n. 37 - gennaio-aprile 2012 n. 37 - gennaio-aprile 2012 Rivista quadrimestrale della FENIARCO festival Poste Italiane SpA – Spedizione in Abbonamento Postale – DL 353/2003 (conv. In L. 27/02/04 n. 46) art. 1, comma 1 NE/PN Federazione Nazionale Italiana Associazioni Regionali Corali Feniarco festival IL QUOTIDIANO LAVORO DI ORLANDO DIPIAZZA CHI CANTERÀ LE MIE STORIE? INTErVISTA A BEPI DE MARZI EUROPA CANTAT TORINO 2012 ASPETTANDO IL FESTIVAL NUOVA RUBRICA LA VITA CANTATA VOX HOMINIS UNO SGUARDO ALLA CORALITÀ MASCHILE + notizie> Anno XIII n. 37 - gennaio-aprile 2012 Rivista quadrimestrale della Fe.N.I.A.R.Co. Federazione Nazionale Italiana Associazioni Regionali Corali Presidente: Sante Fornasier Direttore responsabile: Sandro Bergamo Comitato di redazione: Efisio Blanc, Walter Marzilli, Giorgio Morandi, Puccio Pucci, Mauro Zuccante Segretario di redazione: Pier Filippo Rendina Hanno collaborato: Maria Dal Bianco, Paolo Bon, Alvaro Vatri, David Giovanni Leonardi, Ettore Galvani, Lorenzo Montanaro, Rossana Paliaga Redazione: via Altan 39 33078 San Vito al Tagliamento Pn tel. 0434 876724 - fax 0434 877554 [email protected] In copertina: Corovivo 2011 (foto Renato Bianchini) Editoriale + approfondimenti> «Niente cultura, niente sviluppo. Dove per “cultura” deve intendersi una concezione allargata che implichi educazione, istruzione, ricerca scientifica, conoscenza. E per “sviluppo” non una nozione meramente economicistica, incentrata sull’aumento del Pil, ma che includa cultura e tutela del paesaggio e dell’ambiente tra i parametri da considerare.» A dirlo è il Sole24Ore, che il 19 febbraio ha lanciato un Manifesto per la Cultura, rovesciando il luogo comune in base al quale con i soldi accumulati in qualche modo ci si dedica all’hobby di lusso della cultura: al contrario, spiega il quotidiano di Confindustria, è partendo dalla cultura che si esce dalla crisi attuale. «È importante – prosegue il Manifesto – che l’azione pubblica contribuisca a radicare a tutti i livelli educativi lo studio dell’arte (…) per poter fare in modo che [i giovani] ne traggano alimento per la creatività del futuro. (…) Per studio dell’arte si intende l’acquisizione di pratiche creative… è dimostrato che i ragazzi impegnati in attività creative e artistiche sono anche i più dotati in ambito scientifico.» La coralità si colloca a pieno titolo su questo percorso. Non è per caso, allora, che in questi ultimi tempi siano nati tanti cori giovanili e di bambini, nella scuola e fuori: quasi che l’organismo sociale generi da solo gli anticorpi con i quali reagire alla malattia che lo ha preso. Il coro, infatti, non solo è luogo di formazione culturale ma anche laboratorio di socialità, dove tutti, giovani e no, sperimentano e apprendono i principi della responsabilità personale e collettiva, dell’impegno, delle corrette relazioni. Esserne consapevoli significa anche sapere che siamo chiamati a vivere il nostro canto ricreandolo ogni giorno: cercare un nuovo repertorio, riscoprire un autore dimenticato, eseguire composizioni inedite, creare accostamenti inattesi, sono tutte azioni che prefigurano una capacità di innovazione di cui la nostra società ha bisogno. Se questo è il coro, allora il contributo, pubblico o privato, non è un sussidio dovuto alla cortesia di chi lo può dare, ma un solido investimento per il futuro. + curiosità> + rubriche> + + musica> servizi sui principali> avvenimenti corali LA RIVISTA DEL CORISTA Sandro Bergamo direttore responsabile Progetto grafico e impaginazione: Interattiva, Spilimbergo Pn Stampa: Tipografia Menini, Spilimbergo Pn Anche per il 2012 rinnova il tuo abbonamento Associato all’Uspi Unione Stampa Periodica Italiana e fai abbonare anche i tuoi amici ISSN 2035-4851 Poste Italiane SpA – Spedizione in Abbonamento Postale – DL 353/2003 (conv. In L. 27/02/04 n. 46) art. 1, comma 1 NE/PN Abbonamento annuale: 25 € 5 abbonamenti: 100 € c.c.p. 11139599 Feniarco - Via Altan 39 33078 San Vito al Tagliamento Pn CHORALITER + ITALIACORI.IT Rivista quadrimestrale della FENIARCO abbonamento annuo: 25 euro / 5 abbonamenti: 100 euro Federazione Nazionale Italiana Associazioni Regionali Corali Via Altan, 39 33078 S. Vito al Tagliamento (Pn) Italia Tel. +39 0434 876724 - Fax +39 0434 877554 www.feniarco.it - [email protected] modalità di abbonamento: • sottoscrizione on-line dal sito www.feniarco.it • versamento sul c/c postale IT23T0760112500000011139599 intestato a Feniarco • bonifico bancario sul conto IT90U063406501007404232339S intestato a Feniarco n. 37 - gennaio-aprile 2012 Rivista quadrimestrale della FENIARCO Federazione Nazionale Italiana Associazioni Regionali Corali DossieR Uno sguardo alla coralità maschile 2 VOX HOMINIS Maria Dal Bianco La coralità virile di ispirazione orale italiana Paolo Bon 15 la coralità maschile come fenomeno socio culturale: una panoramica internazionale Alvaro Vatri 9 Dossier compositore Orlando Dipiazza 39 Chi canterà le mie storie? Intervista a Bepi De Marzi Attività dell’Associazione nel nome della musica Incontro con orlando dipiazza David Giovanni Leonardi 24 Orlando Dipiazza: Tre Messe Missa brevis (1989), Missa Choralis (1999), Missa “Orbis factor” (2008) Mauro Zuccante Mauro Zuccante 42 Aspettando il Festival… Europa Cantat Torino 2012 19 un quotidiano lavoro portrait Lorenzo Montanaro 45 BASE ASSOCIATIVA, GRANDI EVENTI, COMUNICAZIONE: tre temi importanti sotto la lente dell’Assemblea Feniarco Sandro Bergamo 49 VOGLIA DI RIVISTA… Giorgio Morandi cronacA Nova et veterA 51 MARIBOR: IL GRAND PRIX NELLA CAPITALE DELLA CULTURA Rossana Paliaga 28 O magnum mysterium di Tomás Luis de Victoria 54 Walter Marzilli Notizie dalle regioni Rubriche canto popolarE INDICE 34 L’EVOLUZIONE DEL CANTO POPOLARE DI GUERRA TRA TRINCEA E POLITICA DI REGIME Ettore Galvani 56 Scaffale 58 La vita cantata 62 Mondocoro VOX HOMINIS di Maria Dal Bianco Perché un coro maschile? «So che esistono delle associazioni i cui membri, presi dal vero spirito della musica, praticano tra di loro quest’ultima con vera devozione…» (Ernst Hoffmann) vox direttrice del coenobium vocale Quando vent’anni fa mi proposero di assumere la direzione di un coro maschile, non sapevo in realtà quello che mi attendeva. Ma il cuore prevalse sulla ragione e così nacque un’avventura che oggi si chiama Coenobium Vocale. A quel tempo in realtà era un gruppo con un consolidato percorso nel genere popolare, ma con il desiderio di cambiare e rimettersi in gioco. Feci leva allora sulla voglia di fare musica, sull’orgoglio di rimanere gruppo maschile, sul coraggio di intraprendere un cammino nuovo e sulla volontà di lavorare con lo strumento musicale più bello che madre natura ci ha dato per fare musica: la voce. Una scelta culturale, insomma, che presuppose tuttavia un iniziale atto di fede da parte di tutti. Un anno di clausura, di studio e lavoro, senza concerti, mise a prova la determinazione di ognuno, ma rinsaldò nel contempo le motivazioni dei cantori e il gruppo che ne uscì iniziò una progressiva evoluzione. Tuttavia, se questi sono stati i nostri ingredienti di formazione, una ricetta “standard” non esiste. La strategia va studiata con le risorse umane e vocali che ci sono, o meglio che si pensa o si spera di poter costruire. Ma alla base del coro maschile, non sempre ci fu unicamente una ragione di ordine culturale. La storia ci insegna che, nei secoli, la musica vocale maschile fu spesso legata ad altre funzioni che ne erano al tempo stesso ragione e origine. Le prime comunità cristiane cantavano per pregare: il rito era accompagnato dal canto ed era a esso funzionale. Tutta la letteratura gregoriana nasce e si sviluppa in funzione del rito liturgico. Anche le scholae, fin da quando furono istituite con il Concilio di Laodicea, nel quarto secolo dopo Cristo, si sviluppano con la precisa funzione di pregare e accompagnare la liturgia. Le cappelle musicali, formate da chierici e cantori professionisti, che raggiunsero l’apice nel corso del Quattrocento e Cinquecento, assommarono alla funzione musicale ecclesiastica anche quella di corte. I Glee Club inglesi della prima metà dell’Ottocento erano sostenuti da una funzione sociale e aggregativa che alimentava la pratica musicale. dossIER Carleton College Glee Club Le botteghe dei barbieri americani dell’Ottocento funsero da sala prove di piccoli ensemble vocali e assistettero alla nascita di un genere musicale che da essi prese il nome appunto di barbershop. Qui, gli uomini, nell’attesa del proprio turno, cantavano in spontanei quartetti. Le stesse assemblee delle nostre chiese funsero per molti secoli da scuola di canto corale, prima di divenire un aggregato di muti spettatori, quali, purtroppo, oggi sono. Per diversi motivi, tuttavia, queste realtà del passato hanno perso gradualmente la loro ragione di essere e il coro maschile è divenuto essenzialmente una scelta culturale e musicale che, proprio perché non assistita da altre e diverse motivazioni, va intrapresa e sostenuta con coraggio. Unica eccezione rimane ancora, forse, il coro maschile popolare dove lo spirito di appartenenza a un corpo militare o la passione comune per la montagna possono a volte favorire l’aggregazione di un gruppo vocale maschile, al di là della dimensione musicale intesa in senso stretto. La storia «La storia è un grande presente, e mai solamente un passato» (Alain, 1945) Tralasciando la storia orientale e la vicenda del teatro greco antico, dove per altro appare oramai certo che la funzione corale fosse svolta prevalentemente da uomini, la voce maschile ha segnato sin dagli albori la storia della musica vocale sacra occidentale e, per lunghi secoli, ne è rimasta l’indiscussa protagonista. Nel Medioevo cristiano il coro assume via via un ruolo sempre più definito, perdendo progressivamente la funzione coreutica ereditata dal mondo classico e acquisendo sempre maggiori contenuti musicali. Chorus diviene così anche termine con cui si indica un luogo fisico delle basiliche e chiese paleocristiane, a dimostrazione 3 del carattere statico acquisito progressivamente nel tempo. Ma già con le prime scholae, composte prevalentemente da chierici e pueri, si avverte la necessità, imposta dalle crescenti esigenze artistiche e virtuosistiche, di conferire al coro un ruolo quasi istituzionale. Era richiesta ai cantori infatti una sempre maggior consapevolezza e abilità, tanto che progressivamente si fece strada l’esigenza di vere e proprie figure professionali. Il Medioevo ci ha restituito monodie e polifonie di grandissima difficoltà esecutiva che non potevano essere eseguite se non da cantori dediti prevalentemente o esclusivamente al canto. Il predominio del coro maschile permane anche nella grande stagione della polifonia e della policoralità sacra, nella quale, fin dagli esordi, ha assunto un compito primario, anche sotto il profilo squisitamente formale ed espressivo. Le voci maschili erano in grado infatti di garantire quell’uniformità timbrica e sonora che la commistione con strumenti a fiato, introdotta con la pratica dei cori spezzati, richiedeva. Matteo Pagan, Processione del Doge in Piazza San Marco (Venezia, Museo Correr) da Sine Musica nulla disciplina... Studi in onore di Giulio Cattin, a cura di F. Bernabei e A. Lovato, Il poligrafo, Padova 2006 A Parigi, la Sainte-Chapelle du Palais, di cui abbiamo menzione a partire già dal 1299, fu il fulcro dell’attività musicale e soprattutto corale. Fedele allo stile a cappella sino alla fine del sec. XVII, ancora nel 1619 constava di sei ecclesiastici, quindici cantori, un gruppo di fanciulli e un suonatore di cornetto, tutti rigorosamente maschi. Come pure maschi erano gli ottantotto cantori (10 soprani, 24 controtenori, 20 tenori, 23 baritoni e 11 bassi) che nel 1712 componevano la Chapelle Royale attiva alla corte di Luigi XIV. Nella Roma di Palestrina erano attive varie cappelle in genere costituite da chierici adulti (tenori e bassi) e da pueri, a eccezione della Cappella Pontificia che, fin dal 1473, anno in cui fu istituita da Sisto IV, era composta unicamente da un gruppo di cantori adulti selezionati in tutt’Europa. Proprio perché composta di professionisti e priva di bambini, era 4 l’unica a non avere un maestro di cappella. Ma il genere maschile prevalse in realtà nella pratica liturgica anche successivamente, nell’Ottocento e Novecento. Lo conferma anche la stessa tradizione delle scholae cantorum dei nostri paesi, di cui abbiamo innumerevoli testimonianze nella memoria dei nostri padri e negli archivi parrocchiali. e Milhaud, le arditezze di Schönberg e i linguaggi personali di compositori contemporanei, quali Arvo Pärt, Morten Lauridsen, Vic Nees, Vytautas Mis̆kinis, Giovanni Bonato e altri ancora. Le voci maschili «…come il pianista ha bisogno di uno strumento ben fatto e ben accordato, che suoni bene, per esprimersi artisticamente, così il direttore di coro ha bisogno innanzitutto di uno strumento corale che produca un bel suono» (Fosco Corti) Schola Cantorum maschile del 1906 Il repertorio profano a voci maschili affonda anch’esso le origini nei secoli antichi. Anche se in origine probabilmente concepito per voci solistiche, possiamo annoverare una vasta produzione di composizioni per organici maschili. Dalle monodie di trovatori e trovieri del XII secolo, ai rondeaux di Adam de la Halle, ai Lieder di Wizlau von Rügen del XIII, fino alle ballate di Guillaume di Machault e Francesco Landini o ai madrigali di Jacopo da Bologna, la voce del Medioevo parla, anzi canta, spesso al maschile. Nel Quattrocento la produzione s’infittisce con chansons e Lieder (Isaac, Desprez), frottole e madrigali (Arcadelt, Willaert, Cara). Qualcuno, in tempi recenti, si è persino cimentato nell’impresa di dimostrare che anche l’intera produzione dei madrigali di Claudio Monteverdi, in realtà, può essere eseguita da un organico di sole voci virili. Dall’ormai assodata frequentazione mozartiana della massoneria, organizzazione storicamente preclusa al sesso femminile, nascono le composizioni del grande salisburghese per coro virile, organico che viene riproposto pure nella cantata Die Maurerfreude (K. 417), dove compare un linguaggio di evidenti richiami all’ideologia massonica. Nel periodo romantico il coro maschile assume un peso rilevante anche nel repertorio profano. Schumann, Brahms, Liszt, Sibelius e Grieg, ma soprattutto Schubert e Mendelssohn vi dedicano importanti raccolte. Il ’900 ci consegna le armonie di Bartók e Kodály, l’eleganza di Poulenc La suddivisione classica del coro maschile si articola in due sezioni di tenori, primi e secondi, baritoni e bassi, dal momento che la gran parte della letteratura, specie di quella romantica e moderna, fa riferimento a questa suddivisione (ttbb). Il termine tenore sembra orami assodato derivi dal latino tenère poiché agli albori della polifonia a esso veniva affidato il cantus firmus, liturgico o profano, attorno al quale si muovevano le altre parti; la parola baritono è data invece dalla fusione di una doppia etimologia greca: barìs (grave) e tonòs. In tempi precedenti, tuttavia, erano in uso anche altre indicazioni, specie per le sezioni acute: cantus e altus, in genere affidate a voci bianche di ragazzi o a contraltisti. La preposizione latina contra sta a indicare in origine una linea deputata a fare armonia con un’altra. Per tale ragione quella del contralto era considerata la voce che meglio contrastava, fondendosi con la voce di alto, mentre contratenor viene usato in riferimento al tenor. In Francia, agli inizi della polifonia medioevale, la voce maschile prendeva a volte il nome di taille; si avevano quindi i termini indicativi di haute-taille, moyenne-taille, basse taille. Nella musica barocca francese ritroviamo anche l’haute-contre che definisce una voce caratterizzata da un’estensione verso La voce maschile richiede una particolare tenacia nel lavoro tecnico. l’alto non molto maggiore di quella di una taille; non arrivava in genere oltre il si3/do4 e si caratterizzava per un colore chiaro ma intenso. La cifra che contraddistingue il coro maschile è il colore delle voci. Specie quando è il risultato di un serio percorso di studio vocale e di crescita tecnica, il suono maschile affascina e contagia in modo “incurabile” ed è capace di toccare le corde dell’animo. Emoziona e commuove, specie quando si somma a una rigorosa compostezza. Gli armonici sovrapposti ai suoni fondamentali, che le voci maschili sanno creare, non hanno pari, per ricchezza, profondità e brillantezza al tempo dossIER stesso. Nella dimensione amatoriale, spesso ci si trova di fronte a qualità vocali innate, ma a volte ad altrettanta scarsa consapevolezza dei propri mezzi. Per raggiungere risultati apprezzabili occorre determinazione e voglia di provare. È questo il caso in cui un direttore deve fare appello a tutta la sua caparbia perseveranza e, soprattutto, alla voglia di non cedere mai ai compromessi tecnici. In questo le donne sono in genere caratterialmente più determinate e reggono con maggiore successo un lavoro tecnico vocale che non sempre può dare risultati immediati. Analoghi caratteri convivono frequentemente nelle sezioni dei cori misti. Anche sul piano psicologico i gruppi maschili offrono tratti distintivi peculiari. L’indole maschile, in genere, piace per l’immediatezza dei rapporti, per la generosità e per la capacità di limitare, all’interno del gruppo, le problematiche personali. L’empatia nasce con una certa facilità e le tensioni si stemperano, grazie a un certo spirito di adattamento. Questi sono sicuramente elementi di forza che orientano positivamente le dinamiche interne del gruppo e aiutano a costruire la squadra. Se però, da un lato, questo carattere di spontaneità favorisce la convivenza, dall’altro può diventare un limite, favorendo a volte un atteggiamento poco reattivo, della serie «accontentiamoci e prendiamo quel che viene». Ovviamente non è opportuno generalizzare, ogni caso è una storia a sé. Tutto questo per dire che per ottenere dei risultati, la voce maschile, soprattutto nel coro amatoriale, richiede una particolare tenacia nel lavoro tecnico, una vigile e costante attenzione da parte del direttore e instancabili richiami a una continua attenzione e precisione, sia nell’articolazione verbale e testuale, sia nell’intonazione del singolo, che del gruppo. Non a caso molti direttori che si dedicano al canto gregoriano preferiscono impegnarsi con le voci femminili, maggiormente inclini alla precisione, alla pronuncia e alla cura dei particolari. Uno dei problemi storici per i cori, particolarmente per quelli maschili, rimane la ricerca delle voci. Specie se giovani, non abbondano infatti nei nostri cori, diversamente da altri paesi europei che possono vantare numerosi gruppi giovanili. I cori di voci bianche italiani sono costituiti prevalentemente da bambine; nelle scuole e nelle chiese si canta raramente e il repertorio lascia spesso a desiderare. Oltretutto sembra che la vita media delle voci bianche si stia accorciando, a causa degli effetti di alcune sostanze chimiche largamente diffuse in giocattoli e contenitori per alimenti, gli ftalati, che inducono un anticipo della pubertà. Il ricambio generazionale è quindi un problema sempre aperto, ma purtroppo senza soluzioni immediate. In Italia non abbondano i cori giovanili, che sono il naturale anello di collegamento con l’esperienza corale adulta, anche se recentemente si sono sviluppate esperienze significative. Specialmente chi è riuscito a coniugare in modo continuativo l’attività con le istituzioni scolastiche, sia di ordine pubblico che privato, ha costruito, nel tempo, realtà corali giovanili oggi di successo. 5 I maestri e i modelli «Il canto è un riflesso della bellezza» (Fosco Corti) Nei miei anni di studio, in conservatorio, ho avuto la fortuna di avere come insegnanti due grandi maestri: l’organista Renzo Buja e il compositore Antonio Zanon. Entrambi mi hanno guidato con passione e dedizione nel percorso di studi aiutandomi a esplorare repertori diversi, con l’umiltà, la profonda competenza e la gioia dei grandi. Molto attenta era la loro scelta dei brani da studiare, da analizzare e da eseguire. Grande scuola! Ma se dovessi riassumere in un termine l’essenza dei criteri per guidare la ricerca di un repertorio sceglierei la bellezza. Nel bello si attinge il nutrimento per crescere. Mario Fulgoni diresse fino alla fine degli anni Novanta il Coro Città di Parma, una delle realtà più belle della coralità italiana. Di quella felice stagione conservo un lavoro straordinario, realizzato dalla sezione maschile: 6 Lieder für Männerstimme und Gitarre, sei perle di Franz Schubert raccolte in un cd, oramai introvabile, registrato con il chitarrista Claudio Piastra. Si tratta di un esempio sublime di raffinatezza e straordinarie qualità interpretative e vocali. Il coro maschile è divenuto essenzialmente una scelta culturale e musicale. Dopo avere ascoltato una così alta interpretazione, ci si chiede quale possa essere il percorso da intraprendere per accostarsi con simili risultati a questo repertorio, solo apparentemente semplice e fresco “dal ritmo ricorrente, liberamente mosso dalla parola e dalla preziosa e raffinata distribuzione della dinamica”, come scrive Anna Sorrento, curatrice del libretto introduttivo al cd. Schubert nell’iconografia del tardo Ottocento (litografia di C. Deblois, 1867) da B. Paumgartner, Schubert, Mondadori, Milano 1981. 6 Per approfondire AA. VV., Dizionario Enciclopedico Universale della Musica e dei Musicisti, vol. I, UTET, Torino 1983 C. Gallico, Storia della Musica, L’età dell’Umanesimo e del Rinascimento, vol. III, E.D.T., Torino 1978 G. Acciai, Palestrina e il suo tempo. Rinascimento romano, in «Amadeus», anno VII, n. 4, p. 30, De Agostini Rizzoli, Novara 1995 L. Garbini, Breve storia della musica sacra, Il Saggiatore, Milano 2005 W. Apel, Il canto gregoriano, Libreria Musicale Italiana, Lucca 1998 G. Cattin, Storia della Musica, Il Medioevo, vol. I (parte seconda), E.D.T., Torino 1979 F. Corti, Il respiro è già canto. Appunti di direzione corale, Feniarco Edizioni Musicali, San Vito al Tagliamento 2006 (revisione a cura di Dario Tabbia) Indissolubilmente legato per lunghi anni alle vicende editoriali de La Cartellina, che per me rappresenta ancor oggi un costante riferimento, Giovanni Acciai ha segnato fin dai primi passi il mio cammino nel mondo corale. Grazie anche al suo lavoro di ricerca sono riemerse dal passato preziose pagine di polifonia per voci pari, altrimenti destinate forse a rimanere nascoste negli scaffali di qualche polveroso archivio. La musica, da lui restituitaci con attente trascrizioni, ha arricchito i repertori di tanti cori italiani. Figlio della generosa terra veneta, che ha nutrito molti compositori e direttori anche della coralità popolare, Piergiorgio Righele, padre dei Cantori di Santomio, è stato antesignano, modello ed esempio per tutti. Convinto del fatto che la solida impostazione di un coro dipenda anche dal valore della parola cantata, ci ha avvicinati al canto gregoriano e al coro maschile, con esperienze da lui originate e poi felicemente maturate. Lo testimoniano anche gli amici dell’Officium Consort che hanno poi saputo rielaborare in un originale percorso le prime esperienze con lui realizzate. Di Fosco Corti, che purtroppo non ho avuto l’onore di conoscere, ammiro la lucida esperienza che traspare in tutta la sua forza, anche a distanza di decenni dalla sua prematura scomparsa, negli scritti che ci ha lasciato. Negli anni Settanta, sosteneva che un bel coro è fatto di belle voci soliste, frase solo in apparenza paradossale. Con l’esperienza ci si convince che non c’è una voce uguale all’altra; che ciascun cantore, avendo caratteristiche proprie, ha bisogno, soprattutto all’inizio, di un lavoro didattico finalizzato alle esigenze vere e concrete della voce; che il progresso e la maturazione di ogni voce ha il suo ritmo, le sue scadenze in ragione dell’età, della maturazione fisica e psichica di ciascun individuo. Da lui ho A. Sorrento, Franz Schubert e le origini del coro maschile nell’800, in cd Schubert Gitarrewerke, 6 Lieder für Männerstimme und Gitarre, Accademia Farnese, Coro Città di Parma, Claudio Piastra, Mario Fulgoni H. Szabó, Improvvisazione vocale nella scuola. IV Canone, imitazione e fuga, in «La Cartellina», anno XV, n. 71, p. 3, Suvini Zerboni, Milano 1991 A. Zecchi, Il coro nella storia, Bongiovanni, Bologna 1968 capito l’importanza di scegliere in modo attento il repertorio per le proprie voci, proponendo brani adatti alle possibilità vocali, un aspetto a volte sottovalutato che può comportare errori sia per eccesso, che per difetto. Il repertorio «Chi non cerca non trova» (Arthur Bloch) La scelta del repertorio, che presuppone una formazione specifica del direttore, continua a essere determinante: una strategia di lavoro, una grande occasione di crescita, a prescindere da epoche o generi. Non ho personalmente mai condiviso, in questo senso, l’artificiosa divisione tra repertorio popolare e il cosiddetto repertorio “dotto”. Al contrario sono profondamente convinta che nell’approccio alla letteratura corale non vi debba essere alcun atteggiamento preconcetto. Si tratta solo di saper scegliere la musica di valore. La semplicità non significa banalità. Grandi compositori hanno dedicato attenzione ai temi della tradizione popolare: Grieg, Kodály e Bartók, Britten solo per citarne alcuni. Lo stesso Arturo Benedetti Michelangeli ha dedicato memorabili composizioni al Coro della S.A.T. di Trento. Esiste una sconfinata letteratura di composizioni, elaborazioni e armonizzazioni di nostri eccellenti autori, che qui non sarà affrontata perché oggetto di approfondimento in uno spazio specifico di questo numero di Choraliter. Come detto in precedenza nel breve excursus storico, se l’organico dispone di controtenori o sopranisti, in realtà la musica antica è in gran parte eseguibile da un gruppo maschile. Dare precise indicazioni in ordine al repertorio dossIER diventa quindi quasi superfluo. È opportuno tuttavia dedicare qualche cenno alle varie scuole: a quella fiamminga in particolare, con Guillaume Dufay, Jacob Obrecht, Cipriano De Rore, Johannes Ockeghem, Antoine Brumel e il genio di Josquin Desprez che con la sua musica sacra arriva a un punto d’intensità espressiva mai raggiunto, conferendo alla potenza del linguaggio una dimensione universale. Sia il mondo della Riforma che quello della Controriforma cercano di venire incontro al problema dell’intelligibilità del testo sacro, oltre che alla necessità di possedere un repertorio per tutte le esigenze derivanti dalla liturgia e dalla devozione. Nella liturgia della messa, sia per l’ordinarium sia per il proprium, trova spazio, accanto alla monodia, il trattamento policorale delle voci, con o senza la presenza del continuo. A questo periodo appartengono i grandi lavori di Thomas Luis de Victoria e Giovanni Pierluigi da Palestrina che, indiscusso protagonista della polifonia cinquecentesca, per primo seppe tradurre in musica i dettami della Controriforma. Importanti esempi di questo movimento sono pure la Missa Regina coeli di Jacobus de Kerle, composta conformemente ai canoni del Concilio di Trento (1545-1563) e le numerose messe di Giovanni Matteo Asola a quattro e cinque voci. La Scuola Veneziana del XVI secolo offre ampia possibilità nella scelta del repertorio vocale a cappella o accompagnato, anche per organici vocali maschili. Si può attingere alle vastissime produzioni policorali, composte per la Cappella Marciana, di Adrian Willaert, Giovanni Croce, Andrea e Giovanni Gabrieli, per arrivare al grande innovatore, Claudio Monteverdi con la sua forza rivoluzionaria, paragonabile a quella di Caravaggio nella pittura. Anche Jacobus Gallus, grande polifonista sloveno, si è ispirato all’organico corale maschile scrivendo mottetti a quattro voci e interessanti doppi cori per i vari tempi dell’anno liturgico. La grande polifonia del Cinquecento offre, per altro, ampie possibilità di scelta nella prolifica produzione di Orlando di Lasso, di Luca Marenzio e, oltre Manica, in quella altrettanto copiosa della scuola inglese di Taverner, Tallis e Byrd. Composizioni di notevole interesse, caratterizzate da tessiture più contenute, sono invece la Passione secondo Giovanni di Francesco Corteccia, le Lamentationes Hieremiae di Marco Antonio Ingegneri, le Lamentationes et responsoria di Lodovico da Viadana, i Responsoria della Settimana Santa di Thomas Luis de Victoria, la Passio Domini Nostri Jesu Christi secundum Iohannem di Jacobus Gallus. Venendo invece a tempi più recenti, a titolo esemplificativo possiamo citare qualche nome, ma precisando che si tratta di una minima parte del repertorio disponibile: Ave coeli munus supernum di J.B. Lully; Magnificat a tre voci, Salve puerule e Salve Regina di M.A. Charpentier; Tantum ergo, Messa per coro, soli e orchestra di G. Rossini; Lieder per coro maschile a cappella o con accompagnamento di pianoforte di Franz Schubert; Rhapsodie per contralto, coro maschile e orchestra 7 Innario e raccolta di Magnificat, composto da Costanzo Festa e compilati sotto Paolo III (da Liturgia in figura, Biblioteca Apostolica Vaticana, De Luca, 1995). La voce maschile ha segnato la storia della musica vocale sacra occidentale. e Lieder per coro maschile a cappella o con accompagnamento di pianoforte di J. Brahms; Vespergesang (Adspice Domine), Beati mortui e Periti autem, op. 115, Quattro lieder op. 120, Wandersmann op. 76 e varie composizioni sacre e profane a cappella e con accompagnamento di F. Mendelsshon; Missa quattuor vocum, Requiem e numerose composizioni sacre e profane di F. Liszt; Jagdlied op. 137, Sechs lieder op. 33, Drei Gesänge op. 62 e Verzweifle nicht im Schmerzenstal op. 93 di R. Schumann; Inveni David per coro maschile e 4 tromboni di A. Bruckner; Album per voci maschili, op. 30 di E. Grieg; Canti di Székely, Canti popolari slovacchi e 4 canzoni popolari ungheresi di B. 8 Cantare fa bene… anche alla carriera «…Un rapido sguardo sulle vite dei compositori dal XV al XVIII secolo ci svelerà subito che i maggiori compositori cominciarono dalle scuole corali o dai cori di chiesa. Per essi il canto costituì l’esperienza musicale primaria, e la loro confidenza con esso è abbondantemente testimoniata dai capolavori inestimabili che scrissero per il coro. Dufay entrò nel coro della cattedrale di Cambrai all’età di 9 anni nel 1409. Ockeghem cantò per anni nel coro della cattedrale di Anversa. Josquin des Prés fu prima un ragazzo cantore nella cattedrale di San Quintino, e poi prestò il suo servizio per lunghi anni presso la corte di Milano e nel coro papale a Roma. Fu nominato maestro del coro della cattedrale di Cambrai all’età di 45 anni. I biografi sottolineano che Marenzio (…), ebbe la sua prima indelebile esperienza musicale come ragazzo cantore presso la cattedrale di Brescia. Il giovane Monteverdi fu iniziato ai segreti della musica violinistica, del canto e della composizione da Ingegneri, il celebre maestro di cappella della cattedrale di Cremona. Anche Palestrina fu un ragazzo cantore: dai 12 ai 17 anni d’età cantò nel coro di Santa Maria Maggiore a Roma. Lasso fu per molti anni un corista nella chiesa di San Michele a Mons, sua città natale. Purcell aveva 10 anni quando fu ammesso alla cappella reale che comprendeva soltanto 12 ragazzi. Schütz acquisì la sua prima esperienza musicale nel coro della chiesa di Weissenfels. Aveva 11 anni quando Moritz, il Marchese di Kassel, si accorse di come cantasse splendidamente e lo invitò a entrare nel coro di corte. J.S. Bach, anche se profondamente intriso di musica nella casa paterna, deve aver ricevuto un’influenza decisiva dai due anni e mezzo che trascorse nel coro della Scuola di S. Michele a Lüneburg. (…) Del giovane Haydn sappiamo che cantò presso la Cattedrale di Santo Stefano a Vienna a partire dall’età di 8 anni sotto il maestro di cappella Reutter. Schubert entrò nel coro reale di Vienna all’età di 11 anni. All’epoca dei suoi primi successi come pianista, l’undicenne Mendelssohn fu ammesso alla classe di canto dell’Accademia di Berlino, che diffondeva le opere di Palestrina e Mozart. Anche Wagner fu un ragazzo cantore nel Leipziger Thomaner Chor. (…) Ludwig Senfl, Jacobus Gallus, Franz Schubert, Carl Zeller, Franz Joseph Haydn, e grandi direttori come Felix Mottle, Karl Richter, Clemens Krauss e Lovro von Matac̆ić furono ragazzi cantori a Vienna, nei Wiener Sängerknaben.» Pueri cantores Da Riflessioni introduttive sull’insegnamento del canto di Helga Szabò, «La Cartellina» n. 71, 1991 (traduzione italiana di Piervito Malusà) Bartók; Stabat Mater, Canticum nuptiale, Canti di soldati e altri canti popolari di Z. Kodály; Quatre petites prières de Saint François d’Assise e Laudes de Saint Antoine de Padoue, Chanson à boire di F. Poulenc; Saltarelle op. 73 e Serenade d’Hiver di C. Saint-Saëns; Psaume 121 di D. Milhaud; Messa da Requiem per 3 voci maschili e organo, Messa Cerviana per 3 voci maschili e organo e mottetti per coro maschile di L. Perosi; Secs Stücke für Männerchor di A. Schönberg; The Ballad of Little Musgrave and Lady Barnard di B. Britten; Coro di morti per coro, tre pianoforti, ottoni, contrabbassi e percussioni di G. Petrassi; De profundis, per coro maschile, organo e percussioni di A. Pärt; Cuatro cantos penitenciales e Tu venìas di J. Busto; Crux fidelis, O lilium convallium e Stetit angelus di G. Bonato; O magnum mysterium e Ave dulcissima Maria di M. Lauridsen. dossIER 9 La coralità virile di ispirazione orale italiana di Paolo Bon compositore Introduzione Sull’argomento sub titulo sono stati pubblicati svariati interventi nelle pagine di questa rivista1. Con taluni di essi dissento su qualche punto e ritengo opportuno parlarne subito. Dissento sull’uso del termine popolare, che dà per scontata una tesi secondo la quale la musica orale è appannaggio del popolo (il ceto contadino nella concezione ottocentesca2, le classi subalterne in quella dell’etnomusicologia dominante del Novecento). Poiché alla concezione sociologica si oppone la più moderna teoria dell’arcaico, ritengo che all’aggettivo popolare vada sostituito l’aggettivo orale, che è assolutamente neutro e assumibile in entrambe le concezioni: che la si consideri musica delle classi subalterne o musica arcaica, si tratta in ogni caso di musica orale. Dissento sulla conclamata semplicità, genuinità, immediatezza comunicativa della musica orale. Se non ci si limita a una lettura in superficie di questa musica (come nel triste fenomeno del Folk Revival), ma la si legge in profondità, si scoprono significazioni ricchissime ed estremamente complesse, tutte suscettibili di essere portate alla luce ed esaltate nel processo compositivo (ma già l’avevano scoperto Bartók e Kodály e, prima di loro, Josquin Desprez e tanti suoi contemporanei). Dissento sull’uso del termine armonizzazione come se questa fosse l’unica possibilità di intervento sulla tematica orale. Il già citato Josquin non faceva certo delle armonizzazioni quando usava il tema de L’homme armé come tenor per innervare l’articolazione contrappuntistica della Messa omonima. L’armonizzazione (procedimento per blocchi accordali con la melodia all’acuto) è solo uno dei tanti procedimenti fruibili nell’intervento. Dissento sul punto che le forme orali siano espressione di un popolo, questa volta inteso come natio, etnia o Koinè linguistica, poiché gli archetipi che ne stanno alla base appartengono all’intera umanità. Dissento – ma non è un’opinione – sull’ascrizione all’area slava dell’Ungheria di Bartók e Kodály: l’Ungheria e la Transilvania (regione quest’ultima, di lingua magiara come l’Ungheria ma politicamente annessa alla Romania) appartengono all’area ugro-finnica, della quale fanno altresì parte i paesi scandinavi, e le due aree (ugro-finnica e slava) non scambiano minimamente fra di loro. In definitiva dissento da tutto ciò che è approssimazione e luogo comune, quando non errore manifesto. Una premessa necessaria: il popolare come declinazione dell’arcaico La nostra diffusa incapacità di capire la musica orale e la poesia orale che prevalentemente l’accompagna3 nasce con l’avvento al potere della borghesia, dopo la Rivoluzione Francese. È in questo momento che all’artista figlio delle classi subalterne, al servizio del principe (modernamente lo chiameremmo un salariato), si sostituisce l’artista figlio della classe al potere, che vende in proprio il suo prodotto e se non ci riesce va a fare il bohémien in qualche sordida soffitta: modernamente chiameremmo il nuovo artista un imprenditore e bohémien un imprenditore fallito. È in questo momento, cioè, che cambiano insieme lo status sociale dell’artista (da figlio della classe subalterna a figlio della classe dominante) e il suo status giuridico (da salariato a imprenditore), e mentre nel milieu d’appartenenza del primo artista circolava soprattutto cultura orale, al secondo tale cultura è generalmente La campagna è solo il fidato custode dell’arcaico. estranea (al massimo è la fantesca a fornire al giovin signore qualche sbiadito frammento di essa). Ciò spiega: • che il musicista dal Quattrocento a Bach non faccia che trasporre l’esperienza culturale orale (sua prima cultura) nella sua esperienza scritta4, mentre il romantico vi ricorre quasi esclusivamente a scopi coloristici (La bella Annina nel Capriccio Italiano); • che il musicista romantico prenda a prestito da Immanuel Kant la teoria del genio creatore per giustificare il proprio essere artista (e anzi la propria onnipotenza): non essendoci più un materiale dato da elaborare (quello orale), l’artista crea la sua opera dal nulla, l’artista è Dio; • che non capendo più (e anzi non conoscendo) la cultura orale Ambrose Merton5 conii il vocabolo folklore nel 18466, interpretando le forme orali come espressioni tipiche del ceto contadino. L’etnomusicologia dominante in Italia nel corso del Novecento7 muove dal concetto mertoniano di folklore e lo estende dal ceto contadino alle classi subalterne in generale (la contadina e l’operaia), reinterpretandolo marxisticamente come conflittuale rispetto alla produzione colta, cioè come espressione della lotta di classe. 10 Note 1. Luca Bonavia nel n. 13/2004; Mario Marelli nel n. 14/2004; Renato Miani e Alessandro Cadario nel n. 20/2006 (lo stesso numero contiene un’intervista a Giovanna Marini e un’altra a Bepi De Marzi); Pier Paolo Scattolin nel n. 33/2010; Sergio Bianchi nel n. 31/2010. 2. Dura a morire: v. l’intervista a Giovanna Marini, cit., nel n. 20/2006. 3. Esiste musica orale puramente strumentale, come la musica a danza (si pensi a una tarantella) ed esiste letteratura orale che prescinde dalla musica, come le fiabe. 4. Solo per fare un esempio, circa una trentina di Messe furono composte nel ’500 sul tema orale de l’homme armé. 5. Pseudonimo di James William Thoms. 6. Per un saggio pubblicato nella rivista londinese Atheneum. 7. Edward Neill, Diego Carpitella, Roberto Leydi, Bruno Pianta e altri. 8. Carl Gustav Jung chiama inconscio collettivo ciò che io chiamo l’arcaico. 9. V. amplius: P. Bon, La Musica, l’Arcaico, l’Effimero, ne «La Cartellina», Suvini Zerboni, Milano, da n. 82, 1992 a n. 117, 1998; idem, La Teoria Evolutiva del Diatonismo e le sue applicazioni, Giardini, Pisa, 1995; idem, Poetica e tecnica dell’intervento espressivo nelle fonti orali, ne «La Cartellina», Ed. Mus. Europee, Milano, n. 154-155-156, 2004 e 158, 2005; idem, ibidem, L’esperienza orale nell’arte musicale scritta, n. 162, 2005; idem, ibidem, L’arcaico e la falsa oralità, n. 182, 2009; L. Bonavia, ibidem, La dimensione arcaica delle fonti orali, n. 163-164, 2006; idem, ibidem, Giganti di Pietra o vascelli d’arcaico? Il caso del canto di tradizione orale in lingua walser, n. 170-171, 2007; idem, ibidem, Il cammino degli archaiòi tìpoi verso la sala da concerto: spunti e idee per una «Coralità dell’Arcaico»; n. 174-176-177, 2008; idem, ibidem, Coralità dell’Arcaico: lungo le rotte di un cosmico vagare, n. 184 e 186, 2009; idem, ibidem, L’applicazione della maieutica Kodáliana alla didattica corale. Punti di contatto e sinergie con una «Coralità dell’Arcaico», n. 189, 2010. 10. Secondo altre versioni nel fuoco. 11. È il pasto totemico, che ha funzione rituale e non alimentare. Il musicista preromantico sapeva che la sua prima cultura (orale) rappresentava l’arkè? E che mettendosi a servizio della cappella sacra o di quella profana faceva filtrare l’arkè nella seconda cultura (scritta)? Non credo che a questo livello di coscienza egli attingesse e credo anzi che non sia possibile raggiungerlo senza l’apporto della ben più tarda psicoanalisi freudiana e soprattutto junghiana8. Ma pure così è: le espressioni musicali e letterarie orali sono forme arcaiche9, e se è più facile rinvenirle nel contado piuttosto che nel tessuto urbano è perché la campagna conserva meglio della città, bombardata com’è, quest’ultima, da stimoli e contaminazioni culturali d’ogni estrazione e d’ogni genere. In sostanza, la campagna funziona da frigorifero: il contadino toscano dice mutolo come il Boccaccio, si messe a correre come il Collodi, riponere (per riporre) come nel latino classico, usa però nel senso di perciò (conformemente all’etimo per hoc); il contadino veneto dice comodi? (latino quo modo), pulito per dire bene (latino polite), termen per pietra di confine (esattamente come in latino); l’uno e l’altro, cioè, usano termini ad accezioni che un tempo appartenevano all’intera koinè, urbana e contadina, e che la città ha semplicemente obliato, così come ha obliato moduli melodici, polifonici e letterari orali che la campagna invece conserva. Non li produce – si badi – ma semplicemente li conserva: la campagna è solo il fidato custode dell’arcaico. Definisco l’arcaico come il luogo delle istanze ancestrali dell’umanità, in parte ontogenetiche (cioè appartenenti specificamente all’umanità) e in parte prevalente filogenetiche (che l’uomo, cioè, ha semplicemente ereditato da predecessori non umani, poiché l’evoluzione non conosce strappi). Sul piano letterario considererò tre esempi. Nella mitologia orale greca Teti, madre d’Achille, immerge il neonato nello Stige10 per renderlo invulnerabile; ma in ciò fare lo regge per il tallone, che non viene lambito dalle acque, e Paride profitterà di ciò per colpirlo in quel punto con la saetta fatale. Nella Canzone dei Nibelungi, la cui stesura è del XII secolo, ma la cui origine si perde nelle nebbie dell’arcaico, Sigfrido uccide il drago, indi asperge il proprio corpo col sangue d’esso, rendendosi invulnerabile. Ma in ciò fare non s’avvede che una foglia staccatasi da un albero gli si è posata su una spalla e in quel punto il sangue del drago non viene spalmato: di ciò approfitterà un traditore per conficcargli la lancia letale. È lo stesso archetipo, colto in due aree culturali lontanissime fra loro e apparentemente non comunicanti. Ma l’arcaico, che è patrimonio di un’indistinta umanità, non tiene alcun conto delle distinte sfere linguistiche. In questo esempio abbiamo colto l’aspetto ontogenico dell’arcaico. Spingiamoci oltre. La femmina della mantide religiosa, dopo l’accoppiamento, uccide e divora il maschio. Perché lo divora? Perché ciò facendo ritiene di impossessarsi delle sue forze: esattamente come i cannibali umani coi corpi dei nemici uccisi.11 Ma perché lo uccide? Perché sa che, non facendolo, il maschio si accoppierebbe con le femmine della prole, portando fatalmente la specie all’estinzione nel giro di poche generazioni. E la femmina non lo può consentire, essendo deputata dalla natura alla conservazione della specie. Le espressioni musicali e letterarie orali sono forme arcaiche. dossIER Allo stesso scopo obbedisce la strage dei fuchi da parte delle api dopo la fecondazione orgiastica della regina (di cui sono eco umane le feste dionisiache dell’antica Grecia). La coniglia e la femmina del criceto, quando rimangono incinte, aggrediscono il maschio ai genitali e, se l’allevatore non è lesto a separarli, lo evirano senza pietà. Lo scopo è sempre quello, di evitare l’accoppiamento del maschio con le figlie. Nella comunità dei lupi, animali essenzialmente gregari, il giovane maschio, al raggiungimento della pubertà, si allontana per aggregarsi ad altri branchi. Perché? Per evitare di accoppiarsi con la madre, e il fine è sempre lo stesso, la conservazione della specie. Per la specie umana la natura ha inventato un altro espediente, il complesso d’Edipo: il desiderio sessuale del figlio maschio per la madre viene inibito dalla paura di castrazione a opera del padre. Indirettamente viene inibito anche il desiderio edipico della madre verso il figlio. La finalità della natura è sempre la stessa: la conservazione della specie. E quanta letteratura non è stata composta, sia in ambito scritto sia orale, sul tema edipico, tutta invariabilmente a epilogo tragico! Si badi ancora che lo stesso mito di Edipo esisteva in ambito orale ben prima delle stesure sofoclee.12 Il terzo esempio da me prescelto è quello cha dai tempi di Costantino Nigra va sotto il titolo convenzionale de L’infanticida.13 Il tema della madre che sopprime il proprio figlio è presente in letteratura fin dai miti di Medea e di Procne14 ed è purtroppo ricorrente anche in cronache recenti (una madre abbandona il figlioletto nel cassonetto della spazzatura, o lo getta dal terzo piano, o lo mette in lavatrice e preme l’avvio, o lo trucida barbaramente). Ma tale archetipo ha radici più antiche della stessa umanità: non è infrequente, infatti il caso della gatta che gioca coi propri micini come se fossero topi, e guai a lasciarglieli!; della coniglia che si rifiuta di allattare i cuccioli condannandoli in tal modo a morte15; della chioccia che si sdegna dei pulcini16. È lo stesso archetipo, presente in ambito preumano, che con l’evoluzione si trasmette all’umanità, presso la quale diventa, oltre che raccapricciante evento, tragico soggetto letterario. Ma che popolare e popolare: siamo di fronte all’arcaico! Tutto ciò per quanto attiene agli assetti letterari. Per quanto riguarda gli assetti musicali di fonte orale, la dimostrazione della loro ascrivibilità alla dimensione dell’arcaico è, se mai possibile, più facile. Basta pensare, infatti, alla pentatonia presente alle più svariate latitudini e longitudini del globo e in alcune aree assolutamente dominante (area gaelica, cioè irlandese-scozzese, Cina e Mongolia, Montagne Rocciose e cordigliera andina). Si tratta di musica che utilizza una scala priva del fa e del si. Se si pensa che nel VI-V sec. a.C. i pitagorici definivano matematicamente i rapporti intervallari della scala di sette note, conoscevano benissimo le note cromatiche, conoscevano l’enarmonia e stabilivano, sempre matematicamente, il divario d’altezza fra le omologhe L’armonizzazione è solo uno dei tanti procedimenti fruibili nell’intervento sulla tematica orale. 11 12. Edipo re e Edipo a Colono. 13. C. Nigra, Canti Popolari del Piemonte, p. 81 e segg. della ristampa moderna per Einaudi, Torino, 1974, o Cantar Storie, di AA.VV., vol. I, Grossi Domodossola, 1999, p. 253 e segg. 14. Medea uccide i figli nati dal suo matrimonio con Giasone per punire il tradimento del marito. Procne, per lo stesso motivo, offre in pasto all’ignaro marito le membra del loro figlio da lei stessa ucciso. Il mito di Procne ebbe circolazione essenzialmente orale; la tragedia di Medea è stata resa in forma scritta da Euripide, ma il mito preesisteva in ambito orale. 15. Se la natalità nei conigli è assai elevata, è per compensare il tasso di mortalità infantile, pur esso elevato. 16. In questo caso le contadine venete mettono la chioccia sotto una cupoletta di vimini (detta crìola) a maglie strette sì da impedire alla chioccia di uscirne, ma larghe quanto basta per consentire ai pulcini di entrarvi e provare almeno l’illusione di un affetto materno. 17. In Romania i magiari sono minoranza etnica e, come sempre accade nelle minoranze, si arroccano intorno alla loro lingua e alla loro cultura difendendole da ogni tentativo di colonizzazione e conservandone testimonianze più vive di quelle della loro etnia nei paesi in cui è maggioranza. Ciò consentì a Kodály ricerche particolarmente fruttuose nella regione. 18. Non accade ovunque: a Oriente, nell’area giuliana profondamente legata a modelli ottocenteschi mitteleuropei, la vocalità della S.A.T. suscita ripulsa e perfino indignazione. 19. L’orfeonismo era nato in Francia nella seconda metà dell’Ottocento con l’intento di promuovere un’educazione musicale di base mediante le bande e i cori. La coralità orfeonica italiana fra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento era prevalentemente d’ispirazione verdiana popolare nel senso anglosassone di popular music, musica per il popolo. 20. Non ho coniato io questa locuzione, l’ha fatto Bepi Carone che forse non se lo ricorda nemmeno. M’è piaciuta e me ne sono impossessato. 21. Il suo Mistero Buffo, da lui recitato, era travolgente, mentre non regge alla prova della lettura: è letteratura orale. 22. Più che di espressioni popolari parlerei di espressioni vernacole. 23. Anche il canto gregoriano è di fonte orale e ciò che lo differenzia dalle altre espressioni è il fatto che in un certo periodo storico si è fissato in forme scritte consegnate alla funzione liturgica sotto il vigile controllo censorio dell’autorità religiosa. 12 (il comma ditonico pitagorico), abbiamo una vaga idea dei millenni, ma più probabilmente delle decine di millenni che ci separano dalla genesi degli esiti pentatonici. Musica popolare? Musica della classi subalterne? Ma no, signori, si tratta di brandelli di preistoria! Ne cito tre: Il terzo esito è l’Alleluia della Messa. E ora vi presento due esiti di transizione, che mediano fra pentatonia e eptatonia: Fig. 4 Fig. 1 Esito gaelico Fig. 5 Fig. 2 Esito andino Fig. 3 Esito mediterraneo Il primo esempio è l’inno a San Giovanni caro a Guido d’Arezzo, il secondo è un passo di danza infantile a metrica quinaria (Madama Dorè). Come potete notare, nel primo manca il si, nel secondo il fa: sono esiti esatonici. L’inno a S. Giovanni viene generalmente attribuito a Paolo Diacono, l’illustre storico longobardo († c. 799), ma se ciò è plausibile per il testo, non lo è certo per la musica, la cui origine, come per Madama Dorè, si perde nelle nebbie dell’arcaico. Per tutti i frammenti presentati, ovviamente, è impossibile dire attraverso quanti e quali rivestimenti letterari sono passati prima di giungere a noi con l’ultimo, a noi noto. dossIER Le tappe della coralità di fonte orale italiana Il passaggio di mano dell’arte musicale dal figlio della classe subalterna e salariato a quello della classe dominante e imprenditore aveva provocato una lacerazione gravissima fra le due culture, orale e scritta: la seconda non capiva più la prima. In Ungheria lo strappo viene ricucito, nella prima metà del Novecento, dai due grandi musicisti Zoltán Kodály e Béla Bartók, che si immergono in una appassionata ricerca sulle fonti orali del loro Paese e della Transilvania, la regione politicamente romena, ma di lingua magiara17, facendo poi lievitare quelle istanze arcaiche all’interno della loro produzione musicale. Gli archaiòi tìpoi riacquistano nella loro musica il respiro cosmico che li accompagnava nelle opere di Josquin Desprez, di Orlando di Lasso e di Bach. A Occidente, e precisamente qui da noi in Italia e nello stesso periodo, quel compito viene svolto dal Coro della S.A.T. di Trento: una vocalità ruvida e scarpona, plebea e apparentemente naïve, in realtà cercata, voluta, studiata, si riversa sulle scene e rapidamente le conquista18. Il percorso seguito da questo coro è inverso rispetto a quello dei due musicisti magiari sopra menzionati: lì era la musica di area scritta che si accostava alla forme orali per scoprirne la vitalità, mentre nel caso del Coro della S.A.T. fu la musica orale a chiedere la protezione della musica scritta e a porsi sotto la sua ala. La musica scritta non gliela negò: fior di compositori, attratti dalla freschezza e dall’apparente naïveté del Coro della S.A.T., ma anche dalla sua trasgressività e rivoluzionarietà, offrirono con entusiasmo la loro opera: dapprima il geniale dilettante Luigi Pigarelli, poi tutti professionisti, da Antonio Pedrotti a Andrea Mascagni, a Bruno Bettinelli, a Renato Dionisi, a Arturo Benedetti Michelangeli. Non dovette esser facile, per quel coro, liberarsi dalle scorie dell’orfeonismo ottocentesco19, e stucchevoli composizioni come La Montanara, La Paganella, e Serenada a Castel Toblin lo stanno a testimoniare; ma nel complesso il coro non mancò il bersaglio e a molti fu chiaro che con quell’esperienza si riannodavano le fila della storia dell’umanità. Il Coro della S.A.T. ebbe uno stuolo d’imitatori, alcuni buoni, altri poco buoni, altri pessimi. Nei primi anni ’60 Gianni Malatesta cominciò a sperimentare col suo Coro Tre Pini di Padova. Quel coro fu un’autentica fucina della vocal-coralità. Il timbro veniva (e tutt’oggi viene) trattato come materia plastica, in vista della massima differenziazione fra i registri acuti limpidi e argentini, e i gravi caldi, profondi e ricchi di armonici, sì da far suonare il coro come un’orchestra; le tessiture vengono dilatate all’inverosimile, spingendo i tenori al mi e al fa sopra il rigo e i bassi (a volte usati come contrabbassi, col raddoppio d’ottava) fino al si-sib sotto il rigo; esasperata la ricerca della pulizia, della leggibilità degli accordi. 13 Sul piano tecnico il Coro Tre Pini è rimasto un modello ineguagliato. Le elaborazioni sono tutte del suo maestro e mi piace ricordarne una che per la sua semplicità, ma soprattutto per la sua profondità esercitò una grande influenza su di me: Les paisirs sont doux, dove l’armonia rende al carattere modale del melos quell’onore e quel rispetto che decine di altri musicisti non gli hanno saputo rendere. Ma in molte altre elaborazioni il Maestro Gianni supera la stroficità della melodia costruendo vere e proprie composizioni, strutturate e complesse e ricche di intuizioni. Nello stesso torno di tempo due altri cori si impongono all’attenzione: il Monte Cauriol di Genova, diretto da Armando Corso, e il Coro I.N.C.A.S. di Fiorano al Serio, diretto da Mino Bordignon, recentemente scomparso. Il primo cattura gli uditori con l’ironia, con la spregiudicatezza goliardica, con la divertita osservazione dall’esterno di vicende della naja, o anche interpersonali e di coppia dalle quali fa sprigionare l’umorismo implicito e in questa dimensione riassorbe anche una certa trasandatezza e sguaiatezza espressiva; il secondo, all’opposto, propone in forme accademiche ottocentesche, a vocalità marcatamente vibrata e enfatica, elaborazioni trasognate e visionarie, crepuscolari e liberty del materiale etnofono. Buon ultima arriva la Nuova Coralità20 del Coro Monte Cesen, Gli archetipi che stanno alla base delle forme orali appartengono all’intera umanità. poi Gruppo Nuovocorale Cesen, da me diretto, erede di tutte le belle esperienze sopra narrate. Con la Nuova Coralità si perviene – credo – al nocciolo della questione. Il termine arcaico per ora non entra nel gergo, ma ve ne sono tutte le premesse: si scopre che ogni esito orale, osservato in filigrana, è una miniera di implicazioni poetiche e strutturali, suscettibili tutte di essere scavate, indagate e portate alla luce con la passione dell’archeologo; che disposte tutte quelle implicazioni in un tavolozza, il musicista le può organizzare in una compiuta composizione con un principio e una fine; che in ciò fare il musicista sacrifica la propria personalità e che l’esito da lui proposto può manifestare la travolgente impersonalità dell’arcaico, può muovere le stesse emozioni che si provano di fronte al Tesoro di Atreo, alle mura ciclopiche di Micene e alle statue dell’Isola di Pasqua. Altro che popolare: il musicista entra in rapporto sciamanico con l’arché e da lei si fa guidare per mano, prigioniero delle sue grazie! La ventata della Nuova Coralità investì in pieno il caro, compianto amico Flaminio Gervasi, che fino a quel momento 14 aveva prevalentemente composto armonizzazioni di canti degli alpini per il Coro A.N.A. di Milano. Staccatosi da questo e assunta la direzione del Coro Sforzesco, valendosi anche, per gli assoli, della sua voce d’usignolo (era uno splendido controtenore), offrì delle composizioni egregie, dove pure emerge l’arcaico, come la bellissima Donna Lombarda. Flaminio non era un musicista nel senso classico del termine, e quando Agnese, la sua vedova fedele, mi chiese di scrivere l’introduzione della sua opera postuma, mi trovai in qualche imbarazzo. Il messaggio, infatti, non gli fluiva sotto la penna, ma gli sbocciava sul labbro, come il messaggio poetico a Dario Fo21, e a chi si metteva a leggerlo era facile dire: non è un musicista. Tutto vero, ma le intuizioni erano geniali, e ciò che è stato geniale una volta lo rimane per sempre. E oggi? I musicisti ci sono e mi piace citarne tre, Mario Lanaro, Mauro Zuccante e Giancarlo Brocchetto, valenti professionisti capaci di leggere in profondità nella tematica orale. Ma quanti li eseguono? Quanti dei nostri cori virili sanno porsi al loro livello di impegno? Io ne conosco uno solo, l’emergente Laboratorio Corale Cantar Storie di Domodossola, diretto da Luca Bonavia, che ha avviato un suo penetrante progetto di coralità dell’arcaico. Non fraintendetemi, non dico che non esistono buoni cori: gli amici Bepi De Marzi, Marco Maiero e Alessandro Buggiani ne dirigono tre di ottimi, ma eseguono proprie composizioni originali che si richiamano a indefinite matrici popolari, che nulla hanno a che vedere con l’arcaico di cui si compenetrano la musica e la letteratura orali, e che alla dimensione dell’arcaico non possono aspirare, perché l’arcaico è l’arcaico e nessuno se lo può inventare22. Per il resto si continua a parlare di coralità popolare per indicare un quid minus rispetto alla polifonia colta, un qualcosa che non esige né la preparazione né l’impegno necessari per eseguire quest’ultima, un qualcosa che ha essenzialmente funzione ricreativo-sociale e non culturale: insomma, un alibi per il disimpegno! Quanta acqua dovrà ancora passare sotto i ponti prima che alle forme orali venga riconosciuta la dignità dell’arcaico, la stessa che spetta al canto gregoriano23? Quanta perché si capisca che la musica – quale ne sia l’etichetta – è una cosa seria, che esige preparazione e impegno? Nessuno lo può dire, ma è facile prevedere che quando ciò avverrà assisteremo a una salutare auto espulsione dall’agone musicale di tante inutili compagini corali e a una travolgente crescita qualitativa di quelle che rimangono. Sono troppo severo? co 15 la coralità maschile come fenomeno socio culturale: una panoramica internazionale di Alvaro Vatri Parlare della coralità come fenomeno socio culturale significa parlare dell’associazionismo corale, vale a dire di quei fenomeni di aggregazione tra realtà corali volti a sostenere e sviluppare gli aspetti non solo funzionali e artistici che il coro rappresentava all’interno delle istituzioni ecclesiastiche o municipali, ma quei risvolti legati alla vita e alla società nella quale il coro operava. Del resto il coro nasce dall’atavico istinto dell’uomo di associarsi al suo simile per un fine cultuale o genericamente celebrativo, religioso o profano, o anche terapeutico, pedagogico-educativo, o connesso al lavoro quotidiano: costante è dunque la vocazione sociale della coralità che pertanto fu sempre profondamente inerente alla pratica di vita. Tale vocazione ha prodotto nel corso dei millenni forme “aggregative” significative (si pensi a quelle di classica compiutezza e funzionalità sociale fiorite nella Grecia del VII-V secolo a.C.), fino alle moderne forme di associazionismo corale. Ovviamente il percorso non è lineare: con l’avvento del Cristianesimo, infatti, il significato del termine coro e la funzione dell’organismo canoro corrispondente subiscono un completo seppure graduale rivolgimento e un affinamento o sublimazione in senso liturgico, teologico e mistico. Ma già durante il Medio Evo il coro è investito da un nuovo corso con il sorgere in Francia, in Inghilterra, in Italia e soprattutto in Germania, di associazioni di musicanti laici, le cui prestazioni erano molto richieste da chiese e monasteri e che quindi aspiravano a ottenere riconoscimenti legali dalle autorità politiche, che a loro volta si rivelarono propense a incorporarli nel tessuto sociale e a elevarne la condizione. Si costituirono quindi Bruderschaften, confréries, gilde (confraternite, fraternite, confraterie, compagnie, fraterie, gildonie, sodalità) laicali di musicisti inurbati, adulti e borghesi, che in esse trovarono appoggio per l’affermazione dei loro diritti civili e religiosi e penetrando nei cori di chiesa ne mutarono la struttura sociologica. Queste associazioni musicali e corali erano rette da statuti severi, con rigide strutture gerarchiche e condizionate, per accedervi, da previo esame delle attitudini musicali. Le loro solenni riunioni erano dedicate, dal lato musicale, al culto della musica corale, dal lato caritativo ai poveri e ai malati e dal lato liturgico alla celebrazione della messa. Abbiamo citato la Germania, uno dei paesi con un’antica e ricca storia della cantoria come coralit 16 fenomeno socio culturale. Qui già nel Medio Evo si ebbe una delle più singolari manifestazioni, che arriva fino al XX secolo, nella cosiddetta Kurrende e nei relativi Kurrendaner o Kurrendeschüler. Si trattava di un coro formato da scolari indigenti delle scuole annesse inizialmente (sec. XIII) alle chiese parrocchiali, ai quali, dopo che il rapido sviluppo delle città maggiori aveva prodotto rivolgimenti e dislivelli sociali nella popolazione, fu concesso di cantare per strade e vicoli, o di casa in casa, indossando neri mantelli a ruota e cappelli a cilindro, sotto la guida di un prefetto (praecentor, per lo più uno scolaro più vecchio), per ricavarne elemosine o doni in natura (il termine deriva da corradere = mendicare). In parecchie città, soprattutto della Turingia e della Sassonia, le Kurrenden godevano di espresse concessioni municipali o governative che regolavano l’esercizio di un’attività in cui era contemplata anche la partecipazione ai riti liturgici e lo svolgimento di rilevanti compiti di catechesi pubblica. L’Umanesimo e la Riforma dettero nuovo impulso alle Kurrenden, che soprattutto nella Germania del nord, più che nella cattolica del sud, accrebbero il loro rilievo partecipando abitualmen­te alle messe mattutine, ai vespri, ai riti di sepoltura, alle ceri­monie nuziali o alle festività di Natale e Capodanno elevando il proprio rango corale. Successivamente le Kurrenden conobbero un graduale scadimento per una serie di cause: la Guerra dei Trent’Anni che ne fece istituzioni caritative più che musicali, lo smodato accat­tonaggio o le pretese eccessive, punibili disciplinarmente, con conseguente svalutazione sociale dei cori di fanciulli que­stuanti, a cui si aggiunsero i duri colpi del Pietismo, con il suo anelito sentimentale ed emotivo alla devozione domestica e interiorizzata e la sua preferenza per canti e inni semplicissimi. Si aggiunse poi l’Illuminismo, durante il quale il concetto di coro si secolarizzò, si ebbe la scissione fra clero e scuola, con la trasformazione delle scuole di latino in organismi didattici puramente scientifici e laici e la noncuran­za per l’insegnamento della musica. Altra causa di scadimento, infine, l’esigenza di criteri educativi razionalistici, fondati sulla scienza e radicati nella fi­losofia, tra la fine del sec. XVIII e gli inizi del XIX, secondo un tipo di pedagogia positivistica. Tuttavia si verificò una successiva restaurazione dell’attività dei Kurrendaner, protrattasi lungo la seconda metà del sec. XIX e il XX, animata essenzialmente da finalità di apostolato e neocatechesi popolari e dagli impulsi di una religiosità di stampo squisitamente caritativo, con tendenza ad accogliere nei cori, oltre ai giovani, gli adulti e a trovare nuovi sbocchi in comunità universitarie cattoli­che. In sottordine alle Kurrenden, sono interessanti anche gli Adjuvan­tenchöre (o Vereine), compagnie di cantorie strumentisti, uo­mini e fanciulli, “aiutanti” del Kantor nei villaggi della Sasso­nia e della Turingia, anche esse espresse ai primi del sec. XVII dallo stesso ampio movimento dei cori scolastici e dirette inizial­mente da teologi cultori di musica. Gli Adjuvantenchöre ebbero però ampia diffusione e un’organizzazio­ne sociale e didattica più salda, con regolamenti scritti e prove d’esame per gli aspiranti “aiutanti”, a partire dal 1648, al termine della Guerra dei Trent’Anni. La loro attività, incentrata sulla musica sacra, prevedeva regolari parte­cipazioni a servizi divini, sposalizi, funerali e processioni. Ma come le Kurrenden, gli Adjuvanten ebbero seri impedimenti dal Pietismo, dal Razionalismo e dall’Illuminismo, e solo la sistemati­ca restaurazione della coralità sacra, nel XX secolo ne consentì la reviviscenza su basi di moderna e funzionale partecipazione al canto litur­gico. Rientrano in parte nella categoria delle associazioni mu­sicali Parlare della coralità come fenomeno socio culturale significa parlare dell’associazionismo corale. ben radicate nella realtà sociale del tempo e del luogo, anche i collegia musica, per lo più non professionistici, fioriti nelle regioni non cattoli­che di Germania, Austria e Svizzera nei sec. XVII e XVIII sulla scia dell’indirizzo educativo-formati­vo della cultura musicale luterana e dediti soprattutto a esecuzioni di musica sacra o profana in circoli privati. Il collegium musicum fu un portato sociologico, specificamente germanico, del ceto borghe­se e degli ambienti studenteschi (non propriamente uni­versitari), precorritore, d’altro lato, di quella che a sec. XVIII inoltrato sarà la società di concerti pubblica, professionistica e borghese. Dal 1750, l’eredità dei collegia musica di studenti fu rac­colta appunto dall’organizzazione dei Liebhaberkonzerte, ma tra la fine del sec. XIX e l’inizio del XX essi rinacquero nelle università te­desche e austriache, per merito precipuo di Carl Friedrich Zelter (Berlino, 1758-1832) e poi di Hugo Riemann (1849-1919), Arnold Schering (1877- dossIER 1941), come complemento della musicologia da poco assunta fra le discipline universitarie. Fu allora che il canto corale tor­nò generalmente a prevalere nell’interesse dei dilettanti a scapito degli strumenti, relegati a ruoli di sostegno, e che di conseguenza, in ambito universitario, si giunse spesso alla coesistenza di un collegium musicum instru­mentale e di un collegium musicum vocale, decisamente orientato verso la resurrezione moderna della musica co­rale quattro-cinquecentesca. Carl Friedrich Zelter (compositore, direttore e didatta, amico di Goethe) fu anche promotore di organizzazioni corali costituite da cantori dilettanti ma improntate di cultura musicale borghese capillarmente diffusa: da una parte le Liedertafeln (il prototipo fu fondato proprio da Zelter a Berlino nel 1809), che inizial­mente raggruppavano i loro membri, solo uomini, scelti fra compositori, cantanti, poeti, attorno a un tavolo (da cui il nome) e ben presto si diffusero, in tutta la Germania, rette da precisi statuti, alimentando non solo la fiamma dell’ideale artistico ma anche quella del patriot­tismo tedesco in un’epoca densa di fermenti irredenti­ stici e di aneliti all’unità e alla libertà e caratterizzando uno stile pieno di pathos. Su un lato opposto troviamo le Singakademien, dichiaratamente concertistiche, che ebbero l’avvio dalla ce­lebre Singakademie berlinese, che sempre grazie all’apporto di Zelter agì per la revivi­scenza bachiana, oratoriale e corale in genere e per il to­tale rinnovamento della vita musicale. Le suddette Liedertafeln, germogliate anche a livello internazionale, dall’Italia alla Francia e agli Usa, ebbero un ruolo importante nell’ambito del coro maschile. Nell’opera fin dagli esordi e nella policoralità sacra il coro maschile aveva assolto un compito pri­mario, architettonico, coloristico, descrittivo, ma nel secolo XIX ebbe notevole espansione, in molteplici forme e per diverse motivazioni, tra cui la fioritura dei Trinklieder, l’influsso della massoneria e dei circoli studenteschi. Inoltre i precipui richiami dell’amor patrio, del valore e del nazionalismo contribuirono a imprimere al coro maschile un conio morale e, di conseguenza, complice il romanti­cismo e tramite appunto le Liedertafeln, il carattere di un movimento idealistico di musica popolare a sfondo politico (monarchico nella Germania del Nord, liberale in quella del Sud), tanto che nel 1862, a Coburg, sorse il Deutsche Sängerbund, federazione dei numerosissimi Männer­gesangVereine frattanto nati in sostituzione delle superate Liedertafeln e imposti dall’esigenza di distinguersi dai com­plessi femminili entro le Singakademien, simbolo e guida all’unificazione politica della Germania e insieme veicolo del messaggio patriottico anche fuori dei confini tedeschi. All’imponente sviluppo della letteratura per coro maschile non sempre corrispose un’alta qualità inventiva, per l’influsso ne­gativo esercitato dal corrompersi del sentimento patriottico in sentimentalismo patriottardo o dalla tendenza nei compositori a dilatare e a ispessire wagnerianamente la 17 sonorità corale con effetti di strepito e magniloquenza: tendenza peraltro contrastata dalle vive reazioni novecentesche, dirette a rinnovare il coro maschile nel senso della semplicità e della funzionali­tà, oltre che della schietta espressione artistica. Le Lidertafeln, come abbiamo detto, germogliarono anche in altri paesi, tra cui la Francia, dove intorno al 1820 il didatta Guillaume Bocquillon-Wilhlem (1781-1842) ideò delle società co­rali maschili dette collettivamente L’Orphéon (da cui la deno­minazione di choeurs orphéoniques tuttora in uso), composte per lo più di di­lettanti dei ceti medi e umili, allo scopo di sviluppare la cultura musicale a vasto raggio e sovvenzionate spesso dalle municipalità o da imprese industriali. L’Orphéon prendeva a modello i Musikvereine tedeschi, circoli musicali dove veniva coltivata la passione per la musica da raffinati dilettanti, ma, più che alla borghesia cittadina, esso Il coro nasce dall’istinto dell’uomo di associarsi al suo simile. si rivolgeva ai ceti inferiori, artigiani, operai, contadini. L’intento principale era quello di favorire uno sviluppo sociale controllato: educare l’uomo all’ordine e al rispetto dei ruoli senza avvilirlo, gratificarlo per il suo operato, contribuire a nobilitarne l’animo, e in secondo luogo rafforzare il sentimento nazionale. Il movimento orfeonico dal 1830 vide in Francia una straordinaria espansione fino a diventare verso la fine del secolo un vero e proprio fenomeno di costume, (nel 1910 si con­tavano 1200 società) si pubblicarono periodici specializzati, si organizzarono concerti e festival. Il repertorio delle associazioni, che comprendeva sia brani classici che elaborazioni di musiche popolari, si arricchì di composizioni scritte espressamente da autori importanti come Berlioz, Adam, Gounod. Si forma quindi una tradizione di musica “popolare” (cioè urbano-rurale, ben distinta da quella 18 d’interesse propriamente etnomusicologico) che intrattiene un rapporto di osmosi e reciproco scambio con la musica cosiddetta “d’arte”, e che, come in Germania e in Inghilterra, è alla base di una diffusa presenza della musica nella coscienza culturale paese. All’eccezionale fortuna dell’attività orfeonica s’accompagnò la fioritura di organizza­zioni corali professionistiche e concertistiche. Anche il movimento orfeonico ha conosciuto un processo involutivo, con scadimento della qualità musicale che hanno attivato un vivace e interessante dibattito sulle sue prospettive future e sul ruolo che può ancora svolgere. Importante è il ruolo che il modello del coro orfeonico ha svolto in paesi come il Brasile, dove il coro “amatoriale” si diffonde nella prima decade del XX secolo, e viene utilizzato per dare ordine e disciplina alla massa eterogenea e potenzialmente esplosiva per quanto riguarda comportamenti e valori. Heitor Villa-Lobos (1887-1959) sviluppo un “progetto orfeonico”: il canto è utilizzato pedagogicamente come disciplina fisica e nel 1932 diventa insegnamento obbligatorio nelle scuole municipali di Rio de Janeiro e nel 1934 viene esteso a tutte le scuole primarie e secondarie del paese. Villa-Lobos condusse spettacolari esperimenti periodici di cori di massa gio­vanili: nel 1931 diresse a San Paolo un concerto eseguito da 12.000 coristi, e giunse a dirigerne per radio più di 40.000 nel 1940. Visto che abbiamo varcato l’Atlantico concludiamo la nostra sintetica ricognizione negli Stati Uniti dove incontriamo una intensa attività corale favorita da fattori molteplici. Dal lato chiesastico, incisero sia il numero e la varietà delle confessioni sia gli apporti successivi delle Missioni india­ne, dei coloni anglosassoni, dei coloni tedeschi in genere e in particolare dei moravi a Salem (North Carolina) e a Bethle­hem (Pennsylvania), ove nel 1744 fu fondato un collegium mu­sicum ed ebbero cura particolare per la musica sacra e la pratica dei cori. Da allora iniziò, anche per l’azione determinante delle scuole di canto, il costante, generale sviluppo dei cori di chiesa, dapprima costituiti da dilettanti e guidati da ecclesia­stici, e delle grandi società corali, fiorite particolarmente nel sec. XIX per merito di apostoli e animatori (a Boston, Philadel­phia, Chicago, ecc.; soprattutto la Oratorio Society, fondata a New York nel 1873 da Leopold Damrosch, 1832-1885) e volte appunto all’esecuzione degli oratori e delle composizioni corali classiche dell’Occidente. Nelle scuole di ogni ordine, dalle comunali alle universitarie (e non meno nelle fabbriche), con sistematico ordinamento forse unico al mondo, vige e prospera l’educazione artistico-sociale al coro, come attestavano, già nel 1939, i quattro milioni di gio­vani impegnati nei cori studenteschi. S’aggiungano, dal lato popolare maschile, i Glee-Clubs, cosiddetti dalla pratica del glee, breve canzone, forma specifica corale popolare in Inghilterra tra il 1650 e il 1900 e quindi originati propriamente, con accentuato nazionalismo, in Inghilterra (modello è il Glee-Club nella Harrow School di Londra, sorto nel 1787). Il più antico glee club negli Usa è l’Harvard Glee Club fondato nel 1858. Inoltre gli “indigeni” Apollo-clubs, corrispondenti agli Orphéons e ai Männergesang-Vereine. Sempre in ambito di coro maschile un “prodotto” tipico americano è la Barbershop Music (Musica da barbiere), uno stile sviluppatosi nella seconda metà dell’Ottocento nei negozi di barbiere che spesso si trasformavano in centri di socializzazione. Mentre aspettavano il proprio turno si formavano quartetti vocali di afro-americani che improvvisavano armonizzazioni vocali di spiritual, canzoni popolari e folk song. Si generò così un nuovo stile caratterizzato da esecuzioni a cappella di elaborazioni a quattro parti in armonia stretta. Più tardi questo stile fu adottato da “menestrelli” bianchi e nei primordi dell’industria discografica divenne un genere commerciale. La Barbershop Music ebbe il massimo della popolarità tra il 1900 e il 1919, mentre dagli anni Venti gradualmente andò in ombra e finì per restare solo nelle armonie della musica a cappella delle chiese dei neri. Ma nel 1938 un avvocato fiscalista dell’Oklahoma, Owen C. Cash, decise che era una vergogna che una forma d’arte morisse. Se dette da fare, trovò delle risorse e da tutto il nord America risposero a migliaia e in quello stesso anno nacque la S.P.E.B.S.Q.S.A., vale a dire la Society for the Preservation and Encouragement of Barber Shop Quartet Singing in America, nel 2004 “semplificata” in Barbershop Harmony Society. È presente in Usa (sede a Nashville, Tennessee) e Canada. Accanto a essa esistono anche due associazioni di cori femminili che cantano nello stile Barbershop e associazioni affiliate con le tre principali esistono in Regno Unito, Olanda, Germania, Spagna, Sud Africa, Scandinavia, Nuova Zelanda, Australia e Giappone. Sempre negli Usa dal 1982 è attiva la GALA Choruses, Gay And Lesbian Association Choruses che annovera oltre 200 cori e 10.000 cantori il cui scopo è aiutare la crescita artistica e professionale dei propri associati, ma soprattutto creare una società più tollerante attraverso la forza della musica. Una lunga storia quella dell’associazionismo corale, che tra luci e ombre, momenti di gloria e di disinteresse, ha sempre saputo alimentare e alimentarsi di quello slancio e di quella passione per il cantare in coro nelle forme e con i valori della amatorialità che l’UNESCO ha dichiarato patrimonio immateriale dell’umanità. o un quotidiano lavoro nel nome della musica Incontro con orlando dipiazza a cura di David Giovanni Leonardi Pianista e musicologo, docente al Conservatorio di Udine Maestro Dipiazza, sono passati ormai cinque anni da quando concesse per questo periodico una lunga e articolata intervista, conversazione spaziante dagli anni lontani della sua formazione musicale al lungo percorso artistico, didattico e creativo, dall’evoluzione del suo stile compositivo a partire dai modelli fino alla situazione della musica corale contemporanea in relazione alle realtà professionali e amatoriali, ai concorsi di composizione ed esecuzione, ai direttori di coro delle nuove generazioni, per giungere a dettagliate osservazioni circa i diversi atteggiamenti stilistici che hanno animato la sua imponente e sfaccettata produzione corale, sacra e profana. Come si è sviluppata nel frattempo la sua attività creativa e quali le tappe salienti a livello editoriale ed esecutivo? È noto come la mia giornata sia costantemente vissuta all’insegna della creazione musicale, a partire dalla mattina all’alba; sopra il pianoforte, una mia fotografia con Goffredo Petrassi e il ritratto con dedica e lettera del luglio 1958 nella quale Ildebrando Pizzetti mi pregava di attendere la sua scomparsa prima di intitolare al suo nome il gruppo corale che allora dirigevo, grato del mio giovanile entusiasmo ma al tempo stesso ferreo nel non cedere a quello che avrebbe rischiato di trasformarsi in un atto di superbia. Nell’approccio al lavoro di compositore mi sento molto vicino a un altro grande del Novecento, Luigi Dallapiccola, quando mi dichiarò personalmente che il compositore deve soltanto scrivere, scrivere ogni giorno. In questi ultimi cinque anni mi sono tolto lo sfizio – non accadeva dalla fine degli anni Sessanta, il periodo dei miei studi e delle successive frequentazioni con il grande didatta triestino Bruno Cervenca – di completare, stimolato in questo da commissioni da parte di importanti realtà corali della mia regione e non solo, una serie di affreschi sinfonico-corali iniziata nei primi anni dello scorso decennio con Te Deum e Messa “dei Patriarchi” e terminata di recente con l’Inno Veni creator spiritus e la Sequenza Stabat Mater, entrambi per soli, coro virile e orchestra sinfonica classica. Ho naturalmente ampliato il catalogo di composizione sacre in latino, uno dei miei generi prediletti da sempre e all’interno del quale ho sviluppato particolarmente due opposte tendenze, la composizione su cantus firmus gregoriano e quella propria di brani, quali la fortunata Messe di San Durì e i Quattro mottetti in friulano, concepiti sì per finalità strettamente liturgiche ma che, a lavoro compiuto, si sono rivelati adeguati al livello esecutivo medio delle cantorie parrocchiali della mia terra, alle quali mi sono trovato a rendere omaggio attraverso tratti stilistici a volte addirittura “popolareschi”. orlando Veduta del Museo della Civiltà Contadina di Aiello del Friuli 20 Un duplice riavvicinamento a tradizioni consolidate, quindi, sia nel senso della ripresa di prassi compositive medievali e rinascimentali, delle quali rimane a livello mondiale uno dei pochi entusiasti sostenitori, sia nel senso di una rinnovata attenzione ai confini del linguaggio musicale imposti dalla coralità amatoriale? A parte il fatto che ho sempre considerato basilare il capillare controllo della scrittura melodica e armonica da parte del compositore di musica corale, negli ultimi anni sento la spinta verso un’ulteriore essenzializzazione delle strutture, una sorta di sintesi di un percorso ormai lungo, iniziato nel 1957 con Nadâl, un omaggio corale all’altissima poesia di Biagio Marin, che ho frequentato molto anche in anni successivi, e con Tu es sacerdos, scritto per la prima messa celebrata da mio fratello l’anno successivo. Per inciso, ho in realtà iniziato a scrivere dieci prima e ho voluto inserire nel nuovo catalogo delle mie composizioni anche un’Ave Maria del 1947, che ho ritrovato da poco tra le mie carte. Per quanto riguarda l’aspetto contrappuntistico, è noto essere il punto focale del mio stile compositivo; attraverso la tecnica dei grandi del passato, Palestrina innanzitutto, non ho potuto rinunciare all’elaborazione di motivi gregoriani di sublime bellezza, grazie ai quali hanno visto la luce le mie messe “in stile antico”, Missa brevis, premiata a Tours nel 1990, Missa choralis super “Cunctipotens genitor Deus” e Missa “Orbis factor”, pagine che da tempo suscitano un notevole interesse musicologico. Ho recentemente adottato le stesse tecniche di contrappunto lineare di matrice modale nelle parti del Proprium per la “Orbis factor” che saranno tra breve pubblicate da Carrara assieme alla riedizione della Messa, e per i cinque Salmi (109, 110, 111, 129, 131) e le Cinque antifone (per i Vespri di Natale), cicli, questi ultimi, ancora inediti. Orlando Dipiazza con Mauro Zuccante Non si può negare che l’editoria musicale italiana abbia rivolto attenzioni, specialmente sui periodici, alla musica corale, che è tuttavia rimasta un prodotto di nicchia, tenuto in vita dall’entusiasmo di un cenacolo di amici, compositori, direttori di coro, musicologi, che si stimano e collaborano e con i quali intrattengo rapporti solidi e di antica data. In tal senso il Friuli rappresenta un’eccezione, vista la quantità e qualità delle edizioni di musica corale di recente presentate; tra l’altro Ho sempre considerato basilare il capillare controllo della scrittura melodica e armonica. La costante interazione con l’editoria musicale, e il catalogo delle opere lo dimostra dettagliatamente, sembra testimoniare non soltanto il riconoscimento dello spessore artistico del suo corpus compositivo e l’ambito traguardo al quale sono ormai giunte quasi tutte le sue creazioni, ma una sorta di motivo di pianificazione della produttività, in riferimento ai generi praticati. Mi riferisco soprattutto al periodo dell’assiduo impegno in favore della diffusione del canto popolare nella scuola primaria, che ha impegnato «La Cartellina» a partire dagli anni Settanta e che le ha ispirato oltre un centinaio di elaborazioni corali, oppure alle grandi iniziative di Suvini Zerboni e Carrara che hanno segnato e forse sollecitato, a fine anni Ottanta e Novanta rispettivamente, un numero altrettanto imponente di mottetti per coro a cappella. Riconosco di avere sempre colto le occasioni che mi invitavano a un lavoro coerente e organico alle prese con un determinato genere compositivo, che solitamente tendo a praticare in maniera continuativa, approfondendone e perfezionandone ogni dettaglio. l’Unione Società Corali del Friuli Venezia Giulia ha voluto festeggiare il mio ottantesimo compleanno con la densa antologia Florilegium sacrum. Ultimamente, le edizioni Carisch, dopo aver notevolmente contribuito alla conoscenza di un importante compositore, corale e non solo, quale Bruno Bettinelli, si sono impegnate velocemente e in assoluta autonomia per progettare un volume da me concepito quale ideale prosecuzione de Il verso in… cantato delle Edizioni Musicali Europee. Grazie a questo volume, di imminente uscita, completerò la pubblicazione delle musiche corali su testi profani, genere che ho praticato all’insegna di una mia interpretazione del neomadrigalismo italiano a partire da circoscritte predilezioni letterarie, la letteratura latina, il Medioevo profano, i poeti italiani del primo Novecento e i poeti giapponesi; naturalmente ho seguito la strada tracciata in particolare da Pizzetti e compositorE Dallapiccola, compositori dagli interessi letterari affini – e in parte affini ai miei – nonostante quest’ultimo, che pure era stato allievo di Vito Frazzi, a sua volta assai vicino a Pizzetti, non ammettesse tale affinità. Vorrei ora toccare un tasto forse più delicato e chiederle la sua opinione in merito alla coralità contemporanea. Condivido il pensiero di alcuni miei amici e collaboratori, secondo il quale la battaglia iniziata oltre trent’anni fa in favore dello sviluppo del repertorio corale contemporaneo è stata persa. Istintivamente ripenso alle radici culturali asburgiche della mia terra e agli anni lontani in cui le cantorie parrocchiali proponevano, durante le funzioni liturgiche, musica di Michael Haydn, di Rheinberger, di Schubert; ripenso alla grande scuola corale triestina di Illersberg, e poi di Kirschner e Macchi, al buon numero di cori friulani che si presentavano con lusinghieri risultati ai primi concorsi di Arezzo, agli indimenticati maestri Luigi Colacicchi e Roberto Goitre, che mi spronarono alla creazione di nuove composizioni e trascrizioni, favorendo la trasformazione di un repertorio che in quegli anni era ancora fermo alle composizioni popolaresche in friulano e alle Gotis di rosade di Seghizzi, produzione certo notevole per numero e qualità ma che appariva ormai superata. Ricordo di averne parlato anche in occasione della precedente intervista ma ribadisco che grazie al concorso corale di Arezzo abbiamo conosciuto a partire dagli anni Sessanta i compositori dell’est europeo, poi gli scandinavi e la scrittura corale d’avanguardia, il cui interesse mi sembra tuttavia essersi affievolito; ma soprattutto abbiamo conosciuto pagine a molti di noi ancora non note, appartenenti al grande Novecento di Britten, Hindemith e Poulenc; si pensi che il mio maestro Bruno 21 Cervenca, in anni lontani, organizzava a Trieste esecuzioni di A Ceremony of Carols con una sua traduzione italiana! Abbiamo insomma avuto importanti indicazioni di percorso e vissuto entusiasticamente, seppur alla luce di esperienze non nostre, il grande periodo della coralità. La nostra missione non è quindi nata per caso. In veste di direttore di coro ho fatto conoscere pagine di Francesco Corteccia, di Mendelssohn, Liszt e Bruckner. Ritengo che il lavoro della mia generazione si sia definitivamente concluso e sia divenuto estraneo alla realtà di oggi, in cui i cori sono aumentati di numero e livello esecutivo, ma non certo culturale. Il contrappunto non si studia più e gli stessi brani contrappuntistici vengono guardati con diffidenza; oltretutto mi sembra che i giovani direttori di coro manchino di senso estetico nella scelta del repertorio e pure sul versante della musica sacra assistiamo a una banalizzazione crescente del repertorio. Di più, la diffusione a livello corale di un repertorio basato sugli stilemi compositivi ed esecutivi propri del gospel e dello spiritual nell’ambito di un generico vocal-pop di matrice jazzistica, ha mutato profondamente la fisionomia dei cori, alla quale i concorsi si sono dovuti immediatamente adeguare, creando categorie sempre nuove. Estende questo giudizio anche alla produzione corale contemporanea della nostra regione, in particolare su testi in lingua friulana, che pure dimostra tuttora una certa vitalità? Per buona parte mi sembra sia un passo indietro; in ogni caso non vedo futuro né nell’attaccamento alla tradizione né nell’avanguardia radicale. Il repertorio che un coro affronta deve favorire innanzitutto la conoscenza della grande musica del passato. Non mi ritengo certo un nostalgico ma ricordo che decenni fa c’era interesse ed entusiasmo verso la ricerca di Orlando Dipiazza_______ Compositore, direttore di coro, didatta. Si è diplomato in musica corale al conservatorio G. Tartini di Trieste con Bruno Cervenca. Autore di lavori teatrali per bambini, musica cameristica, opere vocali-strumentali e sinfonico-corali, ha dedicato il suo maggior impegno nella produzione di brani corali a cappella (oltre 350). Molti lavori corali sono stati premiati in concorsi nazionali e internazionali: Arezzo (primo premio, 1984), Milano (primo premio, 1985 e 1987), Tours (secondo premio, 1990), Trieste (primo premio, 1993 e 1998), Lugo (primo premio, 1980), Trento (primo premio, 1984, 1994 e 1998; secondo premio, 1998; terzo premio, 1980, 1987, 1992, 1994 e 1998), Roma (primo premio, 2010). Ha pubblicato per Suvini Zerboni (Milano), Edizioni Musicali Europee (Milano), Pro Musica Studium (Roma), Éditions À coeur joie (Lione), Carrara (Bergamo), Naz̆i zbori (Lubiana), Pizzicato (Udine), Feniarco Edizioni Musicali. Tra i vari riconoscimenti, nel 2009 ha ricevuto il sigillo trecentesco della Città di Trieste. 22 sentire perché Bruno Cervenca, con cui mi sono diplomato e nella cui classe ho in seguito fatto il tirocinante, ne aveva criticato lo stile troppo pizzettiano. In effetti, rileggendola oggi, le affinità con le ampie arcate melodiche di Pizzetti e con il declamato omoritmico corale che riscontro, ad esempio, nella cantata La terra di Malipiero, sono sorprendenti; tanto più che in quegli anni non conoscevo nel dettaglio la musica di questi due grandi del Novecento italiano. La stessa cosa accadde quando Cervenca mi consigliò di eliminare una mia pagina perché troppo raveliana; sarà stato anche vero ma all’epoca era nota soltanto la produzione pianistica e orchestrale, molto meno la produzione cameristica e per canto e pianoforte; e credo che nemmeno oggi i musicisti la frequentino quanto meriterebbe. Penso in sostanza di aver vissuto gli ultimi periodi di un’epoca importante per la storia della musica, condividendone gli ideali estetici. Dipiazza con il suo maestro Bruno Cervenca repertori corali di alto livello. In riferimento a chi considera la mia musica troppo difficile perché contrappuntistica o addirittura perché non segue la tonalità o a chi, al contrario, la ritiene troppo tradizionale, rispondo che le etichette non mi interessano e che seguo, come ho già avuto modo di affermare, una strada di rinnovamento della tradizione. Sono felice quando qualche buon coro esegue la mia musica. Ringraziandola per aver voluto riandare con la memoria a periodi e momenti che per le più tarde generazioni rappresentano l’ultima età dell’oro della composizione musicale, le chiedo quali sono i progetti in corso. Ho appena terminato, come ho ricordato, i Salmi e le Antifone per i Vespri di Natale; l’ultimo salmo completato, Memento, è interamente derivato dallo splendido tema gregoriano dell’antifona; quest’ultimo ciclo di dieci brani è l’ultima fatica che attende ancora un progetto editoriale. Per il resto, a parte alcuni brani giovanili e le liriche per canto e pianoforte, che Il repertorio che un coro affronta deve favorire innanzitutto la conoscenza della grande musica del passato. A proposito di quest’ultimo aspetto, a quali pagine viene ultimamente data preferenza nei concerti e nelle incisioni discografiche? La Missa brevis è tuttora molto eseguita in particolare nei paesi dell’Est Europa, così come i brani sacri brevi per coro a cappella, che hanno avuto grande diffusione grazie a importanti raccolte a stampa; in questi ultimi anni vengono eseguite di meno le elaborazioni di motivi popolari, che pure hanno costituito materia per un recente cd monografico prodotto da un valido coro femminile della mia regione. A tal proposito, penso che il nostro prossimo lavoro sarà la catalogazione delle incisioni discografiche della mia musica, lavoro che non ho mai intrapreso. Ora che le composizioni ancor inedite nel suo catalogo sono davvero poche, c’è qualcuna che non è mai stata eseguita o che vorrebbe ascoltare? L’inno Jesu redemptor omnium per soprano e undici strumenti non è mai stato eseguito, così come la versione di Canticum con quintetto di fiati e, naturalmente, la cantata Alcesti su testo di Rilke, composta nel 1969 e che forse non vorrei pure hanno goduto di notevole attenzione presso numerosi interpreti, penso di aver pubblicato tutte le mie composizioni. Il nuovo catalogo di quasi quattrocento titoli, frutto del lavoro che abbiamo svolto assieme in questi ultimi due anni e che oggi vede finalmente la luce, è la più chiara testimonianza dei miei anni, tanti, di quotidiano lavoro passati nel nome della musica. compositorE 23 Catalogo delle composizioni di Orlando Dipiazza David Giovanni Leonardi ha recentemente curato il catalogo completo delle composizioni di Orlando Dipiazza, che trovate pubblicato sul nostro sito www.feniarco.it In questa sede, per motivi di spazio, ci limitiamo a pubblicare l’introduzione del curatore. Il presente catalogo delle composizioni di Orlando Dipiazza, aggiornato al dicembre 2011, rappresenta il risultato dell’ampliamento e dell’elaborazione di numerose versioni del catalogo stesso, redatte progressivamente in anni recenti dal compositore in copie dattiloscritte. La suddivisione in dodici sezioni rispecchia, salvo la modifica delle denominazioni e l’aggiunta di due nuove sezioni, quella originale, articolata in: Lavori teatrali, Composizioni per voci, orchestra o strumenti, Composizioni per voci e pianoforte, Composizioni per strumenti, Musica corale per le voci bianche, Musica corale sacra a cappella, Musica corale sacra con organo, Musica corale profana, Elaborazioni di canti popolari, Brani di ispirazione popolare. Effettuata la verifica dei manoscritti, si è provveduto alla formulazione di un sistema di sigle miranti a snellire le voci di catalogo singole e a costituire un rimando di agevole consultazione alle relative edizioni a stampa, delle quali si fornisce la lista completa in calce, ordinata alfabeticamente a partire dalle sigle stesse. Tali sigle sono state costruite sulla base di acronimi consolidati e di uso comune, riferentesi a edizioni e istituzioni musicali; in alcuni casi si è tuttavia, per uniformità e facilità di consultazione, reso necessario un ulteriore snellimento della sigla stessa. Per quanto riguarda la segnalazione delle composizioni apparse nei primi cento numeri del periodico «La Cartellina», si è fatto riferimento a: «La Cartellina», Musica corale e didattica, Orlando Dipiazza con Goffredo Petrassi fondata da Roberto Goitre e diretta da Giovanni Acciai, Indice del Repertorio, inserti n. I-IV, rivista n. 1-100, a cura di Carlo Berlese, Suvini Zerboni, Milano 1996. Il criterio generale di segnalazione delle singole voci di catalogo prevede la suddivisione in quattro campi: titolo, data di composizione, organico, composizione inedita o eventuale stampa; nel caso in cui il titolo della sezione faccia riferimento all’organico, in terzo campo è omesso. I titoli delle composizioni rispecchiano quelli previsti in origine dal compositore o, in rari casi, quelli modificati in occasione di un’edizione a stampa. Le lettere minuscole poste tra parentesi tonde dopo il titolo, in luogo dell’eventuale autore del testo letterario, contraddistinguono le diverse versioni di una stessa composizione e ne evidenziano il percorso creativo progressivo. Nel caso di composizioni inedite sono stati conservati i raggruppamenti in raccolte voluti dal compositore e i singoli brani sono stati annotati con numeri progressivi sotto il titolo generale. Nel caso di composizioni a stampa, è stato adottato lo stesso criterio qualora le singole parti di una composizione abbiano titoli autonomi (eccettuato il caso delle Messe, per le quali non si riportano i singoli titoli dell’Ordinario della Messa) o siano state pubblicate, separatamente o a gruppi, all’interno di periodici diversi; al contrario, qualora si tratti di brani separatamente eseguibili ma apparsi in progetti editoriali singoli in virtù di caratteri e finalità unificanti, questi ultimi sono stati considerati voci di catalogo autonome. Le sigle di rinvio ai volumi a stampa, qualora si tratti di più di una, conservano per quanto possibile l’ordine cronologico di edizione e mancano di cifra esponenziale nel caso si tratti di raccolte apparse una sola volta per i tipi di un determinato editore oppure di edizioni singole delle quali viene di seguito indicato il numero di catalogo e, se presente, l’anno di pubblicazione, oppure ancora nel caso di edizioni in periodici, per le quali vengono indicati, nell’ordine, l’annata, il numero progressivo e l’anno, quest’ultimo seguito, dopo la barra, dall’indicazione del fascicolo. Tale criterio non si adotta nel caso de «La Cartellina», della quale viene indicato unicamente il numero progressivo. Nel caso di più edizioni contrassegnate dalla medesima sigla si adottano cifre esponenziali progressive che rinviano a raccolte dapprima monografiche, quindi antologiche, rispettivamente ordinate sulla base dell’anno di pubblicazione. Sono state parimenti utilizzate sigle di consolidata tradizione in riferimento a istituzioni musicali e lessico. 24 Orlando Dipiazza: Tre Messe Missa brevis (1989), Missa Choralis (1999), Missa “Orbis factor” (2008) di Mauro Zuccante Schopenhauer ha asserito che la musica, più di ogni altra arte, incarna il flusso dell’inarrestabile mutevolezza delle cose, in quanto il Divenire è la stessa sua essenza. In estrema sintesi, la musica si rivela come espressione in grado di erodere l’eterna identità dell’Essere. Un concetto che ha notevolmente condizionato le avanguardie storiche del Novecento, le quali hanno condotto l’arte musicale occidentale sulla via della disintegrazione del linguaggio tonale e delle forme classiche. Un’estetica nichilistica, in virtù della quale si sono spalancate le porte alle categorie estreme, dalla complessità pressoché irrealizzabile, fino all’indefinita aleatorietà. «Nel passaggio delle cosiddette avanguardie musicali della metà del secolo, la tradizionale consegna della musica alla cura dell’armonia si avverte come ingenuità colpevole, il suo ideale di perfezione melodica come falsa coscienza, la sua evocazione di trascendenza metafisica come soggezione ideologica» (P. Sequeri, Musica e Mistica, Libreria Editrice Vaticana, 2005). Si spiega, quindi, come il forte processo di secolarizzazione, che ha allontanato la società contemporanea dalla dimensione del sacro e del trascendente, abbia trovato nella musica un fertile terreno per radicarsi. È un dato inconfutabile che nel catalogo di molti musicisti vissuti a cavallo dei secoli XIX e XX si diradano le opere di genere sacro. Le composizioni destinate al rituale liturgico tendono addirittura a scomparire, nonostante la resistenza del movimento ceciliano; di quella corrente, cioè, che ha incarnato il tentativo di rinnovare la musica sacra attraverso il recupero della tradizione del canto gregoriano e della polifonia rinascimentale nelle celebrazioni liturgiche cattoliche. Tramontata l’epoca delle esasperazioni massimaliste e delle disintegrazioni iconoclastiche delle avanguardie storiche, nel panorama musicale contemporaneo si riaffaccia, però, un certo interesse per la dimensione del sacro. Le indagini estetiche di John Cage intorno a una nuova teologia del suono, ispirate dalle filosofie orientali, e le sciamaniche visioni sonore di Karlheinz Stockhausen hanno paradossalmente riconciliato l’arte musicale attuale con la sfera del mistero divino e aperto la via a opere che si sviluppano attorno contenuti espressivi di carattere sacro. Cito tra le altre le figure attuali e i lavori d’ispirazione religiosa di Henryk Górecki, Alfred Schnittke, Arvo Pärt, Sofija Gubajdulina, John Tavener, Tan Dun e Osvaldo Golijov. Però questa tendenza, fortemente alimentata dal contributo di artisti provenienti da aree geografiche che hanno sofferto di un certo isolamento culturale, dovuto alle barriere ideologiche, politiche ed economiche, presenta delle peculiarità che la differenziano dalla tradizione della musica religiosa europea. Infatti, la rinnovata attrazione per la dimensione religiosa e spirituale dell’arte musicale, più che collocarsi nell’ambito di un particolare credo religioso, si pone su un livello in cui le tematiche sacre sono indagate, seguendo percorsi molto individuali. Parliamo di opere che evocano esperienze mistiche del tutto soggettive e non si rivolgono a una particolare comunità liturgica. Pertanto, resta il fatto che la musica concepita per accompagnare le funzioni rituali collettive, stenta a suscitare l’interesse dei musicisti più capaci. Anzi l’ambito della musica liturgica (soprattutto nell’orbe cattolico) si espone come terreno in cui prolifica uno scadente dilettantismo. «Molta “musica” che si scrive oggi ignora, non dico la grammatica, ma perfino l’abbecedario dell’arte musicale. Nelle situazioni più o meno critiche che abbiamo preso in considerazione, non si era mai vista una degenerazione simile a quella attuale» (V. Miserachs Grau, Chiesa e musica sacra. Passato, presente e futuro, Fundació J. Maragall, Barcellona, 2002). In questo poco consolante scenario si distingue quale vox clamantis in deserto Orlando Dipiazza con la sua produzione di musica sacra. Il compositore friulano molto lucidamente prende atto del degrado attuale, ma, nello stesso tempo, non rinuncia a mettere in gioco la propria arte in favore della musica liturgica. «L’inizio della frattura tra i compositori e il genere sacro è collocabile già alla fine dell’Ottocento con il progressivo disinteresse della Chiesa per il valore trascendente della musica. Certamente una delle cause è da ascrivere anche alla brutta musica, spesso di gusto teatrale, che circolava nelle cantorie e nei repertori organistici del tempo. La fase terminale di questo percorso si può fissare nel Concilio Vaticano II. È sempre vivo in me il ricordo di quel giorno in cui il mio maestro è arrivato al “Tartini” scuro in volto e con la voce roca e mi ha detto: “Non si può più comporre messe, hanno proibito il latino e tolto perfino il Credo” [va ricordato che Orlando Dipiazza è stato allievo di Bruno Cervenca, stimato studioso del contrappunto polifonico vocale classico, presso il conservatorio di musica di Trieste]. L’inarrestabile secolarizzazione incide sempre più negativamente sulla produzione musicale di ispirazione religiosa salvo l’opera di chi si dedica al genere sacro per rispondere a un’esigenza interiore. Ed è il mio caso. I compositori del Nord Europa che tu citi si dedicano a lavori di carattere religioso per motivazioni che attengono al loro vissuto. Condizionati da situazioni politiche compositorE che hanno negato loro la libertà di espressione, hanno ripreso ora a rapportarsi con il mondo della Chiesa ortodossa che ha sempre contato molto nella grande musica slava» (O. Dipiazza, Intervista, a cura di M. Zuccante, Choraliter, n. 24 settembredicembre, Feniarco, 2007). Alle motivazioni di carattere interiore – la condotta umana di Orlando Dipiazza, sincero credente e praticante, avvalora la cura per le opere d’ispirazione religiosa – si aggiunga, nell’ambito di una valutazione della sua produzione sacra, un costante richiamo alla purezza tecnico-formale e stilistica degli autori classici della polifonia vocale, considerati fonte inesauribile di riferimento, anche per il compositore della nostra epoca. «Fondamentale per la mia formazione è stato lo studio delle opere di Palestrina per il magistero nell’uso del contrappunto vocale e di Monteverdi per la modernità del linguaggio. Se devo confessare una predilezione, non posso qui non citare Carlo Gesualdo, l’espressionista del cinquecento, che mi stupisce ancora oggi per l’esemplare aderenza musica-parola e per l’intensità che riesce a ottenere anche nei particolari meno esibiti delle sue composizioni» (O. Dipiazza, cit., 2007). L’interesse per la composizione sul testo dell’ordinario della messa attesta pertanto l’impegno in favore del riscatto della qualità della musica liturgica, nonché tradisce il proposito di tener vivo il culto della messa, in quanto forma musicale assoluta e unitaria, modello di purezza ed equilibrio formale. È difficile valutare, per il sottoscritto (che non può certamente definirsi esperto in materia), quali siano gli esiti presenti e futuri del qualificato contributo di Dipiazza in merito al miglioramento della pratica del canto liturgico nelle chiese. Perciò, ritengo che sia più assennato che mi soffermi sul secondo aspetto d’interesse che le sue messe suscitano; quello cioè della rigenerazione dell’antica arte della polifonia vocale, nell’ottica di un restauro aggiornato del canone formale e stilistico della messa polifonica. Le tre messe che qui si presentano sono state composte a distanza di circa un decennio l’una dall’altra, a partire dalla fine degli anni ’80. Sarà interessante, quindi, esaminare in quale modo si è evoluto nel tempo l’approccio del compositore friulano alle parti che compongono il testo dell’ordinario della messa. La Missa brevis, per voci bianche o femminili a cappella, è stata composta sul finire del 1989 e ha procurato all’autore un secondo premio al Concorso internazionale di composizione, indetto dal Florilège Vocal de Tours (Francia) nel 1990. La partitura è reperibile presso il catalogo delle Edition A Coeur Joie - Collection à voix égales. Si tratta di un’opera di rimarchevole impegno compositivo e di non facile approccio esecutivo. È concepita prevalentemente sul piano della conduzione orizzontale delle parti. Gli incipit di ciascuna sezione e dei singoli episodi attestano come i motivi melodici siano esposti dalle voci secondo un criterio di entrate equamente ripartite e indipendenti. 25 Il compositore ricorre anche alla ricercata pratica del fiamminghismo, là dove, ad esempio, la terza voce imita le prime due per aggravamento. Inoltre, notiamo come egli si cura di adottare una griglia di misure disassate e polimetriche (5/4, 6/4, 4/4) al fine di agevolare un’autonoma articolazione fraseologica delle voci stesse; un principio che libera il fluire del discorso, al di là della rigida sincronia del battito. In generale, questa Missa brevis (ma comprendente anche la doxologia maior, cioè il Gloria) presenta grande estro e varietà nell’invenzione dei motivi melodico-ritmici che animano il testo di ciascun versetto. Inoltre, il dialogo polifonico si dipana secondo una trama contrappuntistica non necessariamente vincolata all’osservanza della regola, ma votata ad assecondare una condotta più libera delle parti, là dove le esigenze di cantabilità delle stesse lo richiedono. Lo stile compositivo è nella sostanza improntato a un evoluto diatonismo modale e i punti di attrazione tonale sono ben scolpiti nei punti cadenzali. Ma improvvisi scarti di ambito modale e audaci concatenazioni accordali aprono orizzonti di un linguaggio più moderno (o antico? – ricordiamo la citata predilezione di Dipiazza per Gesualdo da Venosa, musicista dalle maniere di scrittura anticipatrici, che, con arditezza, spaziano in un uso intraprendente dell’intera gamma cromatica). 26 In alcuni episodi della Missa Choralis l’autore sviluppa tecniche orientate a risultati timbrici, che sottolineano specifici contesti verbali: unisoni, dialoghi antifonali tra le voci maschili e le voci femminili, iterazioni di frammenti melodici che ruotano attorno al fulcro di una nota-pedale. Nel 1999 Orlando Dipiazza ha composto, per celebrare il Giubileo del 2000, una Missa Choralis, super “Cunctipotens Genitor Deus”, per coro di voci miste a cappella (già pubblicata in Chorus - Choral Music Review, presso le Edizioni Musicali Europee di Milano). Anche quest’opera è associata a un appuntamento concorsuale. Il Gloria è, infatti stato premiato in occasione di una competizione indetta nel contesto dello stesso Giubileo, ed è stato eseguito in prima assoluta dal Coro dell’Accademia Filarmonica Romana, diretto da mons. Pablo Colino. Il sottotitolo sta a indicare che gli spunti tematici sono ricalcati sulla monodia gregoriana della stessa Missa “Cunctipotens Genitor Deus”. Si consolida, perciò, l’antico canto gregoriano, come altro punto di riferimento nell’arte di Dipiazza. «E infatti gran parte delle sue musiche sacre sono costruite sulla tematica gregoriana, non intesa come cantus firmus, ma come linfa vitale che arriva in tutte le voci infondendo alla pagina vita e vigore» (G. Radole, La carriera musicale dell’amico Orlando Dipiazza, in Florilegium Sacrum, a cura di F. Colussi, Pizzicato, Udine, 2009). Sarà il vincolo ispiratore del canto gregoriano, sarà un generale ripensamento sulla natura del proprio linguaggio musicale, sta di fatto che questa seconda messa presenta uno stile più strettamente ancorato a una modalità diatonica classica. Inoltre, si aprono spazi in cui l’obbligatorietà del contrappunto imitato cede la mano al canto prevalente di una singola voce. compositorE Per ultima si presenta la Missa “Orbis Factor”, composta nel 2008, per coro a quattro voci miste a cappella, o (ad libitum) con accompagnamento d’organo (prossimamente reperibile presso le Edizioni Carrara di Bergamo). L’inserimento della parte d’organo e un grado di esecuzione complessivamente agevole, fanno pensare a un’implicita destinazione liturgica di questo lavoro. Una schola cantorum parrocchiale (purché ben istruita), non troverà grosse difficoltà nell’affrontare queste pagine. Il frequente ricorso al raddoppio in ottava delle voci parallele sembra essere un espediente attraverso il quale assecondare una certa comodità esecutiva. La realizzazione di questa terza messa conferma, comunque, l’intento nel tempo di Dipiazza di canalizzare l’espressione verso un linguaggio più lineare e semplificato, non soltanto per fini – come si è detto – di realizzazione pratica da parte dei cantori non professionisti, ma anche per il conseguimento di un ideale estetico di purezza melodica, affrancata dalla complessità dell’impianto polifonico e decontaminata da ridondanti manierismi. 27 Come la Missa Choralis, essa vive della simbiosi con il canto gregoriano. Anzi, in questo caso il legame è ancora più stretto, in quanto dall’antica monodia non sono ricavati soltanto gli incipit dei singoli episodi, ma a essa ricorre l’ispirazione melodica in ogni versetto, come alla guida di quinta voce occulta. Insomma, sebbene la citazione non sia letterale, il riferimento al modello melodico gregoriano è costante. In conclusione, queste tre messe di Dipiazza illustrano l’evoluzione di un percorso che ha condotto a esiti differenti. Ma i diversi connotati tecnico-stilisti di queste creazioni non contraddicono una coerenza estetica di fondo. Le messe di Orlando Dipiazza fanno tutte riferimento a un carattere asciutto e austero, e a un’espressione concisa ed essenziale. Sono opere che non concedono spazio a facili stupefazioni sonore; ma, nell’ispirazione, antepongono compostezza e sobrietà. Sono opere che anelano a uno stato di purezza e chiarezza interiore. Ne sia infine sigillo la misurata schiettezza di questo “amen”. 28 28 O magnum mysterium o magn di Tomás Luis de Victoria di Walter Marzilli Questo mottetto è famosissimo nel mondo corale. Probabilmente lo è così tanto da diventare una presenza ingombrante nei repertori dei cori, e negli ultimi tempi sembra sparito. Eppure è un brano che ha molto da insegnare ai cori in quanto a cantabilità, prassi, fraseggio, dinamiche ecc. È per questo che abbiamo deciso di mettergli di nuovo gli occhi addosso per fare alcune riflessioni.1 Cominciamo dall’inizio: l’incipit. Si tratta di uno dei più classici incipit di mottetto dell’epoca rinascimentale. Espongono il tema i soprani, rispondono una quinta sotto i contralti. Alla metà dell’ottava battuta2 i tenori rispondono ai soprani e i bassi ai contralti. L’altezza originale del primo suono tratta dalle edizioni antiche riporta un la. Questo significa che adottando la stessa altezza e affidando l’esecuzione del brano a un coro moderno – con i contralti nella parte dell’altus e i soprani in quella di cantus – alla battuta 3 i contralti toccano il sol grave e alla 12 sono chiamati a eseguire un improduttivo fa grave. Poi continuano a muoversi spesso sotto al rigo. Di qui il brulicare di tante trascrizioni che spostano il brano un tono sopra. Ma questo non nova et vetera 29 è sufficiente ai contralti per raggiungere una tessitura luminosa e cantabile. L’innalzamento riesce però a mettere in difficoltà i soprani, che durante le battute 4-6 devono emettere subito quattro mi non agevoli. Non si tratta di note appartenenti a una tessitura molto acuta, ma tale abbastanza da infastidire l’emissione e la leggerezza di cantori non navigati. Il mi è infatti molto vicino al passaggio di registro, in una zona pericolosa che non permette un perfetto dominio dell’emissione, a meno che si tratti di cantanti esperti oppure sia possibile emettere le note in voce piena e forte. Per altri versi la tessitura del soprano renderebbe possibile un innalzamento dell’altezza del brano, dal momento che in tutto il brano non supera mai il re. Anche l’estensione dei tenori non presenta impedimenti all’innalzamento dell’intonazione iniziale. Essi toccano brevemente quattro volte solo il mib. I bassi devono scendere per ben diciannove volte al sol grave e toccano una volta anche il fa (diesis, secondo alcune trascrizioni). Sono suoni già al di fuori della portata dei baritoni, che le emettono in modo leggero e non appropriato a sostenere le armonie del brano. Anche per i bassi quindi sarebbe opportuno alzare il brano, visto che verso l’alto arrivano una volta solo fino al la del quinto rigo in chiave di basso. Allora la cosa più opportuna sembra proprio quella di alzare il brano almeno di un tono e occuparsi dei soprani, in modo che non emettano suoni schiacciati. In effetti il mi che dovrebbero cantare proprio all’inizio del brano, come dicevamo prima, presenta delle difficoltà oggettive. Non fosse altro perché i soprani si trovano a essere scoperti, senza la protezione dei suoni gravi e amalgamanti dei bassi e la loro potenzialità mascherativa.3 Questo comporta un’insicurezza psicologica che urta contra la necessità di un’emissione ineccepibile. In effetti lo stesso identico passaggio dei soprani si ripresenta alle battute 15-16, ma in questo caso la situazione è meno complicata. Insieme ai soprani ci sono tutte e tre le altre sezioni, e questo garantisce un’esecuzione coperta e rassicurante, sia dal punto di vista acustico che psicologico. Altra difficoltà: il mi si trova in una zona pericolosa. Come accennato poco fa siamo nella zona del passaggio di registro, ma non si tratta solo di questo. Occorre aggiungervi il fatto che le vocali da emettere sono la e, la a, la i e di nuovo le e (“…et admirabile…”). Tutte vocali che – soprattutto la i e la e – necessitano di una particolare cura durante l’emissione dei suoni acuti. Inoltre la a può facilmente sbiadire il timbro, mentre le altre due possono implicare una chiusura della gola. Occorre una notevole consapevolezza tecnica per ottenere una buona emissione in questa occasione. Sarà quanto mai necessario un abbassamento della laringe e un immascheramento. Bisogna cioè abbassare la laringe ma indurre un leggero innalzamento del velo del palato, tale che possa essere mantenuto un contatto aereo e di risonanza tra la parte laringo-faringea e quella soprapalatale, per attivare le risonanze di testa.4 Tale condizione è opportuna per non schiacciare i suoni nella gola. Un’apertura della bocca e un allontanamento delle pareti riflettenti costituite dai denti dovranno necessariamente accompagnare la postura facciale. Il sostegno del fiato ottenuto attraverso una buona ed efficace respirazione diaframmatica farà il resto. Un procedimento didattico che dà buoni risultati è quello di far esercitare i soprani a emettere questo passaggio direttamente nel registro di testa, innalzando ancora di più l’intonazione del brano in modo da lavorare con il fa diesis anziché con il mi. I soprani saranno poi invitati a emettere i suoni all’altezza definitiva (mi) ricercando quelle stesse risonanze di testa e quelle sensazioni vibratorie. Adesso che abbiamo idealmente – e non senza impegno – risolto ai soprani il problema dovuto Si tratta di uno dei più classici incipit di mottetto dell’epoca rinascimentale. num 30 all’innalzamento dell’altezza del brano ci chiediamo: siamo sicuri di aver fatto la cosa giusta? Siamo davvero certi di voler affidare la parte dell’altus ai contralti? Siamo cioè sicuri di privarci della capacità di penetrazione dovuta al la acuto e ai tredici sol che i tenori sarebbero chiamati a emettere eseguendo la parte dell’altus secondo la prassi antica? La differenza è proprio lì: per un tenore l’emissione di quei sol e di quel la implica la presenza di un suono brillante, davvero ricco di armonici superiori, e soprattutto dotato di una capacità di penetrazione tale da illuminare qualunque frase musicale. Al contrario, per un contralto si tratterebbe di note ordinarie, avvolte in una tessitura centrale che impedirebbe qualunque volo e qualunque caratterizzazione timbrica. L’utilizzo dei tenori nella parte dell’altus5 causerebbe un’ascesa timbrica dell’intero coro dalla voce grave dei bassi passando per la voce in questo caso media e baritonale del tenor fino all’altus dei tenori acuti appunto, per continuare verso l’alto con l’ultima sezione, quella del cantus, che era impersonato dai bambini, dai falsettisti o dai castrati. È questa la sostanziale e caratterizzante differenza tra un coro antico e uno moderno: nel primo il colore e il timbro sono in continuo e ininterrotto schiarimento dal grave all’acuto; nel secondo la voce scura e medio-grave dei contralti interrompe l’innalzamento delle frequenze e soprattutto del timbro. Ma ci vogliono dei bravi tenori acuti e leggeri, e anche un numero non troppo grande di donne per non minare l’equilibrio generale del coro, dato che le voci femminili andrebbero tutte insieme – soprani e contralti – a cantare la parte del cantus. Ma tutto questo non costituisce una novità… Se queste condizioni non si potessero avverarsi, allora la soluzione può essere efficacemente risolta inserendo due o tre tenori (in certi casi può bastarne addirittura uno solo) nella sezione dei contralti alla parte dell’altus. In questo caso, agendo opportunamente sulla scelta dell’altezza della linea melodica dell’altus in riferimento alle possibilità all’acuto dei tenori aggiunti, si potrà ottenere un buon compromesso. E anche questa non è una novità… Iniziamo un ipotetico ascolto del brano. Ci accorgiamo quasi subito del pericolo che alle battute 3 e 4 le donne – soprattutto i contralti – potrebbero prendere fiato tra “magnum” e “mysterium” (il condizionale è d’obbligo, ma quasi superfluo…). A causa della sovrapposizione con la pausa dei soprani, questo comportamento causerebbe un’improbabile interruzione del flusso sonoro generale proprio sul nascere del brano. La cosa è diversa quando si ripropone la stessa situazione al termine del bicinium, perché la presenza delle quattro voci scongiura il momento di vuoto dovuto all’eventuale respiro degli uomini. Resta il fatto però che, per coerenza di fraseggio, se le donne non hanno respirato alle battute 3 e 4 non devono farlo nemmeno gli uomini a 10 e 12. Lo esige l’aspetto tematico delle melodie, che si ripetono esattamente uguali. Un altro pericolo risiede nel semitono diatonico all’inizio del primo tema. Di solito è emesso un po’ troppo stretto a causa della forte attrazione in basso verso la nota precedente. Occorre però notare che la nota sul semitono nelle prime battute risulta formare in un caso la terza minore dell’accordo, e nell’altro è alla base di un intervallo di quinta giusta. In entrambi i casi l’intervallo non può essere calante. Successivamente occorre porre attenzione alla battuta 8. Portando il tactus in due – come si conviene ordinariamente nella conduzione della polifonia rinascimentale – e volendo introdurre un lieve rallentando legato alla cadenza al termine del bicinium, potrebbero insorgere delle indecisioni. Se così fosse, ad esempio a causa dell’esecuzione della particolare forma di ochetus dei soprani e delle due crome dei contralti in rallentando, non sarebbe da escludere in quel punto l’adozione di una scansione in quattro movimenti. A patto che produca solo una “flessione” del tactus e non una frenata vera e propria, che darebbe al fraseggio una ventata di improbabile “romanticismo”, sempre in agguato quando si esegue musica del sanguigno De Victoria. E adesso veniamo alle battute 10 e 11 e alle alterazioni che esse contengono. In un momento così delicato come la fine dell’esposizione dei temi, De Victoria spoglia completamente l’armonia affidando alle tre sezioni solo un unico re. Perché? Probabilmente voleva che l’introduzione improvvisa del successivo accordo maggiore sortisse il massimo effetto. In questo modo era sicuro di poter descrivere al meglio lo stupore e il mistero del miracolo della nascita di Gesù Bambino. Lo farà anche in seguito, alle parole “O beata Virgo…”. Ma la questione non investe direttamente il primo accordo maggiore, quanto il fa diesis dei soprani alla seguente battuta 11. Qui l’autore tralascia la possibilità di una preziosa cadenza piccarda e ripete l’accordo maggiore, La falsa relazione nel Rinascimento era considerata una ricercata soluzione contrappuntistica. nonostante questo obblighi i soprani ad avventurarsi in un segmento melodico contenente due semitoni diatonici molto ravvicinati (fa diesis-sol e la-sib), dal vago sapore orientale tanto vicino al gusto melodico dell’autore. E dire che ci tiene davvero tanto a questo frammento melodico, se consideriamo il fatto che le alterazioni venivano inserite direttamente dall’autore solo nei casi di dubbia interpretazione. Questo significa che in condizioni di libertà esecutiva da parte dei cantori del tempo il secondo fa poteva essere legittimamente cantato bequadro, introducendo una cadenza piccarda. Ma prima o poi il fa dovrà tornare naturale: succede nella battuta successiva a opera dell’altus. Ma l’irrequietezza delle nova et vetera alterazioni – che dobbiamo considerare tipica di De Victoria – non si placa ancora: nella spazio di una battuta (la 13) l’accordo di re si alterna tra maggiore e minore. Appena dopo, alla battuta 16, il fa, secondo la prassi rinascimentale, è di nuovo diesis, seppure non indicato, come pure a battuta 20, 21 e 22, dove invece appare alterato. Abbiamo appena parlato di cadenza piccarda. Nell’edizione a stampa del 1572 conservata ad Avila non esiste tale soluzione melodicoarmonica, che tanta ricchezza invece è in grado di dare allo scorrere contrappuntistico. È però molto interessante notare che la piccarda è invece chiaramente presente nella edizione a stampa del 1589.6 Siamo alla battuta 25 della edizione moderna, ed è assente il diesis davanti al fa dell’altus. Con il fa diesis del soprano presente appena un quarto prima si forma appunto una bellissima piccarda. Dimenticanza? Non credo proprio. Si tratta invece di un movimento voluto tra due voci, la tipica piccarda, molto meno interessante e frequente se causata dalla stessa voce che ha il suono alterato, e molto più densa quando è dovuta allo scambio di nota alterata e non alterata tra due diverse sezioni. In altre parole ciò che noi adesso bolliamo e condanniamo come falsa relazione nel Rinascimento era considerata una ricercata soluzione contrappuntistica… Notiamo anche l’uso della sillabazione sulle moderne crome. Nell’edizione antica originale figuravano come semiminime, ma le regole osservate del contrappunto giudicavano sconveniente di porre le sillabe sulle note più piccole della minima.7 Questa anomalia avviene alle parole “admirabile…”, “sacramentum…”, “animalia…”, “viderent” e “viscera”, poi non più. In realtà anche il più canonico e osservante contrappunto di Palestrina contravviene a questa regola nel bellissimo passaggio “…pugnaverunt contra me…” in Nigra sum, dove la forzatura è sapientemente legata a fini espressivi. Molto più libero invece il trattamento delle sillabe sulle crome moderne (le antiche semiminime) in ambito profano. Ma torniamo alla battuta 9 per sottolineare un altro raffinato aspetto: l’esistenza di due note puntate contemporanee nel cantus e nell’altus. Di norma l’introduzione di un ritmo puntato in una linea è associato e contrapposto a un ritmo regolare di note senza punto.8 Esistono molti casi di ritmi puntati. Quando il ritmo puntato è comune a tutte le sezioni del coro vuol dire che ci troviamo quasi sempre di fronte a 31 una sillaba accentata di particolare rilevanza testuale, come nel caso delle battute 17, 23 e 25.9 Alla battuta 11, invece, il ritmo puntato delle due sezioni superiori capita sull’ultima sillaba della parola “magnum”, atona ma con una melodia ascendente. Situazione apparentemente in contraddizione. Da una parte l’esigenza di ammorbidire l’ultima sillaba della parola, dall’altra la tensione accrescitiva della melodia ascendente. Oltretutto l’elevazione melodica dei contralti si interrompe bruscamente per fare posto a un lungo salto verso l’ottava inferiore, e allora si capisce tutta la pericolosità del momento. Spetta all’esecutore risolvere il problema con grande cura del fraseggio. Ma come ci si comporta con i ritmi puntati? Esistono varie scuole di pensiero. Nel caso della battuta 11 occorre rimanere leggeri, magari facendo una piccola articolazione del suono senza appoggiarsi su un terreno fragile come lo è una ultima sillaba di parola. Negli altri casi c’è chi fa un crescendo, chi un decrescendo e chi mantiene una dinamica costante. E se invece la contemporaneità dei ritmi puntati in tutte le sezioni del coro fosse un segnale in codice del compositore antico atto a stimolare un determinato fraseggio? Riusciamo ad avere un’idea di quanto sforzo sarà costato al compositore rinascimentale – che scriveva a mente, a parti separate e spesso su fogli diversi e senza stanghette di battuta! – far coincidere in tutte le voci un ritmo puntato nello stesso momento e sulla stessa parola?10 E noi dovremmo condurre questi passaggi puntati e omoritmici con la sola preoccupazione di mandare insieme i cantori, senza attribuire una rilevanza di fraseggio espressivo al suono? Mi sembra un po’ poco. Io sono convinto che la risposta ce la possano fornire gli archi. Sì, proprio gli archetti dei violini rinascimentali,11 ma anche il modo in cui i violinisti suonano adesso i ritmi puntati delle composizioni del repertorio barocco… Ma procediamo per ordine e domandiamoci intanto: perché chiamare in causa la famiglia degli archi? Perché questi strumenti hanno da sempre accompagnato le varie formazioni vocali, e per di più (e non a caso) usando le stesse chiavi delle voci.12 Si sa che la continua frequentazione finisce per far avvicinare le sensibilità, le scelte artistiche e quelle estetiche. In altre parole le voci e gli archi finivano per assomigliarsi, sia nei fraseggi che nelle intonazioni, nelle sonorità come nel timbro.13 Ma adesso vediamo come influisce sul suono e soprattutto sul fraseggio il tipo di archetto usato. Possiamo efficacemente avvalerci dell’iconografia musicale per conoscerne la forma. Essa ci regala molte illustrazioni che rappresentano gli archetti del Quattrocento proprio con la forma di un vero e proprio arco (e come poteva essere diversamente, visto il nome dato a questo attrezzo…?). Ma quale suono avranno creato questo tipo di archetti scorrendo sulle corde? Senza ombra di dubbio un suono prima crescente e poi decrescente, a causa della minore tensione del crine al centro dell’attrezzo, e quindi della maggiore capacità di vibrare. E questo avveniva tirando l’arco sia dalla punta che dal tallone. Ecco da dove nasce la ben nota messa di voce! 32 Note 1. Non sono presenti i classici esempi musicali, proprio per la facile reperibilità di questa partitura. 2. Dovremmo correttamente parlare di sedicesimo tactus, ma sublimiamo questo preziosismo… 3. Il mascheramento è un noto fenomeno acustico, per cui le frequenze acute sono avvolte e “nascoste” da quelle gravi. 4. Lingua e velo del palato infatti si muovono contemporaneamente in direzioni opposte. Mossi dall’unico nervo glosso-faringeo, i due elementi si muovono una abbassandosi (la laringe) e l’altro innalzandosi (il velo). In questo modo il cantante ottiene la caratteristica copertura dei suoni, tipica dell’ambito lirico, dal Romanticismo in poi. 5. L’etimologia della parola lo dice chiaramente: si tratta di una parte acuta e alta, e non scura e grave come i contralti… 6. Sono molto grato al maestro Luciano Luciani, Maestro dei Pueri della Cappella Sistina, di aver recuperato il libro a stampa nel Fondo Cappella Sistina, collocazione CS 495. Il libro-parte del tenor è mancante. 7. Da qui il nome di minima, intesa come la più piccola nota che poteva portare una sillaba. 8. Cfr. battute 12, 13, 15, 16 e molte altre. 9. Un caso simile accade alla battuta 40, seppure con i valori raddoppiati. Serve al compositore per sottolineare un profondo sentimento di ammirazione per la Vergine Maria e il suo grembo. 10. Recenti studi hanno potuto rispondere a molte domande sul modus operandi degli autori rinascimentali all’atto della composizione. 11. Sono grato al prof. Mauro Uberti, che credo per primo abbia sollevato la questione della forma degli archetti in riferimento alla voce umana in: Mauro Uberti, I fisiologi spiegano il passaggio dal linguaggio parlato al canto, in «Tuttoscienze», 28.11.84, La Stampa, Torino, 1984. 12. Chiave di basso per il contrabbasso e il violoncello, di tenore per le parti acute del violoncello, di contralto per la viola e di violino per il violino, come per l’attuale soprano… 13. Probabilmente era successa la stessa cosa tra le voci e l’ensemble di cornetti, dal tipico suono umano-nasale… 14. Anche perché nel frattempo le corde di budello saranno state sostituite dalle ben più robuste corde di metallo, insieme a tutta una serie di cambiamenti ed evoluzioni accrescitive come l’anima rinforzata tra le due tavole armoniche ecc…, tutte legate all’imponente estetica romantica. Anche gli altri strumenti dell’orchestra subiranno trasformazioni in tal senso, e le formazioni corali diventeranno molto grandi. 15. Questo argomento meriterebbe una trattazione particolare e approfondita. In effetti le partiture antiche dovrebbero essere considerate al pari di canovacci sui quali improvvisare, secondo quanto emerge direttamente e decisamente dai libri coevi, con innumerevoli esempi di abbellimenti svolti. 16. Questo la dice lunga sulla pratica dell’ambivalenza dei due segni, ammessa da quasi tutti i teorici rinascimentali. E in questo contesto non ha nessuna importanza se lo stimolo di adottare la messa di voce sia partito autonomamente dall’archetto e poi arrivato al cantante, oppure se l’archetto sia stato creato proprio con quella forma per imitare la voce umana nell’atto di crescere e decrescere un suono. Le cose non cambieranno (al contrario, questa prassi si rafforzerà…) in pieno Rinascimento, quando l’archetto assumerà la caratteristica forma con il legno inclinato rispetto ai crini, alto al tallone e stretto alla punta, quindi a decrescere partendo dal tallone. La dinamica del suono continuerà però a non essere ferma e statica, ma varierà da un crescendo a un decrescendo, rispettivamente tirando l’arco dalla punta o dal tallone. Infine una doppia arcata tirata dalla punta (alla francese) creerà di nuovo la messa di voce. Per questo motivo possiamo ritenere di poter dire con sufficiente ragionevolezza che il suono delle voci non fosse mai fermo e costante. Siamo confortati dai trattati dei musici del tempo, che affermano perentoriamente e continuamente questa prassi vocale. Ma trattando di un periodo così lontano da noi la prudenza non è mai abbastanza, e le affermazioni categoriche non sono mai opportune, al di là delle proprie certezze personali. Pensateci: se ci basassimo solo sulle frasi lette sui libri, tra cinque secoli sarebbe forse possibile ricostruire il timbro di voce di Pavarotti solo basandoci sulle descrizione che leggiamo oggi sui tanti libri dedicati a lui, senza poter ascoltare una sua registrazione? O ci troveremmo davanti a un ventaglio di possibilità? Ma torniamo ai nostri amati suoni antichi, e chiediamoci: quando, allora, le dinamiche sono divenute costanti e i suoni più tenuti? Guardiamo sempre la forma degli archi: ciò succederà quando il legno sarà diventato parallelo al crine, in modo che l’archetto possa creare la stessa intensità del suono dal tallone fino alla punta. Siamo alla fine del Settecento. E adesso facciamo un ulteriore passo in avanti: quando il suono vocale crescerà di volume e l’estetica musicale verterà verso il forte? Quando il legno si sarà rovesciato verso l’alto (al contrario della sua primitiva posizione) e sarà possibile applicare una notevole pressione all’arco senza il pericolo che il legno e i crini si tocchino tra di loro.14 Quando succederà? In pieno Romanticismo. Ma non abbiamo ancora risolto la questione delle note puntate: si fanno in crescendo, in decrescendo o con la messa di voce? Quando siamo di fronte a una semiminima puntata seguita da croma, per la messa di voce in genere non c’è tempo. Una riflessione sul sistema pneumofonico che sta alla base dell’emissione della voce renderebbe più ovvia un’esecuzione in decrescendo, nel rispetto dei parametri aerei del suono che vanno naturalmente a decrescere. In più dobbiamo riflettere sul fatto che la semiminima puntata conduce la melodia verso una piccola croma. Non è conveniente che questa sia investita da un eventuale crescendo del suono precedente, anche perché il consueto riverbero ne accrescerà la presenza e annebbierà ulteriormente l’uscita della croma da questo importante alone. E poi, perché sempre i nostri amici violinisti avrebbero acquisito l’abitudine di lasciare i suoni puntati, creando un’elegante articolazione decrescente del suono tra la semiminima e la croma? Non sarà per imitazione della prassi vocale? Credo di sì. Questo pensiero è rafforzato dalla prassi strumentale barocca di creare una cesura del suono sul punto di valore nei ritmi puntati, fino a creare il tipico fraseggio interrotto del galoppo. Non possiamo non pensare che ciò sia frutto di un normale processo evolutivo legato alla prassi precedente al barocco, quindi rinascimentale, di articolare i suoni puntati con un decrescendo. nova et vetera Ciò vale anche allargando le durate dei suoni ai valori raddoppiati di minime e anche di semibrevi puntate (che nella grafia moderna appaiono legate a cavallo di battuta). In questo caso era probabilmente ben sfruttata la possibilità di adottare la messa di voce, oppure subentrava l’opportunità di variare il suono secondo le massime possibilità espressive, cioè introducendo le colorature…15 Quando non è opportuno applicare ai suoni lunghi (siano essi puntati o semplici) l’articolazione del suono con un decrescendo? Quando al termine della nota compare una dissonanza, che l’eventuale decrescendo farebbe perdere. In quel caso è invece consigliata un’articolazione a crescere… Abbiamo usato due edizioni a stampa del brano, quella del 1572, pubblicata a Venezia da Gardano e conservata ad Avila, e quella del 1589, pubblicata a Milano da Tini e conservata a Roma. Vale la pena di metterle a confronto per accorgersi di alcune differenze particolari: 1.Edizione 1572 usa il segno di tempo tagliato, mentre 1589 quello non tagliato.16 2. 1572: “ut animalia viderunt” - 1589: “ut animalia viderent” 3.Alcune differenti posizioni delle sillabe di alcune parole (“sacramentum”, “presepio”, “alleluia”) 33 4.Ripetuto uso dell’indicazione ij in sostituzione del testo (1589) 5.Alcune alterazioni nell’altus: a. un diesis omesso, ma scontato, alle battute 16 (1589) e 62 (1572) b.assenza del diesis a battuta 25 (caso citato della piccarda) 6. Un diesis posto insolitamente nella seconda nota di un ochetus del bassus a battuta 43 (1589). Mi rendo conto che ci sarebbero ancora molte cose da dire, ma ho superato di gran lunga lo spazio a disposizione. Solo un’ultima riflessione che lascio a voi: contate le battute del brano in qualsiasi edizione moderna, unendo a due a due quelle contenute nella parte ternaria dell’Alleluja, secondo una caratteristica scansione senaria. Sono 67. Adesso calcolatene la sezione aurea moltiplicando tale numero per 0,618. Vedrete che otterrete il numero 41. Siamo proprio all’inizio di un passaggio importantissimo del pezzo, una sorta di apparizione rivelatrice di questo “magnum mysterium” della nascita di Gesù Cristo: “O beata Virgo…”. Walter Marzilli alla guida dell’ensemble della Cappella Sistina Il maestro Walter Marzilli è stato recentemente nominato direttore dell’Ensemble ufficiale della Cappella Sistina, denominato Octoclaves. L’ensemble è stato riconosciuto dall’attuale direttore della Cappella Musicale Pontificia Sistina, mons. Massimo Palombella, e opererà sotto l’egida dell’istituzione vaticana (visita il sito: www.cappellamusicalepontificia.va/octoclaves.html). Gli Octoclaves sono nati nel 2003 e dal 2009 sono diretti dal maestro Marzilli. L’ensemble è formato da un nucleo di cantori della Cappella Sistina e da alcuni membri del Coro dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, che collaborano con il coro Sistino come aggiunti stabili. Fino al recente importante riconoscimento, l’ensemble aveva operato in modo autonomo, tenendo numerosi concerti per importanti istituzioni musicali. La formazione ha al suo interno un sopranista e un contraltista, entrambi membri della Cappella Sistina. Questo permette agli Octoclaves di affrontare un repertorio molto vasto, dalla musica antica in formazione tipica di sole voci maschili fino ai brani a voci miste. I membri degli Octoclaves sono tutti cantanti che hanno un’importante carriera solistica, fattore consueto tra i componenti della Cappella Sistina. Come solisti hanno cantato in Argentina, Brasile, Corea, Francia, Germania, Giappone, Inghilterra, Lussemburgo, Malta, Montenegro, Spagna, Stati Uniti (Michigan, Canada, Stato di New York, California…), Svezia, Svizzera, Ungheria, Venezuela. L’ensemble Octoclaves ha registrato recentemente un intervento musicale (Crux fidelis di D. Bartolucci) in una serie di trasmissioni televisive dell’emittente TV2000 (www2.tv2000.it/home_page/programmi/00000751_Puntata_del_28_gennaio_2012.html). Inoltre ha appena finito di incidere un cd dedicato ai responsori della Settimana Santa scritti dai docenti di composizione del Pontificio Istituto di Musica Sacra. Li vedremo impegnati a breve in un interessante concerto all’interno della lunga stagione del PIMS, che va da novembre 2011 a giugno 2012. In questa occasione saranno eseguiti alcuni tra i più intensi brani del Cantico dei Cantici di Giovanni Pierluigi da Palestrina, eseguiti in formazione antica dagli Octoclaves. Ogni brano sarà poi avvicinato di volta in volta all’esecuzione dello stesso titolo a opera del Coro Polifonico del Pontificio Istituto di Musica Sacra, musicato dai docenti di composizione dell’istituto. Sarà un dialogo, forse mai interrotto, tra la grande tradizione polifonica rinascimentale e i nuovi orizzonti dell’arte del comporre. 34 L’EVOLUZIONE DEL CANTO POPOLARE DI GUERRA TRA TRINCEA E POLITICA DI REGIME di Ettore Galvani etnomusicologo e direttore dell’associazione corale carignanese «…a poco a poco vanno scomparendo, soffocati e rimpastati dall’invadente affratellamento dei popoli che viene, viene a corsa sfrenata nei posti di terza classe delle ferrovie e dei tram a vapore o a cavalli che sia…» (Nepomuceno Bolognini)1 Le ancestrali paure di Bolognini, fissate nelle sue lettere, invitavano i suoi interlocutori ad affrettarsi nel cogliere gli ultimi barlumi di saggezza attraverso i canti del popolo, che per lui indicava esclusivamente accumulare i testi delle varie composizioni orali, come era uso e consuetudine per i ricercatori dell’epoca, senza porre attenzione e premura per l’interpretazione musicale, nei cui confronti dimostrava una generale e ostica insensibilità. E con questa esortazione il colonnello garibaldino ci fa supporre quanta e quale fosse la sua preoccupazione per la perdita di identità popolare e di aggregazione sociale. Un’inquietudine di fatto presente in tutti i periodi storici, che ha sempre assillato i cultori del folklore e delle tradizioni popolari: il “non fare in tempo” a salvaguardare le memorie e le costumanze prima dell’oblio atavico, prima che cali il buio sulla memoria dei popoli. Con la Prima Guerra Mondiale si chiude in Italia una stagione di studi antropologici forti ed esuberanti, con esperienze etnologiche importanti supportate da studi di impianto positivistico e di impostazione mitteleuropea sul folklore regionale, le quali trovano la loro espressione più alta negli scritti di Giulio Fara, con L’anima musicale in Italia del 1920, e Alberto Favara Mistretta, con Canti della terra e del mare di Sicilia, in due volumi pubblicati nel 1914 e nel 1920. Dopo di loro la mobilitazione scientifica, per molti versi inesistente su tutti i fronti accademici, fu investita da due fattori, caratteristici del periodo, che determinarono l’azzeramento del pensiero erudito: le politiche di controllo del regime, anche rispetto al dibattito sociopolitico internazionale, e l’influenza dell’idealismo crociano che poneva la sua linea di pensiero sul rifiuto del concetto di “scienza dell’uomo”. L’entusiasmo risorgimentale veniva così annullato ma riusciva a mantenere vivo il suo corpus attraverso gli studi sul folklore di guerra con tutti i suoi simbolismi, pratiche culturali, usi e consuetudini direttamente declinati dal folklore indigeno di ogni singola etnia italica e dal codice cavalleresco ancora vivo nel passato recente. Se, da una parte, lo studio della guerra attraverso la politica di diffusione del pensiero istituzionale servì a coercizzare le masse in un’unica ragione sociale e nazionale, dall’altra diventò un osservatorio in cui la trasmissione delle tradizioni, le sue mutazioni e le relative nuove creazioni diventarono il cuore pulsante della nascente disciplina. In altri momenti della storia del nostro paese si sarebbero dovuti attendere anni affinché fossero visibili e intellegibili alcuni mutamenti culturali e di costume; ma grazie, purtroppo, alla guerra, tutto ciò era a portata di mano in un tempo relativamente breve e circoscritto. La nazione veniva mobilitata in tutta la sua lunghezza, deportando obbligatoriamente tutte le etnie della nuova patria: etnie che, fino a 50 anni prima, avrebbero combattuto su fronti diversi per difendere uno status-quo legato a mentalità di impronta medievale. I tratti culturali distintivi di un popolo quali i canti, le superstizioni, i proverbi, i giochi, le varie costumanze di vita e l’impasto educativo-religioso venivano messi in comune e di conseguenza fortemente mescolati e contaminati tra loro, dando origine a una promiscuità intellettuale che sarebbe diventata il substrato sociale della nazione post-unitaria. La “trincea” assume una valenza fondamentale per lo sviluppo delle nuove tradizioni del paese. Una deportazione di massa, organizzata e metodica, in nome di un popolo ancora imberbe, in memoria di padri fondatori, sconosciuti ai più, che, tra il 1821 e il 1870, pagarono a caro prezzo l’idea risorgimentale di Italia Unita. In questo particolare momento storico, dunque, la “trincea” assume una valenza fondamentale per lo sviluppo delle nuove tradizioni del paese. Piemontesi, lombardi, veneti, sardi, siciliani… da nord a sud, tutti gli uomini abili alle armi vennero reclutati per far fronte al nemico che si accalcava sui confini orientali delle nostre Alpi, fino ad arrivare a portare al fronte i Ragazzi del ’99. La trincea dunque, parafrasando la vita normale, diventava la nuova piazza del paese nella quale, alla domenica mattina, prima e dopo Messa Grande, la gente si ritrovava per mettere in comune problemi, dubbi, opinioni, lavori e goliardie… canto popolare 35 Note Forse per caso o forse per una consapevolezza intrinseca nella cultura di ogni soldato al fronte, nasce e viene coniato il motto «Canta che ti passa», espressione spensierata ma ricca di significato, incisa su una parete del camminamento da un soldato sconosciuto durante le lunghe attese di posizione. Ripresa e portata al pubblico ludibrio da Piero Jahier, che la utilizzò come epigrafe della raccolta di Canti del Soldato2 del 1919, come «buon consiglio che un fante compagno aveva graffiato nella parete della dolina», divenne l’aforisma per eccellenza della “quarta guerra d’indipendenza”. Nascono i primi canti d’autore, fortemente voluti dai vertici militari, con concorsi interni alla truppe regolari, nascono canti che rimarranno nella memoria e nel sangue di generazioni di soldati: «[…] Indubbiamente i canti d’autore, per lo più ordinati dall’alto comando delle forze armate, venivano utilizzati a scopo propagandistico per rafforzare lo spirito dei soldati tanto al fronte quanto nelle retrovie. Esempio fulgido di questa iniziativa fu sicuramente La canzone del Grappa scritta dal generale Emilio De Bono, Comandante il IX Corpo d’Armata, e musicata dal capitano di fanteria A. Meneghetti in occasione della festa dell’Armata del Grappa in cui avrebbe partecipato Vittorio Emanuele III. Altri autori e compositori dell’epoca quali Libero Bovio, E.A. Mario, Gaetano Lama, G. Drovetti, C. Arona contribuirono alla produzione dell’innodia di guerra sino ai primi anni venti».3 A fronte di ciò, l’attaccamento a un repertorio corale legato a un periodo storico ben identificato diventa un momento di confronto non solo da un punto di vista artistico ma anche e soprattutto da una prospettiva storica e folkloristica. Ed è in questo contesto che l’affermazione di Edward H. Carr diventa illuminante ed esplicativa: «Il passato è comprensibile per noi soltanto alla luce del presente, e possiamo comprendere il presente unicamente alla luce del passato. Far sì che l’uomo possa comprendere la società del passato e accrescere il proprio dominio sulla società presente: questa è la duplice funzione della storia».4 Affrontare il cosiddetto repertorio “alpino”, o di ispirazione a tale vocazione filosofica, diventa allora un riportare a viva memoria scorci di storia e di vita quotidiana permeati e contaminati da quelle movenze proprie e connaturate di 1. N. Bolognini, Usi e Costumi del Trentino, Trento 1882-1892, p. 2, ristampa anastatica, ed. Forni, Bologna 1979. 2. P. Jahier, Canti di Soldati, Testimonianze fra cronaca e storia 1914-1918, Milano, Edizioni Mursia 2009. 3. E. Galvani, Vestì da Melitar, 1821 - 1918 Dal Risorgimento alla Prima Guerra Mondiale, Torino, Daniela Piazza Editore 2010. 4. E.H. Carr, Sei Lezioni sulla Storia, Giulio Einaudi Editore, Torino 2000. 5 G. Vidossi, Folklore di guerra. Ex voto italiani, estratto da Il Folklore italiano, anno 1931 n. 6, Catania 1932. 6. Colonnello Paolo Caccia Dominioni, Medaglia d’oro al valore dell’esercito. Già Comandante del 31º Battaglione Guastatori del Genio nelle battaglie di El Alamein, assuntasi volontariamente, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, l’alta ed ardua missione di ricerca delle salme dei Caduti di ogni Nazione, disperse tra le sabbie del deserto egiziano, la svolse per oltre 12 anni, incurante dei disagi, dei sacrifici e dei rischi che essa continuamente comportava. Con coraggio, sprezzo del pericolo, cosciente ed elevata preparazione tecnico-militare, condusse personalmente le ricerche tra i campi minati ancora attivi, venendo coinvolto per ben due volte nell’esplosione delle mine, sulle quali un suo gregario fu seriamente ferito e ben sei suoi collaboratori beduini rimasero uccisi. Per opera sua oltre 1.500 Salme Italiane disperse nel deserto, unitamente a più di 300 di altra nazionalità, sono state ritrovate. Altre 1.000, rimaste senza nome, sono state identificate e restituite, con le prime, al ricordo, alla pietà e all’affetto dei loro cari. 4.814 caduti riposano oggi nel Sacrario Militare Italiano di El Alamein, da lui progettato e costruito, a tramandarne le gesta e il ricordo alle generazioni che seguiranno. Ingegnere, architetto, scrittore e artista, più volte decorato al Valore Militare, ha lasciato mirabile traccia di sé in ogni sua opera, dalle quali è derivato grande onore all’Esercito Italiano, sommo prestigio al nome della Patria e profondo conforto al dolore della Comunità Nazionale duramente provata dai lutti della guerra. El Alamein, Sahara Occidentale Egiziano, 1942-1962. 7. «Il 17 ottobre dell’anno 1528, nella città di Napoli, in casa dei duchi di Tremoli, Michele Antonio, undecimo marchese di Saluzzo, capitano generale delle armi francesi nel reame, mortalmente ferito al ginocchio da un colpo d’obice ricevuto all’assedio d’Aversa, fatti chiamare al letto di morte i suoi più fidati compagni d’arme secolui prigionieri del vittorioso esercito cesareo, dettava in loro presenza il testamento che forma il soggetto della presente canzone, e spirava il giorno dopo, lasciando, a giudizio degli storici, gran desiderio di sé ai suoi popoli, e onorata memoria presso gl’Italiani e i Francesi che con lui militarono». Memorie storicodiplomatiche appartenenti alla città e ai marchesi di Saluzzo, Muletti D., 1828-1833. 8. E. Galvani, op. cit. 9. M.L. Straniero, Manuale di musica popolare, Manuali BUR, Milano 1991. 10. C. Caravaglios, Il folklore musicale in Italia (1936), Arnaldo Forni Editore, Sala Bolognese 1979. 36 ogni singola realtà culturale regionale; significa ripercorrere l’esegesi della storia attraverso le testimonianze della oral history del nostro popolo. Il canto degli alpini dunque, più di qualsiasi altro corpo militare, trova la sua genesi in quella posizione fisica chiamata trincea e in tutti i suoi dettagli di interazione interpersonale. La Prima Guerra Mondiale, ultima guerra di posizione, è stata generatrice di tutta quella produzione che, affondando le sue radici nella ballata narrativa a contesto epico-lirico, trasforma e adatta i temi legati all’onore, alla nobiltà d’animo e all’educazione dei rapporti interpersonali al nuovo momento storico contingente. Il gusto musicale dell’epoca ha tessuto temi di grande impatto emotivo e la diffusione di tali documenti ha avuto una eco imponente, anche grazie alle prime compagini corali che si avvicinarono a tali argomenti nell’immediato Dopoguerra. Il canto del fronte definito successivamente alpino, dunque, appare come una metafora per raccontare ed esprimere momenti di vita particolari e per fissarli nella mente e nella voce di ogni singolo abitante della trincea. La stesura del nuovo canzoniere popolare a sfondo militare trova terreno fertile in tutte quelle costumanze musicali proprie di ogni singolo abitante di quel lungo Paese che si snoda serpeggiante tra le pianure e le montagne della nostra penisola. Il canto degli alpini ha subito le modificazioni del tempo e ha attinto da un substrato collettivo fortemente radicato per mutarsi, con spunti e suggerimenti di vita bellica, e plasmarli nel nuovo contesto storico che si stava delineando all’orizzonte. Ed è così che canti appartenenti a culture e correnti di pensiero diametralmente opposti diventano un tutt’uno nella celebrazione del nuovo contesto storico. Le trasformazioni culturali solitamente scandite dai secoli acquistano una velocità impressionante e nell’arco di tempo di un decennio si generano e si diffondono attraverso l’oral history italiana i pilastri della nuova cultura popolare. «La guerra creò con la sua psicologia e con il suo movimento di masse condizioni straordinarie che consentirono, come in tanti altri campi anche in quello del folklore, che sviluppi, richiedenti normalmente lunghi cicli d’elaborazione, maturassero in un breve spazio d’anni. Il clima bellico fu, sotto questo aspetto, simile al clima artificiale d’un laboratorio in cui si cerchi di riprodurre a scopo di studio fenomeni della natura».5 Temi classici come la ballata de Ël Testament dël Marchèis dë Salusse di origini piemontesi diventa Il Testamento del Capitano, celebrato e mitizzato da personaggi eclettici e istrionici come Paolo Caccia Dominioni.6 Il rapporto storico della battaglia di Aversa7 del 1528 diventa successivamente ballata per officiare le gesta eroiche del Gran Siniscalco di Francia, piemontese di nascita e francese di adozione, e ancora nel nuovo evento guerresco della Prima Guerra Mondiale si rigenera, diventando il nuovo motivo di celebrazione dei tanti ufficiali al fronte, rinascendo a nuova vita come Il testamento del Capitano degli alpini, eroe per necessità più che per indole o virtù. E ancora, nella trasformazione continua del popolo, nella sua Il canto si trasforma e muta ancora la sua veste. elaborazione collettiva unica e perpetua, il canto napoletano Sona chitarra, scritto da Libero Bovio ed Ernesto de Curtis nel 1913, diventa Fuoco e Mitragliatrici, inno di protesta e di esortazione alla vittoria, che celebra le conquiste e le tragiche sconfitte del Monte Cappuccio, del Doberdò, del Monte Nero e di Gorizia con l’innodia di Stato a benevolenza dei Savoia. Il canto si trasforma e muta ancora la sua veste. Il canto dei minatori della Galleria del Gottardo, nato probabilmente durante i lavori di scavo, fra il 1872 e il 1880, diventa il lamento sofferente e accorato degli alpini dell’Ortigara nella canto popolare Estratto della “Scheda Caravaglios” malinconica celebrazione della loro avventura, accompagnata dal celeberrimo fucile M95 (Mannlicher 95) in dotazione ai cecchini austriaci e soprannominato “Ta Pum”. Il ritornello ostinato che percorre tutto lo svolgersi del canto ricorda il risuonante frastuono del brillare delle mine nei cunicoli scavati a pala e piccone; e per assonanza fa ritornare a viva memoria il rumore della pallottola nemica durante la deflagrazione e il successivo e tardivo rumore dello sparo a tragedia compiuta. Ma tutte queste evoluzioni stilistiche, tutti questi “nuovi documenti storici”, avranno il dominio della scena solamente dopo il secondo conflitto mondiale, grazie anche alla sensibilità di stampo cavalleresco e risorgimentale tramandataci attraverso gli studi e le analisi di personaggi quali Nigra, D’Ancona, Tigri, Tommaseo, Ferraro, Pitrè e molti altri, col risorgere delle attività intellettuali dal letargo atavico del sistema politico di regime. In questo particolare scenario socioculturale si articolano eventi che, pur passando in sordina rispetto ai temi della politica contemporanea dell’epoca, segneranno delle tappe 37 fondamentali per la sopravvivenza minimalista degli studi folkloristici in Italia: citiamo il Primo Congresso di Etnografia italiana (24 ottobre 1911), la nascita dell’O.N.D., Opera Nazionale Dopolavoro, (1 maggio 1925), contemporaneamente alla nascita, nello stesso anno, de Il Folklore italiano, a opera di Raffaele Corso, ribattezzato nel 1933 Archivio per la raccolta e lo studio delle tradizioni popolari italiane, in quanto il termine folklore richiamava culture “straniere” rispetto al concetto di italiano del regime. In questo dispersivo stillicidio di menti e di pensieri filosofici, a parte il contributo di padre Agostino Gemelli sugli studi folkloristici a cui va il merito di essere stato con molta probabilità il primo a cogliere il valore del folklore di guerra per le discipline scientifiche umane, I canti delle trincee di Cesare Caravaglios si può definire un tassello importante del filone del folklore di guerra, soprattutto per gli sviluppi metodologici che lo stesso autore darà all’etnomusicologia qualche anno dopo: «[…] Nel 1930 Cesare Caravaglios con I canti delle trincee dà vita a una delle raccolte più importanti dell’epoca sui canti della guerra, sulla loro origine, produzione e diffusione. Facendo riferimento alle moderne concezioni sullo studio delle tradizioni orali, non può sfuggire l’altalenante contraddizione metodologica dell’autore: prima lo vede alla ricerca del modello della canzone militare pura separandola dal contesto in cui essa si genera e poi lo scopre all’analisi delle fonti per ritrovare nei canti del Risorgimento e più in generale nel repertorio dei canti popolari e popolarizzati, come lui stesso li chiama, quei modelli storico culturali che portarono alla formazione di quella sezione tematica incentrata sui canti del primo conflitto mondiale. Caravaglios articola la sua pubblicazione in dodici capitoli distinti e all’interno di questi si trovano, a nostro avviso, l’essenza e la concezione della filosofia del ricercatore sui canti di guerra».8 Dopo I canti del nostro soldato: documenti per la psicologia militare, del 1917, dello stesso Gemelli e i Canti di soldati raccolti da Barba Piero - Zona di fuoco, del 1918, di Piero Con la Prima Guerra Mondiale si chiude in Italia una stagione di studi antropologici forti ed esuberanti. Jahier, pubblicati sul supplemento a L’Astico, giornale di trincea curato dallo stesso autore, il lavoro del Caravaglios risulta, pur nella sua lontananza temporale, filosofica e metodologica, un lavoro tutto sommato completo anche nella sua serena e trasparente adesione alle politiche istituzionali di regime. 38 È chiaro che, nel contesto generale di riorganizzazione culturale operata dalla politica del periodo a partire dalla fine della Grande Guerra sino alla metà degli anni Quaranta, l’attenzione e l’approccio filosofico ai canti di guerra sono stati fuorviati dal controllo egemonico della comunicazione e dalla politica stessa del regime che censurava o caldeggiava inni e canti in relazione all’impianto narrativo o alla probabile interpretazione che si sarebbe potuta dare intonando taluni canti piuttosto che altri. Il contesto politico evidenzierà ancor più la chiusura interpretativa e l’approccio metodologico, portando inevitabilmente nel corso del ventennio gli studi di indirizzo folklorico e filologico verso una esteriorità e di concetti permeati dalla retorica nazionalista di impronta guerresca. Al di là di tutte le analisi storico politiche, però, nell’immediato Dopoguerra si è potuto rivalutare il messaggio degli studiosi dell’epoca sotto un’ottica di rinnovata espressione accademica andando a rivalorizzare gli studi che, in un primo tempo, sembravano di basso profilo culturale. Le pubblicazioni riflettono un determinato momento culturale e sociale che, in fondo, il popolo aveva assimilato e che per certi versi aveva fatto suo. La testimonianza importante però è data dal fatto che, a distanza di quasi cento anni dal primo conflitto mondiale, molti canti sono rimasti nella memoria della gente a monito e ricordo di tante battaglie vinte e perse in nome di un’unica unità nazionale. L’evoluzione degli studi folkloristici tuttavia, pur nella ristretta cerchia degli studi dedicati al folklore di guerra, ci ha tramandato un documento di incredibile importanza etnomusicale; il frutto di lavori di secondo ordine o di intuizioni appannate e filtrate da condizionamenti politici, ma che hanno dato vita a uno dei saggi di carattere divulgativo e metodologico più interessanti del periodo ascritto: Il folklore musicale in Italia. Nel 1936, dunque, Cesare Caravaglios pubblicava a Napoli il suo ultimo libro che rappresenta la summa delle sue esperienze scientifiche e il compimento di quindici anni di ricerche e di studi nell’ambito dell’etnomusicologia dell’epoca. Tra aforismi e spunti metodologici, il Caravaglios traccia un percorso culturale delle varie opere fino ad allora edite nella ricerca folklorica, motivandole criticamente e abbinandole alle intuizioni e alle metodologie di ogni singolo studioso analizzato. Nelle sue 480 pagine, l’autore articola il suo lavoro in sei capitoli, dando ampio spazio a un’imponente bibliografia che consta di ben di 220 pagine puntualmente dettagliate. Ma la punta di diamante della sua fatica è indubbiamente la scheda posta nella sesta parte sua summa editoriale. «Le diligenti indicazioni metodologie del Caravaglios»9, come cita Michele Straniero, «ci orientano verso una metodologia pratica e pragmatica fino ad allora solamente descritta da ogni singolo ricercatore ma mai così redatta con profonda dovizia di particolari e informazioni anche di tipo grafico». Nei munifici consigli per la sua compilazione, il Caravaglios riferisce: «Trascritto sul pentagramma il canto, il raccoglitore non ha compiuto tutto il suo lavoro in quanto egli deve ancora ricercare e raccogliere tutti quegli elementi che servono a illustrare il documento etnografico che ha fissato e che riguardano, oltre che il canto stesso, il cantatore, gli strumenti musicali che costui ha adoperato, la forma e l’occasione nella quale il canto è stato ripetuto, la diffusione geografica, la bibliografia ecc. relative al canto stesso»10. Dell’esecutore materiale, inoltre, consiglia ovviamente di segnare le generalità e anche il tipo di famiglia dalla quale proviene e ancora prosegue suddividendo in due schede diverse la tipologia di documento ritrovato, sia esso canto o ballo, e di quest’ultimo consiglia – e illustra con documenti grafici come – di riportare i vari passi di danza che accompagnano l’esecuzione musicale. Un documento organizzato e complementare che ancora oggi è modello di studio e di metodo. Le ricerche in campo etnomusicologico hanno fatto passi da gigante negli ultimi cento anni ma le basi di questa articolata e un po’ dimenticata disciplina umanistica sono state gettate dai vari studiosi che hanno operato tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento, implementando reciprocamente le varie idee e metodologie in un continuo lavoro di elaborazione collettiva, come è nella natura stessa del canto popolare. Il canto degli alpini trova la sua genesi in quella posizione fisica chiamata trincea. portraiT 39 Chi canterà le mie storie? Intervista a Bepi De Marzi a cura di Mauro Zuccante Innanzitutto, grazie, maestro Bepi, di aver accettato di colloquiare con me. Sono sicuro che i lettori di Choraliter gradiranno approfondire, attraverso le tue stesse parole, alcune delle tematiche inerenti alla tua opera. Un capitolo cospicuo della tua produzione raccoglie i canti di ispirazione popolare legati, più o meno direttamente, all’ambiente alpino. A distanza di diversi decenni dal suo fiorire, e in un momento che coincide con il compiersi di un arco generazionale, prova a tracciare un bilancio della stagione dei cori di montagna. A Milano c’è un coro di poche ma ottime voci molto giovani. Il repertorio che propone, eseguito con fedeltà e accuratezza, è quello classico, elaborato a Trento dai Pigarelli, i Pedrotti, poi i Mascagni, i Dionisi e l’ispiratissimo grande pianista Benedetti Michelangeli. Chiedere a questi giovani “perché cantano” potrebbe essere illuminante per capire l’attuale situazione corale. La montagna? In montagna non si è mai cantato così. Nelle valli alpine, questo genere vocale e armonico è arrivato dalle città con l’escursionismo. Alla fine degli anni ’60, in un convegno a Cortina, si è detto che i cori maschili erano tutti “trentinizzati”. Ma se non ci fosse stato il Coro della SAT, nessun coro maschile sarebbe sorto nel secondo dopoguerra. Questo è un tempo sospeso, dove nell’incertezza del futuro si propone di tutto. Ma io vorrei tornare a quel “perché”, ben sapendo che rimarrebbe senza risposta. E non basta ricordare la celebre frase “perché la montagna è là!”. L’alpinismo classico è finito da tempo. Anche l’escursionismo di massa. Oggi si va nei boschi con il fuoristrada e sui sentieri con la moto da cross. E mi viene da piangere. non mi sono mai posto il problema della purezza, consapevole che un canto autenticamente popolare viene falsato appena lo si tocca, appena lo si elabora armonicamente e vocalmente. Certo: il mio modello iniziale è stato il coro trentino con i suoi inimitabili musicistiarmonizzatori. Oh, le armonizzazioni! Si è sempre parlato solo di armonizzazioni, per i nostri repertori. Mi intenerisce sentire tanti coristi delle centinaia di gruppi maschili che, nominando Beethoven, dicono che ha fatto “nove armonizzazioni”. Un coro piuttosto noto, nel registrare La contrà de l’acqua ciara ha scritto: «Testo di Giuseppe De Marzi, armonizzazione di Bepi De Marzi». C’è ancora della confusione, qua e là. I detrattori? Dicono che sono “troppo semplice, troppo cantabile, tardoromantico”; scrivono che non pratico le dissonanze, che ignoro la tecnica moderna. Ma le cattiverie più organizzate sono venute dai cacciatori dopo che ho scritto La Sisilla, e soprattutto Scapa, oseleto, Scappa, uccellino, violino della siepe… Il tuo linguaggio musicale esclude ogni sorta di complessità e persegue piuttosto la via della linearità nella scrittura, della semplicità espressiva e dell’immediatezza comunicativa. A me basta “fare compagnia a qualcuno” con le mie storie cantate. Alcuni detrattori ti accusano di confondere i generi. I tuoi canti sarebbero invenzioni personali che rischiano di contaminare la purezza e l’autenticità del repertorio storico di tradizione orale, esito di operato anonimo e collettivo. Premesso che l’intero repertorio dei cori alpini è, di fatto, un’invenzione pensata per le sale da concerto – a partire dal modello-SAT –, condividi l’idea che l’apporto creativo dell’artista-individuo giochi, invece, un ruolo determinante, ai fini della sublimazione poetica dei contenuti e delle storie raccontate nelle cosiddette canzoni popolari? Nel mirabile repertorio SAT ci sono dei generici canti d’autore che nessuno ha mai discusso perché proseguono dallo stile riconosciuto. Molte delle mie storie cantate dicono della mia partecipazione alla vita sociale, gridano la mia indignazione, invitano al rispetto della memoria, alla pace. Nella tradizione, Sia nella prestazione esecutiva che in quella della percezione, insomma, le tue canzoni si attengono a quello che potremmo definire un “lessico popolare”. Eppure mi pare che qua e là affiorino modelli di origine colta. Tra gli altri esempi, mi vengono in mente la policoralità di Pavana, l’esordio in stile imitato di Nikolajewka, gli stretti ritmici presenti nelle ultime righe di Sanmatìo. Qual è dunque il debito che ti vincola alla formazione di musicista colto? Grazie per essere entrato nel giusto significato del mio lavoro. L’immediatezza comunicativa me la impongo continuamente perché mi chiedo: «Chi canterà le mie storie? Uomini, donne, ragazze, ragazzi che per lo più non sanno leggere la musica…». Ecco: voglio facilitare il loro impegno. Potrei elaborare tessiture più complesse, certo. Ma a me basta, come diceva il mio grande amico Rigoni Stern “fare compagnia a qualcuno” con le mie storie cantate. Però vorrei che dai concerti corali si uscisse con la memoria di qualche 40 Bepi De Marzi____ Ha fondato e dirige il coro I Crodaioli. Ha suonato per vent’anni l’organo e il clavicembalo nei Solisti Veneti di Claudio Scimone. Ex insegnante nel conservatorio di musica di Padova, svolge una intensa attività di giornalista e di narratore. Ha lavorato a lungo con il poeta padre David Maria Turoldo nell’elaborazione dei Salmi per la liturgia. È compositore di musica sacra. Per il repertorio corale di ispirazione popolare ha scritto centocinquanta canti nuovi, parole e musica; il primo è stato Signore delle cime, ormai intonato e tradotto in tutto il mondo. Bepi De Marzi ritratto dal suo corista Gianni Frizzo passaggio melodico, di qualche motivazione poetica e sociale, per continuare a vivere la tormentosa felicità di quel “perché”. Ciò che ho scritto lungo gli anni è stato dettato in parte dai miei studi giovanili, che sono anche i tuoi. Venendo dal conservatorio e operando nella musica nei diversi campi, ci si lascia tentare dalle grandi forme polivocali, pur se consapevoli che tutto il meglio sia già stato realizzato. Tra le qualità più apprezzate nelle tue creazioni c’è quella di una semplice, ma attraente e coinvolgente vena melodica. Ritieni che questo sia il dato che più di ogni altro favorisca la popolarità del tuo repertorio? Ne ho la certezza. «Cosa fai di mestiere?», mi ha chiesto un mite fraticello della Verna nel tempo in cui ancora andavo a confessarmi. Di solito, a chi mi fa una simile domanda rispondo «faccio l’idraulico». Quella volta, lassù, non potevo mentire: «Il melodista», ho risposto. «Oh, Gesù, e che mestiere sarebbe?». Proseguendo dai pensieri precedenti, confermo il mio costante impegno nel realizzare piccole immagini cantate, facili da memorizzare. Molti dei miei canti vengono da tempo accompagnati con la chitarra o con altri strumenti. Vivono perciò per la sola melodia. A Lourdes, una volta che facevo servizio in un pellegrinaggio, mi sono avvicinato a dei coristi italiani che intonavano un mio mottetto con organo. «Lo sa anche lei?», mi hanno chiesto. Sono queste, le piccole e inattese felicità. Tra le tue canzoni, La contrà de l’Acqua ciara è quella che preferisco. Ogniqualvolta mi capita di ascoltare questo struggente motivo, la familiarità con i luoghi, in cui entrambi viviamo – ora ahimè imbruttiti da scempi indecenti – accresce la partecipazione emotiva. L’amara malinconia di questa canzone consolida in me l’immagine di Bepi De Marzi cantore dell’inesorabile fine del mondo contadino-montanaro veneto. Mi sbaglio? Mi conosci bene, ma bene. La mia è un’infinita disperazione. Io, il “perché” l’ho sempre avuto, l’ho sempre espresso in diversi modi. Piango un mondo umiliato e offeso. Urlo anche per lo scempio delle città: «Come fosse morto il mondo, se la città d’autunno non ha più foglie gialle nei viali di cemento nero. Le foglie non sono mai nate, son rimaste nel cuore dei rami duri come pietra…». Questo canto ha sorpreso i miei amici milanesi. Nella contrada che ho cantato, come in altre delle nostre montagne, ora vivono molti immigrati; e sono tornati i giochi dei bambini, magari in lingue diverse. Ecco un’altra felicità che consola i miei giorni inquieti. Hai percorso la tua carriera a fianco di una nutrita schiera di musicisti, con i quali hai condiviso con successo un progetto di crescita e valorizzazione del canto corale. Quali, tra i compositori e direttori di coro della tua generazione, consideri più affini alla tua esperienza artistica? Ho conosciuto e ammirato le dilatazioni vocali di Malatesta, le seduzioni armoniche di Bon, il sapiente fervore di Agazzani, la nobiltà internazionale di Gervasi, la passione popolare di Vacchi, l’arguzia di Corso, la poliedricità di Bordignon, il puntiglio popolare di Vigliermo, l’acutezza di Leydi. Ma il mio pensiero riconoscente va ai miei maestri di pianoforte, di organo, di composizione. E quanti sogni! Determinante è stato il mio entrare nei Solisti Veneti come clavicembalista e organista. Da Claudio Scimone ho imparato che nella musica non si deve mai finire di cercare, cercare e cercare. Anche nel dirigere i cori per Vivaldi, Mozart o Beethoven, il mio fraterno amico e maestro padovano ha sempre cercato la chiarezza per un’emozionante comunicazione. Bandito l’intimismo, ha cercato, e ancora cerca, di parlare al mondo, di illuminarlo, di renderlo migliore. Si può fare con Vivaldi, con Bach! Ma anche con Pigarelli. Mi ha incoraggiato e aiutato Silvio Pedrotti, proprio il grande Silvio che ora più nessuno ricorda. Lui sì che manifestava il “perché” del cantare in coro. «Non basta cantare: bisogna far pensare», mi ha scritto affettuosamente quarant’anni orsono. Vorrei ora mettere a fuoco un paio di punti sul tuo ruolo di direttore di coro. I Crodaioli di Arzignano sono la fucina portraiT presso la quale hai plasmato gran parte delle tue creazioni. Mi sembra di cogliere in questo complesso vocale anche una certa originalità timbrica. Quali sono a tuo avviso i connotati fonici che distinguono I Crodaioli nel panorama dei cori alpini? Forse eravamo un coro alpino. Le mie prime sei raccolte pubblicate dalle Edizioni Curci avevano l’unico titolo Voci della montagna. Per la vocalità, è risaputo, bisogna adattarsi alle voci disponibili, plasmandole per la soluzione migliore nell’amatorialità. Nelle tre raccolte seguenti ci sono anche dei rifacimenti, delle rielaborazioni. Qualche canto tra i più diffusi l’ho proposto addirittura all’unisono. Ho creduto nella vocalità vagamente aggressiva, intensa, per una varietà dinamica tendente a provocare emozioni. Ultimamente ho un poco attenuato questo atteggiamento. Mi ripeto nel dire che questo è un momento di attesa. Perciò, rimanendo nel presente, dopo una pausa di un paio d’anni abbiamo deciso insieme di mutare l’impostazione vocale limitando l’estensione sui modelli polifonici a voci uguali. Ora i tenori primi hanno un timbro pieno e reale, non più di “falsetto”. Le armonie sono più intense con le voci “vicine”. 41 rimando a una prossima puntata, lo spinoso argomento della musica liturgica, pur sapendo quanto ti stia a cuore e quanto ti sia speso per tutelarne il decoro. Qualche tempo fa fecero un certo scalpore alcune tue apocalittiche previsioni in merito al futuro del canto corale. Tra le altre, leggo queste affermazioni: «Il mondo corale amatoriale sta attraversando una profonda crisi, ma non solo per la mancanza di voci giovani, bensì per la confusione dei repertori. I testi in italiano non interessano più, tanto meno quelli nei vari dialetti». Sei ancora convinto di tutto ciò? Manca la curiosità e la caratterizzazione. Il problema del ricambio delle voci nei cori maschili è sempre più sentito. Mi preoccupavo però della perduta dignità dei complessi corali che proponevano espressioni senza precise motivazioni. I cori misti nascono e si spengono in continuazione anche per la mancata ricerca di una personalizzazione. Per la musica sacra, e spero che se ne parli presto a più voci in queste pagine, non c’è niente da fare: siamo da tempo nel degrado. Le Piango un mondo umiliato e offeso. Urlo anche per lo scempio delle città. C’è un particolare nel tuo modo di condurre il fraseggio che mi ha sempre incuriosito. Quello cioè di “tirare la frase” senza interruzione e, alle volte, con alquanta lentezza, mettendo a dura prova le voci nel sostenere i suoni; quasi volessi cercare una continuità sonora in grado di oltrepassare i limiti del respiro. Penso a un brano come Bènia Calastoria. Mi chiedo se si tratta di emulazione di sonorità strumentali, come possono essere, ad esempio, quelle dell’organo. Insomma, vezzo o scelta motivata da ragioni espressive? Forse hai ascoltato qualche mio canto dai cori che non fraseggiano chiaramente. Benia Calastoria ha i respiri ben segnati. La mia esecuzione può dare l’impressione della continuità che tu sottolinei, ma è solo un’impressione perché c’è un pedale continuativo affidato prima ai bassi, poi ai baritoni, che riempie le brevissime sospensioni dei respiri. Pur usando per lo più l’omoritmia, tengo molto alle possibilità umane per un fraseggio naturale. Non ho mai contato i canti che ho fatto. Ma ci sono pedali all’alto, bassi ostinati, forme cicliche… La nona raccolta, edita sempre dalla Curci di Milano, contiene anche un canto in tre movimenti, Brina Brinella. C’è un Largo come introduzione, un Corale-Andante e una Fuga-Vivace costruita con soggetto, controsoggetto, modulazioni, divertimenti e stretti. In questo caso, il “perché” sta nel raccontare l’ansia del contadino per il raccolto minacciato dalle improvvise gelate primaverili. Un lato non secondario della tua poliedrica personalità è rappresentato dalla vis polemica con la quale affronti pubblicamente tematiche relative alla vita musicale e non. Vorrei riservare a esso le ultime riflessioni. Tralascio, e messe sono ovunque un’avventura locale e i canti prediligono i versi tronchi in “ai, ei, oi, ui”. Le musiche? Impera la “non melodia”. Hanno inventato la cantillazione, un recitativo con effetti esilaranti. Infine, vorrei dire che reputo meritoria la tua indefessa azione di denuncia del degrado socio-culturale in cui siamo sprofondati da un paio di decenni a questa parte. Pensi che la crisi eclatante e finalmente riconosciuta a ogni livello, si possa ergere a spartiacque tra un’epoca di infimo decadimento e una nuova stagione di rigenerazione morale e riscoperta di valori culturali, morali e sociali più autentici? Insomma, c’è una speranza dietro l’angolo, o no? Mia mamma era di Milano e mi diceva come «i veri milanesi non sono mai indifferenti davanti alle vicende del mondo». La mia amata Milano, però, ha perduto molto del suo cosmopolitismo per diventare una specie di bigottificio provinciale. Mio papà, per il suo lavoro di tecnico elettromeccanico, aveva l’abbonamento per tutta la rete ferroviaria italiana e mi diceva: «Non accontentarti mai di ciò che ti dicono: vai a vedere e racconta la verità». Per uscire da questo grigiore qualunquistico c’è solo da sperare nell’Europa, dove dobbiamo portare il calore della nostra rinnovata poesia. Aspettando il Festival… Europa Cantat Torino 2012 di Lorenzo Montanaro Si avvicina l’estate e con essa il grande appuntamento con il Festival Europa Cantat XVIII Torino 2012. Attraverso le sue pagine, Choraliter è lieta di offrire ai suoi lettori gli ultimi aggiornamenti sul programma artistico, sulle folte iscrizioni ricevute, sulla nuova proposta dei discovery atelier pensati per rispondere alla curiosità e ai gusti di chi vorrà, anche solo per un giorno, vivere con noi questa straordinaria esperienza! aspetta Un coro può essere un cammino di crescita: le persone che cantano insieme nel tempo imparano a condividere esperienze, a vivere insieme, ad ascoltarsi. È con questa consapevolezza che Torino si prepara per la diciottesima edizione di Europa Cantat, il più importante festival europeo dedicato alla musica corale, per la prima volta ospitato in Italia. Dal 27 luglio al 5 agosto la città sarà felicemente invasa da una festa di voci e lingue differenti: gli oltre 4000 partecipanti già iscritti provengono da ogni angolo del mondo. Con più di 100 concerti e grandi eventi il festival abbraccia stili e linguaggi diversissimi: dal canto gregoriano alla polifonia sacra, dal barocco al romanticismo, dal jazz al pop, senza trascurare il folk, gli esperimenti di cross over e perfino qualche incursione nell’elettronica. Ma Europa Cantat non è solo esibizione, è anche studio e ricerca. Gli iscritti al festival possono scegliere tra 40 atelier dai 4 agli 8 giorni e vari discovery atelier ogni giorno: occasioni per arricchire il bagaglio musicale e affinare la tecnica esecutiva, secondo il livello e le aspettative di ciascuno. Nato nel 1961 per iniziativa della federazione europea da cui prende il nome, il festival Europa Cantat si svolge ogni tre anni in una città diversa. Nel 2009 ha fatto tappa a Utrecht (Paesi Bassi), nel 2015 sarà a Pécs (Ungheria). L’edizione torinese è una grande occasione per l’Italia, che può rispondere all’invito europeo accogliendo i partecipanti con un patrimonio artistico di immenso ASSOCIAZIONE 43 valore. Il programma è un invito a incontrare la musica in tutte le sue forme. Tra i grandi eventi classici spiccano due concerti sacri: l’esecuzione dell’oratorio Le Laudi di Hermann Suter, con la partecipazione dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai, e l’esecuzione del Vespro della Beata Vergine Maria di Claudio Monteverdi, un tributo alla bellezza di valore universale. Non solo: Europa Cantat Sound System, una serata guidata dai Lou Dalfin, celebre gruppo occitano, e animata dalla presenza di molti artisti rock, folk e reggae di area mediterranea; uno spazio per il grande jazz, con il Sacred Concert di Duke Ellington; un progetto di tango argentino; una giornata alla Venaria Reale, durante la quale i magnifici ambienti della Reggia sabauda faranno da cornice alle esibizioni dei cori partecipanti; una collaborazione col Museo Nazionale del Cinema e molto altro ancora. Le nottate torinesi saranno ravvivate da un ricco programma articolato su tre filoni: repertorio classico, folk mediterraneo e unexpected, cioè “la musica che non ti aspetti”, con esperimenti, contaminazioni e sorprese. E come dimenticare gli open singing? Si tratta di momenti magici, durante i quali cadono le barriere tra chi canta e chi ascolta, in nome di un unico grande coro: alle 20.00 ogni sera l’appuntamento è in Piazza San Carlo sotto il palco principale per provare l’emozione di cantare tutti assieme. Fedele alla tradizione che da sempre lo caratterizza, il festival Europa Cantat riesce a coniugare atmosfera giocosa e serietà delle proposte artistiche. Molti sono gli ospiti internazionali, tra cui l’Estonian National Male Choir, coro maschile acclamato in tutto il mondo, e tre prestigiose formazioni a cappella, capaci di spaziare tra i vari generi: il gruppo svedese Real Group, l’ottetto inglese Voces8 e i belgi Witloof Bay. Si segnala anche la presenza di nove cori giovanili nazionali europei, tra i quali non poteva mancare il Coro Giovanile Italiano, nato nel 2003 su impulso di Feniarco. A fare gli “onori di casa” ci sarà anche il Coro Maghini, realtà nata e cresciuta sotto la Mole che sa farsi apprezzare in Italia e all’estero. “On stage”, “festa” e “soul food”: ecco le parole chiave che sintetizzano un evento unico a cui tutti possono partecipare. E tu sei pronto a cantare con noi? Per costanti aggiornamenti sul programma: www.ectorino2012.it ando 44 Discovery Atelier Sabato 28 luglio 2012 9.30-13.00 Mercoledì 1 agosto 2012 9.30-13.00 G11Family Singing (Part I) - Marleen Annemans (BE) G12Aleatoric Music - Pier Paolo Scattolin (IT) G13Choral Flash Mob - Kjetil Aaman (NO) con esibizione finale G14Mare nostrum: Xavier Montsalvatge (1912-2002), a portrait - Daniel Mestre (ES/Cat) G15 Vocal Coaching G51Mediterranean Folk - Lo Cor de la Plana (FR) G52 Voice and Physique - Panda von Proosdij (NL) G53Singers troubles and solutions - Isabelle Fini-Storchi (IT) G54 Body Percussion - Richard Filz (AT) G55New Gospel - Joakim Arenius (SE) G56Norwegian folk songs and improvisation in folk style Berit Opheim Versto (NO) Domenica 29 luglio 2012 9.30-13.00 Giovedì 2 agosto 2012 9.30-13.00 G21Family Singing (Part II) - Marleen Annemans (BE) G22Mediterranean Folk: Love and Fun Songs from South Italy - La Paranza del Geco (IT) G23 Breathing technique for singing - Nadia Sturlese (IT) G24Last Tango in Torino - Oscar Escalada (RA) con esibizione finale G25Spiritual - Avis Graves (US) G26Mare nostrum: A trip to the monastery of Montserrat - Daniel Mestre (ES/Cat) G27A taste of Romantic repertoire for male voices G61Mediterranean Folk: Occitan Songs - Lou Dalfin (IT) G62Conducting for singers - Anne Karin Sundal-Ask (NO) G63Palestrina’s pupils: Anerio and Nanino Paolo Da Col (IT) G64Eastern Orthodox repertoire Discovery Atelier speciale di due giorni (per voci maschili selezionate) Sabato 28 e domenica 29 luglio 2012 9.30-13.00 G01Advanced atelier for male voices con esibizione finale Lunedì 30 luglio 2012 9.30-13.00 G31Festa! - Kjetil Aaman (NO) con esibizione finale G32 Discovering Venaria Reale G33Latin American Renaissance Music G34Singin’ history of vocal jazz Martedì 31 luglio 2012 9.30-13.00 G41Mediterranean Folk: Dancing Songs from South Italy - La Paranza del Geco (IT) con esibizione finale G42Spiritual - Avis Graves (US) G43Improvisation - Gary Graden (SE/US) and WÅG Trio (SE) con esibizione finale G44Proel Method for singing - Isabelle Fini-Storchi (IT) G45Microtonal Singing - Gro Shetelig (NO) Venerdì 3 agosto 2012 9.30-13.00 G71 Das Alt-Bachische Archiv (collection of motets made by J.S.B.) - Erik van Nevel (BE) G72Psycophonie - Anne Vasseur Gilbert (FR) G73Mediterranean Folk - con esibizione finale G74Improvisation G75Opera Choruses Sabato 4 agosto 2012 9.30-13.00 G81My First Gregorian - Enrico De Maria (IT) G82Last Tango in Torino - Oscar Escalada (RA) G83Family Singing - Anne Vasseur Gilbert (FR) e Silvana Noschese (IT) G84Mediterranean Folk - con esibizione finale G85 A taste of Baroque repertoire Discovery Atelier speciali di due giorni Venerdì 3 e sabato 4 agosto 2012 9.30-13.00 G02Mare nostrum: Songs of the Sea - Daniel Mestre (ES/Cat) con esibizione finale G03Atelier for male voices - con esibizione finale Il programma potrà subire variazioni. Per aggiornamenti visita il sito www.ectorino2012.it ASSOCIAZIONE 45 BASE ASSOCIATIVA, GRANDI EVENTI, COMUNICAZIONE: tre temi importanti sotto la lente dell’Assemblea Feniarco a cura di Sandro Bergamo La consueta assemblea primaverile di Feniarco si è tenuta ad Arezzo, il 17 e 18 marzo scorsi. Due giorni intensi, resi comunque piacevoli dall’ospitalità organizzata dall’Associazione Cori della Toscana e culminata nel concerto offerto dal Gruppo polifonico F. Coradini e dall’Insieme vocale Vox Cordis nell’antica e suggestiva Pieve di Santa Maria. Anche in questa occasione si è registrata la presenza di quasi tutte le associazioni regionali iscritte, alle quali si è aggiunta, significativamente, quella di Laura Crosato, presidente della Federazione Italiana Pueri Cantores, e il saluto inviato all’assemblea da Erich Deltedesco (purtroppo assente per motivi personali), presidente della Südtiroler Chorverband che riunisce i cori altoatesini di lingua tedesca: due federazioni con le quali Feniarco ha sottoscritto un protocollo di intesa, segno di apertura a tutto il mondo corale, in ogni sua espressione. Una strategia peraltro praticata anche a livello locale dalle Associazioni Regionali, che studiano i modi per associare cori scolastici, cori parrocchiali e altre realtà meno strutturate ma pur vive nel nostro panorama corale. L’approvazione dei bilanci e dell’attività per l’anno in corso ha evidenziato un continuo sviluppo della federazione: l’editoria, con tre nuovi volumi già pronti e altri in dirittura d’arrivo, l’attività del Coro Giovanile Italiano e del Coro Accademia Feniarco, il Festival di Primavera, che si conferma come uno degli appuntamenti fondamentali, il Salerno Festival, che si prepara a celebrare la terza edizione, dopo il crescente successo delle prime due. Su tutto si staglia l’impegno di Torino 2012, i cui numeri prospettano questa XVIII edizione del Festival Europa Cantat come una delle più riuscite della sua storia. Uno degli aspetti più significativi di questa assemblea è stato sicuramente, nella seconda giornata dell’assemblea, la formazione di gruppi di lavoro, chiamati a delineare le linee strategiche su alcuni temi importanti. Tre i tavoli che si sono costituiti: Base associativa, evoluzione e aggiornamento, coordinato da Sante Fornasier; Festival e manifestazioni Feniarco, coordinato da Pierfranco Semeraro; Informazione, comunicazione, promozione, coordinato da Alvaro Vatri. È su questo momento dell’assemblea che vogliamo concentrare l’informazione di questo numero, pubblicando il sunto dei tre tavoli. Base associativa, evoluzione e aggiornamento Particolarmente ampio, e al tempo stesso estremamente concreto, è stato l’ambito di riflessione del primo dei tre gruppi di lavoro: tra i temi affrontati si è discusso innanzitutto degli attuali criteri di iscrizione dei cori e delle rispettive quote associative, constatando in primo luogo come essi siano – giustamente – stabiliti autonomamente dalle singole Associazioni Regionali. L’opinione condivisa dal gruppo di lavoro è tuttavia che, pur mantenendo l’autonomia delle singole realtà regionali, si debba giungere nel tempo all’uniformità di tali criteri, magari basando le quote su parametri proporzionali all’effettivo numero dei coristi. Ipotesi, questa, avvalorata tra l’altro dall’esperienza positiva di alcune Associazioni Regionali, le quali hanno già incorporato all’interno della quota associativa l’assicurazione per i singoli coristi e l’abbonamento alla rivista nazionale: pensiamo che con soli pochi euro a persona, da includere nella quota annuale, sarebbe infatti possibile garantire a ogni corista la copertura assicurativa – quanto mai importante nell’attività di ciascuno dei nostri cori! – nonché l’abbonamento a Choraliter, forte strumento di fidelizzazione e di appartenenza per il nostro mondo corale italiano. Va detto che, attualmente, oltre alla convenzione assicurativa valida su tutto il territorio nazionale, stipulata direttamente da Feniarco e disponibile sul sito della federazione, vi sono diverse altre convenzioni a livello locale: l’obiettivo, da perseguire nel prossimo triennio, è il raggiungimento di un’unica convenzione assicurativa che possa garantire le migliori condizioni. D’altra parte, con 2500 cori iscritti e oltre 46 firma sulla dichiarazione dei redditi, se sottoscritta da ogni corista, potrebbe costituire una fonte di autofinanziamento straordiaria per la federazione, rendendo così possibile un ulteriore ampliamento dei servizi, delle iniziative e dei progetti che Feniarco mette in campo per la promozione e la diffusione del canto corale. centomila persone coinvolte, i presupposti per una buona contrattazione ci sono eccome! E visto che è stato possibile (traguardo recente, anche questo disponibile sul sito) stipulare accordi con BancaProssima e Poste Italiane per conti correnti agevolati per i cori, perché non immaginare per un domani delle convenzioni con i treni, gli autobus e altri mezzi di trasporto per favorire le trasferte dei nostri cori… Rimanendo nell’ambito associativo, le riflessioni si sono poi spinte oltre: è possibile pensare a un’iscrizione individuale a Feniarco? Basti pensare a compositori, direttori, musicisti, semplici appassionati che vogliano entrare a far parte in maniera diretta e attiva del mondo della coralità associativa, pur magari senza essere necessariamente coristi di un coro associato. Fermo restando il principio che l’iscrizione dei cori debba passare per le rispettive Associazioni Regionali, per le singole persone – sul modello di quanto avviene ad esempio a livello europeo con European Choral Association - Europa Cantat – si potrebbe pensare in futuro a una modalità di iscrizione diretta a Feniarco. I dettagli, naturalmente, saranno da studiare a fondo, ma i processi di evoluzione implicano sempre analisi e riflessione! O ancora: come estendere l’adesione a Feniarco a realtà importanti e ampiamente diffuse sul territorio come quelle dei cori scolastici e dei cori parrocchiali? Un primo passo, da tutti condiviso, è stato quello di associare i cori scolastici partecipanti al Festival di Primavera di Montecatini per il tramite delle rispettive Associazioni Regionali; per il futuro, si potrà pensare a un promo che presenti la federazione e le sue attività, da diffondere capillarmente nelle scuole e nelle parrocchie. Non da ultimo, la riflessione si sofferma su quello strumento importante ma spesso sottovalutato che è il cinquepermille: a fronte di un “costo zero” per il contribuente, una croce e una Festival e manifestazioni Feniarco Il gruppo di lavoro si è mosso da una prima considerazione relativa ai dati numerici e statistici delle più importanti manifestazioni Feniarco con un’analisi completa degli ultimi tre anni. Il Festival di Primavera – organizzato con la preziosa collaborazione dell’Associazione Cori della Toscana – dal 2009 al 2011 ha visto incrementare la sua partecipazione in maniera considerevole: dalle 800 presenze sino alle ultime 1300 con un aumento del 60% in tre anni. Importante è il numero dei cori scolastici che annualmente rinnova la propria presenza. In proporzione sul totale la partecipazione al festival è stata per le scuole medie inferiori del 39% nel 2009, del 57% nel 2010, del 45% nel 2011; per le scuole medie superiori del 61% nel 2009, del 43% nel 2010, del 55% nel 2011. È stato ribadito che maggiore attenzione in futuro dovrà essere garantita da parte delle singole associazioni regionali anche attraverso la presenza, nelle fasi finali del festival, delle proprie cariche istituzionali. Un suggerimento comune è stato quello di poter indirizzare le brochure promozionali direttamente al responsabile musicale della singola scuola. La settimana cantante Alpe Adria Cantat negli ultimi tre anni ha visto un incremento del 30% consolidando le presenze dell’ultimo anno. 313 sono state le partecipazioni nel 2009 di cui il 49% provenienti dal territorio italiano e il 51% I processi di evoluzione implicano sempre analisi e riflessione. dall’estero; 451 nel 2010 di cui il 51% provenienti dal territorio italiano e il 49% dall’estero; 431 nel 2011 di cui il 53% provenienti dal territorio italiano e il 47% dall’estero: dunque una manifestazione in piena salute con un’importante presenza estera che accredita la Settimana come una tra le più apprezzate in Europa. Anche per questo evento le riflessioni scaturite nel gruppo di lavoro sono collegate alla presenza delle istituzioni regionali alla Settimana, almeno per la fase conclusiva, la qual cosa permetterebbe uno scambio di esperienze utili anche per la buona riuscita di eventi similari nelle diverse regioni. L’andamento positivo dell’Accademia Europea per direttori di coro di Fano è ovviamente fortemente legata al repertorio e al direttore stesso. Nel 2009, con la direzione di Fred Sjöberg e il coro laboratorio preparato da Alessandro Cadario, l’Accademia ha registrato la presenza di 11 direttori italiani e 3 ASSOCIAZIONE 47 un’ottica di continuità con il Festival di Primavera potrebbe ricevere riscontro positivo una proposta festivaliera da dedicare ai cori universitari, pur quest’ultimi avendo un loro circuito. Un festival da dedicare al repertorio sacro potrebbe ancora trovare spazio ovviamente legando il tema al luogo e per quest’ultima ipotesi si potrebbe pensare ad Assisi. Sante Fornasier e Laura Crosato sottoscrivono il protocollo d’intesa tra Feniarco e la Federazione Italiana Pueri Cantores uditori esteri; nel 2011, con la direzione di Nicole Corti e il coro laboratorio preparato da Lorenzo Donati, la presenza internazionale è stata di 6 cantori e di 7 direttori mentre gli italiani si sono suddivisi in 2 uditori e 7 direttori. Ovviamente la location è oramai fattore caratterizzante l’Accademia stessa in quanto la coincidenza con la settimana degli Incontri Polifonici permette una maggiore offerta culturale ai partecipanti. Un’attenzione superiore all’omogenea preparazione dei partecipanti garantirebbe probabilmente una maggiore incisività da parte del docente nello svolgimento del suo lavoro. Stesse considerazioni sono state espresse nei confronti del Seminario Europeo per giovani compositori di Aosta che ha visto la presenza di 16 effettivi nel 2008 provenienti per la metà dall’Italia. Nel 2010 invece la presenza dei compositori è stata di 22 allievi di cui 13 italiani. Il seminario rappresenta un importante investimento e la sua identificazione con la regione e la città di Aosta sta crescendo di anno in anno. Il Festival di Salerno, nato da nel 2010, ha sorpreso per il successo ottenuto in un così breve tempo. Dalle 1600 presenze della prima edizione 2010 si è passati alle 2000 presenze dell’anno successivo. Da evidenziare l’impatto positivo sulla coralità della Campania oltre alla riuscita collaborazione con il team messo a disposizione dall’Associazione Regionale dei Cori Campani: un festival integrato nel territorio che rivolge il suo sguardo a tutti, un festival “popolare” che guarda anche alla qualità dell’offerta musicale. Il gruppo di lavoro ha proposto poi riflessioni su possibili scenari futuri a cominciare dal Festival Europa Cantat XVIII Torino 2012 e sull’eventuale possibile capitalizzazione delle esperienze e conoscenze acquisite in questi anni; con la conferma oramai dei due importanti festival – di Salerno nel sud-Italia e di Primavera nel centro – potrebbe essere una buona proposta quella di allestire un festival nel nord del Paese, magari in Val Gardena che ben si presta per un evento simile o a Merano come proposto da Corrado Borgogno. In Informazione, comunicazione, promozione Nell’ambito del terzo gruppo di lavoro, le riflessioni hanno messo in luce, prima di tutto, come Feniarco abbia raggiunto una posizione importante sul fronte della rappresentatività e della progettualità del movimento corale amatoriale italiano. Il suo ruolo è apprezzato e riconosciuto sia sul versante interno che su quello esterno e istituzionale. È dunque un’organizzazione del terzo settore rilevante nella quale l’informazione e la comunicazione hanno un ruolo strategico. Già dal 2005 la federazione ha iniziato una riflessione sulla peculiarità della comunicazione nel settore no-profit; è giunto ora il momento di dare impulso a questa attività utilizzando tutti i mezzi a disposizione, da quelli tradizionali a quelli più innovativi. In tal senso l’esperienza della comunicazione del Festival Europa Cantat XVIII Torino 2012 (brillantemente illustrata da Michela Francescutto) fornisce un modello sperimentato che dovrà essere capitalizzato nel “dopo festival” e sarà utilissimo per la definizione dei processi della comunicazione di Feniarco. Un importante ruolo è e dovrà essere sempre più svolto dalla rivista Choraliter, che è chiamata a rappresentare il mondo corale amatoriale italiano presso il pubblico più ampio e allo stesso tempo a rispecchiare la sua varietà interna, la ricchezza dei contenuti e dei contributi che le varie regioni possono portare e, infine, essere un fattore identitario per tutti i cantori amatoriali italiani. Comunicare l’identità e l’appartenenza è centrale per consolidare il ruolo della federazione in ambito nazionale e internazionale. Sicuramente da questo punto di vista la molteplicità delle sigle regionali rappresenta un problema, ma d’altra parte queste ultime hanno una loro storia e una riconoscibilità locale importante che sarebbe dannoso disperdere. Si tratta quindi di trovare il modo di testimoniare l’appartenenza senza rinunciare all’identità, cosa non impossibile: si può cominciare, ad esempio, abbinando l’elemento unificante (il logo Feniarco, magari dopo averlo sottoposto a un restyling grafico) alle sigle regionali; proseguire e completare l’adozione da parte di tutte le Associazioni Regionali della piattaforma web, con qualche implementazione che ne aumenti la funzionalità, ma altre idee si possono aggiungere. La prossima Assemblea sarà l’occasione per proporre e valutare tre o quattro proposte nuove; intanto si potrà sperimentare, ad esempio, l’adozione di una carta intestata tipo, nella quale al logo regionale venga associata l’appartenenza a Feniarco. Federazione Nazionale Italiana delle Associazioni Regionali Corali 33078 San Vito al Tagliamento (Pn) via Altan, 39 tel. 0434 876724 - fax 0434 877554 - [email protected] - www.feniarco.it 48 x 10005x10005x10005x10005x10005x10005x10005x10005x10005x10005x10005x10005x10005x10005x10005x10005x10005x10 x 10 0 0 5 x x 10 0 0 5 x 0 0 0 1 O 5 C R A I N E F E P 10 0 0 5 x 1 10 0 0 5 x 1 0005x1 0005 R 0 0 5 x 10 0 0 0 5 x 10 ia l a t i n i e l a i r lità amato la cora 0 0 5 x 10 0 0 5 x 10 0 5 x 10 0 0 0 5 x 10 0 0005x1 10 0 0 5 x 1 0 5 x 10 0 0 0 0 0 5 x 10 5 x 10 0 005x1 5 x 10 0 0 0 5 x 10 0 0 0 0 5 x 10 0 0 0 5 x 10 5 x 10 0 0 5 0 0 5 x 10 0 o c r a i n e f i ella n d o e i i z t a p s s So a nell’apposito gno 10 0 0 5 x x 10 0 0 5 x 10 0 0 5 x 1 0005x ste o s l e firm a o t a v riser i t ) i S d P d e A ( r i e l e a d i c e n So dichiarazio ioni di Promozione D, U C e O z C I a N ci delle Asso i nei modelli 730, U ice fiscale: d o c o r t che trov s o n l nco i a fi a o 6 d 1 n 5 0 indica 4 3 04 920 t i . o c r a i n www.fe x 10 0 5 x 10 ASSOCIAZIONE 49 VOGLIA DI RIVISTA… di Giorgio Morandi «Vivere senza musica è possibile. Perfino attraverso i deserti ci sono vie. Ma noi non vogliamo che le persone percorrano la via della vita come se stessero vagando per un deserto, quando a noi è possibile far sì che essi camminino attraverso pascoli fioriti». (Z. Kodály) Non so se i direttori e le redazioni delle riviste corali nazionale e regionali sono d’accordo, ma in questa citazione io vedo ben espressa la mission di tutti gli organi di formazione e informazione della coralità italiana, quel grande fenomeno che è un mondo variegato, composto da diverse sensibilità e da persone di varia estrazione e formazione che, però, in un contesto in cui lo scopo è cercare l’armonia con il gruppo e cantare insieme, appena si trovano su un palco, in sala prove, in un gruppo estemporaneo a cantare, sanno trovare un comune animus. E credo che questo pensiero ben introduca nel grande argomento della comunicazione, che per noi in campo corale è condivisione, è dibattito, è incontro; è riscoperta di radici, di identità, e quindi confronto e conoscenza. Tutti sappiamo che la comunicazione è una voce verso il mercato (parola poco musicale che però qui ci aiuta a inquadrare col pensiero tutto quell’ambito enorme in cui la coralità si manifesta). L’efficacia di questa voce è importante e, quindi, non può essere improvvisata ma deve far parte di un piano strategico che punti a creare notorietà e valore, a instaurare una sinergia di lungo periodo finalizzata alla crescita e al raggiungimento di un ritorno di investimento positivo. Poiché il mezzo immediato e principale attraverso il quale la nostra comunicazione si realizza ed è profondamente influenzata sono certamente le nostre riviste corali che vogliono diffondere e far condividere quello spirito di partecipazione appassionata, intelligente, gratuita che costituisce il patrimonio della coralità amatoriale, questo processo è fattibile perché da parte del management esiste (lo ha ulteriormente dimostrato il convegno di Mestre) la capacità e la convinzione che investire una parte dei propri mezzi finanziari in queste attività è un’ottima regola da seguire; è certamente fattibile perché esiste la convinzione che la comunicazione va pianificata e studiata in funzione dei bisogni e delle opportunità offerte. Proprio per questo Feniarco, e in particolare il Comitato di Redazione di Choraliter, ha pensato a un’iniziativa che andasse in questa direzione e in una passata assemblea ha proposto a tutte le Associazioni Corali Regionali la partecipazione a un incontro fra la redazione di Choraliter e Italiacori.it e i direttori delle testate regionali e/o i responsabili della stampa e comunicazione delle varie regioni. L’incontro si è realizzato sabato 21 gennaio 2012 a Mestre in occasione della riunione del Comitato di Redazione di Choraliter. Alla presenza di circa due terzi dei rappresentanti regionali invitati, si sono affrontati i seguenti argomenti di discussione: 1. Strategia editoriale di Feniarco; 2. Breve relazione dei presenti sulle strategie editoriali e comunicative delle rispettive Associazioni Regionali; 3. Raccordo e sinergie tra la rivista nazionale e le riviste regionali; 4. Rapporto tra i contenuti delle riviste regionali e della rivista nazionale; 5. Rivista cartacea o rivista online? 6. Rapporti con le riviste internazionali; 7. Allargamento della rete di collaboratori. Il Direttore di Choraliter Sandro Bergamo ha introdotto la discussione ricordandone lo scopo, quello di «mettere a fuoco le strategie per evitare la frammentazione… contribuire all’impostazione di un sistema di comunicazione che diventi motore di diffusione delle nostre idee e della nostra immagine… progredire sulla strada dell’ottimizzazione delle risorse e far sì che le nostre riviste siano complementari e non si sovrappongano». «Raggiungere tutto questo – ricorda il Direttore – significherà davvero sentirci parte di un movimento corale nazionale, un La comunicazione va pianificata e studiata in funzione dei bisogni e delle opportunità offerte. movimento corale che stimola e progetta innovazione, il tutto senza ricalcare inutilmente le strade del passato e con attenzione a non cedere a esagerate fughe in avanti». Ma ancora un altro aspetto è stato ricordato, anche se in particolare con riferimento alla rivista nazionale Choraliter. «Nell’immaginario collettivo italiano il coro è considerato minore rispetto a ciò che vale e che quindi si merita, per cui – ha detto Sandro Bergamo – è evidente l’opportunità che la nostra rivista oltre che arrivare a coristi, direttori di coro e addetti ai lavori in genere come strumento di fidelizzazione, debba arrivare all’edicola, alla grande distribuzione». Al Direttore della rivista ha fatto eco il Presidente di Feniarco e di European Choral Association - Europa Cantat Sante Fornasier, affermando che «il nostro trovarci insieme vuole essere una verifica dei percorsi, progetti, prospettive e orientamenti del passato e del futuro, vuole essere un percepire da voi sensazioni di base». Il Presidente ha 50 stimolato i presenti sulla necessità di fare sistema perché, ricorda, «soltanto facendo sistema e soltanto attraverso un’efficiente ed efficace comunicazione interna (soprattutto tramite Choraliter e Italiacori.it) e una attenta e incisiva comunicazione esterna (guadagnata tramite l’apparizione sempre più frequente e di spessore culturale sui giornali nazionali) insieme avremo importanza davanti all’opinione pubblica». Il Presidente ha ricordato che per arrivare a essere tutti insieme più incisivi, «la riunione in corso aveva anche lo specifico compito di verificare proposte e aspirazioni e incoraggiare uno scambio interessante e fertile di visioni diverse». Da parte dei responsabili di una dozzina di testate regionali, ha fatto seguito una breve presentazione della loro esperienza editoriale (in edizione cartacea o in edizione on-line) con chiara indicazione degli scopi prefissati, della destinazione del messaggio, delle aspirazioni verso il futuro già in fase di realizzazione attraverso innovazioni spesso molto interessanti che vanno dall’aggiornamento grafico all’inserimento di interessanti rubriche e partiture corredate da note esplicative interessanti ed esaurienti. Molto interessanti alcune motivazioni raccolte durante questi interventi. «La nostra rivista è importante – hanno detto i relatori – per far conoscere le nostre attività…»; «…a noi interessa non fare cronaca, ma dalla cronaca trarre spunto e fare approfondimento…»; «la rivista è un utile strumento perché gli altri possano leggerci…»; «…il bollettino deve circolare il più possibile, per questo è mensile…»; «… importante è l’editoriale…»; «…importante è che la rivista racconti l’associazione e sia palestra di formazione…»; «…un buon organo di stampa aiuta l’associazione…»; «…la rivista è un ottimo strumento per invogliare i cori al cambiamento del repertorio…». Altrettanto importanti sono state alcune riflessioni su aspetti molto concreti connessi all’edizione di una rivista: un relatore ha affermato che «l’edizione cartacea della rivista porta con sé non tanto i costi della produzione, quanto i costi esorbitanti per la spedizione e questo gioca pesantemente contro un’auspicata necessaria diffusione capillare della rivista stessa…». Nonostante questo, però, in un successivo intervento si è sostenuto che «l’edizione cartacea rappresenta un documento molto importante da poter tenere in mano e offrire quando, per esempio, si presentano progetti all’autorità…». Sull’argomento della distribuzione è stata interessante la testimonianza della Federazione Cori del Trentino che oltre all’assicurazione copre la produzione e la spedizione capillare della rivista attraverso una piccola quota associativa dei singoli cantori. Il fatto che le riviste online siano molto poche (almeno per il momento in Lazio, in Toscana e in Lombardia) rispecchia esattamente la preferenza emersa fra i relatori per una rivista corale regionale in forma cartacea. Un ultimo importante argomento, condiviso fra la presidenza del convegno e i partecipanti, è la necessità di introdurre nelle singole riviste degli elementi comuni che con immediatezza rimarchino il loro collegamento reciproco, che con nitidezza mostrino che le voci sono tante ma il movimento corale italiano è unico. Questa stessa relazione sul convegno di Mestre, richiesta dal responsabile di Voglia di Coro a un membro della Redazione Le voci sono tante ma il movimento corale italiano è unico. di Choraliter (il presente articolo è stato infatti pubblicato sul numero 1/2012 della rivista piemontese, ndr), vuole essere esplicitamente un piccolo segno concreto in questa direzione, un esempio di ottimizzazione delle risorse, di raccordo e sinergie fra la rivista nazionale e le riviste regionali. Dopo un incontro così interessante il discorso dovrà continuare, ma la regola è sicuramente (anche per piccoli passi, ma da subito) quella del “fare”. CRONACA 51 MARIBOR: IL GRAND PRIX NELLA CAPITALE DELLA CULTURA di Rossana Paliaga Il trofeo del Grand Prix europeo è stato consegnato per la prima volta sul palco della sala Union di Maribor in Slovenia. L’evento, organizzato dal Fondo pubblico nazionale per le attività culturali (JSKD) con il sostegno della municipalità locale, si è svolto nella città slovena che quest’anno detiene il titolo di Capitale europea della cultura, una concomitanza ideale nel calendario del GPE, che ha offerto alla Slovenia l’ulteriore vantaggio di poter far conoscere ai numerosi ospiti stranieri una parte del proprio patrimonio corale, abbinando l’evento alla ventiduesima edizione del concorso corale nazionale Nas̆a pesem anzichè al concorso internazionale che si svolge con cadenza biennale. Per il più giovane degli affiliati al circuito del Grand Prix (Maribor ne fa parte dal 2008) è stata una prima assoluta, attesa con emozione, preparata con cura nonostante lo staff ridottissimo, infine incoraggiata dalla presenza di un gran numero di personalità della coralità internazionale. È stato un buon debutto, forte dell’esperienza di una manifestazione collaudata e che ha offerto al pubblico, sempre numeroso, un programma scorrevole, puntuale, condotto con professionalità e seguito con interesse. A dare il benvenuto nel concerto di apertura è stata la formazione maschile Vokalna akademija Ljubljana diretta da Stojan Kuret, attualmente il coro sloveno più rappresentativo grazie ai riconoscimenti che negli ultimi anni gli hanno fatto conquistare una grande popolarità internazionale. Kuret ama combinare le capacità di questi eccellenti coristi con l’apporto di solisti ospiti, metterli alla prova con stili diversi, scegliere per loro programmi vari e insoliti; il gala di apertura è stato infatti impreziosito dalla partecipazione di diversi strumentisti e cantanti lirici (tra i quali il noto baritono Marko Fink) che hanno affiancato il coro in un percorso musicale senza confini temporali e geografici. La capacità di distinguere le modalità di esecuzione e il tipo di vocalità nel passaggio dalla musica antica a quella romantica e contemporanea è stata anche uno dei termini di giudizio degli esperti chiamati a valutare i ventidue gruppi partecipanti al concorso nazionale. Il numero proporzionalmente alto di cori e la loro qualità sono per la Slovenia un vanto ampiamente riconosciuto che è stato confermato da queste esibizioni. Alto è anche il numero di compositori che scrivono (non occasionalmente) musica corale, attività promossa dal regolamento stesso del concorso che prevede la scelta di un brano di autore sloveno scritto dopo il 1990, condizione che, con esiti vari, ha convinto molti partecipanti a presentare brani in prima esecuzione. Molti sono stati anche i direttori di coro che si sono messi per la Un percorso musicale senza confini temporali e geografici. prima volta alla prova in questa competizione. Quasi a conferma del detto sloveno “l’esperienza rende maestri”, nessuno di loro ha conquistato l’oro, ma tra i vincitori dell’argento si sono classificati entrambi i direttori dei due cori partecipanti che appartengono alla minoranza slovena in Italia: Marko Sancin per il coro misto Jacobus Gallus di Trieste e Mateja C̆ernic per il gruppo femminile Bodec̆a nez̆a di San Michele del Carso presso Gorizia. Quest’ultima è stata insignita anche del premio speciale come giovane direttore emergente e del premio per la migliore esecuzione di un brano del XX secolo. Il primo premio assoluto è andato invece al coro Megaron di Ljubljana, forte di un bel suono, precisione e un grande numero di giovani coristi diretti dal compositore Damijan Moc̆nik. La presidente di giuria Martina Batic̆, direttore artistico del coro della Filarmonica slovena e impegnata attivamente in diversi paesi europei come direttrice ospite di cori di professionisti, non ha risparmiato nel suo discorso di chiusura un giusto appunto alla mancanza di una più ampia tavolozza stilistica nella scelta dei programmi, ma ha voluto anche fornire alcuni suggerimenti etici e pratici sull’approccio alle competizioni, dove non basta rispettare il regolamento, ma occorre interpretarlo con saggezza in rapporto alle proprie possibilità e, nonostante la 52 tensione della circostanza, senza mai dimenticare lo scopo principale di questa attività artistica: diventare “strumenti della musica”. Senza dubbio hanno accolto da tempo e con convinzione questo invito i vincitori dei concorsi internazionali di Varna, Tours, Tolosa, Maribor e Arezzo, che si sono contesi il “premio dei premi” in un concerto che ha ben meritato il tutto esaurito. La strategia delle esibizioni è stata simile per tutti i cori partecipanti con programmi che hanno considerato sia la necessità di sfoggio tecnico che le esigenze dello spettacolo. Maribor ha portato fortuna al proprio candidato, laureando a detentore del Grand Prix il coro svedese Sofia Vocalensemble, vincitore su questo palco nell’edizione dell’anno scorso. La giuria internazionale ha condiviso così l’opinione generale del pubblico, premiando l’alta qualità, ma anche l’autenticità amatoriale. Bengt Ollén ha diretto con grande complicità un coro di raffinata preparazione e dalla musicalità solare, capace di emozionarsi e di comunicare con il pubblico, affiatato, dal suono omogeneo e dall’espressione che va “oltre le note”, come il direttore stesso definisce il proprio obiettivo fondamentale. Senza dubbio il coro svedese è risultato meno appariscente del gruppo ucraino Oreya, penalizzato proprio da uno smalto vocale e virtuosistico così esuberante da rendere di difficile definizione il confine tra amatoriale e professionale. Per i coristi di Alexander Vatsek l’esibizione include anche elementi teatrali che li rendono maestri non soltanto del suono (con uno sfruttamento del potenziale vocale superiore alla media di un buon corista), ma anche della spazializzazione. Al di là di ogni più razionale giudizio critico, i coristi di Vatsek servono la musica con dedizione e la loro ostentazione di sicurezza, come pure la tendenza a riproporre un programma consolidato, non diminuiscono a livello di ascolto l’emozione di un’espressività prepotente, un suono avvolgente e una sintonia di gruppo totale. Si è battuto per il premio anche il coro universitario filippino di più antica tradizione, l’Ateneo de Manila College Glee Club, diretto dalla sensibile Maria Lurdes M. Hermo che non ha convinto sufficientemente per scelta dei brani e approccio stilistico. Il Giappone ha avuto l’opportunità di avere a Maribor ben due rappresentanti. L’Harmonia ensemble, che ha la particolarità di esibirsi senza direttore, è proprio per questo motivo un modello interessante di esercizio di ascolto reciproco, apprezzabile per la grande intesa e per la limpidezza, a volte al limite del marziale, nella conduzione ritmica dei brani, ma che ha mostrato uno studio efficace della musicalità senza la necessaria espressione. Non hanno brillato per varietà del programma i coristi del Vox Gaudiosa dell’affermato Ko Matsushita che in questa occasione hanno convogliato una grande energia verso l’esterno piuttosto che in profondità, utilizzando soltanto una parte del potenziale rivelato in altre occasioni. Ogni concorso ha il proprio stile e carattere: nell’absburgica Marburg che convive con il sapore dell’ex Yugoslavia, dove con la notte cala il silenzio sulle strade del centro storico e di giorno il rito del caffè si consuma al suono di una vecchia fisarmonica, il Grand Prix ha trovato un’atmosfera concentrata, raccolta, che ha attirato un pubblico attento di compositori, direttori, coristi e studenti per i quali la capitale della cultura è diventata per un giorno anche la capitale della musica corale. Foto di Janez Erz̆en 53 visita il sito www.feniarc o.it A n A oro c n o r tu Aggio l e r d a la pagin o i i g c g A s i r inse i c s i inser ViVi I V VI ti n e ntam u p p a i i tuo la corali l a c in in a n a i tà ital rio a end rs e p a m pri a! n o Ricorda: i dati inseriti sul sito www.feniarco.it sono condivisi anche dai siti delle associazioni regionali e provinciali che aderiscono al progetto web 54 Notizie dalle regioni A.R.C.A. Abruzzo Associazione Regionale Cori d’Abruzzo Via Montesecco, 56/a - 65010 Spoltore (Pe) Presidente: Gianni Vecchiati Con soddisfazione per la crescita numerica e qualitativa dei suoi iscritti, l’annuale Assemblea dell’Arca, riunitasi il 14 aprile a Montesilvano, ha approvato all’unanimità la relazione e il bilancio 2011. Con le stesse modalità, approvato di seguito anche il bilancio preventivo 2012. Particolarmente apprezzata la partecipazione del Vicepresidente Feniarco Alvaro Vatri, ulteriore dimostrazione di attenzione e supporto della Federazione. Ampia e intensa partecipazione al corso di vocalità tenuto in due fine settimana di marzo (3-4 e 25-26) a Vasto Marina da Stephen Woodbury, che oltre ad affrontare gli aspetti principali della tecnica vocale quali postura, respirazione, gestione del fiato, ecc. ha coinvolto attivamente i presenti con esercizi di respirazione, vocalizzi e successivo lavoro sui brani proposti. La riconosciuta professionalità, la cordialità e la simpatia del docente hanno trovato nei coristi i meritati consensi e unanimi richieste di ulteriori incontri. A.R.C.C. Campania Associazione Regionale Cori Campani Via Trento, 170 - 84131 Salerno Presidente: Vicente Pepe Il 3 marzo si è riunita a Salerno l’Assemblea generale dell’Arcc, con la partecipazione di 45 cori associati. Le elezioni per il rinnovo delle cariche hanno visto riconfermato all’unanimità il Presidente Vicente Pepe, mentre il Consiglio Direttivo si è tinto di rosa con l’elezione di Anna Maria Galdieri e Santina De Vita; riconfermati inoltre il Vicepresidente Carlo Intoccia e il Consigliere Amedeo Finizio. Ricca l’offerta formativa proposta da Arcc nei primi mesi di questo 2012. Il 25 e 26 febbraio, la città di Posillipo ha ospitato il corso di formazione “Però mi vuole bene… Il coro misto tra swing e pop” tenuto dal maestro Mario Lanaro e dedicato da un lato alla didattica e allo studio con i direttori di coro e dall’altra all’esecuzione di brani scelti. Il secondo corso Arcc “Concertazione ed educazione nelle modalità di arrangiamento e di esecuzione per brani pop” si è svolto a Salerno il 24 e 25 marzo, docente Fabio De Angelis; due giorni di studio caratterizzati da energia, divertimento, studio e ritmo e incentrati sull’esecuzione di brani vocal pop. Il corso “Concertazione ed educazione per cori di voci bianche e voci pari”, sempre a Salerno, il 21 e 22 aprile, è stato tenuto dalla giovane Bèatrice Warcollier ed è stato focalizzato sulla gestualità e sulla vocalità, con l’esecuzione di brani scelti. Il 28 e 29 aprile, infine, Antonella Tatulli ha tenuto un corso su “Prassi esecutiva dal gregoriano al Rinascimento” dedicato all’interpretazione e alla prassi esecutiva della musica antica. Vivace anche la proposta concertistica in Campania, con la terza rassegna di cori polifonici della Città di Vallo della Lucania il 31 marzo, la rassegna “Corincantati - Festa della coralità giovanile” il 28 aprile a Pomigliano d’Arco, la quinta rassegna dedicata ai cori scolastici e giovanili “Cantagiovani” a Salerno il 4 e 5 maggio, la sesta edizione di “Ercolano in… canto” dal 4 all’11 maggio. REGIONI U.S.C.I. Friuli Venezia Giulia Unione Società Corali del Friuli Venezia Giulia Via Altan, 49 - 33078 San Vito al Tagliamento (Pn) Presidente: Franco Colussi Nel 2012 l’Usci Friuli Venezia Giulia ha proposto con successo la seconda edizione di “Paschalia - Passione e risurrezione nella tradizione musicale”, progetto di rete articolatosi tra marzo e aprile che ha visto riuniti in un unico cartellone oltre sessanta appuntamenti corali (concerti, messe, sacre rappresentazioni…) legati al repertorio della Settimana Santa e della Pasqua, con l’intento di promuovere e favorire la visibilità delle proposte musicali offerte dai cori nel periodo quaresimale e pasquale. Il 13 aprile a San Vito al Tagliamento è stato poi presentato al pubblico il volume Anìn anìn a nolis - Ninne nanne, filastrocche e rime infantili della tradizione orale friulana, curato da Andrea Venturini e recentemente pubblicato dall’Usci Friuli Venezia Giulia in collaborazione con la Società Filologica Friulana. La presentazione, inserita nell’ambito del ciclo Note di conversazione, ha visto gli interventi dell’autore affiancato da Roberto Frisano e le esecuzioni dei brani a cura del Coro di voci bianche Artemìa di Torviscosa, diretto da Denis Monte. Sempre dedicata alla coralità infantile e scolastica, ha preso il via la rassegna Primavera di voci, che da aprile a giugno coinvolgerà giovanissimi coristi della regione in quattro appuntamenti organizzati a livello provinciale per convergere nel grande Concerto di Gala che si terrà domenica 3 giugno a Gorizia, con la partecipazione dei migliori cori delle rassegne provinciali. Infine, da segnalare l’attività formativa che tra gennaio e aprile ha visto svolgersi i corsi “A scuola di coro”, organizzati con la collaborazione di Usci Pordenone e Uscf Udine, e articolati in quattro moduli indipendenti dedicati al canto gregoriano, al repertorio vocal pop, al canto popolare e alla vocalità infantile, affidati ai docenti Paolo Loss, Adriano Dall’Asta, Alessandro Cadario, Deborah Summa, Krishna Nagaraja, Farbizio Barchi e Denis Monte. U.S.C.I. Lombardia Unione Società Corali della Lombardia Via S. Marta, 5 - 23807 Merate (Lc) Presidente: Franco Monego Si è riunita sabato 14 aprile a Varese l’Assemblea annuale dell’Usci Lombardia. Le elezioni per il rinnovo delle cariche hanno visto riconfermato Franco Monego quale Presidente dell’associazione regionale e Tiziana Gori Premuroso eletta nuova Vicepresidente. Rinnovato anche il Collegio Sindacale, con la riconferma di Fedele Carnovali e l’elezione di Massimo Maccarini, Daniela Nason, Simone Giampaolo e Maria Rosa Scotti. Per quanto riguarda le iniziative proposte dalle associazioni provinciali lombarde, segnaliamo la rassegna per cori di voci bianche “Cori di Classe” tenutasi a Pavia sabato 28 aprile con la partecipazione di dieci cori di voci bianche della provincia e la rassegna “Cantare la scuola” domenica 29 aprile a Calcinate (Bg) con dieci cori scolastici del territorio bergamasco. 55 A.R.C.L. Lazio Associazione Regionale Cori del Lazio Via Valle della Storta, 5 - 00123 Roma Presidente: Alvaro Vatri Nel corso dell’Assemblea ordinaria Arcl, svoltasi il 31 marzo a Roma, è stato esaminato e approvato il bilancio consuntivo 2011 e il preventivo 2012. È stata anche l’occasione per fare il punto sull’attività sinora svolta e da svolgere nei prossimi mesi. Da segnalare la nuova iniziativa “Incontri Culturali 2012” che sarà avviata in maggio, con la collaborazione della FUIS (Federazione Unitaria Italiana Scrittori). Due le iniziative formative che hanno aperto il 2012: il seminario “Il gesto è già suono” tenuto da Walter Marzilli il 18 e 19 febbraio, incentrato sulle problematiche legate al gesto del direttore e alla tecnica del “punto focale”, e il seminario sulla concertazione della musica polifonica rinascimentale “Dal segno al suono”, tenuto il 25 marzo da Fabrizio Barchi, il quale ha affrontato tra le altre cose gli aspetti musicologici dell’approccio alla musica rinascimentale, le competenze richieste al direttore, le scelte di prassi esecutiva. Segnaliamo inoltre la sesta edizione della rassegna “Terrapontina in… canto” articolatasi in tre giornate (27-29 aprile) in tre siti importanti delle città di Pontinia e Latina. Una importante novità ha caratterizzato questa edizione: un progetto musicale comune tra i cori partecipanti alla rassegna che prevede la realizzazione, nell’arco di un triennio, dell’esecuzione della Missa brevis Sancti Joannis de Deo di Joseph Haydn, della quale è stato eseguito il Kyrie nel corso della serata conclusiva della rassegna. A.R.CO.M. Marche Associazione Regionale Cori Marchigiani Via G. Galilei, 5 - 63833 Montegiorgio (Fm) Presidente: Luigi Gnocchini Il 17 e 18 marzo a Porto San Giorgio (Fm) si è tenuto il corso “Canto il ’900 - letteratura corale del XX secolo: repertorio e vocalità”, docente Marco Berrini, con larga partecipazione di corsisti provenienti anche da altre regioni (Puglia, Abruzzo, Emilia Romagna) e la presenza di due cori laboratorio. Molto apprezzati l’argomento del corso e il metodo di lavoro adottato dal mestro Berrini. Diverse le rassegne che hanno animato il territorio marchigiano tra le fine del 2011 e gli inizi del 2012. Tra novembre e gennaio le due rassegne “Picenincoro” (16a edizione) e “Fermano in…canto” (2a edizione) hanno coinvolto ciascuna quindici cori delle province di Ascoli Piceno e Fermo, con la collaborazione delle rispettive Amministrazioni Provinciali. Sempre a cavallo tra 2011 e 2012, la rassegna “Puer natus est” ha riunito in un cartellone dodici concerti dislocati sull’intero territorio regionale e dedicati al repertorio natalizio, con il coinvolgimento di trenta cori partecipanti. 56 SCAFFALE Giro Giro Canto 4 Raccolta di canti corali per bambini e ragazzi Feniarco Edizioni Musicali, 2012 Melos 3 Nuove composizioni corali Feniarco Edizioni Musicali, 2012 La biblioteca di Feniarco si arricchisce di quarantotto nuove composizioni che ampliano il repertorio dei cori italiani. È quanto si può trovare nei due nuovi volumi di Feniarco: il terzo della collana Melos e il quarto di Giro Giro Canto. Diffondere nuovi repertori e valorizzare nuovi musicisti riveste un ruolo chiave nell’attività di Feniarco. Un progetto che si è sviluppato sia attraverso le iniziative di formazione – tra le quali il Seminario Europeo di Aosta rappresenta l’esempio più alto – sia con un’attività editoriale sviluppata in tutte le direzioni e su tutti i livelli. Le due più recenti pubblicazioni proseguono su questa linea. In Melos ciascun coro potrà trovare il brano adatto al proprio organico e alla propria tipologia musicale: Melos 3 è, come sempre, un’antologia policroma, dove sacro e profano, latino e italiano, lingue straniere o minoritarie convivono pacificamente. Il repertorio proposto spazia dalle composizioni destinate alla formazione più comune, il coro misto a quattro voci, fino agli organici più diversi, maschile o femminile, a tre o cinque e più voci, offrendo così opportunità repertoriali differenziate per rispondere alle più varie esigenze dei cori italiani. Variegato anche lo spettro stilistico, che affianca scritture più tradizionali a quelle ispirate a linguaggi più innovativi e sperimentali, mentre è significativa la presenza di ben sette brani accompagnati da organo, pianoforte o percussioni (erano solo due nel secondo volume, nessuno nel primo) indice anche questo di una linea evolutiva della nostra coralità. Il quarto volume di Giro Giro Canto propone composizioni di alta qualità musicale il cui studio, alla portata di tutti, contribuisce alla crescita musicale ed estetica dei piccoli cantori. Accanto a proverbi, filastrocche, fiabe, la forza evocativa della natura è il filo conduttore che lega gran parte dei brani: ritroviamo alcuni elementi fondamentali, come il sole, il fuoco, l’acqua, ma anche animali: cammelli, pesci, topi, gatti popolano il mondo fantastico di Giro Giro Canto. Troviamo le stagioni, e con esse il concetto di tempo, il cui inesorabile incedere è visto ironicamente attraverso un orologio scassato: ancora una volta l’attenzione alle tematiche e alla qualità dei testi fa di questo volume uno strumento formativo capace di andare oltre la musica per divertire e far riflettere i piccoli cantori. Come per i tre precedenti, anche il quarto volume è accompagnato dal cd realizzato dal Coro di Voci Bianche e Piccolo Coro Artemìa di Torviscosa (Udine) diretti da Denis Monte. Queste nuove composizioni attendono ora di essere interpretate da tutti i cori italiani, con l’entusiasmo che ha accolto le precedenti opere stampate da Feniarco. I volumi sono a disposizione dei cori associati su richiesta presso la segreteria Feniarco. RUBRICHE Pier Paolo Scattolin Elementi di base nella tecnica della direzione Manuale didattico con esercizi ed esempi musicali tratti dalla musica strumentale e vocale 57 ritmiche ed espressive. In ogni sua parte il volume è corredato da una ricca serie di esempi musicali tratti dalla letteratura corale e musicale di ogni tempo. Il lavoro di Pier Paolo Scattolin è, insomma, un importante strumento di formazione e di lavoro, del quale ci auguriamo vogliano approfittare tutti i nostri direttori di coro. Feniarco Edizioni Musicali, 2012 Nella strategia di Feniarco, vi è la convinzione che la crescita qualitativa della nostra coralità debba fondarsi principalmente sulla formazione ampia e approfondita di coloro che, dei cori, rappresentano in primis la guida e il riferimento: i direttori. Un settore in cui Feniarco da tempo manifesta il proprio impegno con iniziative didattiche attuate dalla Federazione, tra cui ricordiamo in particolare l’Accademia Europea per Direttori di Coro a Fano e la rete di Corsi e Seminari realizzata in collaborazione con le Associazioni Regionali Corali. Ecco perché il tema della formazione direttoriale investe anche le iniziative editoriali della Federazione. È uscito il volume di Pier Paolo Scattolin Elementi di base nella tecnica della direzione che rappresenta sicuramente un valido e interessante strumento su cui possono formarsi direttori alle prime armi ma confrontarsi anche direttori più esperti. Il manuale, già pubblicato un decennio fa come Propedeutica alla direzione nella collana Quaderni della rivista «Farcoro», curata dall’Associazione Emiliano-Romagnola Cori, viene ora riproposto aggiornato e ampliato in ogni sua parte da esercizi di tecnica gestuale ed esercizi tecnico-musicali, che costituiscono il necessario supporto alla teoria. L’autore inizia la trattazione dall’esaminare l’impostazione del corpo, che il direttore deve padroneggiare, ottenendo rilassatezza e indipendenza delle parti, per raggiungere un alto grado di comunicazione. Ampio spazio è dedicato alla gestualità, vero tema dell’opera, in un percorso che, partendo dal delineare le figure principali, si inoltra sempre più in profondità ad analizzare le relazioni tra il gesto e la struttura musicale nelle sue caratteristiche Anìn anìn a nolis Ninne nanne, filastrocche e rime infantili della tradizione orale friulana a cura di Andrea Venturini Usci Friuli Venezia Giulia e Società Filologica Friulana, 2011 Nel corso del 2011 l’Usci Friuli Venezia Giulia ha ultimato – d’intesa con la Società Filologica Friulana – la pubblicazione del volume Anìn anìn a nolis, a cura di Andrea Venturini, che raccoglie parte del repertorio infantile friulano di tradizione orale. Obiettivo principale, naturalmente, è quello di fornire un supporto pratico atto a favorire la conoscenza e la fruizione di tale repertorio attraverso uno strumento rivolto prevalentemente agli insegnanti della scuola per l’infanzia e primaria e ai genitori che vogliano contribuire a tramandare questo prezioso patrimonio culturale. Il volumetto contiene le partiture dei brani, non armonizzati ma nella loro più semplice forma melodica, i testi in friulano e le traduzioni in italiano. Le pagine sono arricchite da illustrazioni che richiamano i contenuti dei testi e appositamente realizzate. La pubblicazione è inoltre corredata da un audio cd contenente la registrazione delle melodie, effettuata dal Coro di voci bianche Artemìa di Torviscosa (Ud). 58 LA VITA CANTATA Rubrica dedicata al canto di ispirazione popolare a cura di Puccio Pucci Nasce da questo numero di Choraliter una nuova rubrica; uno spazio di notizie, interviste, curiosità e ricordi dedicato in principal modo a quanti operano nel settore della coralità amatoriale di tradizione, quella che viene definita di “ispirazione popolare”. È questo forse il nucleo di complessi corali che, legati alla espressività del mondo popolare o a nuove elaborazioni che si ispirano a questo mondo, vantano una lunga presenza, in quanto molto spesso iniziano la loro esperienza associativa negli anni Sessanta-Settanta, sull’onda di un complesso guida, il coro della SAT e di conseguenza forse il valore dell’età media dei cantori risulta più alto, come altrettanto alta è la loro determinazione nel proseguire la propria attività. Ho voluto dare a questa rubrica il titolo di La vita cantata indirizzato da una riflessione che credo non si discosti molto dalla realtà. Infatti gran parte della grande musica frequentata dai cori polifonici presenta testi tratti dalla tradizione religiosa o testi poetici che l’autore riveste di melodie che si adagiano su di essi e ne esaltano gli intrinsechi valori letterari. È insolito trovare in polifonia storie di vita, come nel ’500 con Orazio Vecchi, oppure testi che raccontano un lavoro, il forzato distacco per la tragedia della guerra, la passione di una donna tradita o la condizione umana della gente più comune. Ciò accade molto più spesso nel mondo dei cosiddetti “cori popolari”, che operano con repertori musicali spesso tratti da approfondite ricerche etno-musicologiche o con musiche di autori che, ispirati da questo mondo, creano brani e testi così vicini alle tematiche di tradizione, tanto da essere quasi considerate appartenenti a esso. Spesso una sola composizione è una cellula completa di vita, un racconto di gioia, di dolore o di morte. Ma al di là della diversificazione dei repertori, in ultima analisi poi la differenza la fa la musica e il modo in cui viene eseguita dal coro; così un brano popolare, elaborato o d’autore, potrà dare la stessa emozione di una composizione polifonica, di un gregoriano o di un gospel. Quindi non è la tipologia musicale che determina la qualità di ciò che un coro canta, ma la genialità del musicista che con le sue composizioni è riuscito a ricreare le atmosfere che il testo contiene e la capacità di un direttore e di un complesso corale a rendere emotivamente e vocalmente quanto la musica esprime. Mi auguro che questa rubrica possa accrescere l’interesse dei lettori alla rivista e possa diventare una finestra importante sulle attività in cui sono impegnati tanti cori di espressività tipicamente “popolare” attivi in Italia. Un appello a tutti, cori e associazioni regionali, per poter disporre di informazioni su concerti significativi, su particolari eventi musicali, su corsi con i bandi e i risultati, su pubblicazioni, convegni di studio e su raccolte musicali, interviste a compositori, interessati a questo particolare settore della musica corale. In breve la rubrica vivrà in funzione della mano che potrete darci, collaborando per renderla fruibile a tutti. Spero davvero di poter contare sulla vostra indispensabile collaborazione. Puccio Pucci [email protected] 051 6342819 - 335 6908629 RUBRICHE ARMONIE IN VALLE Trenta canti raccolti in Valtellina e Valchiavenna armonizzati per coro maschile © Coro Vetta 2011 È stato recentemente pubblicato questo bel libro che il Coro Vetta di Ponte Valtellina ha prodotto, nell’anniversario dei suoi cinquanta anni di attività, avvalendosi del coordinamento prezioso del maestro Angelo Mazza, a cui il volume è dedicato. Il progetto, ideato da Enzo della Bona, per lunghi anni presidente del coro, ha previsto una prima fase di ricerca, nella convinzione che «il filo conduttore che legava la quotidianità della vita alle tematiche tratte dai brani di ispirazione popolare, era spesso dovuto alla specificità dei luoghi», come dice il presidente Franco Biscotti nella presentazione. Dalla ricerca nelle due valli ne sono usciti ben 120 brani, raccolti e trascritti anch’essi nel volume I canti della Memoria; musiche che fissano le peculiarità originali e a volte uniche di questi luoghi dell’arco alpino nella Provincia di Sondrio, vere testimonianze sonore di grande valore sociale e culturale. Ma ecco la seconda parte del progetto: la scelta di trenta melodie ritrovate, che affidate a un gruppo di valenti musicisti, sono state elaborate e raccolte in questo nuovo volume che presentiamo e che ora offrono alla coralità nuovi interessanti repertori, prezioso materiale da studiare e presentare come genuina espressività della nostra gente di montagna. Il prof. Giuseppe Calliari, nella prefazione, delinea molto bene la tipologia delle parole e delle melodie che sono poi state tradotte dagli autori nella «plasticità sonora del canto polivocale, nella forma compiuta di piccolo oggetto d’arte». Non manca anche un prezioso suggerimento agli esecutori nel cogliere e riconoscere le caratteristiche peculiari che le intuizioni degli autori hanno voluto dare alle loro elaborazioni. Il volume si completa con una sintetica ma sufficiente rassegna dei curricola degli armonizzatori, tra i quali notiamo personaggi di grande spicco, già da tempo presenti con i loro elaborati in numerose raccolte musicali; non mancano poi i nomi dei ricer- 59 catori e dei raccoglitori, personaggi determinanti per la fase propedeutica della ricerca. Credo che sarebbe stato anche interessante collocare i loro nomi in calce ai brani, magari con qualche indicazione anagrafica del ricercatore/informatore e del luogo in qui il brano è stato trovato, per offrire una ulteriore indicazione allo studioso o al curioso. Mi è parso significativo, nella prima uscita di questa nuova rubrica, pubblicare la recensione che il critico musicale della «Gazzetta di Parma», Gian Paolo Minardi, ha dedicato al concerto tenuto dal Coro della SAT il 4 febbraio scorso al Teatro Regio di Parma. Minardi, profondo conoscitore del mondo della coralità, ha delineato in modo perfetto le emozioni offerte dai cori nello splendido incontro musicale. DAGLI APPENNINI ALLE ALPI di Gian Paolo Minardi «Veniva in mente l’altra sera, mentre al Teatro Regio andava snodandosi l’affascinante collana di canti proposti dal coro della SAT, il risoluto commento di Brahms, amante spassionato del canto popolare, alle critiche di alcuni musicologi convinti che le testimonianze originali dovessero rimanere intatte, sottratte a qualsiasi intervento di armonizzazione: “la scienza con la S maiuscola ha voluto pubblicare ogni scartoffia con cui un grande aveva reso omaggio al proprio sedere”, per dire dello stacco tra “scienza” e poesia. Non a caso Massimo Mila, brahmsiano fervente quanto “patito” della montagna, scrisse che se Brahms avesse ascoltato il Coro della SAT “lo avrebbe aggiunto nel numero delle gioie artistiche che gli dava l’Italia”, nella convinzione dell’ineffabile movente poetico che regola da più di ottant’anni la celebre compagine tridentina, con una coerenza che nasce dalla continua messa a punto dello “strumento” per giungere a quella coesione del suono che si variega con infinite sottigliezze. La ragione che, insieme all’innato amore per la montagna, aveva affascinato Benedetti Michelangeli il quale in quella costanza con cui i cantori lavoravano al suono vedeva riflesso il proprio inesausto impegno alla tastiera. E come per il grande pianista, così è stato per altri musicisti insigni, ognuno rilettore attraverso lo spettro dell’armonizzazione della piccola vicenda racchiusa nella semplicità della testimonianza popolare; una prospettiva oltremodo ricca come si è potuto osservare attraverso il programma offerto 60 l’altra sera; proprio nella varietà delle “lenti” il quadro s’illuminava in maniera affatto originale: incisivo il segno di Dionisi quanto filtrato quello di Michelangeli così come dalle armonizzazioni di Pigarelli e di Pedrotti affiorava un senso più positivo della narrazione, un’evidenza marcata al sapore, a volte drammatico, di quelle pittoresche schegge di vita. Prendeva corpo, così, da questa variata antologia il senso più innervato nella sequenza dei secoli che guida questa magnifica compagine, uno dei tramiti più vitali di quella poesia vocale che dalle antiche laudi al madrigale costituisce il connotato più autentico della nostra lunga storia musicale. A promuovere il ritorno al Regio, dopo diversi anni, della prestigiosa istituzione di Trento è stato il nostro Coro Montecastello, compagine che sotto la appassionata direzione di Giacomo Monica da anni si muove lungo un percorso affine nella rivisitazione di antiche testimonianze sonore della nostra terra, del nostro Appennino in particolare, attraverso il diaframma di una coralità che illumini e renda sensibili le ragioni poetiche racchiuse in quei lontani reperti. Un impegno che è ben risaltato nel gesto di benvenuto, un mazzetto di tre canti delle nostre montagne nella sapiente e sensibile elaborazione polifonica di Monica, fresca e spontanea attestazione della autenticità dei legami che legano le due istituzioni. Un clima festoso che è andato via via crescendo, col pubblico che gremiva il teatro entusiasta: generoso il coro trentino – guidato da Mauro Pedrotti, determinato continuatore della tradizione dei “padri fondatori” – ha replicato alcuni dei canti più amati per poi concludere con una serie di applauditi fuori programma.» da «La Gazzetta di Parma», 6 febbraio 2012 www.feniarco.it RUBRICHE 61 cori da tutta Italia concerti in città e sul territorio incontri e nuove conoscenze turismo arte cultura e tradizioni 62 MONDOCORO a cura di Giorgio Morandi Amici lettori di Mondocoro, leggerete queste note a periodo pasquale inoltrato, ma ciò nulla toglie alla mia fortuna di poter fare i tipici e caratteristici auguri di primavera, una stagione appena avviata ma che già scoppia di colori: il rosso del melocotogno contro il giallo della forsizia e il bianco dei primi ciliegi e pruni, il giallo e il bianco dei narcisi appena oltre le chiazze gialle delle primule e l’azzurro dei nontiscordar. È la bellezza della natura che sicuramente vuole pareggiare la bellezza di tanti concerti primaverili che premiano il lavoro invernale di direttori e cantori. Forse non è un caso che un amico musicista non vedente identificasse le note con i colori! Ma ecco da Mondocoro l’augurio ben intonato alla stagione. Musica, tu anello universale che illumini il creato della luce che, partita dal centro, sale, sale e fino al creatore ci conduce. Quest’armonia è Dio che l’ha voluta, creandoci a sua rassomiglianza Ed ogni lauda a Lui sempre è dovuta: l’uomo canta nella terrena stanza. Il sole suscita un coro di bambini, come angeli li senti osannare, anche i grandi si fanno più piccini, cantano e vogliono sognare. I Canti diventano divini: “Ognun che canta ha imparato ad amare”. Il sonetto fu scritto ormai tredici anni orsono dal cantore poeta Emile D’Ars, del coro Sette Laghi di Varese. Permetterete sicuramente, voi miei 24 lettori, che questo sonetto augurale diventi anche affettuoso omaggio/ricordo del maestro Lino Conti che a fine gennaio ci ha lasciati e che al coro Sette Laghi e a tutti noi amici per oltre 40 anni ha insegnato proprio… come si ama. Fare il direttore di coro Talvolta, almeno in Italia, sembra quasi che “direttore di coro” o si è o non si è! Tutti parlano di “corsi per direttore di coro”, ma nessuno, nessuna rivista, nessun dossier affronta mai il discorso che “diventare direttore di coro si può”, che una delle carriere possibili per il futuro dei nostri ragazzi è quella del direttore di coro. Quanti giovanissimi vogliono diventare ingegneri, medici, pompieri, insegnanti, perfino papa (io quando ero in seminario volevo diventare papa! Cosa ha guadagnato la Chiesa col mio cambio di idea!?!)… Normale. Ma a pensarci bene, si sente mai un ragazzo giovane dire «da grande voglio fare il direttore di coro»? Qualcuno glielo suggerisce mai? Gli “open day” presso i cori esistono? Le amministrazioni pubbliche offrono percorsi formativi in questo campo? RUBRICHE Beh, forse sì, (anche se non si vedono molto, perché drasticamente limitare le espressioni della Provvidenza?!) e comunque… proviamo a immaginare un giovane di questo tipo. Un giovane che dice: «Ho pensato molto a quale indirizzo di carriera professionale intraprendere, e… stavo pensando di diventare direttore di coro. Sì, voglio diventare direttore di coro. Ho cantato in coro per oltre nove anni, e mi piaceva così tanto che per otto di questi ho cantato in più di un coro. Io penso che avere l’opportunità di aiutare un coro a interpretare ciò che il compositore voleva comunicare, e osservare i cantori che migliorano il loro cantare nel corso degli anni, e ascoltare il bellissimo prodotto di tutto il loro duro lavoro sia una cosa meravigliosa, senz’altro da farsi, senza curarsi troppo di quanto paga. Tuttavia ho certi problemi che forse potrebbero impedirmi di ottenere questo tipo di lavoro, ed è per questo che, da qualche professionista direttore di coro, cerco suggerimenti in merito. In primo luogo, io sono terribilmente scoordinato. Arranco su scale invisibili, vado a sbattere in oggetti visibili e mi ci è voluto molto tempo per imparare a suonare il pianoforte, strofinare la mia pancia e contemporaneamente battere la mia testa ecc.; sono veramente preoccupato pensando che potrei essere un direttore di coro terribile, perché nella realtà potrei non essere in grado di dirigere a causa della mia mancanza di capacità fisiche e potrei apparire un perfetto idiota. Secondariamente, non conosco nessun altro che voglia diventare direttore di coro, e quando dico questo mio desiderio a qualcuno, questi… mi guardano in modo strano. A quanto pare se uno sceglie la carriera musicale si imbarca in un campo estremamente competitivo, ma il 95% delle persone della mia età che conosco vogliono diventare medici, ingegneri e avvocati. Sembra che ci siano un sacco di posti di lavoro liberi lì in quei campi professionali. Ma… La professione del direttore di coro è rara o è molto comune? In terzo luogo non ho alte qualificazioni specifiche; io sono solo a livello tre per il pianoforte e livello due per la teoria. Conosco persone che hanno un livello superiore a sette ma non hanno nessuna intenzione di intraprendere una carriera musicale, quindi… come faccio a immaginare di trovare un lavoro? 63 Comunque ho anche alcuni elementi positivi a mio favore. Da solo mi son fatto un abile orecchio relativo, mi piace fare e ascoltare musica, posso comporre e arrangiare abbastanza bene e ho almeno una conoscenza di base di pianoforte e di teoria. Pensate che io possa affrontare questa carriera?» Il nostro giovane attende una risposta. Il canto va sempre incoraggiato A Cesy, la moglie del mio amico Mario, da sempre piace cantare, ma solo recentemente ha deciso di entrare nel coro della parrocchia. Ha preso la cosa molto seriamente. Non solo non manca mai alle prove, in casa si esercita, magari intanto che in cucina prepara il pranzo. «Ora – mi ha confessato Mario – avviene che ogni volta che lei intona un Kyrie o un’Ave Maria o un Sacrum Convivium, io prendo la porta e mi rifugio sotto il portico o nel giardinetto davanti alla casa». Una volta, dopo pochi momenti che Mario se n’era andato, Cesy, facendo una pausa nella sua esercitazione, lo ha raggiunto e con fare un po’ risentito gli ha detto: «Mario, cosa c’è che non va? Non ti piace il mio cantare?» «Amore – le ha risposto il mio amico – il tuo cantare mi piace, ma voglio essere sicuro che i vicini sappiano che non ti sto picchiando!». Musica di lode / Praise music Una musicista americana, direttore di coro, Denise R., afferma: «Per quanto riguarda il termine “musica di lode”, a me piace presentare pezzi di sei-ottocento anni orsono e sottolineare quanto essi siano pieni di elogi. Non mi piace uno stile di musica che rivendica come proprio lo scopo centrale della musica liturgica. La lode, com’è presentata nella musica, è vecchia quanto l’umanità stessa». In un simpatico dialogo a distanza, le fa eco un collega con queste parole: «…Davvero desidero congratularmi con Denise R. per la sua definizione. Il termine Praise music (musica di lode) 64 è un altro di quella sfortunata serie di termini-esca che sono stati adottati dalla nostra cultura popolare. Negli anni ’90 il mio parroco un giorno mi ha chiesto se sapevo… se potevo fare un po’ di “musica di lode”. Comprendendo perfettamente quello che intendeva dire, gli dissi: «Qual è la musica che non si adatterebbe a questa categoria?» Sorrise, ridacchiò sommessamente, e davvero non ebbe una risposta, perché una risposta non c’è. Tutto, da O capo insanguinato di Bach a Awesome God di Michael W. Smith, tutto è, in qualche modo e in qualche forma, lode. Anche una canzone che esprima rabbia con Dio è, in un certo senso, piena di lode, perché quando noi esprimiamo la rabbia (fintanto che è fatto in un modo ragionevole e controllato, maturo e non-violento) dimostriamo che ci preoccupiamo abbastanza per rendere migliore il rapporto. Continuiamo a educare le nostre comunità con parole come ritmica, sostenuto, vivace, calmo/placido, rispettoso, a mo’ di danza… che possono essere applicati a brani scelti in qualsiasi tempo… e incoraggiamo questi sfortunati, imprecisi, termini confusi come moderno, contemporaneo, (forse anche pop e rock?!) a cadere in disuso. Contemporaneo, rock, ecc. non significa inferiore, se la musica e il testo sono ben scritti, ben fatti, e il suono è progettato con sensibilità. Eh sì, c’è una crescente evidenza che l’età non influenza il gusto. Per esempio, abbiamo portato il nostro gruppo giovanile a una grande conferenza. I giovani hanno sperimentato sessioni di Kirk Franklin altamente amplificate e servizi di Taizé. A tutti è piaciuto molto Taizé. Quando la sessione Franklin è tornata in programmazione, un ragazzo (di circa 15 anni) ha chiesto «dobbiamo tornare a quell’Arena della Sofferenza?». Lo giuro, queste furono le sue precise parole! Una vera impressione canora Vent’anni orsono un giornalista chiese a un direttore di coro: «Vi considerate semplici esecutori o anche interpreti del canto popolare?» Ne ebbe, come risposta, un’altra domanda: «Cosa può esprimere il canto e quali sentimenti può provare chi lo ascolta?» E così il maestro continuò: «A mio parere molti sono i sentimenti e gli stati d’animo che si possono esprimere con il canto: gioia, allegria, felicità, tristezza, dolore, dolcezza, religiosità, patriottismo. Altre sensazioni per l’ascoltatore sono quelle di sentirsi trasportato mentalmente e immaginariamente nell’ambiente che viene descritto dal testo letterario del canto: la montagna, le rocce, i ghiacciai, i boschi, i torrenti, i laghi, i fiori, le cupole delle chiese di una città, l’immensità della steppa, il deserto, ecc. Ora, se un coro di tutto questo è solo esecutore, diciamo pure anche a un buon livello tecnico-musicale, ma non riesce a smuovere l’ascoltatore nel suo intimo e a destare in lui sensazioni con l’espressione e la forza dell’interpretazione, questo coro non è certo interprete del canto popolare, ma ne è semplicemente un esecutore piuttosto scialbo e indifferente. Esiste forse un segreto per essere interpreti oltre che cantori? Direi di sì! Prima di tutto, molto importante è una perfetta intesa fra maestro direttore e coristi, direi quasi una collaborazione. In secondo luogo un’accurata scelta del repertorio nella quale la sensibilità del maestro conta in modo predominante, per non costringere RUBRICHE i coristi a cantare quello che non sentono di poter interpretare; di conseguenza l’interpretazione risulterebbe piatta, priva di quella coloritura che si può dare alla musica. Io credo di poter affermare che un coro deve mirare soprattutto all’interpretazione dei canti. In oltre 25 anni di direzione di coro ho potuto constatare personalmente e insieme ai miei coristi, che cantare è un’arte e quest’arte del canto, come tutte le altre forme d’arte, deve esprimere qualche cosa: e questo qualcosa non deve essere unicamente l’emissione della voce, ma una vera “impressione canora”». (Kurt Dubiensky, 1982) Libri Conducting Choirs (Dirigere cori), tre volumi di David DeVenney, per complessive 400 pagine, al costo di 100 $, Roger Dean Publishing Co, Dayton OH. Titoli dei volumi: 1. Il Direttore di Coro promettente. Guida pratica per direttori di coro principianti; 2. Musica da usare durante la lezione. Raccolta completa di esempi musicali, comprensiva di cd per lo studio e l’applicazione pratica; 3. Il Direttore praticante. Un’esplorazione di argomenti specifici per il lavoro del direttore di coro. Anche se non avesse scritto questi tre volumi David DeVenney sarebbe, tra i contemporanei, uno dei più prolifici contributori alla letteratura scientifica in campo corale avendo scritto oltre quaranta libri e circa ottanta articoli. Egli ha attinto alla sua enorme esperienza per fornirci un’aggiunta pragmatica e utile nell’arena dei metodi corali. Nella prefazione al primo volume dell’opera che si vuole presentare, così l’autore ufficializza il suo scopo: «Fornire una guida compatta e completa che consenta di insegnare le basi della direzione di coro, della conduzione delle prove e dello studio delle partiture». Aggiunge che i destinatari del suo studio sono «i futuri direttori di coro e leaders di cori meno esperti, tra questi i cori scolastici, i cori da chiesa e i cori amatoriali in genere». Importante è la precisazio- 65 ne che il secondo volume si accompagna al primo, ma non necessariamente deve essere usato come prosecuzione di quello. Il bel cd e il sito web www.conductingchoirs.com a esso collegato contengono le partiture corali di molti dei brani selezionati. Il volume è organizzato nei seguenti capitoli: Canto e musica all’unisono (5 brani); Musica rinascimentale (6 brani); Musica barocca (6 brani); Musica classica e romantica (10 brani); Musica contemporanea (6 brani). Il terzo volume, più che continuazione del primo volume, va inteso in affiancamento dello stesso. Nella prefazione così scrive l’autore: «Non è necessario procedere con questo volume come se fosse uno specifico corso di studio. Piuttosto il lettore è incoraggiato a esplorare quei capitoli che sono rilevanti in un dato momento del suo percorso di insegnamento, passando agli altri solo nel momento in cui ne avrà bisogno». DeVenney ha fatto alla coralità un ragguardevole servizio indirizzando la sua attenzione anche a un argomento “disperato” (e spesso dimenticato) quale quello della psicologia e dell’uso del movimento durante le prove. Va aggiunto, come ultima annotazione, che il capitolo finale del primo volume è intitolato Cantori e coro e comprende i seguenti argomenti: postura, respirazione, intonazione e differenze fra il canto solistico e il canto corale. Complessivamente tutta la presentazione è chiara, e concisa e si legge con piacere. Per la natura stessa della rubrica Mondocoro non è possibile fornire qui ulteriori dettagli, ma è a disposizione dei lettori che la desiderano la dettagliata recensione in lingua inglese pubblicata da Choral Journal (febbraio 2012), rivista della ACDA Associazione dei Direttori di Coro Americani. Prove chiacchierone Qualche tempo fa nel forum di ChoralNet c’è stato un ricco confronto fra direttori di coro sull’argomento dei disturbi chiacchierecci durante le prove di coro, sia nei cori scolastici e quindi giovanili, sia negli altri generi di cori (amatoriali e di chiesa, con cantori d’ogni età). Ecco, telegraficamente, alcuni degli interventi più e/o meno interessanti. 1. Fondamentalmente due linee guida: a. non parlare mentre il direttore parla con il coro o con una sezione del coro; b. non parlare quando dovresti cantare tu o sta cantando un’altra sezione. 2. Spiegare bene che mentre canta un’altra sezione il direttore deve ascoltare attentamente senza essere distratto dal parlottare dell’altra parte di coro che può parlare, invece, prima e dopo le prove o fra un canto e l’altro. 66 3. Ferma la prova e guarda fisso le persone che parlano, fino a quando hanno recepito il messaggio. 4. Per quanto possibile, le indicazioni devono essere non verbali. Fai in modo di creare un ambiente in cui l’aspettativa è costantemente in progresso. Semplicemente aspetta che i tuoi cantori siano in silenzio. Se i colpevoli si riducono a un paio di persone, sfodera nei loro confronti uno “sguardo diabolico“. Coi ragazzi può funzionare anche il sistema che segue, io l’ho visto efficace. Alza una mano. Man mano che i ragazzi la vedono, a loro volta alzano la mano e smettono di parlare, richiamando anche i vicini. In breve tempo a un tuo gesto le tessere del domino dovrebbero cadere tutte e tu dovresti avere l’attenzione dell’intero gruppo. 5. Spesso mi chiedo se durante le prove si parla abbastanza. Io incoraggio molto i miei 90 cantori a parlare. Sento che la collaborazione e l’interazione alla pari probabilmente è più importante della quiete. Questi ragazzi passano tutto il giorno sentendosi dire di tacere, e a quale scopo? Voglio stipare a tutti i costi le mie idee nel loro cervello o voglio sviluppare le loro e voglio che imparino a esprimerle? Il mio obiettivo è l’autonomia, non un concerto perfetto. Quando voglio l’attenzione del gruppo, semplicemente aspetto. In una situazione di reciproco rispetto, vedo che ottengo l’attenzione del mio gruppo in pochi secondi dalla richiesta. 6. Forse inappropriatamente, ma io tendo a spiegare verbalmente, dicendo, per esempio «Per favore!!!» e guardando gli interessati (io dirigo un coro di adulti) o se voglio proprio essere “galante” dico «per favore, siate gentili con le altre sezioni mentre si dan da fare con le loro parti. Voi vorreste la stessa cosa mentre guardate le vostre» aggiungendo (anche se poco politicamente corretto – di solito sono le donne le più chiacchierone) «soprani e contralti, scusate!». In casi proprio esagerati si materializza una mia occhiataccia che porta immediatamente prima il silenzio e poi una risata. Però se si parla di ragazzi e bambini, bisogna un po’ farci l’abitudine e accettare. Sospetto che perfino i direttori di quei favolosi cori misti inglesi fatti di uomini e ragazzi e anche il Vienna Boys Choir abbiano i loro momenti “peculiari” con i ragazzi. 7. Non parlare mai sopra il balbettio. Al coro parla sempre con voce normale ma decisa. Se qualcuno non sente perché continua a brontolare col vicino, aspetta in silenzio. Questo funziona sempre. Auguro ai cori italiani una sala prove… spartana! Le indicazioni sono quelle date da alcuni colleghi a un direttore di coro americano che sta per avere dalla sua amministrazione la costruzione di una “piccola” sede per il coro. E non solo. Pare che l’amministrazione abbia disponibilità anche di qualche altro chilo di dollari per arredarla adeguatamente. Sul direttore (che di buon mattino non ha pregato «Voglia di lavorare saltami addosso») è caduto improvviso e pericoloso il problema di dover fare un elenco… per suggerire le cose indispensabili alla “piccola” nuova sede corale. Per risolvere coscienziosamente e con professionalità il suo problema, il direttore ricorre alla fantastica (anche in senso letterale) esperienza dei generosi consigli della gente del forum ChoralNet. Sapendo di tanti cori italiani senza una sede, che magari dispongono solo di un RUBRICHE atrio nell’edificio comunale o in quello scolastico, ho fatto un elenco (nemmeno completo!) delle indicazioni date e generosamente, “a gratis”, lo metto a loro disposizione. Indispensabili almeno un paio di postazioni informatiche con software di notazione musicale (preferibilmente Sibelius), soft­ ware di teoria musicale, software per la formazione dell’orecchio, software per una libreria musicale corale (ma utilizzando Microsoft Access è possibile anche progettarlo in proprio – non è difficile). Se si ha voce in capitolo, si deve dire agli amministratori anche la dimensione del coro più grande che lavorerà in quella sede, per accertarsi che la sala abbia un numero sufficiente di metri cubi di spazio per gestire bene il suono. La Società Wenger Riser ha ottime persone e materiali che sapranno dare indicazioni molto utili per avere le migliori dimensioni della sala per il vostro coro più grande (con possibilità di aggiungervi anche un’orchestra… Potrebbe capitare di provare in questo stesso spazio anche opere per coro e orchestra, vero?!). È meglio se la sala avrà il soffitto a due livelli e alcuni tipi di superfici sonore per gestire i bisogni particolari. Si assuma un ingegnere acustico della zona, possibilmente un suonatore di corno o comunque uno strumentista che capisce meglio come i musicisti abbiano esigenze specifiche. E se durante le prove si pensa di utilizzare il movimento, questo va tenuto presente, perché avrà un impatto anche sulla dimensione dello spazio a pavimento. Grandi pannelli bianchi magnetici e scorrevoli, a parete, sarebbero favolosi. Oltre alle estensioni di soffitti e pareti, è molto importante l’altezza da terra del soffitto, elemento che è spesso ignorato nel mondo corale. Se davvero si vuole insegnare canto, i cantanti devono essere in grado di produrre un suono che vada in alto 5 o 6 metri prima di ritornare alle loro orecchie per essere analizzato. È per questo che si canta così bene nelle chiese episcopali! Un sistema di altoparlanti tutt’intorno alla sala è necessario per permettere agli studenti di ascoltare in qualsiasi punto della stessa. Non va dimenticato un computer di classe con iTunes. Magari anche un iPod che contenga migliaia di canti da poter far ascoltare ai cantori. Sì, non tanti canti… basta qualche migliaio! È assolutamente indispensabile un impianto di miglioramento vocale che consenta di comunicare senza dover urlare sopra i ragazzi, come ogni direttore d’orchestra e di coro ha sempre dovuto fare in passato. Non manchi una fontana grande o più fontanelle di acqua per tenere idratate quelle masse che non portano da casa una bottiglia d’acqua propria. Non dimenticare comode mensole per le cartelle, una buona scorta di cartelle e gli scaffali per mettercele. Ci si metta subito alla ricerca di microfoni e cavi e tavole armoniche… Si contatti qualcuno, come per esempio il Centro Chitarre, perché consigli un pacchetto di soluzioni che soddisfi le vostre esigenze e i 67 vostri desideri. Per pedane a gradini, parapetti e leggii, si contatti la società Wenger. Sarà necessario anche un umidificatore industriale… E se non basta, scrivete! Qualcuno – lo dice esplicitamente chiudendo il suo intervento – ha ancora “un sacco di idee” da mettere a disposizione! (…ma i dollari non finiscono mai? Che bella moneta!) Coralità d’alto livello: il St. Olaf C ollege Un’istituzione Fondata nel 1874, vicino a Minneapolis (USA, Stato del Minnesota), il St. Olaf College è una delle principali e più rigorose istituzioni universitarie residenziali quadriennali con sede negli Stati Uniti. St. Olaf è un college (non è considerato grande) secondo la tradizione della Chiesa Episcopale Luterana d’America (ELCA). Fondato e impegnato sulle arti liberali persegue una prospettiva di educazione globale e favorisce lo sviluppo di tutta la persona nella mente, nel corpo e nello spirito. Considerato, qui, soltanto dal punto di vista musicale e specificamente corale, il programma del St. Olaf College è uno dei più diversificati, attesi, seguiti e acclamati in tutto il paese. Ospita ben otto complessi corali di grande livello e gode di attrazione e fama a livello nazionale e internazionale sostenuta sempre più dal completo programma concertistico e dall’eccellenza espressa dalla facoltà di direzione corale attraverso work­ shop, masterclass, conferenze, ecc. Un festival È denominato St. Olaf Christmas Festival. Essendo stato creato nel 1912 da F. Melius Christiansen, fondatore del St. Olaf Musical Department, è una delle più antiche celebrazioni musicali natalizie di tutti gli Stati Uniti. Al festival partecipano circa 500 studenti di musica distribuiti in cinque cori e nella St. Olaf Orchestra. Regolarmente trasmesso da radio e televisioni pubbliche in tutto il paese, il St. Olaf Christmas Festival è elencato dal New York Times International Datebook fra i cinque eventi natalizi più significativi di tutto il paese ed è attentamente considerato e promosso da centinaia di pubblicazioni, TV Guide, Wallstreet Journal e Los Angeles Times compresi. I cori Il St. Olaf Choir è senza dubbio “il gioiello della corona” della tradizione corale di questo famoso College. Ma gli altri sette complessi corali (per non citare una quantità di complessi stru- 68 mentali) sono tutti più che degni di menzione, in particolare perché essi forniscono la cornice nella quale i cantori del college si trasformano in artisti corali. Il Manitou Singers è il complesso i cui novanta cantori sono selezionati fra le studentesse del primo anno (il corrispondente coro maschile, più numeroso di questo femminile, è conosciuto come il Viking Chorus) ed è l’organizzazione musicale più popolare di tutto il campus universitario. Nonostante ogni anno ci sia un completo ricambio di coriste, il coro canta alla cerimonia religiosa di apertura dell’anno accademico e, durante l’anno, in numerose altre cerimonie, spaziando – come repertorio – dalla musica sacra a quella profana e alle ballate popolari. Il Manitou Choir è richiestissimo sia all’interno sia all’esterno del campus universitario. Un direttore Mrs Sigrid Johnson nel St. Olaf College detiene attualmente la qualifica di St. Olaf Artist in residence e di direttore del gruppo corale Manitou Singers. È B.M. (Bachelor of Music) della St. Claud State University e M.M. (Master of Music) della Michigan University con specializzazione in esecuzione vocale. Prima dell’incarico al St. Olaf College, Mrs Johnson ha lavorato nei dipartimenti musicali di diverse università americane. Attualmente è anche direttore associato dell’Ensemble Singers, il coro professionale di 32 voci che affianca il coro (130 voci) dell’organizzazione VocalEssence fondata nel 1969 da Philip Brunelle. Sigrid Johnson mantiene anche un fitto calendario di interventi e di impegni come direttore ospite di numerosi festival, docente di corsi corali e workshops (anche in Australia). È membro dell’ACDA, l’associazione dei Direttori di Coro d’America, della MENC - Music Educator’s National Conference, di Chorus America e di IFCM. Oltre che essere stata direttore di alcuni tra i più famosi cori americani, Sigrid Johnson ha tenuto conferenze ai Symposium Mondiali per la Musica Corale del 2002 e del 2008 ed è stata membro di giuria del prestigioso Bela Bartok International Choral Competition di Debrecen nel 2006. Un cd Il cd che viene preso in considerazione è intitolato The Manitou Singers. Highlights from the St. Olaf Christmas Festival (già citato più sopra). Si tratta di una raccolta di brani registrati live dal coro Manitou Singers (diretto da Sigrid Johnson, già sopra presentata) durante varie edizioni del Christmas Festival che hanno avuto luogo fra il 1998 e il 2009. Il cd raccoglie grandi brani natalizi classici “incorniciati” fra A Christmas Carol di Norman Dello Jojo e il popolare Procession and Balulalow (da Ceremony of Carols) di Benjamin Britten. Molti di questi brani vengono cantati spesso – a ogni livello – da molti cori in tutto il paese, ma questo cd è un grande strumento didattico dal quale ogni educatore musicale può trarre grande beneficio. Se paragonato a tutti i cori di studenti del primo anno di College, la musicalità del Manitou Singers in questo cd sorpassa grandemente ogni più rosea attesa. Reddite quae sunt Caesaris Caesari…: Libera traduzione, elaborazione e integrazione dell’articolo Critic’s Pick…1 del giornalista Jonathan Slawson, su ICB Vol. XXX, Number 4, 4th Quarter 2011, pag. 75. + notizie> Anno XIII n. 37 - gennaio-aprile 2012 Rivista quadrimestrale della Fe.N.I.A.R.Co. Federazione Nazionale Italiana Associazioni Regionali Corali Presidente: Sante Fornasier Direttore responsabile: Sandro Bergamo Comitato di redazione: Efisio Blanc, Walter Marzilli, Giorgio Morandi, Puccio Pucci, Mauro Zuccante Segretario di redazione: Pier Filippo Rendina Hanno collaborato: Maria Dal Bianco, Paolo Bon, Alvaro Vatri, David Giovanni Leonardi, Ettore Galvani, Lorenzo Montanaro, Rossana Paliaga Redazione: via Altan 39 33078 San Vito al Tagliamento Pn tel. 0434 876724 - fax 0434 877554 [email protected] In copertina: Corovivo 2011 (foto Renato Bianchini) Editoriale + approfondimenti> «Niente cultura, niente sviluppo. Dove per “cultura” deve intendersi una concezione allargata che implichi educazione, istruzione, ricerca scientifica, conoscenza. E per “sviluppo” non una nozione meramente economicistica, incentrata sull’aumento del Pil, ma che includa cultura e tutela del paesaggio e dell’ambiente tra i parametri da considerare.» A dirlo è il Sole24Ore, che il 19 febbraio ha lanciato un Manifesto per la Cultura, rovesciando il luogo comune in base al quale con i soldi accumulati in qualche modo ci si dedica all’hobby di lusso della cultura: al contrario, spiega il quotidiano di Confindustria, è partendo dalla cultura che si esce dalla crisi attuale. «È importante – prosegue il Manifesto – che l’azione pubblica contribuisca a radicare a tutti i livelli educativi lo studio dell’arte (…) per poter fare in modo che [i giovani] ne traggano alimento per la creatività del futuro. (…) Per studio dell’arte si intende l’acquisizione di pratiche creative… è dimostrato che i ragazzi impegnati in attività creative e artistiche sono anche i più dotati in ambito scientifico.» La coralità si colloca a pieno titolo su questo percorso. Non è per caso, allora, che in questi ultimi tempi siano nati tanti cori giovanili e di bambini, nella scuola e fuori: quasi che l’organismo sociale generi da solo gli anticorpi con i quali reagire alla malattia che lo ha preso. Il coro, infatti, non solo è luogo di formazione culturale ma anche laboratorio di socialità, dove tutti, giovani e no, sperimentano e apprendono i principi della responsabilità personale e collettiva, dell’impegno, delle corrette relazioni. Esserne consapevoli significa anche sapere che siamo chiamati a vivere il nostro canto ricreandolo ogni giorno: cercare un nuovo repertorio, riscoprire un autore dimenticato, eseguire composizioni inedite, creare accostamenti inattesi, sono tutte azioni che prefigurano una capacità di innovazione di cui la nostra società ha bisogno. Se questo è il coro, allora il contributo, pubblico o privato, non è un sussidio dovuto alla cortesia di chi lo può dare, ma un solido investimento per il futuro. + curiosità> + rubriche> + + musica> servizi sui principali> avvenimenti corali LA RIVISTA DEL CORISTA Sandro Bergamo direttore responsabile Progetto grafico e impaginazione: Interattiva, Spilimbergo Pn Stampa: Tipografia Menini, Spilimbergo Pn Anche per il 2012 rinnova il tuo abbonamento Associato all’Uspi Unione Stampa Periodica Italiana e fai abbonare anche i tuoi amici ISSN 2035-4851 Poste Italiane SpA – Spedizione in Abbonamento Postale – DL 353/2003 (conv. In L. 27/02/04 n. 46) art. 1, comma 1 NE/PN Abbonamento annuale: 25 € 5 abbonamenti: 100 € c.c.p. 11139599 Feniarco - Via Altan 39 33078 San Vito al Tagliamento Pn CHORALITER + ITALIACORI.IT Rivista quadrimestrale della FENIARCO abbonamento annuo: 25 euro / 5 abbonamenti: 100 euro Federazione Nazionale Italiana Associazioni Regionali Corali Via Altan, 39 33078 S. Vito al Tagliamento (Pn) Italia Tel. +39 0434 876724 - Fax +39 0434 877554 www.feniarco.it - [email protected] modalità di abbonamento: • sottoscrizione on-line dal sito www.feniarco.it • versamento sul c/c postale IT23T0760112500000011139599 intestato a Feniarco • bonifico bancario sul conto IT90U063406501007404232339S intestato a Feniarco n. 37 - gennaio-aprile 2012 n. 37 - gennaio-aprile 2012 Rivista quadrimestrale della FENIARCO festival Poste Italiane SpA – Spedizione in Abbonamento Postale – DL 353/2003 (conv. In L. 27/02/04 n. 46) art. 1, comma 1 NE/PN Federazione Nazionale Italiana Associazioni Regionali Corali Feniarco festival IL QUOTIDIANO LAVORO DI ORLANDO DIPIAZZA CHI CANTERÀ LE MIE STORIE? INTErVISTA A BEPI DE MARZI EUROPA CANTAT TORINO 2012 ASPETTANDO IL FESTIVAL NUOVA RUBRICA LA VITA CANTATA VOX HOMINIS UNO SGUARDO ALLA CORALITÀ MASCHILE