi dell’accresciuta della “rendita” come obiettivo dell’impresa è rilevante nel dimensione dell’impresa oppure al richiamo della situaziocaso di spostamento delle risorse nel settore dei servizi, ne prevalente negli altri paesi. per favorire l’efficienza del settore industriale ma, in effetUn elemento centrale è l’analisi del ruolo svolto dalti, al solo scopo di garantire maggiore redditività alla l’informazione e dalla conoscenza, perché non è più il capogruppo. tempo nel quale all’imprenditore bastava produrre un La stessa innovazione, se non è affiancata da adeguata bene in fabbrica adesso l’offerta interna ed estera supera tutela della concorrenza, può tradursi nello sfruttamento la domanda potenziale e quindi bisogna conoscere i merdella posizione dominante acquisita dall’impresa innovacati e fornire assistenza ai clienti. trice, con modesti ritorni d’efficienza e Un elemento ulteriore è l’interazione con strategie di difesa della posizione. “L’Italia si caratterizza per Un altro pericolo per la concorrenzia- un’eccessiva frammentazione fra le imprese ed il ruolo guida che lità del settore risiede negli effetti di del tessuto produttivo e que- deve avere la grande impresa se adotta lock in che si possono riscontrare in sta situazione ci differenzia una strategia di riduzione dei costi ricorrendo all’outsourcing. In assenza molti servizi in rete, dall'informatica alle telecomunicazioni ed in tutti i casi nettamente dalla struttura pre- di una leadership nella tecnologia e di nei quali la strategia di vendita dei valente negli altri paesi dell'UE attenzione al trasferimento delle innobeni privilegi il servizio e l’assistenza a parità di sviluppo raggiunto vazioni, anche le piccole e medie rispetto ai ricavi del prodotto, come sta (fra 6 e 10 addetti in media).” imprese sono in difficoltà poiché manca loro un punto di riferimento, sia avvenendo anche nei settori maturi. come fornitori sia come produttori di beni finali. Questo pericolo non discende solo dal comportamento Il sistema bancario, a sua volta, deve affiancare gli delle grandi imprese di servizi ma sovente si riscontra imprenditori nel processo di crescita dimensionale delle anche nei mercati locali ritenuti poco redditizi dalle granloro imprese perché le piccole e medie imprese non di imprese e dominati da piccole realtà locali (es. commerhanno accesso ai mercati dei capitali e hanno bisogno di cialisti, consulenti, ecc.). assistenza nell’innovazione organizzativa. Questo breve richiamo ai possibili ostacoli che incontra Infine, i costi informativi, diretti ed indiretti, che gravano la crescita dimensionale delle imprese non sarebbe comsulle imprese al crescere della dimensione, dovuti alle propleto se non includesse l’interrogativo, apparentemente cedure di controllo e di governance, stanno generando un paradossale, di un ostacolo alla crescita delle piccole ma inesorabile spostamento del potere in mano ai controllori e soprattutto delle medie imprese messo in atto dalle granagli avvocati. Di questi aspetti bisogna tenere conto se si di imprese che vedrebbero con disfavore l’entrata di un vuole convincere gli imprenditori piccoli e medi ma anche nuovo concorrente agguerrito e magari innovatore. quelli cosiddetti grandi a compiere il salto dimensionale. Questi pochi esempi, necessariamente non esaustivi, Riprendendo quanto richiamato nell’introduzione per volevano solo dimostrare che la scarsa propensione a cresegnalare le difficoltà dell’economia italiana, si può conscere da parte delle piccole e medie imprese può essere cludere che le forze di mercato non possono compiere dovuta ai fattori socio-economici e culturali richiamati in autonomamente questi cambiamenti perché le resistenze precedenza oppure ad ostacoli normativi, ma per complesono molte e sovente giustificate, ma vanno superate. tezza di analisi andavano esposti anche gli ostacoli geneGli interventi di politica economica, quindi, non possorati dal mercato. no porsi come obiettivo solo qualche decimale aggiuntiConclusioni vo di prodotto interno lordo, ma devono creare le condizioni per superare le attuali carenze di produttività, infraAl termine di questa breve rassegna dei problemi che strutture, managerialità e servizi alle imprese per favorire coinvolgono l’imprenditoria italiana emerge che il tema l’innovazione, e fra gli obiettivi di queste politiche è indidella crescita dimensionale delle imprese italiane non può spensabile includere anche la crescita della dimensione essere risolto con incentivi fiscali oppure confidando sulmedia delle imprese. 7 - 2006 ‹ Capitalismo e sviluppo › 19 ‹ Capitalismo e sviluppo › L’ascesa della finanza. Risparmio, banche, assicurazioni: i nuovi assetti dell’economia mondiale di Silvano Andriani GLOBAL COMPETITION 7 - 2006 Silvano Andriani, economista e studioso di politica finanziaria, senatore per due legislature, è attualmente presidente del Cespi (Centro Studi di politica internazionale) e presidente della compagnia di assicurazione del Gruppo Montepaschi di Siena, Ha trasfuso le sue esperienze di analista e di manager in un volume (Donzelli editore) dal titolo L’ascesa della finanza. Risparmio, banche, assicurazioni: i nuovi assetti dell’economia mondiale, un’analisi attenta e documentata della crescita nel corso degli anni del peso della finanza e dei mercati nella vita economica anche sotto il pungolo delle innovazioni tecnologiche. L’Autore pone l’accento sulla necessità di valutare il modo in cui i processi di finanziarizzazione vengono posti in atto e il livello di controlli a cui sono effettivamente sottoposti. Abbiamo chiesto a Silvano Andriani di riassumere in questo scritto le principali conclusioni delle sue analisi sull’ascesa della finanziarizzazione dell’economia e sulle sue ricadute sullo sviluppo. 20 el libro dal titolo L’ascesa della finanza, da me pubblicato con l’Editore Donzelli, l’analisi del modello di capitalismo affermatosi in seguito alla svolta neoliberista degli anni Ottanta è condotta dal punto di vista di uno dei suoi aspetti più tipici: la finanziarizzazione dei sistemi economici. Di fronte alla crescita del peso e del potere della finanza vi sono coloro che esaltano il crescente ruolo dei mercati finanziari, in quanto garanzia di maggiore libertà e di più efficiente allocazione delle risorse, e coloro che considerano la crescita della finanza una sorta escrescenza parassitaria sul corpo sano dell’economia reale. Questa, tuttavia, deriva proprio da alcune tendenze dell’economia reale: accelerazione del processo di globalizzazione; raddoppio del debito pubblico in rapporto al prodotto lordo a livello mondiale; creazione di sistemi pensionistici a capitalizzazione; privatizzazione di imprese pubbliche; disintermediazione delle attività finanziarie attraverso un massiccio trasferimento ai mercati di rischi in precedenza mantenuti nei bilanci di banche ed assicurazioni. La finanziarizzazione a sua volta retroagisce sull’economia reale influenzandone i diversi aspetti: stabilità dei sistemi economici, distribuzione del reddito, controllo e direzione delle imprese, politica monetaria. Fenomeno analogo si verificò nell’ Ottocento. Anche allora vi fu un’accelerazione del processo di globalizzazione, anche allora crebbero il livello di finanzia- N rizzazione dei sistemi economici e l’internazionalizzazione dei flussi di capitale, il che dette luogo ad lungo periodo di crescita trainata dal capitale finanziario che realizzava progetti nelle varie parti del pianeta. Quella fase della globalizzazione finì con una serie di crisi finanziarie culminata nel 1929 con quella che dette origine alla “Grande depressione”. La conclusione fu il trionfo del nazionalismo e del protezionismo, un cambiamento radicale dei modelli di sviluppo, uno sconvolgimento degli assetti politici di un gran numero di paesi. La fase attuale presenta importanti analogie con quanto avvenne allora, ma anche notevoli differenze. La base del risparmio si è molto allargata, gli strumenti finanziari sono diventati più complessi e sono rivolti, oltre che a mobilitare risorse per gli investimenti, a coprire i crescenti rischi delle persone ed a distribuire su una platea molto più vasta i rischi, soprattutto attraverso i derivative. Per tutti sono cresciute le possibilità di indebitamento. Una delle differenze più evidenti è data dalla direzione dei flussi finanziari a livello mondiale. Nell’Ottocento i flussi netti muovevano essenzialmente dai paesi avanzati versi i paesi in via di sviluppo, ora gli Usa assorbono i due terzi dei flussi netti mondiali e l’insieme dei paesi a modello anglosassone – Usa, Uk, Australia, Nuova Zelanda, Irlanda – ne assorbe la quasi totalità. Oggi i paesi anglosassoni hanno assunto il ruolo di consumatori e di debitori di ultima istanza, mentre i paesi asiati- ci vanno assumendo il ruolo di produttori di manufatti. Il paradosso è che i paesi poveri stanno finanziando i consumi dei paesi ricchi. Per quanto riguarda l’impatto che la finanziarizzazione ha sulla stabilità dei sistemi economici, assistiamo al ritorno delle crisi finanziarie. La prima grande crisi, verificatasi all’inizio degli anni Ottanta, fu crisi del debito pubblico generata dalla svolta della politica monetaria e dal drammatico aumento dei tassi di interesse. A partire dalla crollo di Wall Street del 1987, seguito poi dalle crisi giapponese, messicana, del sud-est asiatico, russa, brasiliana, e dal nuovo crollo di Wall Street nel 2000, si è ripresentato un tipo di crisi, frequente nell’Ottocento, consistente nell’esplosione di bolle speculative mobiliari ed immobiliari. Qui il debito pubblico non c’entra, semmai c’entra un eccesso di indebitamento privato. Le istituzioni economiche internazionali hanno stentato a realizzare la novità ed hanno sbagliato i primi interventi, dopo si sono concentrate sull’impegno di rendere più stabili i sistemi finanziari soprattutto nei paesi in via di sviluppo. Tutto ciò non ha impedito il ripetersi delle crisi che, tra l’altro, hanno origine soprattutto dal modo in cui grandi masse finanziarie sono gestite nei paesi avanzati. Oggi è importante chiedersi in quale misura il persistere di squilibri strutturali nell’economia mondiale stressa i mercati finanziari e favorisce il prodursi delle crisi finanziarie. In fondo gli accordi di Bretton Woods riduzione della quota di reddito nazionale assegnata al lavoro ed è alla base della forte crescita del rapporto tra valore della ricchezza patrimoniale e prodotto lordo. Ad essa si aggiunge il fatto che il prevalere, soprattutto nei paesi emergenti, di modelli di sviluppo trainati dalle esportazioni genera un distacco tra le aree del paese più favorevolmente collocate rispetto a questo tipo di sviluppo e le altre. Queste tendenze di mercato sono state in molti paesi rafforzate da indirizzi di politica economica rivolti a ridurre la pressione fiscale e la progressività dei sistemi fiscali. I paesi scandinavi, tuttavia, che realizzano le performance economiche migliori d’Europa ed hanno i livelli di benessere più alti al mondo, dimostrano che è possibile mantenere un forte controllo politico sulla distribuzione del reddito ed inserirsi efficacemente nel processo di globalizzazione. La crescita delle disuguaglianze comporta una perdita di funzionalità del modello distributivo in quanto la concentrazione del reddito e della ricchezza fa sì che una parte crescente della popolazione resti priva dei mezzi per realizzare le proprie capacità. Qualcuno ha parlato di scomparsa dei ceti medi. Inoltre, coloro che si vedono distaccati nel livello di reddito si indebitano per non aumentare il distacco nei livelli di consumo e coloro nelle cui mani si concentra la ricchezza si indebitano per acquisire nuovi beni patrimoniali, tutti usano il maggiore valore della ricchezza patrimoniale come leva per l’indebitamento. La crescita sistematica del livello di indebitamento degli Stati e dei privati cui si aggiunge l’indebitamento dei paesi anglosassoni verso il resto del mondo, è la manifestazione più evidente della scarsa funzionalità dell’attuale modello distributivo che non genera un adeguato livello della domanda mondiale senza un sistematico aumento dell’indebitamento. E ci sono seri dubbi sulla sostenibilità di tale modello distributivo. Quanto all’impatto della finanziarizzazione sul controllo delle imprese, si è passati da una fase, quella fordista, nella quale la governance delle imprese era determinata dall’equilibrio di potere fra chi gestiva l’impresa ed i sindacati dei lavoratori ad un’alleanza tra chi gestisce ed il capitale finanziario. Nei fatti si è verificato una carenza di bilanciamento del potere all’interno delle imprese che è alla base degli scandali societari verificatisi in molti paesi. Il capitale, finanziario opera invece attraverso i mercati promuovendo take over ostili o acquisizioni e fusioni di imprese e modificando così la conformazione stessa del sistema delle imprese. Le grandi imprese, in seguito alla crescita dei profitti, si conglomerano assumendo esse stesse funzioni di allocazione finanziaria. Anche il confine tra banche ed assicurazioni diventa più labile in seguito alla convergenza delle rispettive attività. Il tutto è dominato da un approccio di breve periodo alimentato anche dalle modalità di funzionamento dei sistemi finanziari, Questi, mentre hanno creato prodotti innovativi per coprire nuovi rischi e per distribuirli su una platea molto più ampia, hanno d’altro canto accentuato alcune attitudini speculative ed il distacco dall’economia reale, e possono trovarsi in conflitto di interesse nei confronti della clientela. Rispetto ai problemi individuati il libro avanza qualche proposta di discussione e di ulteriore ricerca nella consapevolezza derivante dal passato che la globalizzazione, contrariamente a quanto spesso si afferma, non è un processo irreversibile e che per assicurarne la prosecuzione bisogna conoscere le contraddizioni dell’attuale modello di sviluppo. GLOBAL COMPETITION erano focalizzati proprio sulla necessità di impedire il perdurare di squilibri strutturali nella consapevolezza, tratta dall’esperienza precedente, del rischio di crisi che ciò comporta. Questo pilastro è andato smarrito con la liquidazione del sistema di regolazione creato a Bretton Woods. Il fatto che l’instabilità dei sistemi economici tenda a non manifestarsi più attraverso l’inflazione, come accadeva negli anni Settanta, ma attraverso la formazione di bolle speculative e conseguenti crisi finanziarie ha riaperto il dibattito sulla politica monetaria, che nel tempo è stata focalizzata sull’obiettivo di controllare l’inflazione. Il formarsi di bolle speculative, tuttavia, mette in evidenza un tipo di inflazione che riguarda beni patrimoniali non compresi negli indici esistenti. Alcuni si chiedono se la politica monetaria non debba contrastare anche questo tipo di inflazione. Su questa questione le due principali banche centrali si sono divise in quanto la Federal Reserve ritiene che non sia compito delle banche centrali influenzare i mercati mobiliari ed immobiliari, mentre la Banca Centrale Europea tende ad assumere un atteggiamento più attivo, anche se intende intervenire solo indirettamente sulla base di alcuni indicatori che possono avvertire circa il formarsi di bolle speculative, a cominciare dalla misurazione degli eventuali eccessi di indebitamento privato. Un tale atteggiamento può rafforzare la tendenza a non dare peso adeguato alle esigenze di sviluppo, ma l’esperienza ci dice che la creazione di un ambiente macroeconomico favorevole allo sviluppo nella stabilità non può essere ottenuto con la sola politica monetaria, dipende dall’orientamento complessivo della distribuzione del reddito. Nel libro, infatti, il tema dell’impatto della finanziarizzazione sulla distribuzione del reddito viene affrontato soprattutto considerando la funzionalità dei modelli distributivi rispetto alle esigenze di sviluppo. Il modello distributivo di tipo socialdemocratico, politica dei redditi e politiche fiscali molto progressive esplicitamente dirette ad impedire un eccesso di concentrazione del reddito e della ricchezza, era molto funzionale allo sviluppo. Ora il dato principale è la generalizzata crescita delle disuguaglianze soprattutto all’interno di ciascun paese. La causa principale del fenomeno è lo spostamento dei rapporti di forza tra capitale e lavoro che ha comportato quasi dappertutto una sostanziale 7 - 2006 ‹ Capitalismo e sviluppo › 21 ‹ Capitalismo e sviluppo › RIFONDAZIONE DEI DISTRETTI VIA OBBLIGATA PER IL RILANCIO Dopo un’attenta analisi della realtà odierna dei distretti industriali, sviluppata in un’ottica da economista d’impresa piuttosto che da economista industriale, l’Autore formula una serie di specifiche proposte per dare vita a quella che chiama la “via italiana alla globalizzazione”. Occorre oggi una vera e propria rifondazione dei sistemi distrettuali in piccole imprese. E per conseguire l’obiettivo è necessaria 7 - 2006 degli interventi e delle risorse umane, tali da consentire a livello di impresa e di sistema GLOBAL COMPETITION l’introduzione di provvedimenti di liberalizzazione e di meccanismi di mobilità dei capiali, tenuto conto delle nuove condizioni dell’economia e della finanza a livello globale. 22 paese una diversa, più efficiente allocazione generale delle risorse, distretti industriali, quali agglomerazioni spaziali di Le virtù ed i meriti del capitalismo distrettuale sono imprese specializzate in determinati settori produttivi, ampiamente noti e gli studiosi e gli analisti ne hanno tratteggiato con dovizia tutte le sue diverse componenti e sono un fenomeno da tempo conosciuto, ma in nessun sfaccettature economiche, sociali, ambientali. Questo paese hanno assunto una diffusione ed una rilevanza sforzo di evidenziazione è stato particolarmente fruttifero come in Italia, dove costituiscono il cuore dell’industria a partire dagli anni Settanta allorché, a fronte di una conmanifatturiera e l’asse portante del cosiddetto made in Italy. tinua crescita e affermazione dei sistemi distrettuali, ha La possibilità di fare industria con piccole imprese, avuto inizio in Italia un progressivo declino della grande facendo leva sulle economie esterindustria, che non ha saputo ne territoriali per ottenere alti livelli sostenere l’impatto di valori spinti di efficienza e flessibilità produttiva, al cambiamento ed al consolidasuperando i limiti delle dimensioni mento strutturale, quali il progresridotte dei singoli operatori, è la via so tecnologico e organizzativo, la attraverso cui l’Italia è riuscita, a parconcentrazione industriale e tire dal secondo dopoguerra, a trafinanziaria, la liberalizzazione dei sformare la propria struttura economercati e l’internazionalizzazione mica da paese agricolo a paese dell’economia. Così, accumulanindustriale, dando vita nelle regioni dosi un progressivo divario dalle RICCARDO VARALDO del Centro-Nord-Est ad una forma economie più avanzate, in fatto di di industrializzazione del tutto origimodello del sistema industriale, il Presidente della Scuola Superiore Sant’Anna nale. Ne è scaturito un modello di capitalismo distrettuale è venuto di Pisa; Consigliere di Amministrazione Finmeccanica, Piaggio e Banca CRFirenze. istituzionalizzazione e organizzazioalla ribalta, oltre che per i propri Docente di Economia e Management ne del sistema economico, produttimeriti, anche per i demeriti della dell’Impresa, Direttore della rivista Mercati e vo e finanziario, quello del capitaligrande industria, diventando la Competitività e Co-direttore della rivista smo distrettuale o del terzo capitalicomponente prospera e vitale delEconomia e Politica Industriale. È membro del smo, che si è affiancato con succesl’economia italiana, l’asset a cui board dell’Italy-Japan Business Group. Si è interessato ed è autore di libri, articoli e contributi so al capitalismo privato e al capitaaffidare per gran parte le sue sorti. di economia industriale, delle strategie compelismo pubblico delle grandi imprese, L’impalcatura distrettuale del titive, di management dell’innovazione e dei che con alterne vicende hanno sistema economico e produttivo distretti industriali. segnato la storia industriale italiana. italiano da qualche tempo sta I Da un modello distretto-centrico a un modello impresa-centrico: un passaggio obbligato ma difficile da concretizzare I distretti industriali hanno fatto le fortune non solo dell’economia italiana ma anche di molti ricercatori e studiosi. La prima ne ha tratto una spinta importante per l’industrializzazione diffusa, la crescita e l’internazionalizzazione. I secondi vi hanno trovato un campo assai fertile di investigazione e di analisi teorica, portando alla ribalta in campo internazionale l’immagine dell’Italia come “paese dei distretti industriali”. Nelle altre economie avanzate, ed in specie negli Stati Uniti, l’economia industriale è una disciplina che è nata e si è sviluppata in funzione e attorno al fenomeno delle grandi imprese, ed ai relativi problemi di governance, di regolazione, di management e di finanziamento. In Italia, a parte alcuni meritevoli studi con questo tipo di impronta, attorno agli anni Settanta, quando le grandi imprese avevano raggiunto un certo peso e creato aspettative, la disciplina dell’industrial organization non ha avuto un tal tipo di impostazione. Si è invece avuta una abbondante ed eccezionale produzione di studi e ricerche riguardanti il mondo dei distretti industriali e dei sistemi produttivi di piccole imprese. E questo ha portato a privilegiare negli studi la dimensione macro, di sistema, piuttosto che la dimensione micro, di impresa, ovvero il lato del complesso piuttosto che il lato fattuale, strategico e funzionale delle unità che lo compongono. La visione del distretto come unità indistinta è propria di una fase storica in cui il sistema paese ed a cascata i vari sistemi distrettuali godevano di fattori naturali di competitività che assicuravano condizioni di vantaggio ai nostri prodotti sui mercati internazionali, tali da poter far concentrare l’attenzione delle unità distrettuali sul produrre piuttosto che sul vendere e sull’inserimento diretto nei paesi esteri. In tale contesto, il distretto industriale come “macchina produttiva” poteva esprimere al meglio le sue capacità e le sue virtù come aggregato di tante piccole imprese operanti in sinergia nell’ambito di una data filiera produttiva, ciascuna dedita a svolgere una particolare operazione, produrre un certo componente od assemblare un insieme di parti per realizzare un prodotto. Questo tipo di organizzazione distretto-centrica, che vedeva nel distretto come unità un protagonista egemone, denuncia oggi evidenti limiti e difficoltà. Di fronte al ridimensionamento della competitività del sistema paese e alle profonde trasformazioni in atto nell’economia mondiale, sono evidenti i problemi di tenuta competitiva per la “macchina distrettuale”. Nel contesto sono le economie interne e le strategie di impresa che diventano un fattore chiave nel competere su mercati complessi, sempre più affollati e concorrenziali. L’impatto del cambiamento sulla tenuta complessiva del sistema distrettuale è particolarmente duro. Oggi nei distretti sono venuti per gran parte meno i fattori di armonia e coesione che a lungo hanno costituito il loro punto di forza, assicurando benefici diffusi per tutti gli operatori e per l’intera comunità. Sono in atto al loro inteno forze e meccanismi di selezione spinta delle imprese, trainati della nuova concorrenza internazionale dei grandi paesi, come la Cina e l’India, che si sono affermati come imponenti piattaforme manifatturiere. In questo contesto, molti ritengono che possibilità di recupero e rilancio ci siano a livello delle imprese che riescono ad emergere dal collettivo distrettuale con proprie competenze, capacità e distintività, piuttosto che a livello dei distretti come grande macchina produttiva. La fase critica che sta vivendo il capitalismo distrettuale, con il passaggio da un modello distretto-centrico a un modello impresa-centrico, sta preoccupando non solo gli imprenditori, ma anche i ricercatori e gli studiosi. Gli uni perché sono disorientati dal passaggio e non sanno individualmente “cosa fare“ per uscire dalla crisi, mentre stenta a concretizzarsi una capacità evoluta di “fare squadra”. Gli altri perché non sanno “come studiare” i distretti nelle nuove condizioni in cui si trovano e nelle nuove configurazioni a cui tendono o dovrebbero conformarsi. Gli studiosi di economia e sociologia industriale in grande maggioranza si sono impegnati soprattutto a capire e GLOBAL COMPETITION vacillando, con tutte le conseguenze negative ben note sotto il profilo della competitività e della crescita. L’entusiasmo [nei] e per i distretti industriali è progressivamente calato, mentre ci si interroga sul loro futuro e su cosa fare in concreto per il loro rilancio. In questa sede ci si ricollega a questo dibattito per offrire spunti di analisi e di riflessione che guardano al distretto da un’ottica da economista d’impresa piuttosto che da economista industriale, nell’intento di individuare i nodi critici e le debolezze strutturali dell’organizzazione distrettuale. La globalizzazione dell’economia e dei mercati, con la progressiva digitalizzazione dei sistemi operativi e dell’organizzazione aziendale, ha introdotto elementi di discontinuità nel modo di fare industria e di fare impresa, che sembrano difficilmente assimilabili nelle realtà distrettuali, così strutturalmente dipendenti da tipologie di imprese che per dimensione, assetto proprietario, struttura finanziaria, competenze possedute non sembrano attrezzate per affrontare le sfide del nuovo secolo. Nel compiere questo tipo di analisi si cerca di evidenziare perché e come occorra guardare oltre il tradizionale assetto dell’organizzazione distrettuale, dove la sua forza era assicurata dalla presenza di una folla di piccole e piccolissime unità operative, perchè l’attuale momento storico impone di operare selettivamente nel far emergere dalla “foresta” gli “alberi” dotati di un maggiore potenziale di cambiamento e di crescita, con la prospettiva di costituire forze di traino anche per la rifondazione e il rilancio dei distretti industriali. 7 - 2006 ‹ Capitalismo e sviluppo › 23 GLOBAL COMPETITION 7 - 2006 ‹ Capitalismo e sviluppo › 24 spiegare perché il “calabrone potesse volare”. Il loro interesse è stato così rivolto ad indagare le ragioni economiche e sociali della sostenibilità e del successo di una organizzazione industriale peculiare, tutta centrata su piccole imprese, sostanzialmente atipica rispetto ai modelli più conosciuti e diffusi negli altri paesi avanzati, fondati su medie e grandi imprese. Oggi non c’è più tempo per fermarsi a gioire del fatto che, a dispetto delle leggi della aerodinamica, il “calabrone vola” o addirittura per cercare di dimostrare che i distretti sanno volare meglio delle nostre poche grandi imprese. I molti, entusiasmanti risultati che i distretti industriali sono riusciti a conquistare, ad esempio sul piano occupazionale e nell’export, nel particolare mondo industriale italiano, per meriti propri o per demerito di altri (le grandi imprese), sono noti e riconosciuti. Purtroppo sono meriti che oggi non fanno più notizia. Il motivo è chiaro: la formula distrettuale, nella sua concezione canonica di stampo marshalliano, manifesta chiari sintomi di crisi. E si tratta di una crisi profonda che, per evitare di renderla irreversibile, deve essere innanzitutto percepita e riconosciuta nella sua effettiva portata e gravità. Il che non è purtroppo sempre vero. Di fronte al concreto pericolo di un declino rovinoso non c’è una visione comune per la rifondazione e la rinascita del capitalismo distrettuale, né da parte degli operatori e dei policy makers, né da parte degli studiosi “distrettologi”. Sono invece presenti e stentano a morire visioni e interpretazioni del fenomeno della crisi che non lasciano a ben sperare. La permanenza di concezioni e visioni superate: una pericolosa deriva Volendo schematicamente rappresentare il pericolo di abbandonarsi al corso degli eventi è utile entrare nel merito di alcune interpretazioni dei fenomeni di cambiamento in corso nell’ambiente economico su scala internazionale che evidenziano in modo eloquente il ritardo culturale con cui il mondo imprenditoriale dei distretti affronta le nuove sfide. Una prima visione distorta della realtà è quella di impronta congiunturale, propria di piccole imprese poco strutturate, con orizzonti temporali ristretti, che privilegiano i costi variabili e che rifuggono dal compiere investimenti di lungo periodo. I loro guadagni sono ritenuti abbastanza confortanti nei periodi di alta congiuntura, mentre le perdite possono essere contenute nelle fasi calanti del mercato data la loro struttura snella, poco gravata da costi fissi. Così facendo tendono a “galleggiare sulla congiuntura”, nella speranza che a fasi negative si alternino fasi favorevoli. Questo tipo di ottica congiunturale continua a persistere nei distretti, per la tendenza a conferire alla crisi in atto una interpretazione riduttiva, senza capire che le cose sono sostanzialmente e irrimediabilmente cambiate. Figura 1 - Distretti industriali per ripartizione geografica al 2001 NORD OVEST NORD EST 42 39 CENTRO 49 MEZZOGIORNO 26 Fonte: Elaborazione su dati ISTAT I trends di mercato continuano a manifestare ovviamente fasi alterne di natura congiunturale, per cause connesse al ciclo dell’economia internazionale e dei vari suoi settori, ma ciò che conta per noi è il fatto che da circa un ventennio le quote di mercato dei distretti sul business mondiale dei settori manifatturieri di loro specializzazione sono sistematicamente e progressivamente calanti. Il che denota una perdita di competitività relativa. Una percezione di regresso strutturale, anche se è presente nei distretti, non è comunque tale da far scattare reazioni e interventi adeguati, lasciando così le cose in balia degli eventi. Un secondo modo di rinviare i problemi deriva da una visione attendista di fronte al successo dei nuovi paesi, apparsi prepotentemente sulla scena mondiale come grandi produttori ed esportatori di prodotti low-cost. Lo si ritiene troppo di frequente un fenomeno temporaneo e limitato ad una fascia di mercato diversa e lontana da quella dove sono o si ritiene che siamo posizionati i prodotti del made in Italy. La conseguenza è dannosa: si pensa di essere nel giusto nell’affidarsi alla speranza che possa ridursi la forza competitiva dei nuovi players a mano a mano che i loro costi del lavoro aumenteranno, che verranno introdotte normative per la tutela dell’ambiente e il miglioramento dei salari e delle condizioni di lavoro, e così via. In sostanza, nell’attesa che anche gli altri vengano frenati e penalizzati dai nostri lacci e lacciuoli, con un conseguente possibile riallineamento delle posizioni competitive, ci sono imprenditori che resistono, nella speranza di un dopo meno sfidante, anziché cercare di uscire dal tunnel oggi. Auspicare e chiedere una riduzione dei differenziali di costo del lavoro e del dumping sociale e ambientale nei nuovi paesi è giusto e doveroso, nel tentativo di contribui- Figura 2 - Addetti manufatturieri nei distretti industriali per ripartizione geografica al 2001 NORD OVEST 799.420 NORD EST 654.846 CENTRO 382.857 MEZZOGIORNO 90.479 Fonte: Elaborazione su dati ISTAT aver vissuto tentativi di sviluppo e organizzazione delle attività in modo industriale, che non sono mai stati realizzati in senso proprio. Puntare su nicchie senza avere la capacità di coltivarle e sfruttarle a livello globale, con adeguate competenze e capacità, significa cercare vie per sopravvivere, rischiando l’emarginazione nel mercato senza prospettive di crescita. È questa a ben vedere una delle cause per cui l’economia italiana langue e soffre di una cronica incapacità di crescita, essendo troppo dipendente da miriadi di piccole e piccolissime unità che hanno visto ulteriormente ridursi le loro già contenute capacità di crescita. Queste tre diverse visioni sono figlie di una cultura imprenditoriale che stenta ad abituarsi all’idea che occorra “cambiare il modo di fare impresa” perché i tempi lo impongono. Sono impostazioni limitate alla pura sopravvivenza e al galleggiamento, che si collocano al di fuori delle esigenze di crescita che assillano il paese e di un disegno di rilancio della sua economia che passa anche da una rifondazione del capitalismo distrettuale. Le tre direttrici di marcia per la rifondazione distrettuale Non condivido le profezie che annunciano la scomparsa dei distretti. Ritengo invece che essi costituiscano una componente non solo insostituibile del panorama industriale italiano ma anche fondamentale, ai fini del rilancio dell’economia italiana. Non abbiamo, come paese, tradizioni manifatturiere solide e di eccellenza al di fuori di quelle radicate nei sistemi locali di piccole imprese ed in specie nei distretti. E si tratta di un asset sul quale è giocoforza far leva se vogliamo mantenere un posto nella graduatoria mondiale dei grandi paesi industriali. I distretti industriali sono 156 nel 2001 ed occupano 1.928.602 addetti, pari al 70,2 per cento dell’intera occupazione nell’industria manifatturiera italiana. Il Centro Italia è la ripartizione geografica dove il modello distrettuale è più presente (Fig. 1), ma è il Nord-Ovest che conta il maggior numero di addetti manifatturieri nei distretti industriali (Fig. 2), per una maggiore presenza di medie e grandi imprese. Le industrie principali dei distretti industriali (Fig. 3) sono quelle tipiche del made in Italy: la meccanica; il tessile e abbigliamento; i beni per la casa; le pelletterie e calzature; l’oreficeria. I distretti così caratterizzati sono 148 (il 94,8 per cento del totale), con 1.810.717 addetti manifatturieri (il 94 per cento del totale). Per guardare in avanti in modo serio e fondato occorre superare il ritardo accumulato nel capire fino in fondo il cambiamento di scenario e le cause profonde della crisi distrettuale. Solo così è possibile darsi un quadro di riferimento coerente e sistemico, allo scopo di delineare proposte che non siano dei semplici palliativi, ma che cerchino di affrontare taluni nodi critici dell’attuale assetto strut- GLOBAL COMPETITION re alla formazione nel loro ambito di una legislazione e cultura di impresa più avanzata, più attenta ai diritti umani, alla tutela ambientale ed all’etica degli affari e della concorrenza. È questo un problema all’attenzione non solo dei paesi europei, pressati dalla concorrenza senza limiti e senza vincoli delle importazioni low-cost dai nuovi paesi, ma anche delle grandi multinazionali americane che più si riforniscono in tali paesi. La Wall-Mart Stores/Inc., la grande catena di distribuzione degli Stati Uniti, ha denunciato recentemente un livello di violazione degli standard per il lavoro e l’ambiente in più di sessanta paesi dove acquista articoli di abbigliamento, giocattoli, calzature ed altri prodotti. L’introduzione di nuove regole di auditing delle fabbriche dei fornitori ha inoltre portato ad un aumento dei casi accertati di violazione ad alto rischio: nel 2005 hanno riguardato il 52 per cento delle rilevazioni, mentre nel 2004 incidevano per il 36 per cento dei casi. Se è opportuno muoversi nella direzione indicata, richiedendo interventi e provvedimenti adeguati, a tutti i livelli, non è peraltro saggio attendere questo tipo di normalizzazione legislativa e regolamentare come via di uscita dalla caduta di competitività, che è causata dalla crisi strutturale che i nostri sistemi distrettuali hanno di fronte. C’è infine una terza visione, quella minimalista, di chi ritiene di potersi ritagliare nicchie e sub-nicchie di produzione e di mercato, accontentandosi di ordini molto ridotti e spezzetati, da soddisfare in tempi estremamente ridotti. È il “regno dell’immaginario delle nicchie” come mezzo di sopravvivenza, con la consapevolezza di doversi accontentare di volumi sempre più ridotti. Si tratta di un atteggiamento comune negli ambienti in cui è rimasta radicata una cultura dell’artigianato che ritorna in auge dopo 7 - 2006 ‹ Capitalismo e sviluppo › 25 ‹ Capitalismo e sviluppo › Figura 3 - Addetti manifatturieri nei distretti industriali secondo l’industria principale al 2001 186.680 Pelli, cuoio e calzature 116.950 Oreficeria e strumenti musicali 48.585 Prodotti in gomma e plastica 35.996 Cartotecniche e poligrafiche 33.304 Alimentari GLOBAL COMPETITION 7 - 2006 382.332 Beni per la casa 26 587.320 Meccanica 537.435 Tessile e abbigliamento Fonte: Elaborazione su dati ISTAT turale e funzionale dei distretti. Ci sono a ben vedere da prendere in considerazione le discontinuità che si sono formate, nel corso degli ultimi anni, rispetto al periodo della golden age, per quanto concerne: - il modello di crescita proprio dei distretti, per quanto riguarda l’ampliamento e l’organizzazione dell’offerta, rispetto alla dinamica della domanda; - il modello competitivo tipico delle realtà distrettuali, oggi messo a dura prova dai nuovi trends dell’economia mondiale e dall’entrata sulla scena di nuovi grandi players, come la Cina e l’India, dotati di grandi capacità e forze propulsive; - il business model prevalente nei distretti, fortemente centrato su fattori hard e poco su fattori soft, in quanto ancorato alla “fabbrica” e poco orientato all’innovazione di valore ed al presidio dei mercati di sbocco. Su queste tre aree problematiche merita soffermarci, facendo rinvio ad altre fonti per eventuali approfondimenti in materia (R. Varaldo, 2005 e 2006). i. La crescita dei distretti, trainata da una forte dinamica della domanda internazionale dei prodotti del made in Italy, si è realizzata attraverso un progressivo ampliamento della capacità produttiva, ottenuto tramite la proliferazione delle unità operative, piuttosto che con una crescita dimensionale delle imprese. Questo ha portato ad una estrema polverizzazione del tessuto imprenditoriale, indotta e facilitata dall’ambiente proprio dei distretti, mentre non sono state attivate le politiche e le capacità per far nascere e crescere imprese più strutturate e più dotate in fatto di competenze e risorse. Questa carenza oggi costituisce uno dei più gravi limiti ai fini di una strategia di rilancio del capitalismo distrettuale. D’altro canto, la presenza di resistenze irriducibili alla crescita dimensionale, alle aggregazioni ed alle fusioni fra imprese, nonché alle alleanze strategiche cross-border, non lascia ben sperare. I nostri distretti, tanto forti in apparenza, se visti come entità unitarie, hanno da sempre covato in seno i germi di una intrinseca debolezza strutturale, che solo ora sta emergendo in tutta la sua portata e gravità. Rendersi conto di questo vincolo ed operare per ridurlo con politiche di sostegno e di incentivazione della crescita dimensionale, per vie interne e soprattutto per vie esterne, è una pre-condizione di una strategia di rilancio dei distretti industriali capace di far loro riprendere un nuovo sentiero di crescita, nel quadro dell’economia mondiale. Le realtà distrettuali più vitali sono oggi quelle dove sono in atto processi evolutivi di questo tipo, atti a far emergere dall’anonimato distrettuale imprese di medie dimensioni, con una propria identità, capaci di avvalersi e di valorizzare competenze manageriali di alto profilo, e dotate dei mezzi e delle risorse per inserirsi e competere nel mercato globale. Sono imprese che in genere non nascono dal nulla, a prato verde, bensì attraverso mirate operazioni di aggregazione e consolidamento strutturale, estese di frequente a reti di fornitori e sub-fornitori, capaci di assicurare vantaggi di flessibilità, apporti creativi ed alti livelli di capacità manifatturiere. È questo, a ben vedere, il modo in cui gli asset distrettuali possono trovare un nuovo posizionamento nel sistema industriale italiano, attraverso il loro inserimento nelle strutture a rete di imprese che sanno adottare questo tipo di “strategie di assemblaggio strategico”. Le “nuove imprese distretto”, mentre sanno valorizzare al meglio le economie dei sistemi distrettuali di piccole unità produttive, hanno nelle economie di integrazione interaziendale e nelle esternalità di rete, frutto della condivisione di dati, informazioni e servizi, una nuova fonte di vantaggi competitivi. Naturalmente, per raggiungere obiettivi di questa portata è indispensabile fare affidamento sulla forza di Internet e dei software gestionali più avanzati, come leva di aggregazione e di integrazione, puntando a conseguire vantaggi per l’impresa capofila (direct network effect) e per le altre imprese inserite nella sua catena del valore (cross network effect). Il che implica uno sforzo complessivo di ridisegno delle filiere e delle reti per favorire un impiego intelligente delle nuove tecnologie dell’informazione e delle comunicazioni. D’altro canto, le banche e le istituzioni finanziarie sono chiamate a svolgere un ruolo particolare nell’assecondare, promuovere e supportare strategie di assemblaggio strategico nel nostro sistema industriale. Data la situazione di estrema frammentazione del tessuto imprenditoriale, con diffuse situazioni di sottocapitalizzazione, ciò che ‹ Capitalismo e sviluppo › iii. C’è in terza istanza, per dare coerenza e sostenibilità ad un nuovo disegno per la crescita e la competitività, l’esigenza di guardare a nuovi business models per le imprese. La creazione di una autonoma e sistematica capacità di innovazione di prodotto e di crescita sul mercato implica di guardare oltre la tipica struttura tangible-intensive, come sbocco di un preciso e sistematico percorso strategico di riorganizzazione del business model, integrando la manifattura con investimenti intangibili (ricerca, innovazione, branding, marketing, servizi, ecc.). Occorre in sostanza passare da un modello tradizionale di impresa, fabbrico-centrico, ad un modello di impresa a più alta intensità di intangible assets. Tutto ciò trova ragione nel fatto che le fonti del valore sono cambiate e tendono sempre più ad essere connesse a: - investimenti sistematici e prolungati nel campo della ricerca, del disegno e dell’innovazione, necessari per spostare in avanti ed elevare il tasso di creatività, originalità, perfezione tecnica e prestazionale dei prodotti; e questo per esercitare una difesa attiva nei confronti dei prodotti dei paesi emergenti; - idonee forme di tutela della proprietà intellettuale delle invenzioni, delle idee e dei disegni, da concretizzarsi in brevetti, marchi di fabbrica, copyright , o quant’altro utile; di fronte al diffondersi di pratiche di imitazione e contraffazione queste sono misure legali necessarie, ancorché non sufficienti, per le imprese che fanno degli investimenti in ricerca e innovazione uno dei loro punti di forza; - investimenti nella comunicazione e nel marketing per assicurare e promuovere l’identificazione, la valorizzazione e la difesa attiva dei prodotti sul mercato, nei confronti dei consumatori, a livello di immagine e di brand; - investimenti per la penetrazione e la presenza nelle reti commerciali e sui punti di vendita, cioè laddove si riescono a gestire le leve per ottenere maggiori e più forti fattori attrattivi e legami con i consumatori. Promuovere e realizzare la formazione di imprese capaci di adottare un business model di tipo diverso, fondato su questi “pilastri” (innovazione, difesa della proprietà intellettuale, investimenti di marketing e sui punti di vendita) costituisce un passaggio obbligato per non disperdere un patrimonio manifatturiero di eccellenza qual è quello presente nei nostri distretti industriali. La globalizzazione è una potente leva per una generale riorganizzazione del business model distrettuale. Sempre 7 - 2006 ii. L’esigenza di avere imprese con una loro identità ed autonoma capacità di crescita emerge in termini evidenti guardando alla seconda direttrice di intervento che riguarda il modello competitivo dei distretti industriali. In presenza della digitalizzazione dell’economia, dell’accresciuta pressione competitiva e della globalizzazione dei mercati sono sempre più determinanti le capacità di innovazione, di relazione e di internazionalizzazione che si accumulano nelle imprese e che vengono alimentate con continui investimenti. In questo quadro, la performance competitiva delle imprese diventa un fattore chiave mentre le imprese più dotate sono destinate a giocare un ruolo chiave nella competitività delle economie distrettuali, tramite nuovi modi di relazionarsi e integrarsi con i tessuti imprenditoriali locali. Stiamo in sostanza assistendo al passaggio da una situazione in cui i fondamenti della competitività stavano nella macchina produttiva distrettuale ad un'altra in cui sono le imprese leader a giocare una parte fondamentale nel ricostruire le basi della nuova competitività, in funzione di maggiori capacità di investimento in risorse umane e finanziarie, nell’innovazione e nell’internazionalizzazione. L’accesso alle nuove leve della competitività risulta quindi selettivamente consentito solo alle imprese con un modello di catena del valore più centrato sulle risorse immateriali e sui servizi innovativi, che non sulla fabbrica. Il passaggio ad un nuovo modello competitivo richiede un generalizzato upgrading del capitale umano, a tutti i livelli e in tutti gli ambiti del distretto e delle singole imprese, per l’essenzialità dell’apporto di nuove e più elevate competenze tecnologiche e manageriali, da sviluppare in ambienti imprenditoriali ed organizzativi dinamici e aperti alla professionalità, al talento e al cambiamento. La competitività viene di conseguenza ad essere una componente strategica delle imprese che attivano investimenti nella formazione e nel training delle proprie risorse umane, e che adottano politiche di reclutamento di talenti, da valorizzare con adeguati percorsi di inserimento, di fidelizzazione e di crescita professionale e retributiva. Sono quindi premiate le imprese capaci di formulare e attuare strategie del personale avanzate, supportandole con un modello organizzativo appropriato, più aperto e sfidante. Su questi fronti si gioca per larga parte la capacità di recupero e di rilancio dell’industria italiana, ancora troppo condizionata da schemi e prassi che premiano la fedeltà piuttosto che il merito dei collaboratori, dando spazio alla conservazione delle organizzazioni piuttosto che al loro cambiamento, in un’epoca in cui tutto si gioca invece sulla capacità e sulla velocità di innovazione della cultura imprenditoriale, delle idee, delle competenze e dei sistemi operativi. GLOBAL COMPETITION occorre sono forme e operazioni di private equity, appropriate per il particolare contesto, capaci di incidere nell’evoluzione della struttura finanziaria, del controllo proprietario e della condotta delle imprese, in una prospettiva temporale più estesa di quella adottata dalle istituzioni già operanti nel campo. È attraverso la riconfigurazione degli assetti proprietari e l’allargamento giudizioso della base societaria che passa la modernizzazione e il consolidamento del nostro sistema industriale tradizionale, quale pre-condizione per l’attivazione di processi di crescita dell’economia reale. 27 GLOBAL COMPETITION 7 - 2006 ‹ Capitalismo e sviluppo › 28 più i prodotti finali sono il risultato di una articolata e complessa integrazione delle filiere produttive su scala internazionale che supera il perimetro della tradizionale “fabbrica distrettuale”. D’altro lato, la perdita di competitività dal lato dei costi nella realizzazione di certi tipi di prodotti, nell’esecuzione di fasi di lavorazione e componenti più labor intensive o standardizzate è ormai un dato acquisito. Il modo in cui nei nostri distretti industriali si cerca di rispondere a queste sfide ci lascia purtroppo molto perplessi e preoccupati. Sono troppe le situazioni in cui ci si avventura in un decentramento di lavorazioni, fabbricazioni e forniture verso i nuovi paesi a più bassi costi, isolatamente da una strategia di innovazione del business model. E questo comporta evidenti rischi a livello delle imprese che pongono in essere il decentramento, dei distretti a cui esse appartengono e più in generale del sistema paese. Si tratta di modi improvvidi di trasferimento di conoscenze, tecnologiche e know-how, nei nuovi paesi, favorendo e accelerando il loro processo di apprendimento, senza poter avere ritorni adeguati in termini di mezzi da investire nel consolidamento strutturale e strategico del proprio assetto. L’incapacità delle piccole imprese ad allinearsi ai nuovi paradigmi della globalizzazione emerge in termini chiari osservando ciò che hanno saputo fare le grandi imprese e che in parte cercano di fare le nostre medie imprese. Di fatto le grandi multinazionali, che da tempo hanno messo in atto decentramenti produttivi verso i nuovi paesi, hanno usato queste opportunità con l’intento di impiegare i maggiori profitti realizzati, con i notevoli risparmi realizzati nei costi di produzione, per incrementare gli investimenti nella ricerca e nell’innovazione, nella penetrazione e nel radicamento sui mercati esteri, nel rafforzamento della propria reputazione e della propria identità di marca, con mirate politiche di comunicazione. Di fatto queste imprese hanno disinvestito nel ramo manifatturiero per rafforzarsi nel ramo terziario, e quindi sfruttare le opportunità offerte dalla globalizzazione, senza perdere il controllo delle parti strategiche della catena del valore. E di conseguenza hanno modificato il proprio organico riducendo drasticamente la base operaia a favore dell’inserimento di un maggiore e crescente numero di knowledge-workers con più alto livello di scolarizzazione. Con la nascita di medie imprese che adottano business model più centrati sull’innovazione e sul marketing che non sulla manifattura si può come paese adottare percorsi di globalizzazione, nonché arginare la deriva della delocalizzazione incontrollata, e nel contempo acquisire capacità di inserimento, presenza diretta e crescita sui nuovi mercati. Il fatto distintivo di queste imprese nell’agone internazionale è la possibilità di avvalersi di capacità manifatturiere di eccellenza, quelle possedute dalle migliori piccole imprese con peculiari attitudini e competenze nel forgiare prodotti unici, con una forte impronta e personalizzazione. Si vengono così a realizzare nuovi tipi di coali- zioni tra le imprese front-desk che stanno sul mercato finale e le imprese bach-desk che operano nella catena manifatturiera, con la prospettiva di mettere in squadra e valorizzare in modo virtuoso le diverse competenze e specializzazioni. Si tratta di una sorta di “via italiana alla globalizzazione” che mira a non disperdere il vasto e qualificato know-how manifatturiero, radicato nei distretti industriali, che sono così chiamati a rispondere alla sfida cercando di aumentare la loro efficienza produttiva per poter entrare e permanere nelle reti di fornitura e sub-fornitura delle imprese medie nazionali. Per rendere possibili e favorire questi processi di rifondazione dei sistemi distrettuali di piccole imprese, evitando un loro irriducibile declino, è necessaria l’introduzione di provvedimenti di liberalizzazione e meccanismi di mobilità dei capitali, degli investimenti e delle risorse umane, tali da consentire a livello di impresa e di sistema paese una diversa, più efficiente allocazione generale delle risorse, tenuto conto delle nuove condizioni dell’economia e della finanza a livello globale. La presenza in Italia di limiti e vincoli alla mobilità dei fattori produttivi, a livello delle imprese e del sistema economico nel suo insieme, costituisce un evidente freno alla riorganizzazione del sistema industriale secondo gli indirizzi indicati. E questo è un grave danno per la competitività e per la crescita economica. Osservazione finale L’Italia sta affrontando la sfida della nuova economia globale con il peso di un sistema industriale che, essendo in ritardo nel suo processo di rinnovamento e riorganizzazione, non si presenta all’altezza della situazione. I distretti industriali non sfuggono a questa valutazione. Anzi, per molti aspetti, costituiscono il banco di prova della capacità di affrontare e possibilmente vincere la sfida. Se, com’è ragionevole ritenere, l’economia italiana non potrà fare a meno ancora a lungo dell’apporto dei distretti, è fondamentale uscire da una logica puramente conservativa e dall’idea che siano sufficienti piccoli adattamenti. Non correggere con decisione ed in profondità talune tendenze involutive, che minano alla base le fondamenta del tessuto distrettuale, significherebbe andare verso un irreversibile declino o comunque un forte ridimensionamento di una componente importante e insostituibile del nostro sistema industriale. In questa sede più che ricette si è offerto uno schema di riflessione e di analisi con spunti per interventi di policy per incidere sul modello di crescita e sul modello di competitività dei sistemi distrettuali e sulla riconfigurazione delle filiere e del business model del distretto, per il tramite delle imprese con un maggiore e più promettente potenziale competitivo, sulle quali vanno selettivamente concentrate le attenzioni e le risorse, con interventi di politica economica e industriale ben mirati e strutturati. ‹ Capitalismo e sviluppo › Bibliografia G. Becattini, Distretti industriali e made in Italy , Boringhieri, Torino, 1998. B. Quintieri (a cura di), Le imprese esportatrici italiane: caratteristiche, performance e internazionalizzazione, il Mulino, Bologna, 2001. N. Bellanca, M. Dardi, T. Raffaelli (a cura di), Economia senza gabbie, il Mulino, Bologna, 2004. Rapporto MET, Le politiche per la competitività delle imprese, Donzelli, Roma, 2005. G. Bosi, G. Scellato, Politiche distrettuali per l’innovazione delle regioni italiane, Roma, Fondazione Cotec, 2005. A. Sammarra, Lo sviluppo dei distretti industriali. Percorsi evolutivi fra globalizzazione e localizzazione, Carocci, Roma, 2003. M. Caroli, A. Lipparini (a cura di), Piccole imprese oltre confine, Carocci, Roma, 2002. L. Ferrucci, R. Varaldo, “La natura e la dinamica dell’impresa distrettuale”, in Economia e Politica Industriale, n. 80, 1993. M. Fortis, Il made in Italy nel “nuovo modello”: protagonisti, sfide, azioni, Ministero delle attività produttive, Roma, 2005. G. Garofoli (a cura di), Impresa e territorio, il Mulino, Bologna, 2003. 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Alberto Alesina e Francesco Giavazzi (due professori universitari editorialisti, il primo ad Harvard e sul Sole-24 Ore, il secondo alla Bocconi e sul “Corriere della Sera”) hanno tuttavia scritto questo libro con l’esplicita speranza che un supplemento di riflessione possa aiutare l’Europa ad uscire oltre che da una sostanziale stagnazione economica anche da una pericolosa incapacità di elaborare una coraggiosa svolta politica. C’è un motivo di fondo che percorre tutto il libro: è un appello alle virtù del mercato contro le molteplici tentazioni del nazionalismo, del protezionismo, di un welfare inefficiente e costoso, della spesa pubblica come motore dello sviluppo. Ma non si tratta di un invito all’applicazione pura e semplice delle teorie del liberismo più sfrenato: Alesina e Giavazzi danno invece prova di un sano pragmatismo, di un’osservazione attenta e disincantata della realtà. Gli Stati Uniti non sono considerati un modello da seguire in tutto e per tutto anche perché, come è il caso della sanità, ci sono elementi nell’esperienza europea che possono essere corretti e resi più efficienti mentre l’esperienza americana ha creato un sistema più costoso e con minori garanzie di equità. Ma gli Stati Uniti restano un modello sotto molti aspetti: il mercato del lavoro, in primo luogo, un mercato che premia il merito, favorisce la produttività, alimenta il senso di responsabilità e quindi lo spirito di intraprendenza delle persone. E poi la libertà di movimento per le imprese: libertà di nascere senza troppi oneri burocratici, libertà di svilupparsi, senza troppi intralci fiscali, libertà di fallire senza gravare lo Stato di oneri sociali. Un libro quindi di profonda attualità con un invito costante ai Paesi europei perché taglino la spesa pubblica e riducano l’invadenza dello Stato. Ancor più di attualità in un’Italia in cui i tagli alla spesa pubblica sono una costante nei dibattiti sulla politica economica, con tante lobby che tuttavia li rendono di fatto impraticabili. “ Il mondo è piatto” Thomas L. Friedman - I Milano - 2006 - pagg. 580 € 22. Siamo di fronte ad una nuova rivoluzione copernicana e non ce ne siamo ancora accorti. Con Cristoforo Colombo avevamo avuto la prova che il a cura di Gianfranco Fabi mondo era rotondo ed ora ci tocca scoprire che “il mondo è piatto”. L’immagine di Thomas L. Friedman, editorialista di politica estera del New York Times, è indubbiamente affascinante: non vuole, ovviamente, ridare attualità al sistema tolemaico, ma informarci che la globalizzazione ha fatto grandi passi avanti rispetto alla visione tradizionale legata all’apertura dei mercati e alle grandi potenzialità dell’informatica applicata alle telecomunicazioni (che qualcuno chiama infotelematica). Siamo di fronte ad una trasformazione che sta cambiando profondamente il modo di produrre, le strategie di investimento delle imprese, i parametri di una competizione che va oltre i fattori di prezzo, di qualità, di servizio. Il mondo è piatto perché ci sono sempre meno posizioni naturali di vantaggio competitivo: il terreno di gioco si sta livellando e le potenzialità delle nuove economie stanno creando le condizioni per una sfida sempre più ampia e per crescenti opportunità di integrazione. È particolarmente significativo che l’ispirazione del titolo del libro sia venuta a Thomas L. Friedman dalle osservazioni raccolte in un viaggio a Bangalore, la Silicon Valley dell’India, la zona dove si è maggiormente sviluppata l’industria del software e dei servizi informatici e dove molte imprese americane (e anche europee) hanno delocalizzato non solo i centri di ricerca e sviluppo, ma anche i servizi di assistenza e i call center per dialogare con i clienti e per cercarne di nuovi. Solo il fuso orario rende Bangalore funzionalmente diverso da un quartiere di una città americana: ma anche questo diventa un’opportunità perché comunque alcuni call center devono funzionare 24 ore su 24. Siamo così di fronte ad economie non solo virtualmente, ma concretamente integrate, un’unica, grande economia mondiale: è questa in fondo la lezione di storia di ventunesimo secolo per ora breve, ma già capace di una rivoluzione silenziosa molto più incisiva delle rivoluzioni roboanti. “ Voyage aux pays du coton” Erik Orsenna - Ed. Fayard - Parigi - 2006 - Pagg. 294 € 20. “Questa storia comincia nella notte dei tempi. Un uomo che cammina vede un arbusto i cui rami terminano con dei fiocchi bianchi. Si può avvicinare che abbia avvicinato la mano. E il genere umano ha fatto conoscenza con la dolcezza del cotone”. Non è solo un artificio letterario, quello scelto da Erik Orsenna, dell’Académie française, per parlare della globalizzazione. Il cotone è infatti uno dei prodotti che hanno segnato la storia dello sviluppo di molti paesi, Stati Uniti compresi, che hanno contraddistinto non solo gli scambi, ma anche l’organizzazione sociale e del lavoro, che hanno costituito “ Capitalismi - Asia, Stati Uniti, Europa nell’economia globale” Napoleone Colajanni Sperling & Kupfer editori Milano - 2006 - pagg. 430 - €18. Già il titolo è indicativo della tesi di fondo. “Capitalismi” per indicare il fatto che di economia di mercato non ce n’è una sola, ma esistono tante vie diverse non solo per Europa e Stati Uniti, ma anche considerando le nuove aree prepotentemente emerse negli ultimi anni, come la Russia e soprattutto le economie dell’Asia. Napoleone Colajanni ha consegnato alle stampe questo libro pochi giorni prima della sua morte e Marcello Villari ne ha curato gli ultimi particolari per la pubblicazione. Colajanni è stato per quasi tutta la sua vita un comunista, iscritto al Pci, membro del Comitato centrale. Negli ultimi anni se n’era allontanato: paradossalmente, essendo lui un profondo riformista, proprio in dissenso con la linea di cambiamento che avrebbe portato al cambio della “ragione sociale”. Ed è significativo che la parabola di Colajanni si sia conclusa con un’apprezzata rubrica settimanale sul Sole-24 Ore. In questo libro c’è – come afferma Villari – “un affresco del mondo in cui viviamo e soprattutto un insegnamento: sono le differenze che aiutano a capire le varie realtà che compongono il nostro mondo, non le arbitrarie generalizzazioni di un pensiero unico diventato da “ Le défi du monde” Claude Allègre e Denis Jeambar - Le défi du monde Ed. Fayard - Paris - 2006 pagg. 286 - € 19. Un dialogo tra Claude Allègre, professore all’Istituto universitario di Francia e ministro dell’Educazione, della ricerca e della tecnologia dal ’97 al 2000, e il direttore dell’Express, Denis Jeambar, un dialogo che è soprattutto un cammino attraverso i grandi temi di un mondo globalizzato in cui sembrano ancora mancare le linee guida per il futuro. Con un’ottica particolare: la fiducia nella capacità dell’uomo di saper controllare lo sviluppo, un controllo possibile soprattutto se si saprà avere un’adeguata responsabilità sulle scelte da compiere e sulle conseguenze di queste scelte. E’ per esempio significativo che le due parole chiave che gli autori mettono a conclusione del loro viaggio siano: riciclaggio e complessità. Riciclaggio perché tra i problemi più gravi vi è lo sfruttamento delle materie prime, con il petrolio in prima fila e la necessità di combattere l’inquinamento e l’effetto serra. “Abbiamo l’obbligo di preservare gelosamente gli equilibri naturali: composizione dell’atmosfera e dell’oceano, biodiversità, equilibrio uomo-natura”. Complessità perché siamo in presenza di fattori multipli che reagiscono gli uni con gli altri e che non si possono né analizzare né comprendere seguendo la logica semplice di causa ed effetto a cui siamo stati abituati ed istruiti. Ecco allora la necessità di affrontare con risposte nuove le problematiche nuove: per questo è necessario credere che la risposta ai problemi non stia nel bloccare lo sviluppo, ma nel puntare sulla crescita, sull’innovazione, sulla scoperta, sul sapere, sulla conoscenza. Senza i blocchi ideologici che contraddistinguono quasi sempre, anche in Italia, i dibattiti su temi come l’energia nucleare o gli Ogm. Un invito costruttivo alla riflessione quindi. Tanto più utile quanto raro. 7 - 2006 tempo la soffocante ideologia dominante”. C’è in fondo in questo saggio il cammino di un economista che ha un approccio dichiaratamente marxista, ma che riesce a far prevalere il pragmatismo della ragione rispetto alle classificazioni delle ideologie. “Pensare che il capitalismo possa crollare da solo è una sciocchezza” afferma Colajanni. Ma lo stesso capitalismo dimostra che i cambiamenti sono possibili, che una maggiore giustizia sociale può trovare le basi nella capacità di sviluppo che è propria dell’economia di mercato, che le rituali contraddizioni della società occidentale possono essere corrette da Governi efficienti e che non siano solo occupati a ricercare il consenso, se non il potere. GLOBAL COMPETITION la base di grandi eventi storici come la schiavitù o la colonizzazione. Ma il cotone, insieme prodotto agricolo e industriale, materia prima e semilavorato (per esempio, l’olio di semi alimentare deriva in gran parte proprio dai semi di cotone), frutto di una tradizione millenaria, ma con una forte dose di innovazione, è ora un esempio di una globalizzazione che cammina a passi rapidi, ma che si presenta ancora con grandi differenze e profonde diversità. Ecco allora un viaggio che parte dal Mali, in Africa, percorre gli Stati Uniti e il Brasile, ritorna in Egitto per passare in Uzbekistan e terminare in Cina. Tanti modi di produrre, di coltivare, ma soprattutto di organizzare la società, l’economia, il sistema degli scambi, i rapporti produttivi e commerciali. Erik Orsenna non compie un viaggio solo nello spazio, attraverso i paesi e i continenti, ma anche nel tempo, nei cambiamenti produttivi e nel sistema degli scambi: ne esce un’immagine insolita della globalizzazione, una visione che non dimentica la fatica dell’uomo, ma insieme il gusto del bello, che non privilegia i fattori virtuali, come l’informatica o le telecomunicazioni (pur importanti), ma che pone all’attenzione gli elementi più significativi dell’economia reale: la persona, l’organizzazione, la capacità di governare i fattori dell’economia. 31 I numeri pubblicati SOMMARI N. 1 - L’ECONOMIA ITALIANA NELLA GLOBALIZZAZIONE N. 2 - EUROPA E ITALIA DI FRONTE AL RISVEGLIO ASIATICO N. 3 - LA SFIDA ENERGETICA N. 4 - DIFFICOLTÀ E PROSPETTIVE DELL’INDUSTRIA N. 5 - INFRASTRUTTURE E RETI PER CRESCERE IN EUROPA N. 6 - VALORIZZARE IL CAPITALE UMANO