NewsMagazine n. 11 - Dipartimenti - Università Cattolica del Sacro

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Gruppo Interstizi & Intersezioni - Dipartimento di Sociologia
UNIVERSITÀ CATTOLICA – MILANO
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Primavera 2008
Tutto –
una parola sfrontata e gonfia di boria.
Andrebbe scritta fra virgolette.
Finge di non tralasciare nulla,
di concentrare, includere, contenere e avere.
E invece è soltanto
Un brandello di bufera.
(Wisława Szymborska)
Cari destinatari,
in tempi di tendenze economiche e politiche pesanti e sempre più condizionanti – dalla globalizzazione economico-finanziaria all’onnipresenza dei
media, dagli assetti politici internazionali agli orientamenti di fondo delle grandi organizzazioni religiose -, viene da chiedersi quale spazio culturale e
sociale resti agli interstizi e alle piccole cose, alle esperienze di marginalità come sono quelle a cui richiama la categoria stessa su cui è centrata la
nostra impresa. Ebbene, gli interstizi - che sfociano inevitabilmente nelle feconde intersezioni tra approcci e discipline – rimangono più che mai la
nostra scommessa teorica, culturale e umanistica nella società postindustriale: essa ha bisogno di interpretazioni che certo tengano conto di realtà noninterstiziali come sono le istituzioni ma che si aprano a tutto ciò che si muove, ribolle e brulica sotto la crosta delle apparenze e delle definizioni
consolidate. E gli interstizi comprendono appunto anche quegli universi paralleli e collaterali alla vita seria e dominante (fatta di assetti civili e
giuridici, di realtà economiche, di ruoli lavorativi e professionali, e così via) di cui facciamo esperienza quotidianamente e che spesso ci permettono di
vivere meglio: dalla scrittura e lettura alla letteratura, dall’arte al sogno e ai mondi virtuali, dal teatro all’umorismo fino alla finzione e alla menzogna
stessa. Ciò che importa è di non confondere realtà dominante (paramount reality, come direbbe Alfred Schutz) e universi paralleli, perché gli esiti
possono essere devastanti, da don Chisciotte al dibattito politico odierno. Concludo ringraziando le persone che si aggiungono ora alla nostra rete
davvero eccezionale di Corrispondenti: si tratta di Enrico Camanni, Ugo Fabietti, David Le Breton, Francesca Marzotto Caotorta, Luigi L.Pasinetti,
Dan Vittorio Segre, Cesare Segre, Serena Vitale e Claudio Visentin.
Con viva cordialità, da parte mia e del nostro Gruppo.
Gianni Gasparini
SOMMARIO
1. Incontri
- Forum su "Il futuro della scrittura”:
E. Mancino, G. Gasparini, U. Fabietti, R. Maragliano, P. Ferri
2 Libri & Scritti
- (E. Camanni), a cura di E. Camanni, F. Beux, F. Panero, P. Piazza, Grande Dizionario Enciclopedico delle Alpi
- (C. Pasqualini), D. Le Breton, En souffrance. Adolescence et entrée dans la vie
- (E.M. Piras), a cura di Antonio Strati, La ricerca qualitativa nelle organizzazioni. La dimensione estetica
- (A. Zanutto), Aesthesis. International Journal of Art and Aesthetics in Management and Organizational Life
3. Arte & Comunicazione
- (M. Minghetti), Le Aziende In-Visibili: Romanzo Collettivo, Metablog, Web-Opera
4. Vita quotidiana
- (V. Sala), L’editore come “go between”
- (M. Marzulli), Una posizione scomoda
Rubrica “Le città interstiziali”
1. (F. Introini), Leuca, città bianca e evanescente
2. (E.M. Tacchi), Brescia,città del Nord-est
3. (P. Volonté), Bolzano/Bozen
Rubrica “Gli oggetti interstiziali”
1. (P. Aroldi), Biking the Bridge
2. (C. Visentin), La zuppa di Kappel
Pubblicazioni recenti
1. Incontri
Forum su "Il futuro della scrittura”. In margine al Convegno-kermesse alla Casa
della Cultura di Milano – gennaio 2008.
(a cura di G. Gasparini)
@ La scrittura e il suo futuro
Attraversando le diverse dimensioni che la scrittura abita in quanto recitazione o seconda scena del mondo o
come dis-velamento e – suggestivamente - ri-velazione di pensieri, scoperte, chiarezze e opacità, ha preso
corpo, ieri sera, la risposta alla domanda che si e ci interrogava sul futuro della scrittura. Durante il
suggestivo avvicendarsi delle voci ricche e diverse di chi è intervenuto, si è reso tangibile e corposamente
intenso il vivo e vivace presente della scrittura, animato da traiettorie ed intrecci che suggeriscono e
richiamano tessiture, scambi, dialoghi e intrecci. Le identità narrative lette in una scrittura di sé che si declina
nel cambiamento, nel tempo e nello spazio di storie migranti, nella finzione della voce scritta che attraversa
veridicità e autenticità, relazioni e memoria, nuove forme diaristiche e diverse “natività” alfabetiche, hanno
percorso i più diversi media come fossero territori attraversati da un’attenzione alla scrittura che si fa
attenzione politica, epistemologica, ontologica, sacrale, antropologica, pedagogica…Mentre le scritture
hanno rivelato la loro attitudine a far, di parole consuete, suoni nuovi in grado di rivitalizzare sensi e
significati, ponendosi come “stuzzica-mente” delle abitudini narrative, come traduzioni, e tradimenti del
pensiero che si scrive e si racconta, nel filo delle plurime suggestioni di ieri sera è circolata quella moneta
corrente della cultura che Bruner individua nella narrazione. La trasformazione del pensiero in parola è “un
mistero di affetto”, come scrive De Sanctis: è luogo interstiziale, in grado di farsi medium e territorio
intermedio. Di incontro, quindi. In famiglia, nelle relazioni terapeutiche, nelle relazioni educative, nello
scambio e nelle ricuciture tra generi. Cogliendo nella scrittura un’autentica vocazione pedagogica che la
pone come “ambiente”, oggetto e strumento privilegiato della formazione critica, della riflessione, della
coscienza, dell’identità e del pensiero, preme qui ringraziare ognuno di voi per la generosità e la ricchezza
del vostro contributo e dei vostri interventi. La serata di ieri è certamente da considerarsi una preziosa
occasione di incontro e confronto; ma, soprattutto, il lungo incontro di ieri rappresenta il segno di
un’indicazione da cogliere per osservare, descrivere e valorizzare le direzioni che il futuro della scrittura sta
assumendo, assume, stimola e suggerisce. Ringrazio ancora, a nome del prof. Demetrio, tutti e tutte voi,
nell’auspicio di nuove occasioni di incontro.
Emanuela Mancino, Università di Milano-Bicocca
@ Scrivere negli interstizi
La mia esperienza di scrittore/scrivente/personachescrive è quella di una scrittura plurima e molteplice, che
si esprime in aree e con modalità espressive assai diverse che vanno principalmente dalla Sociologia alla
Poesia, dalla Critica alla Spiritualità. Ciò premesso, vorrei richiamare, alla luce della teorizzazione sugli
“Interstizi della vita quotidiana”, che la scrittura è un fenomeno di grande interesse in più sensi, che mi
limito qui a suggerire. A. La Scrittura come fenomeno di in-between, nel senso che, escludendo i
professionisti dello scrivere, essa viene svolta – analogamente alla lettura – nei ritagli della vita quotidiana
fra un’occupazione e l’altra; o anche come fenomeno “marginale” o eccezionale rispetto alla asserita
dominanza della comunicazione orale e visuale. Non si può sottovalutare tuttavia, in controtendenza, il fatto
che i nuovi media hanno rivalutato sia in termini professionali che di vita quotidiana nuove pratiche di
scrittura come l’e-mail e gli sms. B. La Scrittura come ‘Universo parallelo’ al mondo serio e dominante della
vita quotidiana. Il riferimento qui è essenzialmente alla Letteratura nelle sue diverse forme (Fiction, Poesia,
Saggio ecc.), nel senso che lo scrivere fa accedere sia scrittore che lettore ad un mondo diverso,
“interstiziale”, parallelo e/o collaterale a quello prevalente e ordinario della vita quotidiana. E qui siamo
anche al centro della creatività letteraria. Cito dal mio volume Interstizi e universi paralleli (Apogeo 2007,
p.146): “Alla base della scrittura sta una sorta di distacco dalla vita reale, una presa di distanza o un
distanziamento che si traduce appunto nello scrivere in quanto elaborazione di pensieri, sentimenti e
immagini. Da parte sua, chi p.es. legge un libro sa che attraverso quelle pagine accede ad un mondo che può
essere più o meno realistico o fantastico ma che comunque è diverso e distinto normalmente da quello della
sua vita quotidiana: esso è mediato dalla parola scritta. […] Chi scrive pone tra sé e la realtà un diaframma,
quello di una elaborazione che in ogni caso si differenzia dalla realtà vissuta nell’esperienza corrente e nelle
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relazioni sociali. Non a caso il termine in uso nella lingua inglese per indicare romanzi e novelle è fiction,
“finzione”: una finzione che naturalmente non è classificabile come menzogna”. In conclusione, credo che il
ricorso alla categoria dell’interstizialità per alcune prospettive e approfondimenti sulla Scrittura non
significhi in nessun modo che questa occupa un posto marginale per l’esperienza del soggetto, sia nel suo
esercizio attivo – la Scrittura messa in opera - che in quello passivo, che corrisponde alla fruizione per mezzo
della Lettura di un’opera scritta. Dunque, anche attraverso l’approccio dell’interstizialità sembra emergere un
futuro per la Scrittura.
Giovanni Gasparini, Università Cattolica, Milano
@ Sul rapporto tra antropologia e scrittura
Il rapporto dell’antropologia con la scrittura potrebbe essere definito come ambiguo e, al tempo stesso,
ambivalente. Ambiguo in quanto in primo luogo l’antropologia considera la scrittura come un “dato” che
rientra nelle sue investigazioni. L’antropologia coglie le modalità e gli effetti della presenza della scrittura in
un contesto sociale, ne studia l’influenza sulle relazioni di autorità, di potere, cerca di capire in che modo
influenza la comunicazione e lo stesso modo di pensare. Ma l’antropologia è anche, se non proprio in prima
istanza, essa stessa largamente scrittura; scrittura che cattura una testualità “altra”, quella della parola altrui
per “inscriverla” in un testo. Quindi il rapporto che l’antropologia in quanto scrittura mantiene con la
scrittura medesima è anche un rapporto ambivalente. Perché da un lato la scrittura antropologica è
l’oggettivazione di una esperienza avvenuta in un altrove, cioè il tentativo di una sua “ripetizione” lontano
(di solito) da dove quell’esperienza è avvenuta; mentre dall’altro essa è sempre un potenziale (e non solo
potenziale) processo di “pietrificazione” della parola altrui. L’ambivalenza delle scrittura nei confronti
dell’antropologia riecheggia la problematica del Fedro di Platone, dove lo scrivere è pharmacon, “rimedio” e
“veleno” al tempo stesso della sapienza; con la differenza però che la negatività (il veleno) dello scrivere non
consiste, nel caso dell’antropologia, nell’allontanarsi da una verità più profonda, ma nel rischio di far
intendere, al lettore, la parola altrui “altrimenti da come essa parla” nel luogo in cui è stata raccolta
dall’etnografo. La pratica della scrittura diventa allora il veicolo un rapporto di forza oggettivato per cui,
come tale, essa deve andare incontro a un continuo lavoro di controllo e di vaglio, di cancellatura e di
riformulazione per non diventare rappresentazione assoluta delle vite altrui ma in realtà “lontana” da queste
ultime. L’antropologia non può tuttavia fare a meno della scrittura perché questa è il mezzo (non l’unico,
certo, ma il principale) attraverso cui è possibile “ricordare” e far conoscere esperienze di vita situate in spazi
culturali “altri”, o comunque eccentrici rispetto a quella dell’etnografo e dei lettori di quest’ultimo. La
scrittura è dunque anche un “rimedio” all’oblio di esperienze e vicende umane alle quali, seppure
impercettibilmente, solo essa ci lega. Per questo le grandi monografie etnografiche (e non solo queste) sono
dei veri monumenta della storia umana.
Ugo Fabietti, Università di Milano-Bicocca
@ Futuro e passato della scrittura
Per alcuni (che poi sono tanti, almeno tra chi si occupa di formazione) il futuro della scrittura sta nel suo
passato. Nel senso che, per ragioni varie ma riconducibili agli effetti della venuta e dell’affermarsi dei mezzi
della comunicazione facile e immediata, ci troveremmo tutti, volenti o nolenti, a vivere un (e sempre gli
‘alcuni’, a sopravvivere in un) processo inarrestabile di dequalificazione e marginalizzazione della scrittura,
al quale nient’altro si potrebbe opporre che la scelta di erigere muri e scavare fossati protettivi, a
salvaguardia della riserva in esaurimento degli esseri scriventi. Sottraendosi ai tempi fulminei propri
dell’affermazione delle tecnologie a-scrittorie o anti-scrittorie, costoro si sentirebbero almeno nelle
condizioni di attenuarne o rallentarne le conseguenze sul versante culturale. Va da sé che la riserva coincida
frequentemente, nel loro pensiero, con la scuola tutta, ivi compresa quella universitaria, e che, di
conseguenza, il modo di rappresentarsela sia segnato dal sentimento di un lutto sconfinato. Non così la
pensano altri, che sono una minoranza, almeno in ambito intellettuale (o, più precisamente, nella
rappresentazione di questo ambito ereditata dalla tradizione): ma una minoranza combattiva, che non intende
darsi per vinta. Per questi “altri” i germi di un futuro della scrittura starebbero proprio in ciò che i luttuosi
adoratori del tempo che fu vedono come causa del degrado, cioè nell’affermarsi dell’universo multimediale:
fenomeno che a parer loro andrebbe più correttamente inteso sia come espressione di una cultura sia “molto
mediale”, dove la scrittura trae alimento materiale e concettuale dall’ipermediazione tecnologica, sia “multi
mediale”, dove la scrittura in senso stretto dialoga e si allea con i codici del sonoro e del visivo, dunque in un
rapporto volutamente “alla pari”, capace di collocare, a seconda delle situazioni, chi al centro e chi alla
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periferia. Lì, nella complessità propria dell’antropologia montante, sta il futuro della scrittura, e di quella
parte di scuola che intende impegnarsi a garantirlo. Personalmente, e senza ombra di dubbio, sto coi secondi,
anche quando, apparentemente, mi occupo d’altro (come autore di Parlare le immagini, Milano, Apogeo,
2008, e promotore del sito web http://www.parlareleimmagini.it).
Roberto Maragliano, Università Roma Tre
@ I nativi digitali
Dal 1996 in Italia si sta affermando una nuova versione 2.0 dell’Homo sapiens, si tratta dei nativi digitali,
sono tutti i bambini che sono nati dopo la diffusione di Internet (dicembre 1995, gennaio 1996, primi
browser commerciali). I nativi digitali sono diversi da noi figli di Gutenberg sono nati in una società
multischermo e preferiscono allo schermo passivizzante della televisione gli schermi interattivi:cellulare,
computer oppure quello della televisione ma connesso alla Playstation, lo schermo del cellulare è per loro un
spazio per comunicare (SMS), ma è soprattutto quello del computer connesso a Internet lo schermo che
amano di più. A scuola a casa e con gli amici il perimetro della identità comprende anche la loro identità
online. Per noi nativi Gutenberg, il blog o la posta elettronica sono strumenti, per loro sono una parte
integrante dello loro immagine del sé e delle loro relazioni sociali. Si “espongono” sui Blog o su You tube,
vivono sullo schermo, per esprimersi, per apparire, per comunicare e per stabilire relazioni sociali ed
affettive. Il modo in cui vedono e costruiscono il mondo è differente. E può essere sintetizzato nello
specchietto che segue:
Digital Immigrants:
- Codice alfabetico
- Apprendimento lineare
- Stile comunicativo uno a molti
- Apprendimento per assorbimento
- Internalizzazione riflessione
- Autorità del testo
- Primo leggere
Digital native:
- Codice digitale
- Apprendimento multitasking
- Condividere e creare la conoscenza
- Apprendere ricercando, giocando, esplorando
- Esternalizzazione dell’apprendimento
- Comunicazione versus riflessione
- No autorità del testo, multicodicalità
- Connettersi, navigare ed esplorare
Non è un fenomeno marginale, oltre 60.000.000 di adolescenti e preadolescenti statunitensi hanno una sito,
una loro identità online su Facebook o MySpace. Sono “simbioni” strutturali della tecnologie, sono
indifferenti al copyright e condividono musica immagini suoni e sapere sulla Rete con i loro pari. I digital
native ci pongono anche un problema a noi figli del libro e immigranti digitali, come stabilire un linguaggio
comune, come entrare in contatto nella scuola ma anche nella vita con loro. Non è un piccolo problema, la
cultura scritta sta cambiando forma e non traghettare in digitale la memoria analogica della cultura dell’homo
sapiens 1.0 è la sfida e la responsabilità che portiamo noi Gutenberg native.
Paolo Ferri, Università Milano-Bicocca
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2. Libri & Scritti
ÆEnrico Camanni, Federica Beux, Francesca Panero e Pierangela Piazza (a cura di), Grande
Dizionario Enciclopedico delle Alpi, Priuli & Verlucca editori.
Il Grande Dizionario Enciclopedico delle Alpi è costituito da dodici volumi divisi tra il Dizionario (sette
volumi) e l’Enciclopedia (cinque volumi). Il Dizionario contiene 3400 voci, tutte aggiornate, integrate o
sostituite sulla base dell’edizione originale francese (Glénat 2006). L’Enciclopedia contiene 10 grandi
tematiche e 92 sottotemi. L’opera si è avvalsa della collaborazione di 280 autori internazionali. L’edizione
italiana (Priuli & Verlucca, editori) è stata curata da Enrico Camanni con Federica Beux, Francesca Panero e
Pierangela Piazza. L’Enciclopedia è il naturale coronamento di otto anni di collaborazione internazionale tra
la rivista francese L’Alpe, fondata a Grenoble nel 1998 presso il Musée Dauphinois e l’editore Glénat di
Grenoble, e la consorella italiana L’Alpe nata a Pavone Canavese (Ivrea) un anno dopo, presso Priuli &
Verlucca. L’Enciclopedia non è un’opera erudita ma “congelata” in un sapere sterile, accademico. Nella
migliore tradizione della rivista abbiamo cercato di illustrare i temi in chiave scientifica e storica, senza
scantonare dalle problematiche contemporanee, dunque dall’attualità. Perché non volevamo che
l’Enciclopedia delle Alpi rischiasse di nascere “immobile” come un monumento, ma, al contrario, speravamo
che fornisse gli spunti per comprendere il passato e riflettere sul futuro. Sempre nella tradizione della rivista,
e forse contraddicendo in parte l’accezione classica del termine “enciclopedia”, ci siamo affidati a studiosi di
indiscussa fama internazionale che, proprio in virtù della vitalità e della dinamicità dei loro studi, non
forniscono un “sapere” definitivo e universale, ma ci aiutano a leggere le realtà alpine secondo un’ottica
trasversale. Se l’Enciclopedia servisse a superare le miopie e gli stereotipi che ancora affliggono la cultura
della montagna, e di conseguenza riuscisse a rendere le Alpi un po’ più europee di quanto sono ora, avrebbe
già raggiunto il suo scopo.
Enrico Camanni, Torino
Æ David Le Breton, En souffrance. Adolescence et entrée dans la vie, Editions Métailié, Paris 2007.
Che cosa c’è di più interstiziale dell’adolescenza? È anche vero tuttavia che ogni età della vita è per
definizione interstiziale. E lo è ancora di più da quando abbiamo imparato a considerare convenzionalmente i
corsi di vita scanditi da fasi differenti – infanzia, adolescenza, giovinezza, età adulta, vecchiaia. La
transizione da un’età all’altra della vita ci fa fare esperienza del “non più e non ancora”, ci fa sperimentare
delle soglie, dei marcatori, dei riti di passaggio (la pubertà, l’uscita dal circuito formativo, la genitorialità,
l’ingresso nel mondo lavorativo, il pensionamento). Tuttavia, la crescente complessità sociale di questi ultimi
decenni ha messo in discussione la linearità di questo “modello”, lo ha reso più indeterminato, più flessibile,
ovvero è venuta progressivamente meno negli individui la coincidenza tra l’età biologica e l’età sociale. Se
da un lato sentiamo infatti parlare di eterni “Peter Pan”, ovvero di giovani sempre più giovani, dall’altro è
stata introdotta in sociologia negli ultimi decenni la categoria degli “anziani attivi”, ovvero di anziani ancora
giovani – grazie all’innalzamento dell’età media della popolazione, dovuto anche ad un miglioramento
generale delle condizioni di salute. Volendo circoscrivere l’attenzione al periodo dell’adolescenza, che
costituisce peraltro l’oggetto di studio di un recente lavoro di Le Breton, possiamo affermare che
paradossalmente restano ancora valide le pionieristiche analisi realizzate alla fine degli anni Venti
dall’antropologa Margaret Mead, la quale, come è noto, studiò l’adolescenza in Samoa. Secondo Mead, le
ragazze samoane percorrono senza crisi la fase che le porta dalla fanciullezza alla pienezza della loro
esistenza di donne, perché semplice e integra è la società in cui vivono, perché uno è il loro codice morale,
perché non esistono profonde linee divisorie di natura economica, sociale, razziale, religiosa, politica e
ideologica. Tali profonde divisioni esistono invece nella nostra società. Pertanto, il dramma della nostra
adolescenza non è dovuto tanto alla natura delle cose, ma alla struttura della nostra società e quindi alla
nostra educazione, che fa sì che Le Breton titoli il suo libro En souffrance. Sì, è vero, l’adolescenza viene
percepita e vissuta oggi nelle società complesse come un’età di “grandi sofferenze”, ma è anche vero che di
per se stessa costituisce un interstizio temporale all’interno della vita, un interstizio caratterizzato da
esperienze e trasformazioni irripetibili e assolutamente peculiari, che non solo potremmo imparare a vivere e
percepire in maniera più “naturale”, ma soprattutto a conoscere maggiormente, in modo tale da non cadere in
sterili stereotipi e facili generalizzazioni.
Cristina Pasqualini, Università Cattolica, Milano
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Æ Antonio Strati (a cura di), La ricerca qualitativa nelle organizzazioni. La dimensione estetica, Carocci,
Roma 2007.
L’approccio estetico allo studio delle organizzazioni è un ambito di riflessione e ricerca ampiamente
riconosciuto e apprezzato nel dibattito internazionale. Nel corso degli ultimi 15 anni un crescente numero di
studiosi provenienti da tutto il mondo ha contribuito ad arricchire l’analisi dei processi lavorativi e
organizzativi con riflessioni legate all’estetica, estensivamente intesa. Nonostante alcuni dei più accreditati
autori siano italiani, nel nostro paese questo dibattito è poco conosciuto anche per la carenza di pubblicazioni
non-anglofone. A ciò rimedia questo volume curato da Antonio Strati (di cui è uscirà a breve anche la
versione italiana di Organization and Aesthetics (Sage 1999) con Mondadori) che propone ad un pubblico di
studenti e ricercatori una lettura in chiave metodologica dell'approccio estetico. La scelta “programmatica” è
di limitare ad una agile introduzione la ricca riflessione epistemologica che sostiene l'approccio, mettendo in
rilievo la dimensione del “fare ricerca” tramite otto contributi. Accanto a lavori che ci si attenderebbe, ossia
l’analisi di processi organizzativi che riguardano la produzione e gestione dell'arte, il volume propone
ricerche su un gruppo speciale delle forze armate, due ditte che producono software e l'attività di consulenza
aziendale. In questo modo gli autori mettono in luce che, pur mantenendo un legame forte con l’arte,
l’approccio estetico sia da collocarsi nel più ampio panorama degli studi organizzativi e delle metodiche
qualitative di indagine. Allo stesso tempo, si propone all'analisi temi toccati marginalmente quali la passione
nel lavorare, la performance artistica quale strumento d'indagine sociale, i processi di estetizzazione e
anestetizzazione nelle organizzazioni, il legame tra pratica artistica e lavoro etnografico, la ricerca
etnografica di gruppo. Per chi fosse rimasto incuriosito dalla lettura dei lavori empirici e volesse
approfondire questa tematica organizzativista il volume fornisce, a chiusura, un veloce sguardo alla
letteratura che “apre” percorsi di lettura.
Enrico Maria Piras, Università di Trento
Æ Aesthesis. International Journal of Art and Aesthetics in Management and Organizational Life
Gli studiosi dell’organizzazione si trovano spesso a confronto con questioni che si possono affrontare con
una sensibilità interdisciplinare. Tra le varie contaminazioni l’incontro tra organizzazione ed estetica è forse
uno dei più recenti ed oggi appare tra i più fecondi. Mancava tuttavia fino ad ora uno strumento, un luogo di
confronto e di approfondimento istituzionale su questi temi, assenza finalmente colmata dalla nuova rivista
Aesthesis. International Journal of Art and Aesthetics in Management and Organizational Life. Di recente
ingresso nel panorama delle riviste accademiche, ma non solo, Aesthesis è un nuovo giornale di settore che
cerca di esplorare, discutere e presentare il potenziale dell'arte e dell’analisi estetica come strumento per la
conoscenza e lo sviluppo della vita organizzativa. Lo scopo principale è promuovere un tipo di pubblicazione
capace di raggiungere e soddisfare, almeno in parte, i bisogni ed i desideri dei lettori che amano percorrere la
frontiera (interstiziale?) tra estetica e organizzazione. I redattori promettono che il contenuto di Aesthesis
stimolerà i lettori attraverso contenuti integrati in una grafica forse a volte provocatoria, ma sempre attenta
alla fruibilità. Aesthesis è in realtà un artefatto, un elemento in grado di sensibilizzare i lettori e cercando di
soddisfarli anche sotto il profilo grafico oltre che dal punto di vista dei contenuti. Aesthesis è in tal senso una
realizzazione insolita nel panorama delle riviste accademiche come anche tra quelle che si occupano di arte e
organizzazione. La rivista una vocazione internazionale e si rivolge a diversi settori accademici, al mercato
dell’arte e a diverse comunità artistiche. Tuttavia la sua formula aperta dovrebbe essere in grado di
interessare trasversalmente le riflessioni che molti ambiti producono sul mondo contemporaneo.
Alberto Zanutto, Università di Trento
3. Arte & Comunicazione
ÆLe Aziende In-Visibili: Romanzo Collettivo, Metablog, Web-Opera
Cosa hanno in comune il Presidente delle Ferrovie Innocenzo Cipolletta, il Segretario del PD Walter
Veltroni, il FormaAttore Enrico Bertolino, il Finalista del Premio Campiello Alessandro Zaccuri, Gloria
Bellicchi, Miss Italia 1998, il Teologo Antonio Staglianò e svariate altre decine di scrittori, politici, filosofi,
imprenditori, giornalisti, sociologi, astronauti, blogger, artisti, registi, crittografi…fra cui Giovanni
Gasparini e Lucilla Giagnoni? Stanno tutti partecipando alla creazione de Le Aziende In-Visibili, piattaforma
per la generazione di percorsi narrativi la cui declinazione letteraria, un vero e proprio un romanzo collettivo,
in corso di pubblicazione presso Libri Scheiwiller. E’ stato Marco Minghetti, Direttore della Scuola Enrico
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Mattei e Docente di Humanistic Management presso l’Università di Pavia, l’ideatore del progetto, a
coinvolgere un centinaio di personalità dell’economia, dell'arte e della cultura virtualmente costituenti la
LMS, Living Mutants Society. La sfida che hanno accettato: racchiudere la propria conoscenza umana e
professionale in un breve apologo, che rivisita una delle Città Invisibili di Italo Calvino, divenendo al tempo
stesso uno dei 128 episodi del romanzo Le Aziende In-Visibili. Si è così aperta la strada ad una ricerca
individuale e collettiva che varca, grazie alla forza dell'analogia, i confini del tradizionale modo di guardare
al mondo imprenditoriale, ma che soprattutto utilizza la metafora dell’azienda per parlare della nostra
contemporaneità. L’approccio collettivo e metadisciplinare che ha presieduto alla stesura de Le Aziende InVisibili, ha l’ambizione di affermarsi come una possibile modalità pratica di scrittura mutante, che travalica
le distinzioni fra ambiti specialistici, per trovare un terreno comune di intesa che sarà poi possibile declinare
attraverso specifiche tecnologie di comunicazione ed espressione: si veda ad esempio Le Aziende In-Visibili:
il Metablog - http://marcominghetti.nova100.ilsole24ore.com - in cui i temi del romanzo vengono discussi e
approfonditi con le modalità tipiche della Rete.
Marco Minghetti, Scuola di Management “Enrico Mattei”, San Donato Milanese
4. Vita quotidiana
Æ L’editore come “go between”
Seduto fra l’autore e la relatrice, alla presentazione di Interstizi e universi paralleli (di G. Gasparini, Apogeo
2007), in rappresentanza della casa editrice, mi sento l’incarnazione di almeno un pezzo del libro. Perché, lì
in mezzo, sono un go between (interstizio di primo livello, direbbe Gasparini) fra le due persone che possono
seriamente affrontare il tema; e mi sento anche un po’ marginale (interstizio di secondo livello), perché non
sembra proprio che sia qualificato a fare qualcosa di più degli onori “di casa”. Eppure, in un certo senso, del
fare l’interstizio di primo livello ho fatto la mia professione: che fa in fondo chi lavora in una casa editrice se
non fare da tramite fra un autore e il processo industriale di stampa e confezione, da una parte, e fra autore e
pubblico dall’altra? Ci mette del suo, non c’è dubbio, ma questo dimostra solo che anche l’interstizio ha una
sua “personalità”. Non si definisce solo per quello che non è: non è semplicemente una sorta di vuoto o di
terra di nessuno fra due enti che soli avrebbero una ragion d’essere. Che anch’io mi senta in qualche modo
far parte dell’oggetto d’indagine di questo libro dice qualcosa di quel concetto, “interstizio”: sembra
insignificante, a prima vista, ma poi ti ritrovi a incontrarne esemplificazioni in ogni dove. Interstizio la coda,
l’attesa, la pausa (sì, anche in senso musicale, quell’istante di silenzio che rende più ricche le note intorno),
l’intervallo, ma anche il bianco fra le parole stampate che le rende intellegibili, o quello che separa le righe e
che qualche volta si allarga o si stringe per dare respiro a un titolo o segnalare una nota o una citazione... per
non parlare poi di periferia (siamo al livello secondo), di marginalità, dei margini della pagina o di quelle
“soglie” del testo di cui parla Gerard Genette. Finisce che da idea marginale (è autoreferenzialità questa?)
l’interstizio si dimostra prepotente, cerca di conquistarsi ogni spazio e di diventare onnipresente. Egemonia
del nulla? Probabilmente no, semplicemente fecondità reale di un concetto, che segue la via tracciata da più
nobili antenati come struttura, sistema, funzione, cultura... Ogni concetto efficace ha, si direbbe, una sua
vocazione “imperialista”, il suo destino è conquistare il mondo. E sarebbe sbagliato scambiare questa sua
fecondità per vuotezza, genericità o vaghezza. Gli interstizi hanno una certa tendenza a espandersi e a
prevaricare un po’ su quegli enti a cui “stanno in mezzo”: senza allontanarci troppo dall’oggetto di cui si
parlava, il libro, ne è esempio anche la storia degli editori. Che nascono incuneandosi là dove prima era solo
lo stampatore, facendo una professione del rapporto con l’autore, per assumere poi progressivamente un peso
sempre più rilevante (a volte, direbbe qualcuno, anche prevaricante). E oggi la tecnologia digitale, che
dapprima ha semplificato il tramite fra il “manoscritto”, il prototipo dell’opera, e la produzione delle copie
fisiche, oggi sembra voler fagocitare il ruolo sia della stampa che dell’editore...Ma perché ci interessano
tanto gli interstizi da pubblicare dei libri sull’argomento? In realtà, le cose interessanti succedono quasi
sempre ai margini (interstizi di secondo livello), non là dove le conoscenze e le discipline sono stabili e ben
consolidate. L’innovazione è sempre vicina all’orlo del caos, direbbero i teorici della complessità: la dove
non ci sono strutture solide, ben definite, ma sembra si stia per cadere nell’informe. In quelle zone (che non
sono solo le grandi aree inesplorate delle mappe del sapere, ma anche le pieghe fra ciò che è conosciuto, o
semplicemente punti da cui si può ottenere una nuova prospettiva) c’è ancora posto per la sorpresa e lo
stupore. E, per quanto ci riguarda, per qualche novità editoriale.
Virginio Sala, editore
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Æ Una posizione scomoda
Le cronache preolimpiche presentano un caso minore forse ma, per certi versi, più interessante della
questione tibetana o del boicottaggio della cerimonia d’apertura dei Giochi di Pechino. Si tratta della vicenda
di Oscar Pistorius, l’atleta sudafricano con nome latineggiante che ricorda “Ben Hur” o “Il gladiatore”, privo
delle gambe fin da giovanissima età e per questo ritenuto avvantaggiato rispetto ai colleghi normodotati. È
un caso assurdo, certamente, ma fermarsi alla denuncia della miopia del governo dello sport mondiale può
non essere sufficiente: infatti sono le parole e la burocrazia delle parole a rivelarsi decisive. Oscar Pistorius
con le sue protesi non richiama alla mente tanto Frankenstein o il Golem, come qualche osservatore ha
sostenuto. Chiama in causa soprattutto le categorie con cui si descrivono normalità e diversità o la
condizione di salute e malattia. Infatti Pistorius non potrà neanche gareggiare alle para-olimpiadi, quella
manifestazione parallela priva di sponsor, pubblico e mass media, che per quanto venga seguita quasi solo da
parenti e amici, ha il merito di offrire un’occasione per tanti atleti diversi provenienti da tutto il mondo.
Pistorius non è normale, ma non è neanche l’opposto di normale. Né... né..., una “condizione senza”, di chi è
escluso per il fatto di non rientrare in nessuna categoria. Perché queste categorie, create più che altro per
rassicurare i normali, sono costruite con una idea di salute e malattia meramente quantitativa: non puoi fare
le olimpiadi perché hai “di meno”; non puoi fare le para-olimpiadi perché hai “di più”. Questa addizione e
sottrazione della normalità revoca in dubbio anche le parole che nominano la diversità. Pistorius non un è un
“handicappato”, portatore di uno svantaggio; non è neanche un “disabile”, se quel prefisso segnala
un’incapacità. Forse il deprecato “politicamente corretto”, la “cultura del piagnisteo” come viene anche
definita con spregio, questa volta si rivela più vicino a descrivere la realtà. Infatti Oscar Pistorius è
letteralmente un “diversamente abile”, di una diversità che lo rende superiore ai “disabili” ma anche agli
“abili”. Sul margine delle parole sta un atleta con le gambe di carbonio, posizione interstiziale per eccellenza,
che costringe a rivedere le classificazioni costruite per generalizzazioni. Pistorius è un nuovo oggetto sociale,
sta in un ordine diverso, un ordine non ancora nominato e quindi indicibile, impensabile, almeno per una
scienza guidata solo da una ragione (Vernunft) nella sua modalità di “intelletto che divide” (Verstand). La
sua condizione di salute/non salute, disabilità/superabilità, è un ordine nuovo da aggiungere in una
tassonomie descrittiva che non risponde ad alcuna logica della strutturazione. Pistorius, con la sua alterità
apolide, guarderà le olimpiadi in TV, come i normali, da spettatore, finalmente uguale a tutti gli altri.
Michele Marzulli, Università Cattolica, Milano
Rubrica “Le città interstiziali”
(a cura di C. Pasqualini)
@ Leuca, città bianca e evanescente
Perché la visita abbia senso, ci devi arrivare dalla litoranea, abbandonando il non-luogo autostradale
all’altezza di Otranto. Cioè attraverso una strada scomoda, stretta e piena di gomiti, la cui carreggiata è stata
sottratta alla dura e selvaggia roccia scoscesa. Non è solo una ovvia questione panoramica. È piuttosto che
seguendo questo percorso davvero puoi maturare, istante dopo istante, la sensazione di arrivare al finisterrae,
a una meta difficilmente accessibile e che sembra, come le vette montuose, allontanarsi sempre più mano a
mano che i sistemi di misurazione oggettiva della distanza segnalano la sua imminenza. L’interstizialità di
questa bianca (come l’etimo stesso suggerisce) e insospettabilmente piana città è ovviamente e innanzitutto
nel suo essere, ad un tempo, ultima propaggine sud-orientale della Penisola. Privilegio da cui ne ricava un
altro, vale a dire la mosaica potenza di “separare le acque”, essendo anche confine virtuale tra Adriatico e
Ionio. Ma come tutti i luoghi che hanno un rapporto peculiare con lo spazio, Leuca ne ha anche uno con il
tempo, che sembra incagliarsi tra le sue case e le sue rocce, continuando a ripetersi identico, e dando la
sensazione di non trascorrere mai. Sarà forse per questo che Leuca, pur vedendo tuffarsi la terra nel mare,
non ha nulla della tetraggine di un Mont-Saint-Michel. Pur assistendo allo scontro di due mari, non lascia
certo presagire alcun Maelstroem. Sul dolce pendio lungo il quale si sdraia, sembra invece regnare una
atmosfera new age assai più vicina a quella di certe isole greche, come a Santorini nella città di Oia. Ma se ci
si arriva per via diretta, seguendo i canali della viabilità ad alto scorrimento, questo delicato incanto potrebbe
anche non prendervi mai. E se sempre da questa via ve ne allontanate, quello che prima avete sperimentato
potrebbe poi rivelarvisi solo posticcio, come quando si scopre il trucco del prestigiatore o le giostre del Luna
Park smettono di girare. E questa è la terza interstizialità di una città doppiamente evanescente.
Fabio Introini, Università Cattolica, Milano
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@ Brescia, città del Nord-est
Anche Brescia, come qualunque altro luogo al mondo, può essere osservata attraverso una serie di
prospettive “interstiziali”, nel senso di collegamento (linking pin) tra diverse entità. Vediamo qualche
esempio specifico, che riguarda sia la città sia la sua provincia. Nella dimensione territoriale limitata alla
scala regionale, sull’asse est-ovest Brescia è circa equidistante tra Milano e Verona, vale a dire tra
Lombardia e Veneto. La provincia sta in effetti al confine tra le due, per buona parte segnato dal lago di
Garda. Sull’asse nord-sud, Brescia con la sua estesa provincia di un milione di abitanti collega montagne e
pianura, la Valtellina e il Trentino con il Po. Il suo antico porto fluviale era a Brescello, attualmente in
provincia di Reggio Emilia. Allargando la dimensione territoriale est-ovest alla scala europea, Brescia è circa
a metà del “corridoio 5”, ovvero di uno tra i principali percorsi di trasporto multimodale, che collega Lisbona
con Kiev. Sotto il profilo economico, Brescia e la sua provincia collegano la produzione agro-alimentare
della bassa con una poderosa attività di trasformazione industriale, che si sviluppa anche in quota nella
Valtrompia e nella Valsabbia. Il settore terziario qualifica Brescia come un centro primario della finanza, del
commercio e delle attività legate al tempo libero (turismo lacustre e montano, divertimento e spettacolo).
Alla fine, si contano in provincia centomila attività imprenditoriali. Nella prospettiva storica, si può
aggiungere che la seconda città della Lombardia per numero di abitanti è stata inclusa per secoli nel territorio
della Serenissima, sebbene sotto questo profilo il confine politico vada spostato più a ovest (a Bergamo e al
fiume Adda). Se si guarda al passato, però, la storia e l’arte di Brescia sono molto più antiche: in particolare,
le sue tracce romane e medievali meriterebbero di essere meglio conosciute. Brescia città d’arte, e non solo
centro economico, ha assunto rinomanza internazionale anche per le grandi mostre allestite a Santa Giulia.
Se si guarda al presente e al futuro, Brescia potrebbe forse prefigurare la media città italiana tra 10 o 20 anni.
Nelle sue problematiche, come una presenza di stranieri di circa il 12% della popolazione, quindi doppia
rispetto a quella attuale italiana e lombarda. Ma anche nelle sue potenzialità innovative, come la costruzione
di una linea metropolitana in sottosuolo o i progetti di sviluppo aeroportuale.
Enrico M. Tacchi, Università Cattolica, Milano
@ Bolzano/Bozen
Immagina una città, anzi una cittadina, o forse una via di mezzo tra una moderna città industriale e un antico
borgo di mercato, sorta alla confluenza di tre valli. Un punto che non appartiene ad alcuna di esse, o forse a
tutte e tre. Immaginala srotolata su un lieve declivio nel mezzo tra due fiumi. Immagina però questi fiumi
difendersi coraggiosamente, come guerrieri omerici al tramonto della battaglia, dalla vigorosa stretta della
città che cresce su entrambi i loro lati. Percorri ora le strade del centro, osserva il paesaggio culturale che ti
circonda, e scopri due culture che vivono e crescono una accanto all’altra. Guarda meglio, e scopri una di
esse circoscritta in poche isole interamente circondate, fortilizi di difesa di un’apparente minoranza
linguistica. Percorri le strade della periferia e ti accorgi che no, non erano quei pochi baluardi a essere
circondati da una cultura straniera, ma è quest’ultima, che domina il centro cittadino, a essere a sua volta
circondata, come un avamposto lungo la frontiera, da una maggioranza linguistica, come dire, ancora più
straniera. Un 70% di guelfi che circonda dalla periferia povera e industriale il 30% di ghibellini, arroccati nel
loro ricco centro mercantile. Eppure, allontanandosi di un altro passo, si scopre che forse sono i guelfi a
vivere abbarbicati alla loro esperienza urbana e industriale, circondati da un contado ghibellino che conta
l’80% della popolazione della regione. Provincia, la chiamano. Provincia autonoma. Un angolo ai margini
della nazione, straniero per lingua, cultura, mentalità, anche se non per i contingenti fatti storici. Come
scatole cinesi, le popolazioni qui s’inglobano vicendevolmente senza assimilarsi e senza mischiarsi.
Pensavate di essere a Sarajevo? No. Questa è Bolzano, Italia.
Paolo Volonté, Libera Università di Bolzano
Rubrica “Gli oggetti interstiziali”
@ Biking the Bridge
Se la natura interstiziale della figura del “ponte” può essere accettata pacificamente –e come tale trovare
legittimità in queste pagine- la sua natura simbolica è più complessa: il ponte, infatti, “sta tra” le due rive che
congiunge, senza appartenere né all’una né all’altra, eppur consentendo il passaggio. Oggetto di rinvio da
una realtà all’altra, esso è simbolo per eccellenza, etimologicamente “gettato” a unire ciò che è separato.
Nello stesso tempo, le tradizioni orientale e occidentale hanno configurato tale simbolo anche sulla base
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della sua obbligatorietà – è un passaggio vincolato e vincolante, necessario e ineludibile – e della sua
pericolosità: sospeso sul vuoto dell’abisso, il ponte è a sua volta stretto, talvolta affilato in guisa di spada. Se
di metallo, il ponte dei racconti folclorici è una
lama di rasoio, capace di dividere in due chi lo
attraversa. Insieme, dunque, congiunge e separa,
consente il transito a rischio della vita. Bisogna
attraversarlo in fretta, senza indugiarvi: come
ricorda Simmel a proposito della dimensione
simbolica del denaro nella cultura moderna, “su
un ponte non è possibile avere dimora”. Anche
per queste ragioni, l’esperienza turistica quasi
obbligatoria per chi visita San Francisco,
consistente nell’attraversare il Golden Gate
Bridge, preferibilmente a piedi o in bicicletta, è
un’esperienza curiosa: va fatta anche se
assolutamente inutile –nel senso della mancanza
di vantaggio pratico o utilitario, e dunque della
stessa gratuità del gioco- costituisce una piccola
impresa personale, di cui essere legittimamente orgogliosi anche se massivamente praticata, consente l’uscita
dall’universo della metropoli per approdare alla dolce indolenza di Sausalito. Ma ha anche qualcosa di
mistico: la nebbia rende spesso invisibili le sponde e gli stessi vertici della struttura, così che i tiranti
sembrano agganciati al nulla vaporoso; il colore dei piloni sfuma nelle diverse tonalità del rosso mentre il
vento fa fischiare i cavi e il traffico pesante, che scorre di fianco, rimbomba nel continuo passaggio da una
sezione all’altra. Bikers e riders manifestano rare forme di solidarietà e tolleranza, sconosciute lungo altri
percorsi. E, soprattutto, una volta raggiunta la contea di Marin, la strada scivola in discesa fino alla baia, alla
prima occasione per gustare una “Anchor steam” fresca di spina. Anche per questo, il ritorno è meglio farlo
in traghetto.
Piermarco Aroldi, Università Cattolica, Milano
@La zuppa di Kappel
Nel 1529 la Svizzera era dilaniata dalle guerre di religione. Nel piccolo villaggio di Kappel (Canton Zurigo)
si fronteggiavano i Cattolici delle montagne della Svizzera centrale e i Protestanti di Zurigo guidati da
Zwingli. I due accampamenti erano molto vicini, così che le sentinelle cominciarono a fraternizzare. E
poichè le truppe alpine avevano molto latte, mentre i soldati provenienti dalle fertili pianure di Zurigo
abbondavano di pane, piazzarono dei grossi calderoni esattamente nel mezzo della linea del fronte e ogni
esercito, tenendosi rigorosamente nella propria metà, vi mise il pane o il latte, producendo appunto la Zuppa
di Kappel, che costituisce la tradizionale colazione svizzera. Dopo il comune banchetto naturalmente
nessuno se la sentiva più di combattere coi commensali, e la battaglia venne rimandata. Da quell'evento
storico decisamente minore gli Svizzeri trassero conclusioni molto ampie. Imparono che ciò che è opposto
può anche essere complementare, e che la diversità può generare conflitti ma anche migliorare la qualità
della vita, a patto che sia disponibile un buon "calderone" (e sarà la Confederazione) dove mescolare i diversi
ingredienti; fuor di metafora, uno spazio neutro di confronto e di compensazione delle varie posizioni in vista
di un compromesso. L’evento viene oggi ricordato da un memoriale appositamente costruito a Kappel-amAlbis, nel Canton Zurigo, credo il solo monumento esistente dedicato alla zuppa. A titolo di curiosità, pochi
anni prima (1525) Francesco I, sconfitto e fatto prigioniero nella sanguinosa battaglia di Pavia tra Francesi e
Spagnoli, che era iniziata per lui assai favorevolmente, fu ristorato con una zuppa di pane, resa più nutriente
dall'aggiunta di due uova, che verrà poi chiamata "zuppa pavese". La zuppa pavese è decisamente più
saporita della Zuppa di Kappel: ma verrebbe da dire che è meglio dunque una zuppa mediocre divisa coi
nemici senza combattere, che una buona zuppa mangiata in catene...
Comunicato stampa - Berna, 27.04.2006 - La controversia sui beni culturali tra San Gallo e Zurigo è stata
composta grazie alla mediazione della Confederazione. I rappresentanti di tutte le parti coinvolte hanno
firmato oggi a Berna un accordo che mette definitivamente fine a questo contenzioso risalente all'anno 1712.
Dopo la firma, il consigliere federale Pascal Couchepin, in veste di rappresentante della Confederazione, ha
offerto alle parti una zuppa di Kappel.
Claudio Visentin, Università della Svizzera Italiana, Lugano
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Pubblicazioni recenti
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S. Colafranceschi, Autogrill.Una storia italiana, Il Mulino, Bologna 2007.
M. Ferraris, Il tunnel delle multe. Ontologia degli oggetti quotidiani, Einaudi, Torino 2008.
P. Ferri, La scuola digitale, Bruno Mondadori, Milano 2008.
I nostri recapiti:
Giovanni Gasparini
(Coordinatore)
Dipartimento di Sociologia
Università Cattolica del Sacro Cuore
Largo A. Gemelli, 1
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Cristina Pasqualini e Fabio Introini
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Dipartimento di Sociologia
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Il Gruppo “Interstizi & Intersezioni”:
Piermarco Aroldi, Giovanni Gasparini, Fabio Introini, Cristina Pasqualini,
Nicoletta Pavesi, Giovanna Salvioni, Paolo Volonté
I corrispondenti:
Maurizio Ambrosini, Università degli Studi di Milano (Relazioni interculturali); Marc Augé, École des Hautes
Études en Sciences Sociales – Parigi (Antropologia); Maurice Aymard, Maison des Sciences de l’Homme – Parigi
(Storia europea); Giampaolo Azzoni, Università di Pavia (Filosofia del Diritto); Laura Balbo, Università di Ferrara
(Women studies); Enzo Balboni, Università Cattolica – Milano (Diritto e Istituzioni); Claudio Bernardi, Università
Cattolica – Milano (Teatro); Gianantonio Borgonovo, Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale – Milano (Bibbia);
Laura Bosio, scrittrice (Fiction); Enrico Camanni, Torino (Montagna); François Cheng, Académie Française –
Parigi; Francesca D’Alessandro, Università Cattolica – Milano (Letteratura italiana); Cecilia De Carli, Università
Cattolica – Milano (Arte); Roberto Diodato, Università Cattolica – Milano (Estetica); Duccio Demetrio, Università
degli Studi – Bicocca, Milano (Educazione e formazione); Ugo Fabietti, Università di Milano-Bicocca (Antropologia);
Maurizio Ferraris, Università di Torino (Ontologia); Enrica Galazzi, Università Cattolica – Milano (Linguistica);
Hans Hoeger, Università Libera di Bolzano (Design); Philippe Jaccottet, Grignan (Poesia); Cesare Kaneklin,
Università Cattolica – Milano (Psicologia); David Le Breton, Université de Strasbourg (Socio-Antropologia);
Frédéric Lesemann, Université du Québec – Montréal (Culture delle Americhe); Francesca Marzotto Caotorta,
Milano (Paesaggio); Francesca Marzotto Caotorta, Milano (Paesaggio); Elisabetta Matelli, Università Cattolica –
Milano (Letterature antiche); Francesca Melzi d’Eril, Università di Bergamo (Letterature straniere); Giuseppe A.
Micheli, Università di Milano-Bicocca (Demografia); Margherita Pieracci Harwell, University of Illinois – Chicago
(Italian Studies); Edgar Morin, Cnrs – Parigi (Pensiero complesso); Salvatore Natoli, Università di Milano-Bicocca
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dell’Italia settentrionale – Milano (Religione); Giorgio Simonelli, Università Cattolica – Milano (Cinema e
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– Milano (Economia); Claudio Visentin, Università della Svizzera Italiana, Lugano (Viaggio); Serena Vitale
(Letteratura russa).
Le Newsletters precedenti sono consultabili sul sito dell’Associazione Italiana di Sociologia (www.aissociologia.it) e sul sito del Dipartimento di Sociologia dell’Università Cattolica di Milano
(http://www3.unicatt.it/pls/unicatt/consultazione.mostra_pagina?id_pagina=15524)
Numero chiuso il 15.05.2008
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