n. 37 - gennaio-aprile 2012
n. 37 - gennaio-aprile 2012
Rivista quadrimestrale della FENIARCO
festival
Poste Italiane SpA – Spedizione in Abbonamento Postale – DL 353/2003 (conv. In L. 27/02/04 n. 46) art. 1, comma 1 NE/PN
Federazione Nazionale Italiana Associazioni Regionali Corali
Feniarco
festival
IL QUOTIDIANO LAVORO DI
ORLANDO
DIPIAZZA
CHI CANTERÀ
LE MIE STORIE?
INTErVISTA A BEPI DE MARZI
EUROPA CANTAT
TORINO 2012
ASPETTANDO IL FESTIVAL
NUOVA RUBRICA
LA VITA CANTATA
VOX HOMINIS
UNO SGUARDO
ALLA CORALITÀ MASCHILE
+ notizie>
Anno XIII n. 37 - gennaio-aprile 2012
Rivista quadrimestrale della Fe.N.I.A.R.Co.
Federazione Nazionale Italiana
Associazioni Regionali Corali
Presidente: Sante Fornasier
Direttore responsabile: Sandro Bergamo
Comitato di redazione: Efisio Blanc,
Walter Marzilli, Giorgio Morandi,
Puccio Pucci, Mauro Zuccante
Segretario di redazione: Pier Filippo Rendina
Hanno collaborato: Maria Dal Bianco,
Paolo Bon, Alvaro Vatri, David Giovanni
Leonardi, Ettore Galvani, Lorenzo Montanaro,
Rossana Paliaga
Redazione: via Altan 39
33078 San Vito al Tagliamento Pn
tel. 0434 876724 - fax 0434 877554
[email protected]
In copertina: Corovivo 2011
(foto Renato Bianchini)
Editoriale
+ approfondimenti>
«Niente cultura, niente sviluppo. Dove per “cultura”
deve intendersi una concezione allargata che
implichi educazione, istruzione, ricerca scientifica,
conoscenza. E per “sviluppo” non una nozione
meramente economicistica, incentrata sull’aumento
del Pil, ma che includa cultura e tutela del paesaggio
e dell’ambiente tra i parametri da considerare.»
A dirlo è il Sole24Ore, che il 19 febbraio ha lanciato
un Manifesto per la Cultura, rovesciando il luogo
comune in base al quale con i soldi accumulati in
qualche modo ci si dedica all’hobby di lusso della
cultura: al contrario, spiega il quotidiano di
Confindustria, è partendo dalla cultura che si esce
dalla crisi attuale.
«È importante – prosegue il Manifesto – che l’azione pubblica contribuisca a
radicare a tutti i livelli educativi lo studio dell’arte (…) per poter fare in modo che
[i giovani] ne traggano alimento per la creatività del futuro. (…) Per studio dell’arte
si intende l’acquisizione di pratiche creative… è dimostrato che i ragazzi impegnati
in attività creative e artistiche sono anche i più dotati in ambito scientifico.»
La coralità si colloca a pieno titolo su questo percorso. Non è per caso, allora, che
in questi ultimi tempi siano nati tanti cori giovanili e di bambini, nella scuola e
fuori: quasi che l’organismo sociale generi da solo gli anticorpi con i quali reagire
alla malattia che lo ha preso. Il coro, infatti, non solo è luogo di formazione
culturale ma anche laboratorio di socialità, dove tutti, giovani e no, sperimentano
e apprendono i principi della responsabilità personale e collettiva, dell’impegno,
delle corrette relazioni.
Esserne consapevoli significa anche sapere che siamo chiamati a vivere il nostro
canto ricreandolo ogni giorno: cercare un nuovo repertorio, riscoprire un autore
dimenticato, eseguire composizioni inedite, creare accostamenti inattesi, sono
tutte azioni che prefigurano una capacità di innovazione di cui la nostra società
ha bisogno.
Se questo è il coro, allora il contributo, pubblico o privato, non è un sussidio
dovuto alla cortesia di chi lo può dare, ma un solido investimento per il futuro.
+ curiosità>
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avvenimenti corali
LA RIVISTA DEL CORISTA
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DossieR
Uno sguardo alla
coralità maschile
2
VOX HOMINIS
Maria Dal Bianco
La coralità virile
di ispirazione orale italiana
Paolo Bon
15 la coralità maschile
come fenomeno socio culturale:
una panoramica internazionale
Alvaro Vatri
9
Dossier compositore
Orlando Dipiazza
39 Chi canterà le mie storie?
Intervista a Bepi De Marzi
Attività dell’Associazione
nel nome della musica
Incontro con orlando dipiazza
David Giovanni Leonardi
24 Orlando Dipiazza: Tre Messe
Missa brevis (1989), Missa Choralis (1999),
Missa “Orbis factor” (2008)
Mauro Zuccante
Mauro Zuccante
42 Aspettando il Festival…
Europa Cantat Torino 2012
19 un quotidiano lavoro
portrait
Lorenzo Montanaro
45 BASE ASSOCIATIVA, GRANDI EVENTI,
COMUNICAZIONE:
tre temi importanti sotto la lente
dell’Assemblea Feniarco
Sandro Bergamo
49 VOGLIA DI RIVISTA…
Giorgio Morandi
cronacA
Nova et veterA
51 MARIBOR: IL GRAND PRIX
NELLA CAPITALE DELLA CULTURA
Rossana Paliaga
28 O magnum mysterium
di Tomás Luis de Victoria
54
Walter Marzilli
Notizie dalle regioni
Rubriche
canto popolarE
INDICE
34 L’EVOLUZIONE DEL CANTO
POPOLARE DI GUERRA
TRA TRINCEA E POLITICA DI REGIME
Ettore Galvani
56 Scaffale
58 La vita cantata
62 Mondocoro
VOX HOMINIS
di Maria Dal Bianco
Perché un coro maschile?
«So che esistono delle associazioni i cui membri, presi dal vero spirito della musica, praticano
tra di loro quest’ultima con vera devozione…» (Ernst Hoffmann)
vox
direttrice del coenobium vocale
Quando vent’anni fa mi proposero di assumere la direzione di un coro maschile, non sapevo in
realtà quello che mi attendeva. Ma il cuore prevalse sulla ragione e così nacque un’avventura che
oggi si chiama Coenobium Vocale. A quel tempo in realtà era un gruppo con un consolidato
percorso nel genere popolare, ma con il desiderio di cambiare e rimettersi in gioco. Feci leva allora
sulla voglia di fare musica, sull’orgoglio di rimanere gruppo maschile, sul coraggio di intraprendere
un cammino nuovo e sulla volontà di lavorare con lo strumento musicale più bello che madre
natura ci ha dato per fare musica: la voce. Una scelta culturale, insomma, che presuppose tuttavia
un iniziale atto di fede da parte di tutti. Un anno di clausura, di studio e lavoro, senza concerti,
mise a prova la determinazione di ognuno, ma rinsaldò nel contempo le motivazioni dei cantori e il
gruppo che ne uscì iniziò una progressiva evoluzione. Tuttavia, se questi sono stati i nostri
ingredienti di formazione, una ricetta “standard” non esiste. La strategia va studiata con le risorse
umane e vocali che ci sono, o meglio che si pensa o si spera di poter costruire.
Ma alla base del coro maschile, non sempre ci fu unicamente una ragione di ordine culturale.
La storia ci insegna che, nei secoli, la musica vocale maschile fu spesso legata ad altre funzioni
che ne erano al tempo stesso ragione e origine. Le prime comunità cristiane cantavano per
pregare: il rito era accompagnato dal canto ed era a esso funzionale. Tutta la letteratura
gregoriana nasce e si sviluppa in funzione del rito liturgico. Anche le scholae, fin da quando
furono istituite con il Concilio di Laodicea, nel quarto secolo dopo Cristo, si sviluppano con la
precisa funzione di pregare e accompagnare la liturgia. Le cappelle musicali, formate da chierici
e cantori professionisti, che raggiunsero l’apice nel corso del Quattrocento e Cinquecento,
assommarono alla funzione musicale ecclesiastica anche quella di corte. I Glee Club inglesi della
prima metà dell’Ottocento erano sostenuti da una funzione sociale e aggregativa che alimentava
la pratica musicale.
dossIER
Carleton College Glee Club
Le botteghe dei barbieri americani dell’Ottocento funsero da
sala prove di piccoli ensemble vocali e assistettero alla
nascita di un genere musicale che da essi prese il nome
appunto di barbershop. Qui, gli uomini, nell’attesa del proprio
turno, cantavano in spontanei quartetti. Le stesse assemblee
delle nostre chiese funsero per molti secoli da scuola di canto
corale, prima di divenire un aggregato di muti spettatori,
quali, purtroppo, oggi sono.
Per diversi motivi, tuttavia, queste realtà del passato hanno
perso gradualmente la loro ragione di essere e il coro
maschile è divenuto essenzialmente una scelta culturale e
musicale che, proprio perché non assistita da altre e diverse
motivazioni, va intrapresa e sostenuta con coraggio. Unica
eccezione rimane ancora, forse, il coro maschile popolare
dove lo spirito di appartenenza a un corpo militare o la
passione comune per la montagna possono a volte favorire
l’aggregazione di un gruppo vocale maschile, al di là della
dimensione musicale intesa in senso stretto.
La storia
«La storia è un grande presente, e mai solamente un
passato» (Alain, 1945)
Tralasciando la storia orientale e la vicenda del teatro greco
antico, dove per altro appare oramai certo che la funzione
corale fosse svolta prevalentemente da uomini, la voce
maschile ha segnato sin dagli albori la storia della musica
vocale sacra occidentale e, per lunghi secoli, ne è rimasta
l’indiscussa protagonista. Nel Medioevo cristiano il coro
assume via via un ruolo sempre più definito, perdendo
progressivamente la funzione coreutica ereditata dal mondo
classico e acquisendo sempre maggiori contenuti musicali.
Chorus diviene così anche termine con cui si indica un luogo
fisico delle basiliche e chiese paleocristiane, a dimostrazione
3
del carattere statico acquisito progressivamente nel tempo.
Ma già con le prime scholae, composte prevalentemente da
chierici e pueri, si avverte la necessità, imposta dalle
crescenti esigenze artistiche e virtuosistiche, di conferire al
coro un ruolo quasi istituzionale. Era richiesta ai cantori infatti
una sempre maggior consapevolezza e abilità, tanto che
progressivamente si fece strada l’esigenza di vere e proprie
figure professionali. Il Medioevo ci ha restituito monodie e
polifonie di grandissima difficoltà esecutiva che non potevano
essere eseguite se non da cantori dediti prevalentemente o
esclusivamente al canto. Il predominio del coro maschile
permane anche nella grande stagione della polifonia e della
policoralità sacra, nella quale, fin dagli esordi, ha assunto un
compito primario, anche sotto il profilo squisitamente formale
ed espressivo. Le voci maschili erano in grado infatti di
garantire quell’uniformità timbrica e sonora che la
commistione con strumenti a fiato, introdotta con la pratica
dei cori spezzati, richiedeva.
Matteo Pagan, Processione del Doge in Piazza San Marco (Venezia,
Museo Correr) da Sine Musica nulla disciplina... Studi in onore di Giulio
Cattin, a cura di F. Bernabei e A. Lovato, Il poligrafo, Padova 2006
A Parigi, la Sainte-Chapelle du Palais, di cui abbiamo
menzione a partire già dal 1299, fu il fulcro dell’attività
musicale e soprattutto corale. Fedele allo stile a cappella sino
alla fine del sec. XVII, ancora nel 1619 constava di sei
ecclesiastici, quindici cantori, un gruppo di fanciulli e un
suonatore di cornetto, tutti rigorosamente maschi. Come pure
maschi erano gli ottantotto cantori (10 soprani, 24
controtenori, 20 tenori, 23 baritoni e 11 bassi) che nel 1712
componevano la Chapelle Royale attiva alla corte di Luigi XIV.
Nella Roma di Palestrina erano attive varie cappelle in genere
costituite da chierici adulti (tenori e bassi) e da pueri, a
eccezione della Cappella Pontificia che, fin dal 1473, anno in
cui fu istituita da Sisto IV, era composta unicamente da un
gruppo di cantori adulti selezionati in tutt’Europa. Proprio
perché composta di professionisti e priva di bambini, era
4
l’unica a non avere un maestro di cappella. Ma il genere
maschile prevalse in realtà nella pratica liturgica anche
successivamente, nell’Ottocento e Novecento. Lo conferma
anche la stessa tradizione delle scholae cantorum dei nostri
paesi, di cui abbiamo innumerevoli testimonianze nella
memoria dei nostri padri e negli archivi parrocchiali.
e Milhaud, le arditezze di Schönberg e i linguaggi personali di
compositori contemporanei, quali Arvo Pärt, Morten
Lauridsen, Vic Nees, Vytautas Mis̆kinis, Giovanni Bonato e
altri ancora.
Le voci maschili
«…come il pianista ha bisogno di uno strumento ben fatto e
ben accordato, che suoni bene, per esprimersi artisticamente,
così il direttore di coro ha bisogno innanzitutto di uno
strumento corale che produca un bel suono» (Fosco Corti)
Schola Cantorum maschile del 1906
Il repertorio profano a voci maschili affonda anch’esso le
origini nei secoli antichi. Anche se in origine probabilmente
concepito per voci solistiche, possiamo annoverare una vasta
produzione di composizioni per organici maschili. Dalle
monodie di trovatori e trovieri del XII secolo, ai rondeaux di
Adam de la Halle, ai Lieder di Wizlau von Rügen del XIII, fino
alle ballate di Guillaume di Machault e Francesco
Landini o ai madrigali di Jacopo da Bologna, la voce del
Medioevo parla, anzi canta, spesso al maschile. Nel
Quattrocento la produzione s’infittisce con chansons e
Lieder (Isaac, Desprez), frottole e madrigali (Arcadelt,
Willaert, Cara). Qualcuno, in tempi recenti, si è persino
cimentato nell’impresa di dimostrare che anche l’intera
produzione dei madrigali di Claudio Monteverdi, in
realtà, può essere eseguita da un organico di sole voci
virili.
Dall’ormai assodata frequentazione mozartiana della
massoneria, organizzazione storicamente preclusa al sesso
femminile, nascono le composizioni del grande salisburghese
per coro virile, organico che viene riproposto pure nella
cantata Die Maurerfreude (K. 417), dove compare un
linguaggio di evidenti richiami all’ideologia massonica.
Nel periodo romantico il coro maschile assume un peso
rilevante anche nel repertorio profano. Schumann, Brahms,
Liszt, Sibelius e Grieg, ma soprattutto Schubert e
Mendelssohn vi dedicano importanti raccolte. Il ’900 ci
consegna le armonie di Bartók e Kodály, l’eleganza di Poulenc
La suddivisione classica del coro maschile si articola in due
sezioni di tenori, primi e secondi, baritoni e bassi, dal
momento che la gran parte della letteratura, specie di quella
romantica e moderna, fa riferimento a questa suddivisione
(ttbb). Il termine tenore sembra orami assodato derivi dal
latino tenère poiché agli albori della polifonia a esso veniva
affidato il cantus firmus, liturgico o profano, attorno al quale
si muovevano le altre parti; la parola baritono è data invece
dalla fusione di una doppia etimologia greca: barìs (grave) e
tonòs. In tempi precedenti, tuttavia, erano in uso anche altre
indicazioni, specie per le sezioni acute: cantus e altus, in
genere affidate a voci bianche di ragazzi o a contraltisti. La
preposizione latina contra sta a indicare in origine una linea
deputata a fare armonia con un’altra. Per tale ragione quella
del contralto era considerata la voce che meglio contrastava,
fondendosi con la voce di alto, mentre contratenor viene
usato in riferimento al tenor. In Francia, agli inizi della
polifonia medioevale, la voce maschile prendeva a volte il
nome di taille; si avevano quindi i termini indicativi di
haute-taille, moyenne-taille, basse taille.
Nella musica barocca francese ritroviamo anche l’haute-contre
che definisce una voce caratterizzata da un’estensione verso
La voce maschile richiede
una particolare tenacia
nel lavoro tecnico.
l’alto non molto maggiore di quella di una taille; non arrivava
in genere oltre il si3/do4 e si caratterizzava per un colore
chiaro ma intenso.
La cifra che contraddistingue il coro maschile è il colore delle
voci. Specie quando è il risultato di un serio percorso di
studio vocale e di crescita tecnica, il suono maschile affascina
e contagia in modo “incurabile” ed è capace di toccare le
corde dell’animo. Emoziona e commuove, specie quando si
somma a una rigorosa compostezza. Gli armonici sovrapposti
ai suoni fondamentali, che le voci maschili sanno creare, non
hanno pari, per ricchezza, profondità e brillantezza al tempo
dossIER
stesso. Nella dimensione amatoriale, spesso ci si trova di
fronte a qualità vocali innate, ma a volte ad altrettanta scarsa
consapevolezza dei propri mezzi. Per raggiungere risultati
apprezzabili occorre determinazione e voglia di provare. È
questo il caso in cui un direttore deve fare appello a tutta la
sua caparbia perseveranza e, soprattutto, alla voglia di non
cedere mai ai compromessi tecnici. In questo le donne sono in
genere caratterialmente più determinate e reggono con
maggiore successo un lavoro tecnico vocale che non sempre
può dare risultati immediati. Analoghi caratteri convivono
frequentemente nelle sezioni dei cori misti.
Anche sul piano psicologico i gruppi maschili offrono tratti
distintivi peculiari. L’indole maschile, in genere, piace per
l’immediatezza dei rapporti, per la generosità e per la capacità
di limitare, all’interno del gruppo, le problematiche personali.
L’empatia nasce con una certa facilità e le tensioni si
stemperano, grazie a un certo spirito di adattamento. Questi
sono sicuramente elementi di forza che orientano
positivamente le dinamiche interne del gruppo e aiutano a
costruire la squadra. Se però, da un lato, questo carattere di
spontaneità favorisce la convivenza, dall’altro può diventare un
limite, favorendo a volte un atteggiamento poco reattivo, della
serie «accontentiamoci e prendiamo quel che
viene». Ovviamente non è opportuno
generalizzare, ogni caso è una storia a sé.
Tutto questo per dire che per ottenere dei
risultati, la voce maschile, soprattutto nel
coro amatoriale, richiede una particolare
tenacia nel lavoro tecnico, una vigile e
costante attenzione da parte del direttore e
instancabili richiami a una continua
attenzione e precisione, sia nell’articolazione verbale e
testuale, sia nell’intonazione del singolo, che del gruppo. Non
a caso molti direttori che si dedicano al canto gregoriano
preferiscono impegnarsi con le voci femminili, maggiormente
inclini alla precisione, alla pronuncia e alla cura dei particolari.
Uno dei problemi storici per i cori, particolarmente per quelli
maschili, rimane la ricerca delle voci. Specie se giovani, non
abbondano infatti nei nostri cori, diversamente da altri paesi
europei che possono vantare numerosi gruppi giovanili. I cori
di voci bianche italiani sono costituiti prevalentemente da
bambine; nelle scuole e nelle chiese si canta raramente e il
repertorio lascia spesso a desiderare. Oltretutto sembra che
la vita media delle voci bianche si stia accorciando, a causa
degli effetti di alcune sostanze chimiche largamente diffuse in
giocattoli e contenitori per alimenti, gli ftalati, che inducono
un anticipo della pubertà. Il ricambio generazionale è quindi
un problema sempre aperto, ma purtroppo senza soluzioni
immediate. In Italia non abbondano i cori giovanili, che sono il
naturale anello di collegamento con l’esperienza corale adulta,
anche se recentemente si sono sviluppate esperienze
significative. Specialmente chi è riuscito a coniugare in modo
continuativo l’attività con le istituzioni scolastiche, sia di
ordine pubblico che privato, ha costruito, nel tempo, realtà
corali giovanili oggi di successo.
5
I maestri e i modelli
«Il canto è un riflesso della bellezza» (Fosco Corti)
Nei miei anni di studio, in conservatorio, ho avuto la fortuna
di avere come insegnanti due grandi maestri: l’organista
Renzo Buja e il compositore Antonio Zanon. Entrambi mi
hanno guidato con passione e dedizione nel percorso di studi
aiutandomi a esplorare repertori diversi, con l’umiltà, la
profonda competenza e la gioia dei grandi. Molto attenta era
la loro scelta dei brani da studiare, da analizzare e da
eseguire. Grande scuola! Ma se dovessi riassumere in un
termine l’essenza dei criteri per guidare la ricerca di un
repertorio sceglierei la bellezza. Nel bello si attinge il
nutrimento per crescere.
Mario Fulgoni diresse fino alla fine degli anni Novanta il Coro
Città di Parma, una delle realtà più belle della coralità
italiana. Di quella felice stagione conservo un lavoro
straordinario, realizzato dalla sezione maschile: 6 Lieder für
Männerstimme und Gitarre, sei perle di Franz Schubert
raccolte in un cd, oramai introvabile, registrato con il
chitarrista Claudio Piastra. Si tratta di un esempio sublime di
raffinatezza e straordinarie qualità interpretative e vocali.
Il coro maschile
è divenuto essenzialmente
una scelta culturale e musicale.
Dopo avere ascoltato una così alta interpretazione, ci si
chiede quale possa essere il percorso da intraprendere per
accostarsi con simili risultati a questo repertorio, solo
apparentemente semplice e fresco “dal ritmo ricorrente,
liberamente mosso dalla parola e dalla preziosa e raffinata
distribuzione della dinamica”, come scrive Anna Sorrento,
curatrice del libretto introduttivo al cd.
Schubert
nell’iconografia
del tardo Ottocento
(litografia di
C. Deblois, 1867)
da B. Paumgartner,
Schubert,
Mondadori,
Milano 1981.
6
Per approfondire
AA. VV., Dizionario Enciclopedico Universale della Musica
e dei Musicisti, vol. I, UTET, Torino 1983
C. Gallico, Storia della Musica, L’età dell’Umanesimo e del
Rinascimento, vol. III, E.D.T., Torino 1978
G. Acciai, Palestrina e il suo tempo. Rinascimento romano,
in «Amadeus», anno VII, n. 4, p. 30, De Agostini Rizzoli, Novara 1995
L. Garbini, Breve storia della musica sacra, Il Saggiatore,
Milano 2005
W. Apel, Il canto gregoriano, Libreria Musicale Italiana,
Lucca 1998
G. Cattin, Storia della Musica, Il Medioevo, vol. I (parte
seconda), E.D.T., Torino 1979
F. Corti, Il respiro è già canto. Appunti di direzione corale,
Feniarco Edizioni Musicali, San Vito al Tagliamento
2006 (revisione a cura di Dario Tabbia)
Indissolubilmente legato per lunghi anni alle vicende editoriali
de La Cartellina, che per me rappresenta ancor oggi un
costante riferimento, Giovanni Acciai ha segnato fin dai primi
passi il mio cammino nel mondo corale. Grazie anche al suo
lavoro di ricerca sono riemerse dal passato preziose pagine di
polifonia per voci pari, altrimenti destinate forse a rimanere
nascoste negli scaffali di qualche polveroso archivio. La
musica, da lui restituitaci con attente trascrizioni, ha arricchito
i repertori di tanti cori italiani.
Figlio della generosa terra veneta, che ha nutrito molti
compositori e direttori anche della coralità popolare,
Piergiorgio Righele, padre dei Cantori di Santomio, è stato
antesignano, modello ed esempio per tutti. Convinto del fatto
che la solida impostazione di un coro dipenda anche dal
valore della parola cantata, ci ha avvicinati al canto
gregoriano e al coro maschile, con esperienze da lui originate
e poi felicemente maturate. Lo testimoniano anche gli amici
dell’Officium Consort che hanno poi saputo rielaborare in un
originale percorso le prime esperienze con lui realizzate.
Di Fosco Corti, che purtroppo non ho avuto l’onore di
conoscere, ammiro la lucida esperienza che traspare in tutta la
sua forza, anche a distanza di decenni dalla sua prematura
scomparsa, negli scritti che ci ha lasciato. Negli anni Settanta,
sosteneva che un bel coro è fatto di belle voci soliste, frase
solo in apparenza paradossale. Con l’esperienza ci si convince
che non c’è una voce uguale all’altra; che ciascun cantore,
avendo caratteristiche proprie, ha bisogno, soprattutto
all’inizio, di un lavoro didattico finalizzato alle esigenze vere e
concrete della voce; che il progresso e la maturazione di ogni
voce ha il suo ritmo, le sue scadenze in ragione dell’età, della
maturazione fisica e psichica di ciascun individuo. Da lui ho
A. Sorrento, Franz Schubert e le origini del coro maschile
nell’800, in cd Schubert Gitarrewerke, 6 Lieder für
Männerstimme und Gitarre, Accademia Farnese, Coro
Città di Parma, Claudio Piastra, Mario Fulgoni
H. Szabó, Improvvisazione vocale nella scuola. IV Canone,
imitazione e fuga, in «La Cartellina», anno XV, n. 71,
p. 3, Suvini Zerboni, Milano 1991
A. Zecchi, Il coro nella storia, Bongiovanni, Bologna 1968
capito l’importanza di scegliere in modo attento il repertorio
per le proprie voci, proponendo brani adatti alle possibilità
vocali, un aspetto a volte sottovalutato che può comportare
errori sia per eccesso, che per difetto.
Il repertorio
«Chi non cerca non trova» (Arthur Bloch)
La scelta del repertorio, che presuppone una formazione
specifica del direttore, continua a essere determinante: una
strategia di lavoro, una grande occasione di crescita, a
prescindere da epoche o generi. Non ho personalmente mai
condiviso, in questo senso, l’artificiosa divisione tra repertorio
popolare e il cosiddetto repertorio “dotto”. Al contrario sono
profondamente convinta che nell’approccio alla letteratura
corale non vi debba essere alcun atteggiamento preconcetto.
Si tratta solo di saper scegliere la musica di valore. La
semplicità non significa banalità. Grandi compositori hanno
dedicato attenzione ai temi della tradizione popolare: Grieg,
Kodály e Bartók, Britten solo per citarne alcuni. Lo stesso
Arturo Benedetti Michelangeli ha dedicato memorabili
composizioni al Coro della S.A.T. di Trento. Esiste una
sconfinata letteratura di composizioni, elaborazioni e
armonizzazioni di nostri eccellenti autori, che qui non sarà
affrontata perché oggetto di approfondimento in uno spazio
specifico di questo numero di Choraliter.
Come detto in precedenza nel breve excursus storico, se
l’organico dispone di controtenori o sopranisti, in realtà la
musica antica è in gran parte eseguibile da un gruppo
maschile. Dare precise indicazioni in ordine al repertorio
dossIER
diventa quindi quasi superfluo. È opportuno tuttavia dedicare
qualche cenno alle varie scuole: a quella fiamminga in
particolare, con Guillaume Dufay, Jacob Obrecht, Cipriano De
Rore, Johannes Ockeghem, Antoine Brumel e il genio di
Josquin Desprez che con la sua musica sacra arriva a un
punto d’intensità espressiva mai raggiunto, conferendo alla
potenza del linguaggio una dimensione universale. Sia il
mondo della Riforma che quello della Controriforma cercano
di venire incontro al problema dell’intelligibilità del testo
sacro, oltre che alla necessità di possedere un repertorio per
tutte le esigenze derivanti dalla liturgia e dalla devozione.
Nella liturgia della messa, sia per l’ordinarium sia per il
proprium, trova spazio, accanto alla monodia, il trattamento
policorale delle voci, con o senza la presenza del continuo.
A questo periodo appartengono i grandi lavori di Thomas Luis
de Victoria e Giovanni Pierluigi da Palestrina che, indiscusso
protagonista della polifonia cinquecentesca, per primo seppe
tradurre in musica i dettami della Controriforma.
Importanti esempi di questo movimento sono pure la Missa
Regina coeli di Jacobus de Kerle, composta conformemente ai
canoni del Concilio di Trento (1545-1563) e le numerose messe
di Giovanni Matteo Asola a quattro e cinque voci.
La Scuola Veneziana del XVI secolo offre ampia possibilità
nella scelta del repertorio vocale a cappella o accompagnato,
anche per organici vocali maschili. Si può attingere alle
vastissime produzioni policorali, composte per la Cappella
Marciana, di Adrian Willaert, Giovanni Croce, Andrea e
Giovanni Gabrieli, per arrivare al grande innovatore, Claudio
Monteverdi con la sua forza rivoluzionaria, paragonabile a
quella di Caravaggio nella pittura. Anche Jacobus Gallus,
grande polifonista sloveno, si è ispirato all’organico corale
maschile scrivendo mottetti a quattro voci e interessanti
doppi cori per i vari tempi dell’anno liturgico.
La grande polifonia del Cinquecento offre, per altro, ampie
possibilità di scelta nella prolifica produzione di
Orlando di Lasso, di Luca Marenzio e, oltre
Manica, in quella altrettanto copiosa della scuola
inglese di Taverner, Tallis e Byrd.
Composizioni di notevole interesse, caratterizzate
da tessiture più contenute, sono invece la
Passione secondo Giovanni di Francesco
Corteccia, le Lamentationes Hieremiae di Marco
Antonio Ingegneri, le Lamentationes et
responsoria di Lodovico da Viadana, i
Responsoria della Settimana Santa di Thomas Luis de
Victoria, la Passio Domini Nostri Jesu Christi secundum
Iohannem di Jacobus Gallus.
Venendo invece a tempi più recenti, a titolo esemplificativo
possiamo citare qualche nome, ma precisando che si tratta di
una minima parte del repertorio disponibile: Ave coeli munus
supernum di J.B. Lully; Magnificat a tre voci, Salve puerule e
Salve Regina di M.A. Charpentier; Tantum ergo, Messa per
coro, soli e orchestra di G. Rossini; Lieder per coro maschile a
cappella o con accompagnamento di pianoforte di Franz
Schubert; Rhapsodie per contralto, coro maschile e orchestra
7
Innario e raccolta di Magnificat, composto da Costanzo Festa e
compilati sotto Paolo III (da Liturgia in figura, Biblioteca Apostolica
Vaticana, De Luca, 1995).
La voce maschile ha segnato
la storia della musica
vocale sacra occidentale.
e Lieder per coro maschile a cappella o con
accompagnamento di pianoforte di J. Brahms; Vespergesang
(Adspice Domine), Beati mortui e Periti autem, op. 115,
Quattro lieder op. 120, Wandersmann op. 76 e varie
composizioni sacre e profane a cappella e con
accompagnamento di F. Mendelsshon; Missa quattuor vocum,
Requiem e numerose composizioni sacre e profane di F. Liszt;
Jagdlied op. 137, Sechs lieder op. 33, Drei Gesänge op. 62 e
Verzweifle nicht im Schmerzenstal op. 93 di R. Schumann;
Inveni David per coro maschile e 4 tromboni di A. Bruckner;
Album per voci maschili, op. 30 di E. Grieg; Canti di Székely,
Canti popolari slovacchi e 4 canzoni popolari ungheresi di B.
8
Cantare fa bene… anche alla carriera
«…Un rapido sguardo sulle vite dei compositori dal XV al XVIII secolo ci svelerà
subito che i maggiori compositori cominciarono dalle scuole corali o dai cori di
chiesa. Per essi il canto costituì l’esperienza musicale primaria, e la loro confidenza
con esso è abbondantemente testimoniata dai capolavori inestimabili che scrissero
per il coro.
Dufay entrò nel coro della cattedrale di Cambrai all’età di 9 anni nel 1409. Ockeghem
cantò per anni nel coro della cattedrale di Anversa. Josquin des Prés fu prima un
ragazzo cantore nella cattedrale di San Quintino, e poi prestò il suo servizio per
lunghi anni presso la corte di Milano e nel coro papale a Roma. Fu nominato maestro
del coro della cattedrale di Cambrai all’età di 45 anni. I biografi sottolineano che
Marenzio (…), ebbe la sua prima indelebile esperienza musicale come ragazzo cantore
presso la cattedrale di Brescia. Il giovane Monteverdi fu iniziato ai segreti della
musica violinistica, del canto e della composizione da Ingegneri, il celebre maestro di
cappella della cattedrale di Cremona. Anche Palestrina fu un ragazzo cantore: dai 12
ai 17 anni d’età cantò nel coro di Santa Maria Maggiore a Roma. Lasso fu per molti
anni un corista nella chiesa di San Michele a Mons, sua città natale. Purcell aveva 10
anni quando fu ammesso alla cappella reale che comprendeva soltanto 12 ragazzi.
Schütz acquisì la sua prima esperienza musicale nel coro della chiesa di Weissenfels.
Aveva 11 anni quando Moritz, il Marchese di Kassel, si accorse di come cantasse
splendidamente e lo invitò a entrare nel coro di corte. J.S. Bach, anche se
profondamente intriso di musica nella casa paterna, deve aver ricevuto un’influenza
decisiva dai due anni e mezzo che trascorse nel coro della Scuola di S. Michele a
Lüneburg. (…)
Del giovane Haydn sappiamo che cantò presso la Cattedrale di Santo Stefano a
Vienna a partire dall’età di 8 anni sotto il maestro di cappella Reutter. Schubert
entrò nel coro reale di Vienna all’età di 11 anni.
All’epoca dei suoi primi successi come pianista, l’undicenne Mendelssohn fu
ammesso alla classe di canto dell’Accademia di Berlino, che diffondeva le opere di
Palestrina e Mozart. Anche Wagner fu un ragazzo cantore nel Leipziger Thomaner
Chor. (…) Ludwig Senfl, Jacobus Gallus, Franz Schubert, Carl Zeller, Franz Joseph
Haydn, e grandi direttori come Felix Mottle, Karl Richter, Clemens Krauss e Lovro
von Matac̆ić furono ragazzi cantori a Vienna, nei Wiener Sängerknaben.»
Pueri cantores
Da Riflessioni introduttive sull’insegnamento del canto di Helga Szabò,
«La Cartellina» n. 71, 1991 (traduzione italiana di Piervito Malusà)
Bartók; Stabat Mater, Canticum nuptiale, Canti di soldati e altri canti popolari di Z. Kodály;
Quatre petites prières de Saint François d’Assise e Laudes de Saint Antoine de Padoue, Chanson
à boire di F. Poulenc; Saltarelle op. 73 e Serenade d’Hiver di C. Saint-Saëns; Psaume 121 di
D. Milhaud; Messa da Requiem per 3 voci maschili e organo, Messa Cerviana per 3 voci
maschili e organo e mottetti per coro maschile di L. Perosi; Secs Stücke für Männerchor di
A. Schönberg; The Ballad of Little Musgrave and Lady Barnard di B. Britten; Coro di morti per
coro, tre pianoforti, ottoni, contrabbassi e percussioni di G. Petrassi; De profundis, per coro
maschile, organo e percussioni di A. Pärt; Cuatro cantos penitenciales e Tu venìas di J. Busto;
Crux fidelis, O lilium convallium e Stetit angelus di G. Bonato; O magnum mysterium e Ave
dulcissima Maria di M. Lauridsen.
dossIER
9
La coralità virile di ispirazione orale italiana
di Paolo Bon
compositore
Introduzione
Sull’argomento sub titulo sono stati pubblicati svariati
interventi nelle pagine di questa rivista1.
Con taluni di essi dissento su qualche punto e ritengo
opportuno parlarne subito.
Dissento sull’uso del termine popolare, che dà per
scontata una tesi secondo la quale la musica orale è
appannaggio del popolo (il ceto contadino nella concezione
ottocentesca2, le classi subalterne in quella
dell’etnomusicologia dominante del Novecento). Poiché alla
concezione sociologica si oppone la più moderna teoria
dell’arcaico, ritengo che all’aggettivo popolare vada
sostituito l’aggettivo orale, che è assolutamente neutro e
assumibile in entrambe le concezioni: che la si consideri
musica delle classi subalterne o musica arcaica, si tratta in
ogni caso di musica orale.
Dissento sulla conclamata semplicità, genuinità,
immediatezza comunicativa della musica orale. Se non ci si
limita a una lettura in superficie di questa
musica (come nel triste fenomeno del Folk
Revival), ma la si legge in profondità, si
scoprono significazioni ricchissime ed
estremamente complesse, tutte suscettibili di
essere portate alla luce ed esaltate nel
processo compositivo (ma già l’avevano
scoperto Bartók e Kodály e, prima di loro, Josquin Desprez
e tanti suoi contemporanei).
Dissento sull’uso del termine armonizzazione come se
questa fosse l’unica possibilità di intervento sulla tematica
orale. Il già citato Josquin non faceva certo delle
armonizzazioni quando usava il tema de L’homme armé
come tenor per innervare l’articolazione contrappuntistica
della Messa omonima. L’armonizzazione (procedimento per
blocchi accordali con la melodia all’acuto) è solo uno dei
tanti procedimenti fruibili nell’intervento.
Dissento sul punto che le forme orali siano espressione di
un popolo, questa volta inteso come natio, etnia o Koinè
linguistica, poiché gli archetipi che ne stanno alla base
appartengono all’intera umanità.
Dissento – ma non è un’opinione – sull’ascrizione all’area
slava dell’Ungheria di Bartók e Kodály: l’Ungheria e la
Transilvania (regione quest’ultima, di lingua magiara come
l’Ungheria ma politicamente annessa alla Romania)
appartengono all’area ugro-finnica, della quale fanno
altresì parte i paesi scandinavi, e le due aree (ugro-finnica
e slava) non scambiano minimamente fra di loro.
In definitiva dissento da tutto ciò che è approssimazione e
luogo comune, quando non errore manifesto.
Una premessa necessaria: il popolare
come declinazione dell’arcaico
La nostra diffusa incapacità di capire la musica orale e la
poesia orale che prevalentemente l’accompagna3 nasce con
l’avvento al potere della borghesia, dopo la Rivoluzione
Francese. È in questo momento che all’artista figlio delle
classi subalterne, al servizio del principe (modernamente lo
chiameremmo un salariato), si sostituisce l’artista figlio
della classe al potere, che vende in proprio il suo prodotto
e se non ci riesce va a fare il bohémien in qualche sordida
soffitta: modernamente chiameremmo il nuovo artista un
imprenditore e bohémien un imprenditore fallito. È in
questo momento, cioè, che cambiano insieme lo status
sociale dell’artista (da figlio della classe subalterna a figlio
della classe dominante) e il suo status giuridico (da
salariato a imprenditore), e mentre nel milieu
d’appartenenza del primo artista circolava soprattutto
cultura orale, al secondo tale cultura è generalmente
La campagna è solo il fidato
custode dell’arcaico.
estranea (al massimo è la fantesca a fornire al giovin
signore qualche sbiadito frammento di essa). Ciò spiega:
• che il musicista dal Quattrocento a Bach non faccia che
trasporre l’esperienza culturale orale (sua prima
cultura) nella sua esperienza scritta4, mentre il
romantico vi ricorre quasi esclusivamente a scopi
coloristici (La bella Annina nel Capriccio Italiano);
• che il musicista romantico prenda a prestito da
Immanuel Kant la teoria del genio creatore per
giustificare il proprio essere artista (e anzi la propria
onnipotenza): non essendoci più un materiale dato da
elaborare (quello orale), l’artista crea la sua opera dal
nulla, l’artista è Dio;
• che non capendo più (e anzi non conoscendo) la cultura
orale Ambrose Merton5 conii il vocabolo folklore nel
18466, interpretando le forme orali come espressioni
tipiche del ceto contadino. L’etnomusicologia dominante
in Italia nel corso del Novecento7 muove dal concetto
mertoniano di folklore e lo estende dal ceto contadino
alle classi subalterne in generale (la contadina e
l’operaia), reinterpretandolo marxisticamente come
conflittuale rispetto alla produzione colta, cioè come
espressione della lotta di classe.
10
Note
1. Luca Bonavia nel n. 13/2004; Mario
Marelli nel n. 14/2004; Renato Miani e
Alessandro Cadario nel n. 20/2006 (lo
stesso numero contiene un’intervista a
Giovanna Marini e un’altra a Bepi De
Marzi); Pier Paolo Scattolin nel n. 33/2010;
Sergio Bianchi nel n. 31/2010.
2. Dura a morire: v. l’intervista a Giovanna
Marini, cit., nel n. 20/2006.
3. Esiste musica orale puramente
strumentale, come la musica a danza
(si pensi a una tarantella) ed esiste
letteratura orale che prescinde dalla
musica, come le fiabe.
4. Solo per fare un esempio, circa una
trentina di Messe furono composte nel
’500 sul tema orale de l’homme armé.
5. Pseudonimo di James William Thoms.
6. Per un saggio pubblicato nella rivista
londinese Atheneum.
7. Edward Neill, Diego Carpitella, Roberto
Leydi, Bruno Pianta e altri.
8. Carl Gustav Jung chiama inconscio
collettivo ciò che io chiamo l’arcaico.
9. V. amplius: P. Bon, La Musica, l’Arcaico,
l’Effimero, ne «La Cartellina», Suvini
Zerboni, Milano, da n. 82, 1992 a n. 117,
1998; idem, La Teoria Evolutiva del
Diatonismo e le sue applicazioni, Giardini,
Pisa, 1995; idem, Poetica e tecnica
dell’intervento espressivo nelle fonti orali,
ne «La Cartellina», Ed. Mus. Europee,
Milano, n. 154-155-156, 2004 e 158, 2005;
idem, ibidem, L’esperienza orale nell’arte
musicale scritta, n. 162, 2005; idem,
ibidem, L’arcaico e la falsa oralità, n. 182,
2009; L. Bonavia, ibidem, La dimensione
arcaica delle fonti orali, n. 163-164, 2006;
idem, ibidem, Giganti di Pietra o vascelli
d’arcaico? Il caso del canto di tradizione
orale in lingua walser, n. 170-171, 2007;
idem, ibidem, Il cammino degli archaiòi
tìpoi verso la sala da concerto: spunti e
idee per una «Coralità dell’Arcaico»; n.
174-176-177, 2008; idem, ibidem, Coralità
dell’Arcaico: lungo le rotte di un cosmico
vagare, n. 184 e 186, 2009; idem, ibidem,
L’applicazione della maieutica Kodáliana
alla didattica corale. Punti di contatto e
sinergie con una «Coralità dell’Arcaico», n.
189, 2010.
10. Secondo altre versioni nel fuoco.
11. È il pasto totemico, che ha funzione
rituale e non alimentare.
Il musicista preromantico sapeva che la sua prima cultura (orale)
rappresentava l’arkè? E che mettendosi a servizio della cappella sacra o di
quella profana faceva filtrare l’arkè nella seconda cultura (scritta)?
Non credo che a questo livello di coscienza egli attingesse e credo anzi che
non sia possibile raggiungerlo senza l’apporto della ben più tarda psicoanalisi
freudiana e soprattutto junghiana8.
Ma pure così è: le espressioni musicali e letterarie orali sono forme arcaiche9,
e se è più facile rinvenirle nel contado piuttosto che nel tessuto urbano è
perché la campagna conserva meglio della città, bombardata com’è,
quest’ultima, da stimoli e contaminazioni culturali d’ogni estrazione e d’ogni
genere. In sostanza, la campagna funziona da frigorifero: il contadino toscano
dice mutolo come il Boccaccio, si messe a correre come il Collodi, riponere
(per riporre) come nel latino classico, usa però nel senso di perciò
(conformemente all’etimo per hoc); il contadino veneto dice comodi? (latino
quo modo), pulito per dire bene (latino polite), termen per pietra di confine
(esattamente come in latino); l’uno e l’altro, cioè, usano termini ad accezioni
che un tempo appartenevano all’intera koinè, urbana e contadina, e che la
città ha semplicemente obliato, così come ha obliato moduli melodici,
polifonici e letterari orali che la campagna invece conserva. Non li produce –
si badi – ma
semplicemente li
conserva: la
campagna è solo il
fidato custode
dell’arcaico.
Definisco l’arcaico
come il luogo delle
istanze ancestrali
dell’umanità, in parte ontogenetiche (cioè appartenenti specificamente
all’umanità) e in parte prevalente filogenetiche (che l’uomo, cioè, ha
semplicemente ereditato da predecessori non umani, poiché l’evoluzione non
conosce strappi).
Sul piano letterario considererò tre esempi.
Nella mitologia orale greca Teti, madre d’Achille, immerge il neonato nello
Stige10 per renderlo invulnerabile; ma in ciò fare lo regge per il tallone, che
non viene lambito dalle acque, e Paride profitterà di ciò per colpirlo in quel
punto con la saetta fatale.
Nella Canzone dei Nibelungi, la cui stesura è del XII secolo, ma la cui origine
si perde nelle nebbie dell’arcaico, Sigfrido uccide il drago, indi asperge il
proprio corpo col sangue d’esso, rendendosi invulnerabile. Ma in ciò fare non
s’avvede che una foglia staccatasi da un albero gli si è posata su una spalla e
in quel punto il sangue del drago non viene spalmato: di ciò approfitterà un
traditore per conficcargli la lancia letale.
È lo stesso archetipo, colto in due aree culturali lontanissime fra loro e
apparentemente non comunicanti. Ma l’arcaico, che è patrimonio di
un’indistinta umanità, non tiene alcun conto delle distinte sfere linguistiche.
In questo esempio abbiamo colto l’aspetto ontogenico dell’arcaico.
Spingiamoci oltre.
La femmina della mantide religiosa, dopo l’accoppiamento, uccide e divora il
maschio. Perché lo divora? Perché ciò facendo ritiene di impossessarsi delle
sue forze: esattamente come i cannibali umani coi corpi dei nemici uccisi.11
Ma perché lo uccide? Perché sa che, non facendolo, il maschio si
accoppierebbe con le femmine della prole, portando fatalmente la specie
all’estinzione nel giro di poche generazioni. E la femmina non lo può
consentire, essendo deputata dalla natura alla conservazione della specie.
Le espressioni musicali
e letterarie orali
sono forme arcaiche.
dossIER
Allo stesso scopo obbedisce la strage dei fuchi da parte delle api dopo la
fecondazione orgiastica della regina (di cui sono eco umane le feste
dionisiache dell’antica Grecia).
La coniglia e la femmina del criceto, quando rimangono incinte,
aggrediscono il maschio ai genitali e, se l’allevatore non è lesto a
separarli, lo evirano senza pietà. Lo scopo è sempre quello, di evitare
l’accoppiamento del maschio con le figlie.
Nella comunità dei lupi, animali essenzialmente gregari, il giovane
maschio, al raggiungimento della pubertà, si allontana per aggregarsi ad
altri branchi. Perché? Per evitare di accoppiarsi con la madre, e il fine è
sempre lo stesso, la conservazione della specie.
Per la specie umana la natura ha inventato un altro espediente, il
complesso d’Edipo: il desiderio sessuale del figlio maschio per la madre
viene inibito dalla paura di castrazione a opera del padre. Indirettamente
viene inibito anche il desiderio edipico della madre verso il figlio. La
finalità della natura è sempre la stessa: la conservazione della specie.
E quanta letteratura non è stata composta, sia in ambito scritto sia orale,
sul tema edipico, tutta invariabilmente a epilogo tragico! Si badi ancora
che lo stesso mito di Edipo esisteva in ambito orale ben prima delle
stesure sofoclee.12
Il terzo esempio da me prescelto è quello cha dai tempi di Costantino
Nigra va sotto il titolo convenzionale de L’infanticida.13
Il tema della madre che sopprime il proprio figlio è presente in letteratura
fin dai miti di Medea e di Procne14 ed è purtroppo ricorrente anche in
cronache recenti (una madre abbandona il figlioletto nel cassonetto della
spazzatura, o lo getta dal terzo piano, o lo mette in lavatrice e preme
l’avvio, o lo trucida barbaramente). Ma tale archetipo ha radici più antiche
della stessa umanità: non è infrequente, infatti il caso della gatta che
gioca coi propri micini come se fossero topi, e guai a lasciarglieli!; della
coniglia che si rifiuta di allattare i cuccioli condannandoli in tal modo a
morte15; della chioccia
che si sdegna dei
pulcini16. È lo stesso
archetipo, presente in
ambito preumano, che
con l’evoluzione si
trasmette all’umanità,
presso la quale diventa,
oltre che raccapricciante
evento, tragico soggetto
letterario. Ma che
popolare e popolare:
siamo di fronte
all’arcaico!
Tutto ciò per quanto attiene agli assetti letterari. Per quanto riguarda gli
assetti musicali di fonte orale, la dimostrazione della loro ascrivibilità alla
dimensione dell’arcaico è, se mai possibile, più facile.
Basta pensare, infatti, alla pentatonia presente alle più svariate latitudini e
longitudini del globo e in alcune aree assolutamente dominante (area
gaelica, cioè irlandese-scozzese, Cina e Mongolia, Montagne Rocciose e
cordigliera andina). Si tratta di musica che utilizza una scala priva del fa e
del si. Se si pensa che nel VI-V sec. a.C. i pitagorici definivano
matematicamente i rapporti intervallari della scala di sette note,
conoscevano benissimo le note cromatiche, conoscevano l’enarmonia e
stabilivano, sempre matematicamente, il divario d’altezza fra le omologhe
L’armonizzazione
è solo uno dei tanti
procedimenti fruibili
nell’intervento sulla
tematica orale.
11
12. Edipo re e Edipo a Colono.
13. C. Nigra, Canti Popolari del Piemonte,
p. 81 e segg. della ristampa moderna per
Einaudi, Torino, 1974, o Cantar Storie, di
AA.VV., vol. I, Grossi Domodossola, 1999,
p. 253 e segg.
14. Medea uccide i figli nati dal suo
matrimonio con Giasone per punire il
tradimento del marito. Procne, per lo
stesso motivo, offre in pasto all’ignaro
marito le membra del loro figlio da lei
stessa ucciso. Il mito di Procne ebbe
circolazione essenzialmente orale; la
tragedia di Medea è stata resa in forma
scritta da Euripide, ma il mito preesisteva
in ambito orale.
15. Se la natalità nei conigli è assai
elevata, è per compensare il tasso di
mortalità infantile, pur esso elevato.
16. In questo caso le contadine venete
mettono la chioccia sotto una cupoletta di
vimini (detta crìola) a maglie strette sì da
impedire alla chioccia di uscirne, ma
larghe quanto basta per consentire ai
pulcini di entrarvi e provare almeno
l’illusione di un affetto materno.
17. In Romania i magiari sono minoranza
etnica e, come sempre accade nelle
minoranze, si arroccano intorno alla loro
lingua e alla loro cultura difendendole da
ogni tentativo di colonizzazione e
conservandone testimonianze più vive di
quelle della loro etnia nei paesi in cui è
maggioranza. Ciò consentì a Kodály
ricerche particolarmente fruttuose nella
regione.
18. Non accade ovunque: a Oriente,
nell’area giuliana profondamente legata a
modelli ottocenteschi mitteleuropei, la
vocalità della S.A.T. suscita ripulsa e
perfino indignazione.
19. L’orfeonismo era nato in Francia nella
seconda metà dell’Ottocento con l’intento
di promuovere un’educazione musicale di
base mediante le bande e i cori. La
coralità orfeonica italiana fra la fine
dell’Ottocento e i primi del Novecento era
prevalentemente d’ispirazione verdiana
popolare nel senso anglosassone di
popular music, musica per il popolo.
20. Non ho coniato io questa locuzione,
l’ha fatto Bepi Carone che forse non se lo
ricorda nemmeno. M’è piaciuta e me ne
sono impossessato.
21. Il suo Mistero Buffo, da lui recitato, era
travolgente, mentre non regge alla prova
della lettura: è letteratura orale.
22. Più che di espressioni popolari parlerei
di espressioni vernacole.
23. Anche il canto gregoriano è di fonte
orale e ciò che lo differenzia dalle altre
espressioni è il fatto che in un certo
periodo storico si è fissato in forme scritte
consegnate alla funzione liturgica sotto il
vigile controllo censorio dell’autorità
religiosa.
12
(il comma ditonico pitagorico), abbiamo una vaga idea dei
millenni, ma più probabilmente delle decine di millenni che ci
separano dalla genesi degli esiti pentatonici.
Musica popolare? Musica della classi subalterne? Ma no,
signori, si tratta di brandelli di preistoria! Ne cito tre:
Il terzo esito è l’Alleluia della Messa.
E ora vi presento due esiti di transizione, che mediano fra
pentatonia e eptatonia:
Fig. 4
Fig. 1 Esito gaelico
Fig. 5
Fig. 2 Esito andino
Fig. 3 Esito mediterraneo
Il primo esempio è l’inno a San Giovanni caro a Guido
d’Arezzo, il secondo è un passo di danza infantile a metrica
quinaria (Madama Dorè). Come potete notare, nel primo
manca il si, nel secondo il fa: sono esiti esatonici.
L’inno a S. Giovanni viene generalmente attribuito a Paolo
Diacono, l’illustre storico longobardo († c. 799), ma se ciò è
plausibile per il testo, non lo è certo per la musica, la cui
origine, come per Madama Dorè, si perde nelle nebbie
dell’arcaico.
Per tutti i frammenti presentati, ovviamente, è impossibile
dire attraverso quanti e quali rivestimenti letterari sono
passati prima di giungere a noi con l’ultimo, a noi noto.
dossIER
Le tappe della coralità di fonte orale italiana
Il passaggio di mano dell’arte musicale dal figlio della classe
subalterna e salariato a quello della classe dominante e
imprenditore aveva provocato una lacerazione gravissima fra
le due culture, orale e scritta: la seconda non capiva più la
prima.
In Ungheria lo strappo viene ricucito, nella prima metà del
Novecento, dai due grandi musicisti Zoltán Kodály e Béla
Bartók, che si immergono in una appassionata ricerca sulle
fonti orali del loro Paese e della Transilvania, la regione
politicamente romena, ma di lingua magiara17, facendo poi
lievitare quelle istanze arcaiche all’interno della loro
produzione musicale.
Gli archaiòi tìpoi riacquistano nella loro musica il respiro
cosmico che li accompagnava nelle opere di Josquin Desprez,
di Orlando di Lasso e di Bach.
A Occidente, e precisamente qui da noi in Italia e nello stesso
periodo, quel compito viene svolto dal Coro della S.A.T. di
Trento: una vocalità ruvida e scarpona, plebea e
apparentemente naïve, in realtà cercata, voluta, studiata, si
riversa sulle scene e rapidamente le conquista18.
Il percorso seguito da questo coro è inverso rispetto a quello
dei due musicisti magiari sopra menzionati: lì era la musica di
area scritta che si accostava alla forme orali per scoprirne la
vitalità, mentre nel caso del Coro della S.A.T.
fu la musica orale a chiedere la protezione
della musica scritta e a porsi sotto la sua ala.
La musica scritta non gliela negò: fior di
compositori, attratti dalla freschezza e
dall’apparente naïveté del Coro della S.A.T.,
ma anche dalla sua trasgressività e
rivoluzionarietà, offrirono con entusiasmo la
loro opera: dapprima il geniale dilettante Luigi
Pigarelli, poi tutti professionisti, da Antonio
Pedrotti a Andrea Mascagni, a Bruno
Bettinelli, a Renato Dionisi, a Arturo Benedetti Michelangeli.
Non dovette esser facile, per quel coro, liberarsi dalle scorie
dell’orfeonismo ottocentesco19, e stucchevoli composizioni
come La Montanara, La Paganella, e Serenada a Castel Toblin
lo stanno a testimoniare; ma nel complesso il coro non mancò
il bersaglio e a molti fu chiaro che con quell’esperienza si
riannodavano le fila della storia dell’umanità. Il Coro della
S.A.T. ebbe uno stuolo d’imitatori, alcuni buoni, altri poco
buoni, altri pessimi.
Nei primi anni ’60 Gianni Malatesta cominciò a sperimentare
col suo Coro Tre Pini di Padova. Quel coro fu un’autentica
fucina della vocal-coralità. Il timbro veniva (e tutt’oggi viene)
trattato come materia plastica, in vista della massima
differenziazione fra i registri acuti limpidi e argentini, e i gravi
caldi, profondi e ricchi di armonici, sì da far suonare il coro
come un’orchestra; le tessiture vengono dilatate
all’inverosimile, spingendo i tenori al mi e al fa sopra il rigo e
i bassi (a volte usati come contrabbassi, col raddoppio
d’ottava) fino al si-sib sotto il rigo; esasperata la ricerca della
pulizia, della leggibilità degli accordi.
13
Sul piano tecnico il Coro Tre Pini è rimasto un modello
ineguagliato. Le elaborazioni sono tutte del suo maestro e mi
piace ricordarne una che per la sua semplicità, ma soprattutto
per la sua profondità esercitò una grande influenza su di me:
Les paisirs sont doux, dove l’armonia rende al carattere
modale del melos quell’onore e quel rispetto che decine di
altri musicisti non gli hanno saputo rendere. Ma in molte altre
elaborazioni il Maestro Gianni supera la stroficità della
melodia costruendo vere e proprie composizioni, strutturate e
complesse e ricche di intuizioni.
Nello stesso torno di tempo due altri cori si impongono
all’attenzione: il Monte Cauriol di Genova, diretto da Armando
Corso, e il Coro I.N.C.A.S. di Fiorano al Serio, diretto da Mino
Bordignon, recentemente scomparso.
Il primo cattura gli uditori con l’ironia, con la spregiudicatezza
goliardica, con la divertita osservazione dall’esterno di
vicende della naja, o anche interpersonali e di coppia dalle
quali fa sprigionare l’umorismo implicito e in questa
dimensione riassorbe anche una certa trasandatezza e
sguaiatezza espressiva; il secondo, all’opposto, propone in
forme accademiche ottocentesche, a vocalità marcatamente
vibrata e enfatica, elaborazioni trasognate e visionarie,
crepuscolari e liberty del materiale etnofono.
Buon ultima arriva la Nuova Coralità20 del Coro Monte Cesen,
Gli archetipi che stanno alla base
delle forme orali appartengono
all’intera umanità.
poi Gruppo Nuovocorale Cesen, da me diretto, erede di tutte
le belle esperienze sopra narrate. Con la Nuova Coralità si
perviene – credo – al nocciolo della questione. Il termine
arcaico per ora non entra nel gergo, ma ve ne sono tutte le
premesse: si scopre che ogni esito orale, osservato in
filigrana, è una miniera di implicazioni poetiche e strutturali,
suscettibili tutte di essere scavate, indagate e portate alla
luce con la passione dell’archeologo; che disposte tutte quelle
implicazioni in un tavolozza, il musicista le può organizzare in
una compiuta composizione con un principio e una fine; che
in ciò fare il musicista sacrifica la propria personalità e che
l’esito da lui proposto può manifestare la travolgente
impersonalità dell’arcaico, può muovere le stesse emozioni
che si provano di fronte al Tesoro di Atreo, alle mura
ciclopiche di Micene e alle statue dell’Isola di Pasqua. Altro
che popolare: il musicista entra in rapporto sciamanico con
l’arché e da lei si fa guidare per mano, prigioniero delle sue
grazie!
La ventata della Nuova Coralità investì in pieno il caro,
compianto amico Flaminio Gervasi, che fino a quel momento
14
aveva prevalentemente composto armonizzazioni di canti degli alpini
per il Coro A.N.A. di Milano. Staccatosi da questo e assunta la
direzione del Coro Sforzesco, valendosi anche, per gli assoli, della sua
voce d’usignolo (era uno splendido controtenore), offrì delle
composizioni egregie, dove pure emerge l’arcaico, come la bellissima
Donna Lombarda. Flaminio non era un musicista nel senso classico
del termine, e quando Agnese, la sua vedova fedele, mi chiese di
scrivere l’introduzione della sua opera postuma, mi trovai in qualche
imbarazzo. Il messaggio, infatti, non gli fluiva sotto la penna, ma gli
sbocciava sul labbro, come il messaggio poetico a Dario Fo21, e a chi
si metteva a leggerlo era facile dire: non è un musicista. Tutto vero,
ma le intuizioni erano geniali, e ciò che è stato geniale una volta lo
rimane per sempre.
E oggi?
I musicisti ci sono e mi piace citarne tre, Mario Lanaro, Mauro
Zuccante e Giancarlo Brocchetto, valenti professionisti capaci di
leggere in profondità nella tematica orale. Ma quanti li eseguono?
Quanti dei nostri cori virili sanno porsi al loro livello di impegno?
Io ne conosco uno solo, l’emergente Laboratorio Corale Cantar Storie
di Domodossola, diretto da Luca Bonavia, che ha avviato un suo
penetrante progetto di coralità dell’arcaico.
Non fraintendetemi, non dico che non esistono buoni cori: gli amici
Bepi De Marzi, Marco Maiero e Alessandro Buggiani ne dirigono tre di
ottimi, ma eseguono proprie composizioni originali che si richiamano
a indefinite matrici popolari, che nulla hanno a che vedere con
l’arcaico di cui si compenetrano la musica e la letteratura orali, e che
alla dimensione dell’arcaico non possono aspirare, perché l’arcaico è
l’arcaico e nessuno se lo può inventare22.
Per il resto si continua a parlare di coralità popolare per indicare un
quid minus rispetto alla polifonia colta, un qualcosa che non esige né
la preparazione né l’impegno necessari per eseguire quest’ultima, un
qualcosa che ha essenzialmente funzione ricreativo-sociale e non
culturale: insomma, un alibi per il disimpegno!
Quanta acqua dovrà ancora passare sotto i ponti prima che alle
forme orali venga riconosciuta la dignità dell’arcaico, la stessa che
spetta al canto gregoriano23? Quanta perché si capisca che la musica
– quale ne sia l’etichetta – è una cosa seria, che esige preparazione e
impegno?
Nessuno lo può dire, ma è facile prevedere che quando ciò avverrà
assisteremo a una salutare auto espulsione dall’agone musicale di
tante inutili compagini corali e a una travolgente crescita qualitativa
di quelle che rimangono.
Sono troppo severo?
co
15
la coralità
maschile
come fenomeno socio culturale:
una panoramica internazionale
di Alvaro Vatri
Parlare della coralità come fenomeno socio
culturale significa parlare dell’associazionismo
corale, vale a dire di quei fenomeni di
aggregazione tra realtà corali volti a sostenere e
sviluppare gli aspetti non solo funzionali e
artistici che il coro rappresentava all’interno delle
istituzioni ecclesiastiche o municipali, ma quei
risvolti legati alla vita e alla società nella quale il
coro operava. Del resto il coro nasce dall’atavico
istinto dell’uomo di associarsi al suo simile per
un fine cultuale o genericamente celebrativo,
religioso o profano, o anche terapeutico,
pedagogico-educativo, o connesso al lavoro
quotidiano: costante è dunque la vocazione
sociale della coralità che pertanto fu sempre
profondamente inerente alla pratica di vita.
Tale vocazione ha prodotto nel corso dei millenni
forme “aggregative” significative (si pensi a
quelle di classica compiutezza e funzionalità
sociale fiorite nella Grecia del VII-V secolo a.C.),
fino alle moderne forme di associazionismo
corale. Ovviamente il percorso non è lineare: con
l’avvento del Cristianesimo, infatti, il significato
del termine coro e la funzione dell’organismo
canoro corrispondente subiscono un completo
seppure graduale rivolgimento e un affinamento
o sublimazione in senso liturgico, teologico e
mistico. Ma già durante il Medio Evo il coro è
investito da un nuovo corso con il sorgere in
Francia, in Inghilterra, in Italia e soprattutto in
Germania, di associazioni di musicanti laici, le cui
prestazioni erano molto richieste da chiese e
monasteri e che quindi aspiravano a ottenere
riconoscimenti legali dalle autorità politiche, che
a loro volta si rivelarono propense a incorporarli
nel tessuto sociale e a elevarne la condizione. Si
costituirono quindi Bruderschaften, confréries,
gilde (confraternite, fraternite, confraterie,
compagnie, fraterie, gildonie, sodalità) laicali di
musicisti inurbati, adulti e borghesi, che in esse
trovarono appoggio per l’affermazione dei loro
diritti civili e religiosi e penetrando nei cori di
chiesa ne mutarono la struttura sociologica.
Queste associazioni musicali e corali erano rette
da statuti severi, con rigide strutture gerarchiche e
condizionate, per accedervi, da previo esame delle
attitudini musicali. Le loro solenni riunioni erano
dedicate, dal lato musicale, al culto della musica
corale, dal lato caritativo ai poveri e ai malati e dal
lato liturgico alla celebrazione della messa.
Abbiamo citato la Germania, uno dei paesi con
un’antica e ricca storia della cantoria come
coralit
16
fenomeno socio culturale. Qui già nel Medio Evo si ebbe una
delle più singolari manifestazioni, che arriva fino al XX
secolo, nella cosiddetta Kurrende e nei relativi Kurrendaner o
Kurrendeschüler. Si trattava di un coro formato da scolari
indigenti delle scuole annesse inizialmente (sec. XIII) alle
chiese parrocchiali, ai quali, dopo che il rapido sviluppo delle
città maggiori aveva prodotto rivolgimenti e dislivelli sociali
nella popolazione, fu concesso di cantare per strade e vicoli,
o di casa in casa, indossando neri mantelli a ruota e cappelli
a cilindro, sotto la guida di un prefetto (praecentor, per lo più
uno scolaro più vecchio), per ricavarne elemosine o doni in
natura (il termine deriva da corradere = mendicare). In
parecchie città, soprattutto della Turingia e della Sassonia, le
Kurrenden godevano di espresse concessioni municipali o
governative che regolavano l’esercizio di
un’attività in cui era contemplata anche la
partecipazione ai riti liturgici e lo
svolgimento di rilevanti compiti di catechesi
pubblica. L’Umanesimo e la Riforma dettero
nuovo impulso alle Kurrenden, che
soprattutto nella Germania del nord, più
che nella cattolica del sud, accrebbero il
loro rilievo partecipando abitualmen­te alle
messe mattutine, ai vespri, ai riti di sepoltura, alle ceri­monie
nuziali o alle festività di Natale e Capodanno elevando il
proprio rango corale. Successivamente le Kurrenden
conobbero un graduale scadimento per una serie di cause: la
Guerra dei Trent’Anni che ne fece istituzioni caritative più che
musicali, lo smodato accat­tonaggio o le pretese eccessive,
punibili disciplinarmente, con conseguente svalutazione
sociale dei cori di fanciulli que­stuanti, a cui si aggiunsero i
duri colpi del Pietismo, con il suo anelito sentimentale ed
emotivo alla devozione domestica e interiorizzata e la sua
preferenza per canti e inni semplicissimi. Si aggiunse poi
l’Illuminismo, durante il quale il concetto di coro si
secolarizzò, si ebbe la scissione fra clero e scuola, con la
trasformazione delle scuole di latino in organismi didattici
puramente scientifici e laici e la noncuran­za per
l’insegnamento della musica.
Altra causa di scadimento, infine, l’esigenza di criteri
educativi razionalistici, fondati sulla scienza e radicati nella
fi­losofia, tra la fine del sec. XVIII e gli inizi del XIX, secondo
un tipo di pedagogia positivistica. Tuttavia si verificò una
successiva restaurazione dell’attività dei Kurrendaner,
protrattasi lungo la seconda metà del sec. XIX e il XX,
animata essenzialmente da finalità di apostolato e
neocatechesi popolari e dagli impulsi di una religiosità di
stampo squisitamente caritativo, con tendenza ad accogliere
nei cori, oltre ai giovani, gli adulti e a trovare nuovi sbocchi
in comunità universitarie cattoli­che.
In sottordine alle Kurrenden, sono interessanti anche gli
Adjuvan­tenchöre (o Vereine), compagnie di cantorie
strumentisti, uo­mini e fanciulli, “aiutanti” del Kantor nei
villaggi della Sasso­nia e della Turingia, anche esse espresse
ai primi del sec. XVII dallo stesso ampio movimento dei cori
scolastici e dirette inizial­mente da teologi cultori di musica.
Gli Adjuvantenchöre ebbero però ampia diffusione e
un’organizzazio­ne sociale e didattica più salda, con
regolamenti scritti e prove d’esame per gli aspiranti
“aiutanti”, a partire dal 1648, al termine della Guerra dei
Trent’Anni. La loro attività, incentrata sulla musica sacra,
prevedeva regolari parte­cipazioni a servizi divini, sposalizi,
funerali e processioni. Ma come le Kurrenden, gli Adjuvanten
ebbero seri impedimenti dal Pietismo, dal Razionalismo e
dall’Illuminismo, e solo la sistemati­ca restaurazione della
coralità sacra, nel XX secolo ne consentì la reviviscenza su
basi di moderna e funzionale partecipazione al canto
litur­gico.
Rientrano in parte nella categoria delle associazioni mu­sicali
Parlare della coralità come
fenomeno socio culturale significa
parlare dell’associazionismo corale.
ben radicate nella realtà sociale del tempo e del luogo, anche
i collegia musica, per lo più non professionistici, fioriti nelle
regioni non cattoli­che di Germania, Austria e Svizzera nei sec.
XVII e XVIII sulla scia dell’indirizzo educativo-formati­vo della
cultura musicale luterana e dediti soprattutto a esecuzioni di
musica sacra o profana in circoli privati. Il collegium musicum
fu un portato sociologico, specificamente germanico, del ceto
borghe­se e degli ambienti studenteschi (non propriamente
uni­versitari), precorritore, d’altro lato, di quella che a sec.
XVIII inoltrato sarà la società di concerti pubblica,
professionistica e borghese. Dal 1750, l’eredità dei collegia
musica di studenti fu rac­colta appunto dall’organizzazione dei
Liebhaberkonzerte, ma tra la fine del sec. XIX e l’inizio del XX
essi rinacquero nelle università te­desche e austriache, per
merito precipuo di Carl Friedrich Zelter (Berlino, 1758-1832) e
poi di Hugo Riemann (1849-1919), Arnold Schering (1877-
dossIER
1941), come complemento della musicologia da poco assunta
fra le discipline universitarie. Fu allora che il canto corale
tor­nò generalmente a prevalere nell’interesse dei dilettanti a
scapito degli strumenti, relegati a ruoli di sostegno, e che di
conseguenza, in ambito universitario, si giunse spesso alla
coesistenza di un collegium musicum instru­mentale e di un
collegium musicum vocale, decisamente orientato verso la
resurrezione moderna della musica co­rale
quattro-cinquecentesca.
Carl Friedrich Zelter (compositore, direttore e didatta, amico
di Goethe) fu anche promotore di organizzazioni corali
costituite da cantori dilettanti ma improntate di cultura
musicale borghese capillarmente diffusa: da una parte le
Liedertafeln (il prototipo fu fondato proprio da Zelter a
Berlino nel 1809), che inizial­mente raggruppavano i loro
membri, solo uomini, scelti fra compositori, cantanti, poeti,
attorno a un tavolo (da cui il nome) e ben presto si diffusero,
in tutta la Germania, rette da precisi statuti, alimentando non
solo la fiamma dell’ideale artistico ma anche quella del
patriot­tismo tedesco in un’epoca densa di fermenti irredenti­
stici e di aneliti all’unità e alla libertà e caratterizzando uno
stile pieno di pathos. Su un lato opposto troviamo le
Singakademien, dichiaratamente concertistiche, che ebbero
l’avvio dalla ce­lebre Singakademie berlinese, che sempre
grazie all’apporto di Zelter agì per la revivi­scenza bachiana,
oratoriale e corale in genere e per il to­tale rinnovamento
della vita musicale.
Le suddette Liedertafeln, germogliate anche a livello
internazionale, dall’Italia alla Francia e agli Usa, ebbero un
ruolo importante nell’ambito del coro maschile. Nell’opera fin
dagli esordi e nella policoralità sacra il coro maschile aveva
assolto un compito pri­mario, architettonico, coloristico,
descrittivo, ma nel secolo XIX ebbe
notevole espansione, in molteplici forme e
per diverse motivazioni, tra cui la fioritura
dei Trinklieder, l’influsso della massoneria
e dei circoli studenteschi. Inoltre i precipui
richiami dell’amor patrio, del valore e del
nazionalismo contribuirono a imprimere al
coro maschile un conio morale e, di conseguenza, complice il
romanti­cismo e tramite appunto le Liedertafeln, il carattere di
un movimento idealistico di musica popolare a sfondo politico
(monarchico nella Germania del Nord, liberale in quella del
Sud), tanto che nel 1862, a Coburg, sorse il Deutsche
Sängerbund, federazione dei numerosissimi Männer­gesangVereine frattanto nati in sostituzione delle superate
Liedertafeln e imposti dall’esigenza di distinguersi dai
com­plessi femminili entro le Singakademien, simbolo e guida
all’unificazione politica della Germania e insieme veicolo del
messaggio patriottico anche fuori dei confini tedeschi.
All’imponente sviluppo della letteratura per coro maschile
non sempre corrispose un’alta qualità inventiva, per l’influsso
ne­gativo esercitato dal corrompersi del sentimento patriottico
in sentimentalismo patriottardo o dalla tendenza nei
compositori a dilatare e a ispessire wagnerianamente la
17
sonorità corale con effetti di strepito e magniloquenza:
tendenza peraltro contrastata dalle vive reazioni
novecentesche, dirette a rinnovare il coro maschile nel senso
della semplicità e della funzionali­tà, oltre che della schietta
espressione artistica.
Le Lidertafeln, come abbiamo detto, germogliarono anche in
altri paesi, tra cui la Francia, dove intorno al 1820 il didatta
Guillaume Bocquillon-Wilhlem (1781-1842) ideò delle società
co­rali maschili dette collettivamente L’Orphéon (da cui la
deno­minazione di choeurs orphéoniques tuttora in uso),
composte per lo più di di­lettanti dei ceti medi e umili, allo
scopo di sviluppare la cultura musicale a vasto raggio e
sovvenzionate spesso dalle municipalità o da imprese
industriali.
L’Orphéon prendeva a modello i Musikvereine tedeschi, circoli
musicali dove veniva coltivata la passione per la musica da
raffinati dilettanti, ma, più che alla borghesia cittadina, esso
Il coro nasce dall’istinto dell’uomo
di associarsi al suo simile.
si rivolgeva ai ceti inferiori, artigiani, operai, contadini.
L’intento principale era quello di favorire uno sviluppo sociale
controllato: educare l’uomo all’ordine e al rispetto dei ruoli
senza avvilirlo, gratificarlo per il suo operato, contribuire a
nobilitarne l’animo, e in secondo luogo rafforzare il
sentimento nazionale.
Il movimento orfeonico dal 1830 vide in Francia una
straordinaria espansione fino a diventare verso la fine del
secolo un vero e proprio fenomeno di costume, (nel 1910 si
con­tavano 1200 società) si pubblicarono periodici
specializzati, si organizzarono concerti e festival. Il repertorio
delle associazioni, che comprendeva sia brani classici che
elaborazioni di musiche popolari, si arricchì di composizioni
scritte espressamente da autori importanti come Berlioz,
Adam, Gounod. Si forma quindi una tradizione di musica
“popolare” (cioè urbano-rurale, ben distinta da quella
18
d’interesse propriamente etnomusicologico) che intrattiene un
rapporto di osmosi e reciproco scambio con la musica
cosiddetta “d’arte”, e che, come in Germania e in Inghilterra,
è alla base di una diffusa presenza della musica nella
coscienza culturale paese.
All’eccezionale fortuna dell’attività orfeonica s’accompagnò la
fioritura di organizza­zioni corali professionistiche e
concertistiche. Anche il movimento orfeonico ha conosciuto un
processo involutivo, con scadimento della qualità musicale che
hanno attivato un vivace e interessante dibattito sulle sue
prospettive future e sul ruolo che può ancora svolgere.
Importante è il ruolo che il modello del coro orfeonico ha
svolto in paesi come il Brasile, dove il coro “amatoriale” si
diffonde nella prima decade del XX secolo, e viene utilizzato
per dare ordine e disciplina alla massa eterogenea e
potenzialmente esplosiva per quanto riguarda comportamenti
e valori. Heitor Villa-Lobos (1887-1959) sviluppo un “progetto
orfeonico”: il canto è utilizzato pedagogicamente come
disciplina fisica e nel 1932 diventa insegnamento obbligatorio
nelle scuole municipali di Rio de Janeiro e nel 1934 viene
esteso a tutte le scuole primarie e secondarie del paese.
Villa-Lobos condusse spettacolari esperimenti periodici di cori
di massa gio­vanili: nel 1931 diresse a San Paolo un concerto
eseguito da 12.000 coristi, e giunse a dirigerne per radio più
di 40.000 nel 1940.
Visto che abbiamo varcato l’Atlantico concludiamo la nostra
sintetica ricognizione negli Stati Uniti dove incontriamo una
intensa attività corale favorita da fattori molteplici. Dal lato
chiesastico, incisero sia il numero e la varietà delle confessioni
sia gli apporti successivi delle Missioni india­ne, dei coloni
anglosassoni, dei coloni tedeschi in genere e in particolare dei
moravi a Salem (North Carolina) e a Bethle­hem (Pennsylvania),
ove nel 1744 fu fondato un collegium mu­sicum ed ebbero cura
particolare per la musica sacra e la pratica dei cori. Da allora
iniziò, anche per l’azione determinante delle scuole di canto,
il costante, generale sviluppo dei cori di chiesa, dapprima
costituiti da dilettanti e guidati da ecclesia­stici, e delle grandi
società corali, fiorite particolarmente nel sec. XIX per merito di
apostoli e animatori (a Boston, Philadel­phia, Chicago, ecc.;
soprattutto la Oratorio Society, fondata a New York nel 1873
da Leopold Damrosch, 1832-1885) e volte appunto
all’esecuzione degli oratori e delle composizioni corali
classiche dell’Occidente. Nelle scuole di ogni ordine, dalle
comunali alle universitarie (e non meno nelle fabbriche), con
sistematico ordinamento forse unico al mondo, vige e
prospera l’educazione artistico-sociale al coro, come
attestavano, già nel 1939, i quattro milioni di gio­vani
impegnati nei cori studenteschi. S’aggiungano, dal lato
popolare maschile, i Glee-Clubs, cosiddetti dalla pratica del
glee, breve canzone, forma specifica corale popolare in
Inghilterra tra il 1650 e il 1900 e quindi originati propriamente,
con accentuato nazionalismo, in Inghilterra (modello è il
Glee-Club nella Harrow School di Londra, sorto nel 1787).
Il più antico glee club negli Usa è l’Harvard Glee Club fondato
nel 1858. Inoltre gli “indigeni” Apollo-clubs, corrispondenti
agli Orphéons e ai Männergesang-Vereine.
Sempre in ambito di coro maschile un “prodotto” tipico
americano è la Barbershop Music (Musica da barbiere), uno
stile sviluppatosi nella seconda metà dell’Ottocento nei negozi
di barbiere che spesso si trasformavano in centri di
socializzazione. Mentre aspettavano il proprio turno si
formavano quartetti vocali di afro-americani che
improvvisavano armonizzazioni vocali di spiritual, canzoni
popolari e folk song. Si generò così un nuovo stile
caratterizzato da esecuzioni a cappella di elaborazioni a
quattro parti in armonia stretta. Più tardi questo stile fu
adottato da “menestrelli” bianchi e nei primordi dell’industria
discografica divenne un genere commerciale. La Barbershop
Music ebbe il massimo della popolarità tra il 1900 e il 1919,
mentre dagli anni Venti gradualmente andò in ombra e finì per
restare solo nelle armonie della musica a cappella delle chiese
dei neri. Ma nel 1938 un avvocato fiscalista dell’Oklahoma,
Owen C. Cash, decise che era una vergogna che una forma
d’arte morisse. Se dette da fare, trovò delle risorse e da tutto
il nord America risposero a migliaia e in quello stesso anno
nacque la S.P.E.B.S.Q.S.A., vale a dire la Society for the
Preservation and Encouragement of Barber Shop Quartet
Singing in America, nel 2004 “semplificata” in Barbershop
Harmony Society. È presente in Usa (sede a Nashville,
Tennessee) e Canada. Accanto a essa esistono anche due
associazioni di cori femminili che cantano nello stile
Barbershop e associazioni affiliate con le tre principali
esistono in Regno Unito, Olanda, Germania, Spagna, Sud
Africa, Scandinavia, Nuova Zelanda, Australia e Giappone.
Sempre negli Usa dal 1982 è attiva la GALA Choruses, Gay
And Lesbian Association Choruses che annovera oltre 200 cori
e 10.000 cantori il cui scopo è aiutare la crescita artistica e
professionale dei propri associati, ma soprattutto creare una
società più tollerante attraverso la forza della musica.
Una lunga storia quella dell’associazionismo corale, che tra luci
e ombre, momenti di gloria e di disinteresse, ha sempre saputo
alimentare e alimentarsi di quello slancio e di quella passione
per il cantare in coro nelle forme e con i valori della
amatorialità che l’UNESCO ha dichiarato patrimonio
immateriale dell’umanità.
o
un quotidiano
lavoro nel nome
della musica
Incontro con orlando dipiazza
a cura di
David Giovanni
Leonardi
Pianista e musicologo,
docente al Conservatorio
di Udine
Maestro Dipiazza, sono passati ormai cinque
anni da quando concesse per questo periodico
una lunga e articolata intervista, conversazione
spaziante dagli anni lontani della sua formazione
musicale al lungo percorso artistico, didattico e
creativo, dall’evoluzione del suo stile compositivo
a partire dai modelli fino alla situazione della
musica corale contemporanea in relazione alle
realtà professionali e amatoriali, ai concorsi di
composizione ed esecuzione, ai direttori di coro
delle nuove generazioni, per giungere a
dettagliate osservazioni circa i diversi
atteggiamenti stilistici che hanno animato la sua
imponente e sfaccettata produzione corale, sacra
e profana. Come si è sviluppata nel frattempo la
sua attività creativa e quali le tappe salienti a
livello editoriale ed esecutivo?
È noto come la mia giornata sia costantemente
vissuta all’insegna della creazione musicale, a
partire dalla mattina all’alba; sopra il pianoforte,
una mia fotografia con Goffredo Petrassi e il
ritratto con dedica e lettera del luglio 1958 nella
quale Ildebrando Pizzetti mi pregava di attendere
la sua scomparsa prima di intitolare al suo nome
il gruppo corale che allora dirigevo, grato del mio
giovanile entusiasmo ma al tempo stesso ferreo
nel non cedere a quello che avrebbe rischiato di
trasformarsi in un atto di superbia. Nell’approccio
al lavoro di compositore mi sento molto vicino a
un altro grande del Novecento, Luigi Dallapiccola,
quando mi dichiarò personalmente che il
compositore deve soltanto scrivere, scrivere ogni
giorno. In questi ultimi cinque anni mi sono tolto
lo sfizio – non accadeva dalla fine degli anni
Sessanta, il periodo dei miei studi e delle
successive frequentazioni con il grande didatta
triestino Bruno Cervenca – di completare,
stimolato in questo da commissioni da parte di
importanti realtà corali della mia regione e non
solo, una serie di affreschi sinfonico-corali iniziata
nei primi anni dello scorso decennio con Te Deum
e Messa “dei Patriarchi” e terminata di recente
con l’Inno Veni creator spiritus e la Sequenza
Stabat Mater, entrambi per soli, coro virile e
orchestra sinfonica classica.
Ho naturalmente ampliato il catalogo di
composizione sacre in latino, uno dei miei generi
prediletti da sempre e all’interno del quale ho
sviluppato particolarmente due opposte
tendenze, la composizione su cantus firmus
gregoriano e quella propria di brani, quali la
fortunata Messe di San Durì e i Quattro mottetti
in friulano, concepiti sì per finalità strettamente
liturgiche ma che, a lavoro compiuto, si sono
rivelati adeguati al livello esecutivo medio delle
cantorie parrocchiali della mia terra, alle quali mi
sono trovato a rendere omaggio attraverso tratti
stilistici a volte addirittura “popolareschi”.
orlando
Veduta del Museo
della Civiltà Contadina
di Aiello del Friuli
20
Un duplice riavvicinamento a tradizioni consolidate, quindi,
sia nel senso della ripresa di prassi compositive medievali e
rinascimentali, delle quali rimane a livello mondiale uno dei
pochi entusiasti sostenitori, sia nel senso di una rinnovata
attenzione ai confini del linguaggio musicale imposti dalla
coralità amatoriale?
A parte il fatto che ho sempre considerato basilare il capillare
controllo della scrittura melodica e armonica da parte del
compositore di musica corale, negli ultimi anni sento la spinta
verso un’ulteriore essenzializzazione delle strutture, una sorta
di sintesi di un percorso ormai lungo, iniziato nel 1957 con
Nadâl, un omaggio corale all’altissima poesia di Biagio Marin,
che ho frequentato molto anche in anni successivi, e con Tu
es sacerdos, scritto per la prima messa celebrata da mio
fratello l’anno successivo. Per inciso, ho in realtà iniziato a
scrivere dieci prima e ho voluto inserire nel nuovo catalogo
delle mie composizioni anche un’Ave Maria del 1947, che ho
ritrovato da poco tra le mie carte.
Per quanto riguarda l’aspetto contrappuntistico, è noto essere
il punto focale del mio stile compositivo; attraverso la tecnica
dei grandi del passato, Palestrina innanzitutto, non ho potuto
rinunciare all’elaborazione di motivi gregoriani di sublime
bellezza, grazie ai quali hanno visto la luce le mie messe “in
stile antico”, Missa brevis, premiata a Tours nel 1990, Missa
choralis super “Cunctipotens genitor Deus” e Missa “Orbis
factor”, pagine che da tempo suscitano un notevole interesse
musicologico. Ho recentemente adottato le stesse tecniche di
contrappunto lineare di matrice modale nelle parti del
Proprium per la “Orbis factor” che saranno tra breve
pubblicate da Carrara assieme alla riedizione della Messa, e
per i cinque Salmi (109, 110, 111, 129, 131) e le
Cinque antifone (per i Vespri di Natale), cicli,
questi ultimi, ancora inediti.
Orlando Dipiazza con Mauro Zuccante
Non si può negare che l’editoria musicale italiana abbia rivolto
attenzioni, specialmente sui periodici, alla musica corale, che
è tuttavia rimasta un prodotto di nicchia, tenuto in vita
dall’entusiasmo di un cenacolo di amici, compositori, direttori
di coro, musicologi, che si stimano e collaborano e con i quali
intrattengo rapporti solidi e di antica data. In tal senso il Friuli
rappresenta un’eccezione, vista la quantità e qualità delle
edizioni di musica corale di recente presentate; tra l’altro
Ho sempre considerato basilare
il capillare controllo della
scrittura melodica e armonica.
La costante interazione con l’editoria musicale, e
il catalogo delle opere lo dimostra
dettagliatamente, sembra testimoniare non
soltanto il riconoscimento dello spessore artistico
del suo corpus compositivo e l’ambito traguardo
al quale sono ormai giunte quasi tutte le sue creazioni, ma
una sorta di motivo di pianificazione della produttività, in
riferimento ai generi praticati. Mi riferisco soprattutto al
periodo dell’assiduo impegno in favore della diffusione del
canto popolare nella scuola primaria, che ha impegnato «La
Cartellina» a partire dagli anni Settanta e che le ha ispirato
oltre un centinaio di elaborazioni corali, oppure alle grandi
iniziative di Suvini Zerboni e Carrara che hanno segnato e
forse sollecitato, a fine anni Ottanta e Novanta
rispettivamente, un numero altrettanto imponente di mottetti
per coro a cappella.
Riconosco di avere sempre colto le occasioni che mi
invitavano a un lavoro coerente e organico alle prese con un
determinato genere compositivo, che solitamente tendo a
praticare in maniera continuativa, approfondendone e
perfezionandone ogni dettaglio.
l’Unione Società Corali del Friuli Venezia Giulia ha voluto
festeggiare il mio ottantesimo compleanno con la densa
antologia Florilegium sacrum.
Ultimamente, le edizioni Carisch, dopo aver notevolmente
contribuito alla conoscenza di un importante compositore,
corale e non solo, quale Bruno Bettinelli, si sono impegnate
velocemente e in assoluta autonomia per progettare un
volume da me concepito quale ideale prosecuzione de Il verso
in… cantato delle Edizioni Musicali Europee. Grazie a questo
volume, di imminente uscita, completerò la pubblicazione
delle musiche corali su testi profani, genere che ho praticato
all’insegna di una mia interpretazione del neomadrigalismo
italiano a partire da circoscritte predilezioni letterarie, la
letteratura latina, il Medioevo profano, i poeti italiani del
primo Novecento e i poeti giapponesi; naturalmente ho
seguito la strada tracciata in particolare da Pizzetti e
compositorE
Dallapiccola, compositori dagli interessi letterari affini – e in
parte affini ai miei – nonostante quest’ultimo, che pure era
stato allievo di Vito Frazzi, a sua volta assai vicino a Pizzetti,
non ammettesse tale affinità.
Vorrei ora toccare un tasto forse più delicato e chiederle la
sua opinione in merito alla coralità contemporanea.
Condivido il pensiero di alcuni miei amici e collaboratori,
secondo il quale la battaglia iniziata oltre trent’anni fa in
favore dello sviluppo del repertorio corale contemporaneo è
stata persa. Istintivamente ripenso alle radici culturali
asburgiche della mia terra e agli anni lontani in cui le cantorie
parrocchiali proponevano, durante le funzioni liturgiche,
musica di Michael Haydn, di Rheinberger, di Schubert; ripenso
alla grande scuola corale triestina di Illersberg, e poi di
Kirschner e Macchi, al buon numero di cori friulani che si
presentavano con lusinghieri risultati ai primi concorsi di
Arezzo, agli indimenticati maestri Luigi Colacicchi e Roberto
Goitre, che mi spronarono alla creazione di nuove
composizioni e trascrizioni, favorendo la trasformazione di un
repertorio che in quegli anni era ancora fermo alle
composizioni popolaresche in friulano e alle Gotis di rosade di
Seghizzi, produzione certo notevole per numero e qualità ma
che appariva ormai superata. Ricordo di averne parlato anche
in occasione della precedente intervista ma ribadisco che
grazie al concorso corale di Arezzo abbiamo conosciuto a
partire dagli anni Sessanta i compositori dell’est europeo, poi
gli scandinavi e la scrittura corale d’avanguardia, il cui
interesse mi sembra tuttavia essersi affievolito; ma
soprattutto abbiamo conosciuto pagine a molti di noi ancora
non note, appartenenti al grande Novecento di Britten,
Hindemith e Poulenc; si pensi che il mio maestro Bruno
21
Cervenca, in anni lontani, organizzava a Trieste esecuzioni di
A Ceremony of Carols con una sua traduzione italiana!
Abbiamo insomma avuto importanti indicazioni di percorso e
vissuto entusiasticamente, seppur alla luce di esperienze non
nostre, il grande periodo della coralità. La nostra missione
non è quindi nata per caso. In veste di direttore di coro ho
fatto conoscere pagine di Francesco Corteccia, di
Mendelssohn, Liszt e Bruckner. Ritengo che il lavoro della mia
generazione si sia definitivamente concluso e sia divenuto
estraneo alla realtà di oggi, in cui i cori sono aumentati di
numero e livello esecutivo, ma non certo culturale. Il
contrappunto non si studia più e gli stessi brani
contrappuntistici vengono guardati con diffidenza; oltretutto
mi sembra che i giovani direttori di coro manchino di senso
estetico nella scelta del repertorio e pure sul versante della
musica sacra assistiamo a una banalizzazione crescente del
repertorio. Di più, la diffusione a livello corale di un repertorio
basato sugli stilemi compositivi ed esecutivi propri del gospel
e dello spiritual nell’ambito di un generico vocal-pop di
matrice jazzistica, ha mutato profondamente la fisionomia dei
cori, alla quale i concorsi si sono dovuti immediatamente
adeguare, creando categorie sempre nuove.
Estende questo giudizio anche alla produzione corale
contemporanea della nostra regione, in particolare su testi in
lingua friulana, che pure dimostra tuttora una certa vitalità?
Per buona parte mi sembra sia un passo indietro; in ogni caso
non vedo futuro né nell’attaccamento alla tradizione né
nell’avanguardia radicale. Il repertorio che un coro affronta
deve favorire innanzitutto la conoscenza della grande musica
del passato. Non mi ritengo certo un nostalgico ma ricordo che
decenni fa c’era interesse ed entusiasmo verso la ricerca di
Orlando Dipiazza_______
Compositore, direttore di coro, didatta. Si è diplomato in musica corale al
conservatorio G. Tartini di Trieste con Bruno Cervenca. Autore di lavori teatrali per
bambini, musica cameristica, opere vocali-strumentali e sinfonico-corali, ha
dedicato il suo maggior impegno nella produzione di brani corali a cappella (oltre
350).
Molti lavori corali sono stati premiati in concorsi nazionali e internazionali: Arezzo
(primo premio, 1984), Milano (primo premio, 1985 e 1987), Tours (secondo premio,
1990), Trieste (primo premio, 1993 e 1998), Lugo (primo premio, 1980), Trento
(primo premio, 1984, 1994 e 1998; secondo premio, 1998; terzo premio, 1980,
1987, 1992, 1994 e 1998), Roma (primo premio, 2010).
Ha pubblicato per Suvini Zerboni (Milano), Edizioni Musicali Europee (Milano), Pro
Musica Studium (Roma), Éditions À coeur joie (Lione), Carrara (Bergamo), Naz̆i
zbori (Lubiana), Pizzicato (Udine), Feniarco Edizioni Musicali.
Tra i vari riconoscimenti, nel 2009 ha ricevuto il sigillo trecentesco della Città di
Trieste.
22
sentire perché Bruno Cervenca, con cui mi sono diplomato e
nella cui classe ho in seguito fatto il tirocinante, ne aveva
criticato lo stile troppo pizzettiano. In effetti, rileggendola
oggi, le affinità con le ampie arcate melodiche di Pizzetti e
con il declamato omoritmico corale che riscontro, ad esempio,
nella cantata La terra di Malipiero, sono sorprendenti; tanto
più che in quegli anni non conoscevo nel dettaglio la musica
di questi due grandi del Novecento italiano. La stessa cosa
accadde quando Cervenca mi consigliò di eliminare una mia
pagina perché troppo raveliana; sarà stato anche vero ma
all’epoca era nota soltanto la produzione pianistica e
orchestrale, molto meno la produzione cameristica e per
canto e pianoforte; e credo che nemmeno oggi i musicisti la
frequentino quanto meriterebbe. Penso in sostanza di aver
vissuto gli ultimi periodi di un’epoca importante per la storia
della musica, condividendone gli ideali estetici.
Dipiazza con il suo maestro Bruno Cervenca
repertori corali di alto livello. In riferimento a chi considera la
mia musica troppo difficile perché contrappuntistica o
addirittura perché non segue la tonalità o a chi, al contrario, la
ritiene troppo tradizionale, rispondo che le etichette non mi
interessano e che seguo, come ho già
avuto modo di affermare, una strada di
rinnovamento della tradizione. Sono felice
quando qualche buon coro esegue la mia
musica.
Ringraziandola per aver voluto riandare con la memoria a
periodi e momenti che per le più tarde generazioni
rappresentano l’ultima età dell’oro della composizione
musicale, le chiedo quali sono i progetti in corso.
Ho appena terminato, come ho ricordato, i Salmi e le Antifone
per i Vespri di Natale; l’ultimo salmo completato, Memento, è
interamente derivato dallo splendido tema gregoriano
dell’antifona; quest’ultimo ciclo di dieci brani è l’ultima fatica
che attende ancora un progetto editoriale. Per il resto, a parte
alcuni brani giovanili e le liriche per canto e pianoforte, che
Il repertorio che un coro affronta deve
favorire innanzitutto la conoscenza
della grande musica del passato.
A proposito di quest’ultimo aspetto, a
quali pagine viene ultimamente data
preferenza nei concerti e nelle incisioni
discografiche?
La Missa brevis è tuttora molto eseguita in particolare nei
paesi dell’Est Europa, così come i brani sacri brevi per coro a
cappella, che hanno avuto grande diffusione grazie a
importanti raccolte a stampa; in questi ultimi anni vengono
eseguite di meno le elaborazioni di motivi popolari, che pure
hanno costituito materia per un recente cd monografico
prodotto da un valido coro femminile della mia regione. A tal
proposito, penso che il nostro prossimo lavoro sarà la
catalogazione delle incisioni discografiche della mia musica,
lavoro che non ho mai intrapreso.
Ora che le composizioni ancor inedite nel suo catalogo sono
davvero poche, c’è qualcuna che non è mai stata eseguita o
che vorrebbe ascoltare?
L’inno Jesu redemptor omnium per soprano e undici strumenti
non è mai stato eseguito, così come la versione di Canticum
con quintetto di fiati e, naturalmente, la cantata Alcesti su
testo di Rilke, composta nel 1969 e che forse non vorrei
pure hanno goduto di notevole attenzione presso numerosi
interpreti, penso di aver pubblicato tutte le mie composizioni.
Il nuovo catalogo di quasi quattrocento titoli, frutto del lavoro
che abbiamo svolto assieme in questi ultimi due anni e che
oggi vede finalmente la luce, è la più chiara testimonianza dei
miei anni, tanti, di quotidiano lavoro passati nel nome della
musica.
compositorE
23
Catalogo delle composizioni di Orlando Dipiazza
David Giovanni Leonardi ha recentemente curato il catalogo completo delle composizioni di Orlando Dipiazza, che trovate
pubblicato sul nostro sito www.feniarco.it
In questa sede, per motivi di spazio, ci limitiamo a pubblicare l’introduzione del curatore.
Il presente catalogo delle composizioni di Orlando Dipiazza, aggiornato al
dicembre 2011, rappresenta il risultato dell’ampliamento e dell’elaborazione di
numerose versioni del catalogo stesso, redatte progressivamente in anni recenti
dal compositore in copie dattiloscritte. La suddivisione in dodici sezioni
rispecchia, salvo la modifica delle denominazioni e l’aggiunta di due nuove
sezioni, quella originale, articolata in: Lavori teatrali, Composizioni per voci,
orchestra o strumenti, Composizioni per voci e pianoforte, Composizioni per
strumenti, Musica corale per le voci bianche, Musica corale sacra a cappella,
Musica corale sacra con organo, Musica corale profana, Elaborazioni di canti
popolari, Brani di ispirazione popolare. Effettuata la verifica dei manoscritti, si è
provveduto alla formulazione di un sistema di sigle miranti a snellire le voci di
catalogo singole e a costituire un rimando di agevole consultazione alle relative
edizioni a stampa, delle quali si fornisce la lista completa in calce, ordinata
alfabeticamente a partire dalle sigle stesse. Tali sigle sono state costruite sulla
base di acronimi consolidati e di uso comune, riferentesi a edizioni e istituzioni
musicali; in alcuni casi si è tuttavia, per uniformità e facilità di consultazione,
reso necessario un ulteriore snellimento della sigla stessa. Per quanto riguarda la
segnalazione delle composizioni apparse nei primi cento numeri del periodico «La
Cartellina», si è fatto riferimento a: «La Cartellina», Musica corale e didattica,
Orlando Dipiazza con Goffredo Petrassi
fondata da Roberto Goitre e diretta da Giovanni Acciai, Indice del Repertorio,
inserti n. I-IV, rivista n. 1-100, a cura di Carlo Berlese, Suvini Zerboni, Milano
1996. Il criterio generale di segnalazione delle singole voci di catalogo prevede la suddivisione in quattro campi: titolo, data
di composizione, organico, composizione inedita o eventuale stampa; nel caso in cui il titolo della sezione faccia
riferimento all’organico, in terzo campo è omesso. I titoli delle composizioni rispecchiano quelli previsti in origine dal
compositore o, in rari casi, quelli modificati in occasione di un’edizione a stampa. Le lettere minuscole poste tra parentesi
tonde dopo il titolo, in luogo dell’eventuale autore del testo letterario, contraddistinguono le diverse versioni di una stessa
composizione e ne evidenziano il percorso creativo progressivo. Nel caso di composizioni inedite sono stati conservati i
raggruppamenti in raccolte voluti dal compositore e i singoli brani sono stati annotati con numeri progressivi sotto il titolo
generale. Nel caso di composizioni a stampa, è stato adottato lo stesso criterio qualora le singole parti di una
composizione abbiano titoli autonomi (eccettuato il caso delle Messe, per le quali non si riportano i singoli titoli
dell’Ordinario della Messa) o siano state pubblicate, separatamente o a gruppi, all’interno di periodici diversi; al contrario,
qualora si tratti di brani separatamente eseguibili ma apparsi in progetti editoriali singoli in virtù di caratteri e finalità
unificanti, questi ultimi sono stati considerati voci di catalogo autonome. Le sigle di rinvio ai volumi a stampa, qualora si
tratti di più di una, conservano per quanto possibile l’ordine cronologico di edizione e mancano di cifra esponenziale nel
caso si tratti di raccolte apparse una sola volta per i tipi di un determinato editore oppure di edizioni singole delle quali
viene di seguito indicato il numero di catalogo e, se presente, l’anno di pubblicazione, oppure ancora nel caso di edizioni
in periodici, per le quali vengono indicati, nell’ordine, l’annata, il numero progressivo e l’anno, quest’ultimo seguito, dopo
la barra, dall’indicazione del fascicolo. Tale criterio non si adotta nel caso de «La Cartellina», della quale viene indicato
unicamente il numero progressivo. Nel caso di più edizioni contrassegnate dalla medesima sigla si adottano cifre
esponenziali progressive che rinviano a raccolte dapprima monografiche, quindi antologiche, rispettivamente ordinate sulla
base dell’anno di pubblicazione. Sono state parimenti utilizzate sigle di consolidata tradizione in riferimento a istituzioni
musicali e lessico.
24
Orlando Dipiazza: Tre Messe
Missa brevis (1989), Missa Choralis (1999), Missa “Orbis factor” (2008)
di Mauro Zuccante
Schopenhauer ha asserito che la musica, più di ogni altra
arte, incarna il flusso dell’inarrestabile mutevolezza delle
cose, in quanto il Divenire è la stessa sua essenza. In estrema
sintesi, la musica si rivela come espressione in grado di
erodere l’eterna identità dell’Essere.
Un concetto che ha notevolmente condizionato le avanguardie
storiche del Novecento, le quali hanno condotto l’arte
musicale occidentale sulla via della disintegrazione del
linguaggio tonale e delle forme classiche. Un’estetica
nichilistica, in virtù della quale si sono spalancate le porte alle
categorie estreme, dalla complessità pressoché irrealizzabile,
fino all’indefinita aleatorietà.
«Nel passaggio delle cosiddette avanguardie musicali della
metà del secolo, la tradizionale consegna della musica alla
cura dell’armonia si avverte come ingenuità colpevole, il suo
ideale di perfezione melodica come falsa coscienza, la sua
evocazione di trascendenza metafisica come soggezione
ideologica» (P. Sequeri, Musica e Mistica, Libreria Editrice
Vaticana, 2005).
Si spiega, quindi, come il forte processo di secolarizzazione,
che ha allontanato la società contemporanea dalla dimensione
del sacro e del trascendente, abbia trovato nella musica un
fertile terreno per radicarsi.
È un dato inconfutabile che nel catalogo di molti musicisti
vissuti a cavallo dei secoli XIX e XX si diradano le opere di
genere sacro. Le composizioni destinate al rituale liturgico
tendono addirittura a scomparire, nonostante la resistenza del
movimento ceciliano; di quella corrente, cioè, che ha incarnato
il tentativo di rinnovare la musica sacra attraverso il recupero
della tradizione del canto gregoriano e della polifonia
rinascimentale nelle celebrazioni liturgiche cattoliche.
Tramontata l’epoca delle esasperazioni massimaliste e delle
disintegrazioni iconoclastiche delle avanguardie storiche, nel
panorama musicale contemporaneo si riaffaccia, però, un
certo interesse per la dimensione del sacro.
Le indagini estetiche di John Cage intorno a una nuova
teologia del suono, ispirate dalle filosofie orientali, e le
sciamaniche visioni sonore di Karlheinz Stockhausen hanno
paradossalmente riconciliato l’arte musicale attuale con la
sfera del mistero divino e aperto la via a opere che si
sviluppano attorno contenuti espressivi di carattere sacro.
Cito tra le altre le figure attuali e i lavori d’ispirazione
religiosa di Henryk Górecki, Alfred Schnittke, Arvo Pärt, Sofija
Gubajdulina, John Tavener, Tan Dun e Osvaldo Golijov.
Però questa tendenza, fortemente alimentata dal contributo di
artisti provenienti da aree geografiche che hanno sofferto di
un certo isolamento culturale, dovuto alle barriere
ideologiche, politiche ed economiche, presenta delle
peculiarità che la differenziano dalla tradizione della musica
religiosa europea.
Infatti, la rinnovata attrazione per la dimensione religiosa e
spirituale dell’arte musicale, più che collocarsi nell’ambito di
un particolare credo religioso, si pone su un livello in cui le
tematiche sacre sono indagate, seguendo percorsi molto
individuali. Parliamo di opere che evocano esperienze
mistiche del tutto soggettive e non si rivolgono a una
particolare comunità liturgica.
Pertanto, resta il fatto che la musica concepita per
accompagnare le funzioni rituali collettive, stenta a suscitare
l’interesse dei musicisti più capaci. Anzi l’ambito della musica
liturgica (soprattutto nell’orbe cattolico) si espone come
terreno in cui prolifica uno scadente dilettantismo. «Molta
“musica” che si scrive oggi ignora, non dico la grammatica,
ma perfino l’abbecedario dell’arte musicale. Nelle situazioni
più o meno critiche che abbiamo preso in considerazione, non
si era mai vista una degenerazione simile a quella attuale»
(V. Miserachs Grau, Chiesa e musica sacra. Passato, presente
e futuro, Fundació J. Maragall, Barcellona, 2002).
In questo poco consolante scenario si distingue quale vox
clamantis in deserto Orlando Dipiazza con la sua produzione
di musica sacra.
Il compositore friulano molto lucidamente prende atto del
degrado attuale, ma, nello stesso tempo, non rinuncia a
mettere in gioco la propria arte in favore della musica
liturgica.
«L’inizio della frattura tra i compositori e il genere sacro è
collocabile già alla fine dell’Ottocento con il progressivo
disinteresse della Chiesa per il valore trascendente della
musica. Certamente una delle cause è da ascrivere anche alla
brutta musica, spesso di gusto teatrale, che circolava nelle
cantorie e nei repertori organistici del tempo. La fase terminale
di questo percorso si può fissare nel Concilio Vaticano II. È
sempre vivo in me il ricordo di quel giorno in cui il mio maestro
è arrivato al “Tartini” scuro in volto e con la voce roca e mi ha
detto: “Non si può più comporre messe, hanno proibito il latino
e tolto perfino il Credo” [va ricordato che Orlando Dipiazza è
stato allievo di Bruno Cervenca, stimato studioso del
contrappunto polifonico vocale classico, presso il
conservatorio di musica di Trieste]. L’inarrestabile
secolarizzazione incide sempre più negativamente sulla
produzione musicale di ispirazione religiosa salvo l’opera di chi
si dedica al genere sacro per rispondere a un’esigenza interiore.
Ed è il mio caso. I compositori del Nord Europa che tu citi si
dedicano a lavori di carattere religioso per motivazioni che
attengono al loro vissuto. Condizionati da situazioni politiche
compositorE
che hanno negato loro la libertà di espressione, hanno ripreso
ora a rapportarsi con il mondo della Chiesa ortodossa che ha
sempre contato molto nella grande musica slava» (O. Dipiazza,
Intervista, a cura di M. Zuccante, Choraliter, n. 24 settembredicembre, Feniarco, 2007).
Alle motivazioni di carattere interiore – la condotta umana di
Orlando Dipiazza, sincero credente e praticante, avvalora la
cura per le opere d’ispirazione religiosa – si aggiunga,
nell’ambito di una valutazione della sua produzione sacra, un
costante richiamo alla purezza tecnico-formale e stilistica
degli autori classici della polifonia vocale, considerati fonte
inesauribile di riferimento, anche per il compositore della
nostra epoca.
«Fondamentale per la mia formazione è stato lo studio delle
opere di Palestrina per il magistero nell’uso del contrappunto
vocale e di Monteverdi per la modernità del linguaggio. Se
devo confessare una predilezione, non posso qui non citare
Carlo Gesualdo, l’espressionista del cinquecento, che mi
stupisce ancora oggi per l’esemplare aderenza musica-parola
e per l’intensità che riesce a ottenere anche nei particolari
meno esibiti delle sue composizioni» (O. Dipiazza, cit., 2007).
L’interesse per la composizione sul testo dell’ordinario della
messa attesta pertanto l’impegno in favore del riscatto della
qualità della musica liturgica, nonché tradisce il proposito di
tener vivo il culto della messa, in quanto forma musicale
assoluta e unitaria, modello di purezza ed equilibrio formale.
È difficile valutare, per il sottoscritto (che non può certamente
definirsi esperto in materia), quali siano gli esiti presenti e
futuri del qualificato contributo di Dipiazza in merito al
miglioramento della pratica del canto liturgico nelle chiese.
Perciò, ritengo che sia più assennato che mi soffermi sul
secondo aspetto d’interesse che le sue messe suscitano;
quello cioè della rigenerazione dell’antica arte della polifonia
vocale, nell’ottica di un restauro aggiornato del canone
formale e stilistico della messa polifonica.
Le tre messe che qui si presentano sono state composte a
distanza di circa un decennio l’una dall’altra, a partire dalla
fine degli anni ’80. Sarà interessante, quindi, esaminare in
quale modo si è evoluto nel tempo l’approccio del
compositore friulano alle parti che compongono il testo
dell’ordinario della messa.
La Missa brevis, per voci bianche o femminili a cappella, è
stata composta sul finire del 1989 e ha procurato all’autore
un secondo premio al Concorso internazionale di
composizione, indetto dal Florilège Vocal de Tours (Francia)
nel 1990. La partitura è reperibile presso il catalogo delle
Edition A Coeur Joie - Collection à voix égales.
Si tratta di un’opera di rimarchevole impegno compositivo e
di non facile approccio esecutivo. È concepita
prevalentemente sul piano della conduzione orizzontale delle
parti. Gli incipit di ciascuna sezione e dei singoli episodi
attestano come i motivi melodici siano esposti dalle voci
secondo un criterio di entrate equamente ripartite e
indipendenti.
25
Il compositore ricorre anche alla ricercata pratica del
fiamminghismo, là dove, ad esempio, la terza voce imita le
prime due per aggravamento. Inoltre, notiamo come egli si
cura di adottare una griglia di misure disassate e polimetriche
(5/4, 6/4, 4/4) al fine di agevolare un’autonoma articolazione
fraseologica delle voci stesse; un principio che libera il fluire
del discorso, al di là della rigida sincronia del battito.
In generale, questa Missa brevis (ma comprendente anche la
doxologia maior, cioè il Gloria) presenta grande estro e
varietà nell’invenzione dei motivi melodico-ritmici che
animano il testo di ciascun versetto. Inoltre, il dialogo
polifonico si dipana secondo una trama contrappuntistica non
necessariamente vincolata all’osservanza della regola, ma
votata ad assecondare una condotta più libera delle parti, là
dove le esigenze di cantabilità delle stesse lo richiedono.
Lo stile compositivo è nella sostanza improntato a un evoluto
diatonismo modale e i punti di attrazione tonale sono ben
scolpiti nei punti cadenzali. Ma improvvisi scarti di ambito
modale e audaci concatenazioni accordali aprono orizzonti di
un linguaggio più moderno (o antico? – ricordiamo la citata
predilezione di Dipiazza per Gesualdo da Venosa, musicista
dalle maniere di scrittura anticipatrici, che, con arditezza,
spaziano in un uso intraprendente dell’intera gamma
cromatica).
26
In alcuni episodi della Missa Choralis l’autore sviluppa
tecniche orientate a risultati timbrici, che sottolineano
specifici contesti verbali: unisoni, dialoghi antifonali tra le voci
maschili e le voci femminili, iterazioni di frammenti melodici
che ruotano attorno al fulcro di una nota-pedale.
Nel 1999 Orlando Dipiazza ha composto, per celebrare il
Giubileo del 2000, una Missa Choralis, super “Cunctipotens
Genitor Deus”, per coro di voci miste a cappella (già
pubblicata in Chorus - Choral Music Review, presso le Edizioni
Musicali Europee di Milano). Anche quest’opera è associata a
un appuntamento concorsuale. Il Gloria è, infatti stato
premiato in occasione di una competizione indetta nel
contesto dello stesso Giubileo, ed è stato eseguito in prima
assoluta dal Coro dell’Accademia Filarmonica Romana, diretto
da mons. Pablo Colino.
Il sottotitolo sta a indicare che gli spunti tematici sono
ricalcati sulla monodia gregoriana della stessa Missa
“Cunctipotens Genitor Deus”. Si consolida, perciò, l’antico
canto gregoriano, come altro punto di riferimento nell’arte di
Dipiazza. «E infatti gran parte delle sue musiche sacre sono
costruite sulla tematica gregoriana, non intesa come cantus
firmus, ma come linfa vitale che arriva in tutte le voci
infondendo alla pagina vita e vigore» (G. Radole, La carriera
musicale dell’amico Orlando Dipiazza, in Florilegium Sacrum,
a cura di F. Colussi, Pizzicato, Udine, 2009).
Sarà il vincolo ispiratore del canto gregoriano, sarà un generale
ripensamento sulla natura del proprio linguaggio musicale, sta
di fatto che questa seconda messa presenta uno stile più
strettamente ancorato a una modalità diatonica classica.
Inoltre, si aprono spazi in cui l’obbligatorietà del contrappunto
imitato cede la mano al canto prevalente di una singola voce.
compositorE
Per ultima si presenta la Missa “Orbis Factor”, composta nel
2008, per coro a quattro voci miste a cappella, o (ad libitum)
con accompagnamento d’organo (prossimamente reperibile
presso le Edizioni Carrara di Bergamo).
L’inserimento della parte d’organo e un grado di esecuzione
complessivamente agevole, fanno pensare a un’implicita
destinazione liturgica di questo lavoro. Una schola cantorum
parrocchiale (purché ben istruita), non troverà grosse
difficoltà nell’affrontare queste pagine. Il frequente ricorso al
raddoppio in ottava delle voci parallele sembra essere un
espediente attraverso il quale assecondare una certa
comodità esecutiva.
La realizzazione di questa terza messa conferma, comunque,
l’intento nel tempo di Dipiazza di canalizzare l’espressione
verso un linguaggio più lineare e semplificato, non soltanto
per fini – come si è detto – di realizzazione pratica da parte
dei cantori non professionisti, ma anche per il conseguimento
di un ideale estetico di purezza melodica, affrancata dalla
complessità dell’impianto polifonico e decontaminata da
ridondanti manierismi.
27
Come la Missa Choralis, essa vive della simbiosi con il canto
gregoriano. Anzi, in questo caso il legame è ancora più
stretto, in quanto dall’antica monodia non sono ricavati
soltanto gli incipit dei singoli episodi, ma a essa ricorre
l’ispirazione melodica in ogni versetto, come alla guida di
quinta voce occulta. Insomma, sebbene la citazione non sia
letterale, il riferimento al modello melodico gregoriano è
costante.
In conclusione, queste tre messe di Dipiazza illustrano
l’evoluzione di un percorso che ha condotto a esiti differenti.
Ma i diversi connotati tecnico-stilisti di queste creazioni non
contraddicono una coerenza estetica di fondo. Le messe di
Orlando Dipiazza fanno tutte riferimento a un carattere
asciutto e austero, e a un’espressione concisa ed essenziale.
Sono opere che non concedono spazio a facili stupefazioni
sonore; ma, nell’ispirazione, antepongono compostezza e
sobrietà. Sono opere che anelano a uno stato di purezza e
chiarezza interiore. Ne sia infine sigillo la misurata schiettezza
di questo “amen”.
28
28
O magnum
mysterium
o magn
di Tomás Luis de Victoria
di Walter Marzilli
Questo mottetto è famosissimo nel mondo corale. Probabilmente lo è così tanto da diventare
una presenza ingombrante nei repertori dei cori, e negli ultimi tempi sembra sparito. Eppure è
un brano che ha molto da insegnare ai cori in quanto a cantabilità, prassi, fraseggio, dinamiche
ecc. È per questo che abbiamo deciso di mettergli di nuovo gli occhi addosso per fare alcune
riflessioni.1
Cominciamo dall’inizio: l’incipit. Si tratta di uno dei più classici incipit di mottetto dell’epoca
rinascimentale. Espongono il tema i soprani, rispondono una quinta sotto i contralti. Alla metà
dell’ottava battuta2 i tenori rispondono ai soprani e i bassi ai contralti. L’altezza originale del
primo suono tratta dalle edizioni antiche riporta un la. Questo significa che adottando la stessa
altezza e affidando l’esecuzione del brano a un coro moderno – con i contralti nella parte
dell’altus e i soprani in quella di cantus – alla battuta 3 i contralti toccano il sol grave e alla 12
sono chiamati a eseguire un improduttivo fa grave. Poi continuano a muoversi spesso sotto al
rigo. Di qui il brulicare di tante trascrizioni che spostano il brano un tono sopra. Ma questo non
nova et vetera
29
è sufficiente ai contralti per raggiungere una tessitura luminosa e
cantabile. L’innalzamento riesce però a mettere in difficoltà i
soprani, che durante le battute 4-6 devono emettere subito
quattro mi non agevoli. Non si tratta di note appartenenti a una
tessitura molto acuta, ma tale abbastanza da infastidire
l’emissione e la leggerezza di cantori non navigati. Il mi è infatti
molto vicino al passaggio di registro, in una zona pericolosa che
non permette un perfetto dominio dell’emissione, a meno che si
tratti di cantanti esperti oppure sia possibile emettere le note in
voce piena e forte. Per altri versi la tessitura del soprano
renderebbe possibile un innalzamento dell’altezza del brano, dal
momento che in tutto il brano non supera mai il re. Anche
l’estensione dei tenori non presenta impedimenti all’innalzamento
dell’intonazione iniziale. Essi toccano brevemente quattro volte
solo il mib. I bassi devono scendere per ben diciannove volte al
sol grave e toccano una volta anche il fa (diesis, secondo alcune
trascrizioni). Sono suoni già al di fuori della portata dei baritoni,
che le emettono in modo leggero e non appropriato a sostenere le
armonie del brano. Anche per i bassi quindi sarebbe opportuno
alzare il brano, visto che verso l’alto arrivano una volta solo fino
al la del quinto rigo in chiave di basso.
Allora la cosa più opportuna sembra proprio quella di alzare il brano almeno di un tono e
occuparsi dei soprani, in modo che non emettano suoni schiacciati. In effetti il mi che
dovrebbero cantare proprio all’inizio del brano, come dicevamo prima, presenta delle difficoltà
oggettive. Non fosse altro perché i soprani si trovano a essere scoperti, senza la protezione dei
suoni gravi e amalgamanti dei bassi e la loro potenzialità mascherativa.3 Questo comporta
un’insicurezza psicologica che urta
contra la necessità di un’emissione
ineccepibile. In effetti lo stesso
identico passaggio dei soprani si
ripresenta alle battute 15-16, ma in
questo caso la situazione è meno
complicata. Insieme ai soprani ci sono
tutte e tre le altre sezioni, e questo
garantisce un’esecuzione coperta e
rassicurante, sia dal punto di vista
acustico che psicologico. Altra difficoltà: il mi si trova in una zona pericolosa. Come accennato
poco fa siamo nella zona del passaggio di registro, ma non si tratta solo di questo. Occorre
aggiungervi il fatto che le vocali da emettere sono la e, la a, la i e di nuovo le e (“…et
admirabile…”). Tutte vocali che – soprattutto la i e la e – necessitano di una particolare cura
durante l’emissione dei suoni acuti. Inoltre la a può facilmente sbiadire il timbro, mentre le altre
due possono implicare una chiusura della gola. Occorre una notevole consapevolezza tecnica
per ottenere una buona emissione in questa occasione. Sarà quanto mai necessario un
abbassamento della laringe e un immascheramento. Bisogna cioè abbassare la laringe ma
indurre un leggero innalzamento del velo del palato, tale che possa essere mantenuto un
contatto aereo e di risonanza tra la parte laringo-faringea e quella soprapalatale, per attivare le
risonanze di testa.4 Tale condizione è opportuna per non schiacciare i suoni nella gola.
Un’apertura della bocca e un allontanamento delle pareti riflettenti costituite dai denti dovranno
necessariamente accompagnare la postura facciale. Il sostegno del fiato ottenuto attraverso una
buona ed efficace respirazione diaframmatica farà il resto. Un procedimento didattico che dà
buoni risultati è quello di far esercitare i soprani a emettere questo passaggio direttamente nel
registro di testa, innalzando ancora di più l’intonazione del brano in modo da lavorare con il fa
diesis anziché con il mi. I soprani saranno poi invitati a emettere i suoni all’altezza definitiva
(mi) ricercando quelle stesse risonanze di testa e quelle sensazioni vibratorie.
Adesso che abbiamo idealmente – e non senza impegno – risolto ai soprani il problema dovuto
Si tratta di uno dei più classici
incipit di mottetto dell’epoca
rinascimentale.
num
30
all’innalzamento dell’altezza del brano ci chiediamo: siamo
sicuri di aver fatto la cosa giusta? Siamo davvero certi di voler
affidare la parte dell’altus ai contralti? Siamo cioè sicuri di
privarci della capacità di penetrazione dovuta al la acuto e ai
tredici sol che i tenori sarebbero chiamati a emettere
eseguendo la parte dell’altus secondo la prassi antica? La
differenza è proprio lì: per un tenore l’emissione di quei sol e
di quel la implica la presenza di un suono brillante, davvero
ricco di armonici superiori, e soprattutto dotato di una
capacità di penetrazione tale da illuminare qualunque frase
musicale. Al contrario, per un contralto si tratterebbe di note
ordinarie, avvolte in una tessitura centrale che impedirebbe
qualunque volo e qualunque caratterizzazione timbrica.
L’utilizzo dei tenori nella parte dell’altus5 causerebbe
un’ascesa timbrica dell’intero coro dalla voce grave dei bassi
passando per la voce in questo caso media e baritonale del
tenor fino all’altus dei tenori acuti appunto, per continuare
verso l’alto con l’ultima sezione, quella del cantus, che era
impersonato dai bambini, dai falsettisti o dai castrati. È
questa la sostanziale e caratterizzante differenza tra un coro
antico e uno moderno: nel primo il colore e il timbro sono in
continuo e ininterrotto schiarimento dal grave all’acuto; nel
secondo la voce scura e medio-grave dei contralti interrompe
l’innalzamento delle frequenze e soprattutto del timbro. Ma ci
vogliono dei bravi tenori acuti e leggeri, e anche un numero
non troppo grande di donne per non minare l’equilibrio
generale del coro, dato che le voci femminili andrebbero tutte
insieme – soprani e contralti – a cantare la parte del cantus.
Ma tutto questo non costituisce una novità…
Se queste condizioni non si potessero avverarsi, allora la
soluzione può essere efficacemente risolta inserendo due o
tre tenori (in certi casi può bastarne addirittura uno solo)
nella sezione dei contralti alla parte dell’altus. In questo caso,
agendo opportunamente sulla scelta
dell’altezza della linea melodica dell’altus in
riferimento alle possibilità all’acuto dei tenori
aggiunti, si potrà ottenere un buon
compromesso. E anche questa non è una
novità…
Iniziamo un ipotetico ascolto del brano.
Ci accorgiamo quasi subito del pericolo che
alle battute 3 e 4 le donne – soprattutto i
contralti – potrebbero prendere fiato tra
“magnum” e “mysterium” (il condizionale è d’obbligo, ma
quasi superfluo…). A causa della sovrapposizione con la
pausa dei soprani, questo comportamento causerebbe
un’improbabile interruzione del flusso sonoro generale
proprio sul nascere del brano. La cosa è diversa quando si
ripropone la stessa situazione al termine del bicinium, perché
la presenza delle quattro voci scongiura il momento di vuoto
dovuto all’eventuale respiro degli uomini. Resta il fatto però
che, per coerenza di fraseggio, se le donne non hanno
respirato alle battute 3 e 4 non devono farlo nemmeno gli
uomini a 10 e 12. Lo esige l’aspetto tematico delle melodie,
che si ripetono esattamente uguali.
Un altro pericolo risiede nel semitono diatonico all’inizio del
primo tema. Di solito è emesso un po’ troppo stretto a causa
della forte attrazione in basso verso la nota precedente.
Occorre però notare che la nota sul semitono nelle prime
battute risulta formare in un caso la terza minore dell’accordo,
e nell’altro è alla base di un intervallo di quinta giusta. In
entrambi i casi l’intervallo non può essere calante.
Successivamente occorre porre attenzione alla battuta 8.
Portando il tactus in due – come si conviene ordinariamente
nella conduzione della polifonia rinascimentale – e volendo
introdurre un lieve rallentando legato alla cadenza al termine
del bicinium, potrebbero insorgere delle indecisioni. Se così
fosse, ad esempio a causa dell’esecuzione della particolare
forma di ochetus dei soprani e delle due crome dei contralti
in rallentando, non sarebbe da escludere in quel punto
l’adozione di una scansione in quattro movimenti. A patto che
produca solo una “flessione” del tactus e non una frenata
vera e propria, che darebbe al fraseggio una ventata di
improbabile “romanticismo”, sempre in agguato quando si
esegue musica del sanguigno De Victoria.
E adesso veniamo alle battute 10 e 11 e alle alterazioni che
esse contengono. In un momento così delicato come la fine
dell’esposizione dei temi, De Victoria spoglia completamente
l’armonia affidando alle tre sezioni solo un unico re. Perché?
Probabilmente voleva che l’introduzione improvvisa del
successivo accordo maggiore sortisse il massimo effetto. In
questo modo era sicuro di poter descrivere al meglio lo
stupore e il mistero del miracolo della nascita di Gesù
Bambino. Lo farà anche in seguito, alle parole “O beata
Virgo…”. Ma la questione non investe direttamente il primo
accordo maggiore, quanto il fa diesis dei soprani alla
seguente battuta 11. Qui l’autore tralascia la possibilità di una
preziosa cadenza piccarda e ripete l’accordo maggiore,
La falsa relazione nel Rinascimento
era considerata una ricercata
soluzione contrappuntistica.
nonostante questo obblighi i soprani ad avventurarsi in un
segmento melodico contenente due semitoni diatonici molto
ravvicinati (fa diesis-sol e la-sib), dal vago sapore orientale
tanto vicino al gusto melodico dell’autore. E dire che ci tiene
davvero tanto a questo frammento melodico, se consideriamo
il fatto che le alterazioni venivano inserite direttamente
dall’autore solo nei casi di dubbia interpretazione. Questo
significa che in condizioni di libertà esecutiva da parte dei
cantori del tempo il secondo fa poteva essere legittimamente
cantato bequadro, introducendo una cadenza piccarda. Ma
prima o poi il fa dovrà tornare naturale: succede nella battuta
successiva a opera dell’altus. Ma l’irrequietezza delle
nova et vetera
alterazioni – che
dobbiamo considerare
tipica di De Victoria
– non si placa ancora:
nella spazio di una
battuta (la 13)
l’accordo di re si
alterna tra maggiore
e minore. Appena
dopo, alla battuta 16,
il fa, secondo la
prassi rinascimentale,
è di nuovo diesis,
seppure non indicato,
come pure a battuta
20, 21 e 22, dove
invece appare
alterato.
Abbiamo appena
parlato di cadenza piccarda. Nell’edizione a stampa del 1572
conservata ad Avila non esiste tale soluzione melodicoarmonica, che tanta ricchezza invece è in grado di dare allo
scorrere contrappuntistico. È però molto interessante notare
che la piccarda è invece chiaramente presente nella edizione
a stampa del 1589.6 Siamo alla battuta 25 della edizione
moderna, ed è assente il diesis davanti al fa dell’altus. Con il
fa diesis del soprano presente appena un quarto prima si
forma appunto una bellissima piccarda. Dimenticanza? Non
credo proprio. Si tratta invece di un movimento voluto tra due
voci, la tipica piccarda, molto meno interessante e frequente
se causata dalla stessa voce che ha il suono alterato, e molto
più densa quando è dovuta allo scambio di nota alterata e
non alterata tra due diverse sezioni. In altre parole ciò che noi
adesso bolliamo e condanniamo come falsa relazione nel
Rinascimento era considerata una ricercata soluzione
contrappuntistica…
Notiamo anche l’uso della sillabazione sulle moderne crome.
Nell’edizione antica originale figuravano come semiminime,
ma le regole osservate del contrappunto giudicavano
sconveniente di porre le sillabe sulle note più piccole della
minima.7 Questa anomalia avviene alle parole “admirabile…”,
“sacramentum…”, “animalia…”, “viderent” e “viscera”, poi non
più. In realtà anche il più canonico e osservante contrappunto
di Palestrina contravviene a questa regola nel bellissimo
passaggio “…pugnaverunt contra me…” in Nigra sum, dove la
forzatura è sapientemente legata a fini espressivi. Molto più
libero invece il trattamento delle sillabe sulle crome moderne
(le antiche semiminime) in ambito profano.
Ma torniamo alla battuta 9 per sottolineare un altro raffinato
aspetto: l’esistenza di due note puntate contemporanee nel
cantus e nell’altus. Di norma l’introduzione di un ritmo
puntato in una linea è associato e contrapposto a un ritmo
regolare di note senza punto.8 Esistono molti casi di ritmi
puntati. Quando il ritmo puntato è comune a tutte le sezioni
del coro vuol dire che ci troviamo quasi sempre di fronte a
31
una sillaba accentata di particolare rilevanza testuale, come
nel caso delle battute 17, 23 e 25.9 Alla battuta 11, invece, il
ritmo puntato delle due sezioni superiori capita sull’ultima
sillaba della parola “magnum”, atona ma con una melodia
ascendente. Situazione apparentemente in contraddizione.
Da una parte l’esigenza di ammorbidire l’ultima sillaba della
parola, dall’altra la tensione accrescitiva della melodia
ascendente. Oltretutto l’elevazione melodica dei contralti si
interrompe bruscamente per fare posto a un lungo salto verso
l’ottava inferiore, e allora si capisce tutta la pericolosità del
momento. Spetta all’esecutore risolvere il problema con
grande cura del fraseggio. Ma come ci si comporta con i ritmi
puntati?
Esistono varie scuole di pensiero. Nel caso della battuta 11
occorre rimanere leggeri, magari facendo una piccola
articolazione del suono senza appoggiarsi su un terreno
fragile come lo è una ultima sillaba di parola. Negli altri casi
c’è chi fa un crescendo, chi un decrescendo e chi mantiene
una dinamica costante. E se invece la contemporaneità dei
ritmi puntati in tutte le sezioni del coro fosse un segnale in
codice del compositore antico atto a stimolare un determinato
fraseggio? Riusciamo ad avere un’idea di quanto sforzo sarà
costato al compositore rinascimentale – che scriveva a mente,
a parti separate e spesso su fogli diversi e senza stanghette
di battuta! – far coincidere in tutte le voci un ritmo puntato
nello stesso momento e sulla stessa parola?10 E noi dovremmo
condurre questi passaggi puntati e omoritmici con la sola
preoccupazione di mandare insieme i cantori, senza attribuire
una rilevanza di fraseggio espressivo al suono? Mi sembra un
po’ poco.
Io sono convinto che la risposta ce la possano fornire gli
archi. Sì, proprio gli archetti dei violini rinascimentali,11 ma
anche il modo in cui i violinisti suonano adesso i ritmi puntati
delle composizioni del repertorio barocco…
Ma procediamo per ordine e domandiamoci intanto: perché
chiamare in causa la famiglia degli archi? Perché questi
strumenti hanno da sempre accompagnato le varie formazioni
vocali, e per di più (e non a caso) usando le stesse chiavi
delle voci.12 Si sa che la continua frequentazione finisce per
far avvicinare le sensibilità, le scelte artistiche e quelle
estetiche. In altre parole le voci e gli archi finivano per
assomigliarsi, sia nei fraseggi che nelle intonazioni, nelle
sonorità come nel timbro.13 Ma adesso vediamo come influisce
sul suono e soprattutto sul fraseggio il tipo di archetto usato.
Possiamo efficacemente avvalerci dell’iconografia musicale
per conoscerne la forma. Essa ci regala molte illustrazioni che
rappresentano gli archetti del Quattrocento proprio con la
forma di un vero e proprio arco (e come poteva essere
diversamente, visto il nome dato a questo attrezzo…?). Ma
quale suono avranno creato questo tipo di archetti scorrendo
sulle corde? Senza ombra di dubbio un suono prima crescente
e poi decrescente, a causa della minore tensione del crine al
centro dell’attrezzo, e quindi della maggiore capacità di
vibrare. E questo avveniva tirando l’arco sia dalla punta che
dal tallone. Ecco da dove nasce la ben nota messa di voce!
32
Note
1. Non sono presenti i classici esempi musicali,
proprio per la facile reperibilità di questa partitura.
2. Dovremmo correttamente parlare di sedicesimo
tactus, ma sublimiamo questo preziosismo…
3. Il mascheramento è un noto fenomeno acustico,
per cui le frequenze acute sono avvolte e “nascoste”
da quelle gravi.
4. Lingua e velo del palato infatti si muovono
contemporaneamente in direzioni opposte. Mossi
dall’unico nervo glosso-faringeo, i due elementi si
muovono una abbassandosi (la laringe) e l’altro
innalzandosi (il velo). In questo modo il cantante
ottiene la caratteristica copertura dei suoni, tipica
dell’ambito lirico, dal Romanticismo in poi.
5. L’etimologia della parola lo dice chiaramente: si
tratta di una parte acuta e alta, e non scura e grave
come i contralti…
6. Sono molto grato al maestro Luciano Luciani,
Maestro dei Pueri della Cappella Sistina, di aver
recuperato il libro a stampa nel Fondo Cappella
Sistina, collocazione CS 495. Il libro-parte del tenor è
mancante.
7. Da qui il nome di minima, intesa come la più
piccola nota che poteva portare una sillaba.
8. Cfr. battute 12, 13, 15, 16 e molte altre.
9. Un caso simile accade alla battuta 40, seppure con
i valori raddoppiati. Serve al compositore per
sottolineare un profondo sentimento di ammirazione
per la Vergine Maria e il suo grembo.
10. Recenti studi hanno potuto rispondere a molte
domande sul modus operandi degli autori
rinascimentali all’atto della composizione.
11. Sono grato al prof. Mauro Uberti, che credo per
primo abbia sollevato la questione della forma degli
archetti in riferimento alla voce umana in: Mauro
Uberti, I fisiologi spiegano il passaggio dal
linguaggio parlato al canto, in «Tuttoscienze»,
28.11.84, La Stampa, Torino, 1984.
12. Chiave di basso per il contrabbasso e il
violoncello, di tenore per le parti acute del violoncello,
di contralto per la viola e di violino per il violino,
come per l’attuale soprano…
13. Probabilmente era successa la stessa cosa tra le
voci e l’ensemble di cornetti, dal tipico suono
umano-nasale…
14. Anche perché nel frattempo le corde di budello
saranno state sostituite dalle ben più robuste corde
di metallo, insieme a tutta una serie di cambiamenti
ed evoluzioni accrescitive come l’anima rinforzata tra
le due tavole armoniche ecc…, tutte legate
all’imponente estetica romantica. Anche gli altri
strumenti dell’orchestra subiranno trasformazioni in
tal senso, e le formazioni corali diventeranno molto
grandi.
15. Questo argomento meriterebbe una trattazione
particolare e approfondita. In effetti le partiture
antiche dovrebbero essere considerate al pari di
canovacci sui quali improvvisare, secondo quanto
emerge direttamente e decisamente dai libri coevi,
con innumerevoli esempi di abbellimenti svolti.
16. Questo la dice lunga sulla pratica dell’ambivalenza
dei due segni, ammessa da quasi tutti i teorici
rinascimentali.
E in questo contesto non ha nessuna importanza se lo stimolo di
adottare la messa di voce sia partito autonomamente dall’archetto e poi
arrivato al cantante, oppure se l’archetto sia stato creato proprio con
quella forma per imitare la voce umana nell’atto di crescere e
decrescere un suono. Le cose non cambieranno (al contrario, questa
prassi si rafforzerà…) in pieno Rinascimento, quando l’archetto
assumerà la caratteristica forma con il legno inclinato rispetto ai crini,
alto al tallone e stretto alla punta, quindi a decrescere partendo dal
tallone. La dinamica del suono continuerà però a non essere ferma e
statica, ma varierà da un crescendo a un decrescendo, rispettivamente
tirando l’arco dalla punta o dal tallone. Infine una doppia arcata tirata
dalla punta (alla francese) creerà di nuovo la messa di voce. Per questo
motivo possiamo ritenere di poter dire con sufficiente ragionevolezza
che il suono delle voci non fosse mai fermo e costante. Siamo confortati
dai trattati dei musici del tempo, che affermano perentoriamente e
continuamente questa prassi vocale. Ma trattando di un periodo così
lontano da noi la prudenza non è mai abbastanza, e le affermazioni
categoriche non sono mai opportune, al di là delle proprie certezze
personali. Pensateci: se ci basassimo solo sulle frasi lette sui libri, tra
cinque secoli sarebbe forse possibile ricostruire il timbro di voce di
Pavarotti solo basandoci sulle descrizione che leggiamo oggi sui tanti
libri dedicati a lui, senza poter ascoltare una sua registrazione? O ci
troveremmo davanti a un ventaglio di possibilità?
Ma torniamo ai nostri amati suoni antichi, e chiediamoci: quando, allora,
le dinamiche sono divenute costanti e i suoni più tenuti? Guardiamo
sempre la forma degli archi: ciò succederà quando il legno sarà
diventato parallelo al crine, in modo che l’archetto possa creare la
stessa intensità del suono dal tallone fino alla punta. Siamo alla fine del
Settecento. E adesso facciamo un ulteriore passo in avanti: quando il
suono vocale crescerà di volume e l’estetica musicale verterà verso il
forte? Quando il legno si sarà rovesciato verso l’alto (al contrario della
sua primitiva posizione) e sarà possibile applicare una notevole
pressione all’arco senza il pericolo che il legno e i crini si tocchino tra di
loro.14 Quando succederà? In pieno Romanticismo.
Ma non abbiamo ancora risolto la questione delle note puntate: si fanno
in crescendo, in decrescendo o con la messa di voce? Quando siamo di
fronte a una semiminima puntata seguita da croma, per la messa di
voce in genere non c’è tempo. Una riflessione sul sistema pneumofonico
che sta alla base dell’emissione della voce renderebbe più ovvia
un’esecuzione in decrescendo, nel rispetto dei parametri aerei del
suono che vanno naturalmente a decrescere. In più dobbiamo riflettere
sul fatto che la semiminima puntata conduce la melodia verso una
piccola croma. Non è conveniente che questa sia investita da un
eventuale crescendo del suono precedente, anche perché il consueto
riverbero ne accrescerà la presenza e annebbierà ulteriormente l’uscita
della croma da questo importante alone. E poi, perché sempre i nostri
amici violinisti avrebbero acquisito l’abitudine di lasciare i suoni puntati,
creando un’elegante articolazione decrescente del suono tra la
semiminima e la croma? Non sarà per imitazione della prassi vocale?
Credo di sì. Questo pensiero è rafforzato dalla prassi strumentale
barocca di creare una cesura del suono sul punto di valore nei ritmi
puntati, fino a creare il tipico fraseggio interrotto del galoppo.
Non possiamo non pensare che ciò sia frutto di un normale processo
evolutivo legato alla prassi precedente al barocco, quindi
rinascimentale, di articolare i suoni puntati con un decrescendo.
nova et vetera
Ciò vale anche allargando le durate dei suoni ai valori
raddoppiati di minime e anche di semibrevi puntate (che nella
grafia moderna appaiono legate a cavallo di battuta).
In questo caso era probabilmente ben sfruttata la possibilità
di adottare la messa di voce, oppure subentrava l’opportunità
di variare il suono secondo le massime possibilità espressive,
cioè introducendo le colorature…15
Quando non è opportuno applicare ai suoni lunghi (siano essi
puntati o semplici) l’articolazione del suono con un
decrescendo? Quando al termine della nota compare una
dissonanza, che l’eventuale decrescendo farebbe perdere.
In quel caso è invece consigliata un’articolazione a crescere…
Abbiamo usato due edizioni a stampa del brano, quella del
1572, pubblicata a Venezia da Gardano e conservata ad Avila,
e quella del 1589, pubblicata a Milano da Tini e conservata a
Roma. Vale la pena di metterle a confronto per accorgersi di
alcune differenze particolari:
1.Edizione 1572 usa il segno di tempo tagliato, mentre 1589
quello non tagliato.16
2. 1572: “ut animalia viderunt” - 1589: “ut animalia viderent”
3.Alcune differenti posizioni delle sillabe di alcune parole
(“sacramentum”, “presepio”, “alleluia”)
33
4.Ripetuto uso dell’indicazione ij in sostituzione del testo
(1589)
5.Alcune alterazioni nell’altus:
a. un diesis omesso, ma scontato, alle battute 16 (1589)
e 62 (1572)
b.assenza del diesis a battuta 25 (caso citato della
piccarda)
6. Un diesis posto insolitamente nella seconda nota di un
ochetus del bassus a battuta 43 (1589).
Mi rendo conto che ci sarebbero ancora molte cose da dire,
ma ho superato di gran lunga lo spazio a disposizione. Solo
un’ultima riflessione che lascio a voi: contate le battute del
brano in qualsiasi edizione moderna, unendo a due a due
quelle contenute nella parte ternaria dell’Alleluja, secondo una
caratteristica scansione senaria. Sono 67. Adesso calcolatene
la sezione aurea moltiplicando tale numero per 0,618. Vedrete
che otterrete il numero 41. Siamo proprio all’inizio di un
passaggio importantissimo del pezzo, una sorta di
apparizione rivelatrice di questo “magnum mysterium” della
nascita di Gesù Cristo: “O beata Virgo…”.
Walter Marzilli alla guida
dell’ensemble della Cappella Sistina
Il maestro Walter Marzilli è stato recentemente nominato direttore dell’Ensemble ufficiale della Cappella Sistina, denominato
Octoclaves. L’ensemble è stato riconosciuto dall’attuale direttore della Cappella Musicale Pontificia Sistina, mons. Massimo
Palombella, e opererà sotto l’egida dell’istituzione vaticana (visita il sito: www.cappellamusicalepontificia.va/octoclaves.html).
Gli Octoclaves sono nati nel 2003 e dal 2009 sono diretti dal maestro Marzilli. L’ensemble è formato da un nucleo di cantori della
Cappella Sistina e da alcuni membri del Coro dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, che collaborano con il coro Sistino come
aggiunti stabili. Fino al recente importante riconoscimento, l’ensemble aveva operato in modo autonomo, tenendo numerosi
concerti per importanti istituzioni musicali.
La formazione ha al suo interno un sopranista e un contraltista, entrambi membri della Cappella Sistina. Questo permette agli
Octoclaves di affrontare un repertorio molto vasto, dalla musica antica in formazione tipica di sole voci maschili fino ai brani a
voci miste. I membri degli Octoclaves sono tutti cantanti che hanno un’importante carriera solistica, fattore consueto tra i
componenti della Cappella Sistina. Come solisti hanno cantato in Argentina, Brasile, Corea, Francia, Germania, Giappone,
Inghilterra, Lussemburgo, Malta, Montenegro, Spagna, Stati Uniti (Michigan, Canada, Stato di New York, California…), Svezia,
Svizzera, Ungheria, Venezuela.
L’ensemble Octoclaves ha registrato recentemente un intervento musicale (Crux fidelis di D. Bartolucci) in una serie di trasmissioni
televisive dell’emittente TV2000 (www2.tv2000.it/home_page/programmi/00000751_Puntata_del_28_gennaio_2012.html). Inoltre
ha appena finito di incidere un cd dedicato ai responsori della Settimana Santa scritti dai docenti di composizione del Pontificio
Istituto di Musica Sacra. Li vedremo impegnati a breve in un interessante concerto all’interno della lunga stagione del PIMS, che
va da novembre 2011 a giugno 2012. In questa occasione saranno eseguiti alcuni tra i più intensi brani del Cantico dei Cantici di
Giovanni Pierluigi da Palestrina, eseguiti in formazione antica dagli Octoclaves. Ogni brano sarà poi avvicinato di volta in volta
all’esecuzione dello stesso titolo a opera del Coro Polifonico del Pontificio Istituto di Musica Sacra, musicato dai docenti di
composizione dell’istituto. Sarà un dialogo, forse mai interrotto, tra la grande tradizione polifonica rinascimentale e i nuovi
orizzonti dell’arte del comporre.
34
L’EVOLUZIONE DEL CANTO POPOLARE DI GUERRA
TRA TRINCEA E POLITICA DI REGIME
di Ettore Galvani
etnomusicologo e direttore dell’associazione corale carignanese
«…a poco a poco vanno scomparendo, soffocati e rimpastati
dall’invadente affratellamento dei popoli che viene, viene a
corsa sfrenata nei posti di terza classe delle ferrovie e dei
tram a vapore o a cavalli che sia…» (Nepomuceno Bolognini)1
Le ancestrali paure di Bolognini, fissate nelle sue lettere,
invitavano i suoi interlocutori ad affrettarsi nel cogliere gli
ultimi barlumi di saggezza attraverso i canti del popolo, che
per lui indicava esclusivamente accumulare i testi delle varie
composizioni orali, come era uso e consuetudine per i
ricercatori dell’epoca, senza porre attenzione e premura per
l’interpretazione musicale, nei cui confronti dimostrava una
generale e ostica insensibilità. E con questa esortazione il
colonnello garibaldino ci fa supporre quanta e quale fosse la
sua preoccupazione per la perdita di identità popolare e di
aggregazione sociale.
Un’inquietudine di fatto presente in tutti i periodi storici, che
ha sempre assillato i cultori del folklore e delle tradizioni
popolari: il “non fare in tempo” a salvaguardare le memorie e
le costumanze prima dell’oblio atavico, prima che cali il buio
sulla memoria dei popoli.
Con la Prima Guerra Mondiale si chiude in Italia
una stagione di studi antropologici forti ed
esuberanti, con esperienze etnologiche importanti
supportate da studi di impianto positivistico e di
impostazione mitteleuropea sul folklore regionale,
le quali trovano la loro espressione più alta negli
scritti di Giulio Fara, con L’anima musicale in Italia
del 1920, e Alberto Favara Mistretta, con Canti
della terra e del mare di Sicilia, in due volumi
pubblicati nel 1914 e nel 1920.
Dopo di loro la mobilitazione scientifica, per molti versi
inesistente su tutti i fronti accademici, fu investita da due
fattori, caratteristici del periodo, che determinarono
l’azzeramento del pensiero erudito: le politiche di controllo
del regime, anche rispetto al dibattito sociopolitico
internazionale, e l’influenza dell’idealismo crociano che
poneva la sua linea di pensiero sul rifiuto del concetto di
“scienza dell’uomo”.
L’entusiasmo risorgimentale veniva così annullato ma riusciva
a mantenere vivo il suo corpus attraverso gli studi sul folklore
di guerra con tutti i suoi simbolismi, pratiche culturali, usi e
consuetudini direttamente declinati dal folklore indigeno di
ogni singola etnia italica e dal codice cavalleresco ancora vivo
nel passato recente.
Se, da una parte, lo studio della guerra attraverso la politica
di diffusione del pensiero istituzionale servì a coercizzare le
masse in un’unica ragione sociale e nazionale, dall’altra
diventò un osservatorio in cui la trasmissione delle tradizioni,
le sue mutazioni e le relative nuove creazioni diventarono il
cuore pulsante della nascente disciplina.
In altri momenti della storia del nostro paese si sarebbero
dovuti attendere anni affinché fossero visibili e intellegibili
alcuni mutamenti culturali e di costume; ma grazie,
purtroppo, alla guerra, tutto ciò era a portata di mano in un
tempo relativamente breve e circoscritto.
La nazione veniva mobilitata in tutta la sua lunghezza,
deportando obbligatoriamente tutte le etnie della nuova
patria: etnie che, fino a 50 anni prima, avrebbero combattuto
su fronti diversi per difendere uno status-quo legato a
mentalità di impronta medievale.
I tratti culturali distintivi di un popolo quali i canti, le
superstizioni, i proverbi, i giochi, le varie costumanze di vita e
l’impasto educativo-religioso venivano messi in comune e di
conseguenza fortemente mescolati e contaminati tra loro,
dando origine a una promiscuità intellettuale che sarebbe
diventata il substrato sociale della nazione post-unitaria.
La “trincea” assume una valenza
fondamentale per lo sviluppo delle
nuove tradizioni del paese.
Una deportazione di massa, organizzata e metodica, in nome
di un popolo ancora imberbe, in memoria di padri fondatori,
sconosciuti ai più, che, tra il 1821 e il 1870, pagarono a caro
prezzo l’idea risorgimentale di Italia Unita.
In questo particolare momento storico, dunque, la “trincea”
assume una valenza fondamentale per lo sviluppo delle nuove
tradizioni del paese.
Piemontesi, lombardi, veneti, sardi, siciliani… da nord a sud,
tutti gli uomini abili alle armi vennero reclutati per far fronte
al nemico che si accalcava sui confini orientali delle nostre
Alpi, fino ad arrivare a portare al fronte i Ragazzi del ’99.
La trincea dunque, parafrasando la vita normale, diventava la
nuova piazza del paese nella quale, alla domenica mattina,
prima e dopo Messa Grande, la gente si ritrovava per mettere
in comune problemi, dubbi, opinioni, lavori e goliardie…
canto popolare
35
Note
Forse per caso o forse per una consapevolezza intrinseca nella cultura di ogni
soldato al fronte, nasce e viene coniato il motto «Canta che ti passa»,
espressione spensierata ma ricca di significato, incisa su una parete del
camminamento da un soldato sconosciuto durante le lunghe attese di
posizione.
Ripresa e portata al pubblico ludibrio da Piero Jahier, che la utilizzò come
epigrafe della raccolta di Canti del Soldato2 del 1919, come «buon consiglio che
un fante compagno aveva graffiato nella parete della dolina», divenne
l’aforisma per eccellenza della “quarta guerra d’indipendenza”.
Nascono i primi canti d’autore, fortemente voluti dai vertici militari, con
concorsi interni alla truppe regolari, nascono canti che rimarranno nella
memoria e nel sangue di generazioni di soldati:
«[…] Indubbiamente i canti d’autore, per lo più ordinati dall’alto comando delle
forze armate, venivano utilizzati a scopo propagandistico per rafforzare lo
spirito dei soldati tanto al fronte quanto nelle retrovie. Esempio fulgido di
questa iniziativa fu sicuramente La canzone del Grappa scritta dal generale
Emilio De Bono, Comandante il IX Corpo d’Armata, e musicata dal capitano di
fanteria A. Meneghetti in occasione della festa dell’Armata del Grappa in cui
avrebbe partecipato Vittorio Emanuele III. Altri autori e compositori dell’epoca
quali Libero Bovio, E.A. Mario, Gaetano Lama, G. Drovetti, C. Arona
contribuirono alla produzione dell’innodia di guerra sino ai primi anni venti».3
A fronte di ciò, l’attaccamento a un repertorio corale legato a un periodo
storico ben identificato diventa un momento di confronto non solo da un punto
di vista artistico ma anche e soprattutto da una prospettiva storica e
folkloristica.
Ed è in questo contesto che l’affermazione di Edward H. Carr diventa
illuminante ed esplicativa: «Il passato è comprensibile per noi soltanto alla luce
del presente, e possiamo comprendere il presente unicamente alla luce del
passato. Far sì che l’uomo possa comprendere la società del passato e
accrescere il proprio dominio sulla società presente: questa è la duplice
funzione della storia».4
Affrontare il cosiddetto repertorio “alpino”, o di ispirazione a tale vocazione
filosofica, diventa allora un riportare a viva memoria scorci di storia e di vita
quotidiana permeati e contaminati da quelle movenze proprie e connaturate di
1. N. Bolognini, Usi e Costumi del Trentino, Trento
1882-1892, p. 2, ristampa anastatica, ed. Forni,
Bologna 1979.
2. P. Jahier, Canti di Soldati, Testimonianze fra cronaca
e storia 1914-1918, Milano, Edizioni Mursia 2009.
3. E. Galvani, Vestì da Melitar, 1821 - 1918 Dal
Risorgimento alla Prima Guerra Mondiale, Torino,
Daniela Piazza Editore 2010.
4. E.H. Carr, Sei Lezioni sulla Storia, Giulio Einaudi
Editore, Torino 2000.
5 G. Vidossi, Folklore di guerra. Ex voto italiani,
estratto da Il Folklore italiano, anno 1931 n. 6,
Catania 1932.
6. Colonnello Paolo Caccia Dominioni, Medaglia d’oro
al valore dell’esercito. Già Comandante del 31º
Battaglione Guastatori del Genio nelle battaglie di El
Alamein, assuntasi volontariamente, dopo la fine
della Seconda guerra mondiale, l’alta ed ardua
missione di ricerca delle salme dei Caduti di ogni
Nazione, disperse tra le sabbie del deserto egiziano,
la svolse per oltre 12 anni, incurante dei disagi, dei
sacrifici e dei rischi che essa continuamente
comportava. Con coraggio, sprezzo del pericolo,
cosciente ed elevata preparazione tecnico-militare,
condusse personalmente le ricerche tra i campi
minati ancora attivi, venendo coinvolto per ben due
volte nell’esplosione delle mine, sulle quali un suo
gregario fu seriamente ferito e ben sei suoi
collaboratori beduini rimasero uccisi. Per opera sua
oltre 1.500 Salme Italiane disperse nel deserto,
unitamente a più di 300 di altra nazionalità, sono
state ritrovate. Altre 1.000, rimaste senza nome, sono
state identificate e restituite, con le prime, al ricordo,
alla pietà e all’affetto dei loro cari. 4.814 caduti
riposano oggi nel Sacrario Militare Italiano di El
Alamein, da lui progettato e costruito, a tramandarne
le gesta e il ricordo alle generazioni che seguiranno.
Ingegnere, architetto, scrittore e artista, più volte
decorato al Valore Militare, ha lasciato mirabile
traccia di sé in ogni sua opera, dalle quali è derivato
grande onore all’Esercito Italiano, sommo prestigio al
nome della Patria e profondo conforto al dolore della
Comunità Nazionale duramente provata dai lutti della
guerra. El Alamein, Sahara Occidentale Egiziano,
1942-1962.
7. «Il 17 ottobre dell’anno 1528, nella città di Napoli,
in casa dei duchi di Tremoli, Michele Antonio,
undecimo marchese di Saluzzo, capitano generale
delle armi francesi nel reame, mortalmente ferito al
ginocchio da un colpo d’obice ricevuto all’assedio
d’Aversa, fatti chiamare al letto di morte i suoi più
fidati compagni d’arme secolui prigionieri del
vittorioso esercito cesareo, dettava in loro presenza il
testamento che forma il soggetto della presente
canzone, e spirava il giorno dopo, lasciando, a
giudizio degli storici, gran desiderio di sé ai suoi
popoli, e onorata memoria presso gl’Italiani e i
Francesi che con lui militarono». Memorie storicodiplomatiche appartenenti alla città e ai marchesi di
Saluzzo, Muletti D., 1828-1833.
8. E. Galvani, op. cit.
9. M.L. Straniero, Manuale di musica popolare,
Manuali BUR, Milano 1991.
10. C. Caravaglios, Il folklore musicale in Italia (1936),
Arnaldo Forni Editore, Sala Bolognese 1979.
36
ogni singola realtà culturale regionale; significa ripercorrere
l’esegesi della storia attraverso le testimonianze della oral
history del nostro popolo.
Il canto degli alpini dunque, più di qualsiasi altro corpo
militare, trova la sua genesi in quella posizione fisica
chiamata trincea e in tutti i suoi dettagli di interazione
interpersonale.
La Prima Guerra Mondiale, ultima guerra di posizione, è
stata generatrice di tutta quella produzione che, affondando
le sue radici nella ballata narrativa a contesto epico-lirico,
trasforma e adatta i temi legati all’onore, alla nobiltà
d’animo e all’educazione dei rapporti interpersonali al
nuovo momento storico contingente.
Il gusto musicale dell’epoca ha tessuto temi di grande impatto
emotivo e la diffusione di tali documenti ha avuto una eco
imponente, anche grazie alle prime compagini corali che si
avvicinarono a tali argomenti nell’immediato Dopoguerra.
Il canto del fronte definito successivamente alpino, dunque,
appare come una metafora per raccontare ed esprimere
momenti di vita particolari e per fissarli nella mente e nella
voce di ogni singolo abitante della trincea.
La stesura del nuovo canzoniere popolare a sfondo militare
trova terreno fertile in tutte quelle costumanze musicali
proprie di ogni singolo abitante di quel lungo Paese che si
snoda serpeggiante tra le pianure e le montagne della nostra
penisola.
Il canto degli alpini ha subito le modificazioni del tempo e ha
attinto da un substrato collettivo fortemente radicato per
mutarsi, con spunti e suggerimenti di vita bellica, e plasmarli
nel nuovo contesto storico che si stava delineando
all’orizzonte.
Ed è così che canti appartenenti a culture e correnti di
pensiero diametralmente opposti diventano un tutt’uno nella
celebrazione del nuovo contesto storico.
Le trasformazioni culturali solitamente scandite dai secoli
acquistano una velocità impressionante e nell’arco di tempo di
un decennio si generano e si diffondono attraverso l’oral
history italiana i pilastri della nuova cultura popolare.
«La guerra creò con la sua psicologia e con il suo movimento
di masse condizioni straordinarie che consentirono, come in
tanti altri campi anche in quello del folklore, che sviluppi,
richiedenti normalmente lunghi cicli d’elaborazione,
maturassero in un breve spazio d’anni. Il clima bellico fu, sotto
questo aspetto, simile al clima artificiale d’un laboratorio in cui
si cerchi di riprodurre a scopo di studio fenomeni della
natura».5
Temi classici come la ballata de Ël Testament dël Marchèis dë
Salusse di origini piemontesi diventa Il Testamento del
Capitano, celebrato e mitizzato da personaggi eclettici e
istrionici come Paolo Caccia Dominioni.6
Il rapporto storico della battaglia di Aversa7 del 1528 diventa
successivamente ballata per officiare le gesta eroiche del Gran
Siniscalco di Francia, piemontese di nascita e francese di
adozione, e ancora nel nuovo evento guerresco della Prima
Guerra Mondiale si rigenera, diventando il nuovo motivo di
celebrazione dei tanti ufficiali al fronte, rinascendo a nuova
vita come Il testamento del Capitano degli alpini, eroe per
necessità più che per indole o virtù.
E ancora, nella trasformazione continua del popolo, nella sua
Il canto si trasforma
e muta ancora la sua veste.
elaborazione collettiva unica e perpetua, il canto napoletano
Sona chitarra, scritto da Libero Bovio ed Ernesto de Curtis nel
1913, diventa Fuoco e Mitragliatrici, inno di protesta e di
esortazione alla vittoria, che celebra le conquiste e le tragiche
sconfitte del Monte Cappuccio, del Doberdò, del Monte Nero e
di Gorizia con l’innodia di Stato a benevolenza dei Savoia.
Il canto si trasforma e muta ancora la sua veste. Il canto dei
minatori della Galleria del Gottardo, nato probabilmente
durante i lavori di scavo, fra il 1872 e il 1880, diventa il
lamento sofferente e accorato degli alpini dell’Ortigara nella
canto popolare
Estratto della “Scheda Caravaglios”
malinconica celebrazione della loro avventura, accompagnata
dal celeberrimo fucile M95 (Mannlicher 95) in dotazione ai
cecchini austriaci e soprannominato “Ta Pum”. Il ritornello
ostinato che percorre tutto lo svolgersi del canto ricorda il
risuonante frastuono del brillare delle mine nei cunicoli
scavati a pala e piccone; e per assonanza
fa ritornare a viva memoria il rumore
della pallottola nemica durante la
deflagrazione e il successivo e tardivo
rumore dello sparo a tragedia compiuta.
Ma tutte queste evoluzioni stilistiche,
tutti questi “nuovi documenti storici”,
avranno il dominio della scena solamente
dopo il secondo conflitto mondiale, grazie
anche alla sensibilità di stampo
cavalleresco e risorgimentale
tramandataci attraverso gli studi e le
analisi di personaggi quali Nigra, D’Ancona, Tigri, Tommaseo,
Ferraro, Pitrè e molti altri, col risorgere delle attività
intellettuali dal letargo atavico del sistema politico di regime.
In questo particolare scenario socioculturale si articolano
eventi che, pur passando in sordina rispetto ai temi della
politica contemporanea dell’epoca, segneranno delle tappe
37
fondamentali per la sopravvivenza minimalista degli studi
folkloristici in Italia: citiamo il Primo Congresso di Etnografia
italiana (24 ottobre 1911), la nascita dell’O.N.D., Opera
Nazionale Dopolavoro, (1 maggio 1925), contemporaneamente
alla nascita, nello stesso anno, de Il Folklore italiano, a opera
di Raffaele Corso, ribattezzato nel 1933 Archivio per la
raccolta e lo studio delle tradizioni popolari italiane, in
quanto il termine folklore richiamava culture “straniere”
rispetto al concetto di italiano del regime.
In questo dispersivo stillicidio di menti e di pensieri filosofici,
a parte il contributo di padre Agostino Gemelli sugli studi
folkloristici a cui va il merito di essere stato con molta
probabilità il primo a cogliere il valore del folklore di guerra
per le discipline scientifiche umane, I canti delle trincee di
Cesare Caravaglios si può definire un tassello importante del
filone del folklore di guerra, soprattutto per gli sviluppi
metodologici che lo stesso autore darà all’etnomusicologia
qualche anno dopo:
«[…] Nel 1930 Cesare Caravaglios con I canti delle trincee dà
vita a una delle raccolte più importanti dell’epoca sui canti
della guerra, sulla loro origine, produzione e diffusione.
Facendo riferimento alle moderne concezioni sullo studio delle
tradizioni orali, non può sfuggire l’altalenante contraddizione
metodologica dell’autore: prima lo vede alla ricerca del
modello della canzone militare pura separandola dal contesto
in cui essa si genera e poi lo scopre all’analisi delle fonti per
ritrovare nei canti del Risorgimento e più in generale nel
repertorio dei canti popolari e popolarizzati, come lui stesso li
chiama, quei modelli storico culturali che portarono alla
formazione di quella sezione tematica incentrata sui canti del
primo conflitto mondiale. Caravaglios articola la sua
pubblicazione in dodici capitoli distinti e all’interno di questi
si trovano, a nostro avviso, l’essenza e la concezione della
filosofia del ricercatore sui canti di guerra».8
Dopo I canti del nostro soldato: documenti per la psicologia
militare, del 1917, dello stesso Gemelli e i Canti di soldati
raccolti da Barba Piero - Zona di fuoco, del 1918, di Piero
Con la Prima Guerra Mondiale si
chiude in Italia una stagione di studi
antropologici forti ed esuberanti.
Jahier, pubblicati sul supplemento a L’Astico, giornale di
trincea curato dallo stesso autore, il lavoro del Caravaglios
risulta, pur nella sua lontananza temporale, filosofica e
metodologica, un lavoro tutto sommato completo anche nella
sua serena e trasparente adesione alle politiche istituzionali
di regime.
38
È chiaro che, nel contesto generale di riorganizzazione culturale operata dalla politica del periodo a partire dalla
fine della Grande Guerra sino alla metà degli anni Quaranta, l’attenzione e l’approccio filosofico ai canti di
guerra sono stati fuorviati dal controllo egemonico della comunicazione e dalla politica stessa del regime che
censurava o caldeggiava inni e canti in relazione all’impianto narrativo o alla probabile interpretazione che si
sarebbe potuta dare intonando taluni canti piuttosto che altri. Il contesto politico evidenzierà ancor più la
chiusura interpretativa e l’approccio metodologico, portando inevitabilmente nel corso del ventennio gli studi di
indirizzo folklorico e filologico verso una esteriorità e di concetti permeati dalla retorica nazionalista di impronta
guerresca.
Al di là di tutte le analisi storico politiche, però, nell’immediato Dopoguerra si è potuto rivalutare il messaggio
degli studiosi dell’epoca sotto un’ottica di rinnovata espressione accademica andando a rivalorizzare gli studi
che, in un primo tempo, sembravano di basso profilo culturale.
Le pubblicazioni riflettono un determinato momento culturale e sociale che, in fondo, il popolo aveva assimilato
e che per certi versi aveva fatto suo. La testimonianza importante però è data dal fatto che, a distanza di quasi
cento anni dal primo conflitto mondiale, molti canti sono rimasti nella memoria della gente a monito e ricordo di
tante battaglie vinte e perse in nome di un’unica unità nazionale. L’evoluzione degli studi folkloristici tuttavia,
pur nella ristretta cerchia degli studi dedicati al folklore di guerra, ci ha tramandato un documento di incredibile
importanza etnomusicale; il frutto di lavori di secondo ordine o di intuizioni appannate e filtrate da
condizionamenti politici, ma che hanno dato vita a uno dei saggi di carattere divulgativo e metodologico più
interessanti del periodo ascritto: Il folklore musicale in Italia.
Nel 1936, dunque, Cesare Caravaglios
pubblicava a Napoli il suo ultimo libro che
rappresenta la summa delle sue esperienze
scientifiche e il compimento di quindici anni di
ricerche e di studi nell’ambito
dell’etnomusicologia dell’epoca.
Tra aforismi e spunti metodologici, il
Caravaglios traccia un percorso culturale delle
varie opere fino ad allora edite nella ricerca
folklorica, motivandole criticamente e
abbinandole alle intuizioni e alle metodologie di ogni singolo studioso analizzato. Nelle sue 480 pagine, l’autore
articola il suo lavoro in sei capitoli, dando ampio spazio a un’imponente bibliografia che consta di ben di 220
pagine puntualmente dettagliate. Ma la punta di diamante della sua fatica è indubbiamente la scheda posta
nella sesta parte sua summa editoriale.
«Le diligenti indicazioni metodologie del Caravaglios»9, come cita Michele Straniero, «ci orientano verso una
metodologia pratica e pragmatica fino ad allora solamente descritta da ogni singolo ricercatore ma mai così
redatta con profonda dovizia di particolari e informazioni anche di tipo grafico».
Nei munifici consigli per la sua compilazione, il Caravaglios riferisce: «Trascritto sul pentagramma il canto, il
raccoglitore non ha compiuto tutto il suo lavoro in quanto egli deve ancora ricercare e raccogliere tutti quegli
elementi che servono a illustrare il documento etnografico che ha fissato e che riguardano, oltre che il canto
stesso, il cantatore, gli strumenti musicali che costui ha adoperato, la forma e l’occasione nella quale il canto è
stato ripetuto, la diffusione geografica, la bibliografia ecc. relative al canto stesso»10.
Dell’esecutore materiale, inoltre, consiglia ovviamente di segnare le generalità e anche il tipo di famiglia dalla
quale proviene e ancora prosegue suddividendo in due schede diverse la tipologia di documento ritrovato, sia
esso canto o ballo, e di quest’ultimo consiglia – e illustra con documenti grafici come – di riportare i vari passi
di danza che accompagnano l’esecuzione musicale.
Un documento organizzato e complementare che ancora oggi è modello di studio e di metodo.
Le ricerche in campo etnomusicologico hanno fatto passi da gigante negli ultimi cento anni ma le basi di questa
articolata e un po’ dimenticata disciplina umanistica sono state gettate dai vari studiosi che hanno operato tra
la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento, implementando reciprocamente le varie idee e metodologie in
un continuo lavoro di elaborazione collettiva, come è nella natura stessa del canto popolare.
Il canto degli alpini trova la sua
genesi in quella posizione fisica
chiamata trincea.
portraiT
39
Chi canterà le mie storie?
Intervista a Bepi De Marzi
a cura di Mauro Zuccante
Innanzitutto, grazie, maestro Bepi, di aver accettato di
colloquiare con me. Sono sicuro che i lettori di Choraliter
gradiranno approfondire, attraverso le tue stesse parole,
alcune delle tematiche inerenti alla tua opera.
Un capitolo cospicuo della tua produzione raccoglie i canti di
ispirazione popolare legati, più o meno direttamente,
all’ambiente alpino. A distanza di diversi decenni dal suo
fiorire, e in un momento che coincide con il compiersi di un
arco generazionale, prova a tracciare un bilancio della
stagione dei cori di montagna.
A Milano c’è un coro di poche ma ottime voci molto giovani. Il
repertorio che propone, eseguito con fedeltà e accuratezza, è
quello classico, elaborato a Trento dai Pigarelli, i Pedrotti, poi
i Mascagni, i Dionisi e l’ispiratissimo grande pianista
Benedetti Michelangeli. Chiedere a questi giovani “perché
cantano” potrebbe essere illuminante per capire l’attuale
situazione corale. La montagna? In montagna non si è mai
cantato così. Nelle valli alpine, questo genere vocale e
armonico è arrivato dalle città con l’escursionismo. Alla fine
degli anni ’60, in un convegno a Cortina, si è detto che i cori
maschili erano tutti “trentinizzati”. Ma se non ci fosse stato il
Coro della SAT, nessun coro maschile sarebbe sorto nel
secondo dopoguerra. Questo è un tempo sospeso,
dove nell’incertezza del futuro si propone di tutto.
Ma io vorrei tornare a quel “perché”, ben sapendo
che rimarrebbe senza risposta. E non basta
ricordare la celebre frase “perché la montagna è
là!”. L’alpinismo classico è finito da tempo. Anche
l’escursionismo di massa. Oggi si va nei boschi con
il fuoristrada e sui sentieri con la moto da cross. E
mi viene da piangere.
non mi sono mai posto il problema della purezza,
consapevole che un canto autenticamente popolare viene
falsato appena lo si tocca, appena lo si elabora
armonicamente e vocalmente. Certo: il mio modello iniziale è
stato il coro trentino con i suoi inimitabili musicistiarmonizzatori. Oh, le armonizzazioni! Si è sempre parlato solo
di armonizzazioni, per i nostri repertori. Mi intenerisce sentire
tanti coristi delle centinaia di gruppi maschili che, nominando
Beethoven, dicono che ha fatto “nove armonizzazioni”.
Un coro piuttosto noto, nel registrare La contrà de l’acqua
ciara ha scritto: «Testo di Giuseppe De Marzi, armonizzazione
di Bepi De Marzi». C’è ancora della confusione, qua e là.
I detrattori? Dicono che sono “troppo semplice, troppo
cantabile, tardoromantico”; scrivono che non pratico le
dissonanze, che ignoro la tecnica moderna. Ma le cattiverie
più organizzate sono venute dai cacciatori dopo che ho scritto
La Sisilla, e soprattutto Scapa, oseleto, Scappa, uccellino,
violino della siepe…
Il tuo linguaggio musicale esclude ogni sorta di complessità
e persegue piuttosto la via della linearità nella scrittura,
della semplicità espressiva e dell’immediatezza comunicativa.
A me basta “fare compagnia a
qualcuno” con le mie storie cantate.
Alcuni detrattori ti accusano di confondere i generi. I tuoi
canti sarebbero invenzioni personali che rischiano di
contaminare la purezza e l’autenticità del repertorio storico di
tradizione orale, esito di operato anonimo e collettivo.
Premesso che l’intero repertorio dei cori alpini è, di fatto,
un’invenzione pensata per le sale da concerto – a partire dal
modello-SAT –, condividi l’idea che l’apporto creativo
dell’artista-individuo giochi, invece, un ruolo determinante, ai
fini della sublimazione poetica dei contenuti e delle storie
raccontate nelle cosiddette canzoni popolari?
Nel mirabile repertorio SAT ci sono dei generici canti d’autore
che nessuno ha mai discusso perché proseguono dallo stile
riconosciuto. Molte delle mie storie cantate dicono della mia
partecipazione alla vita sociale, gridano la mia indignazione,
invitano al rispetto della memoria, alla pace. Nella tradizione,
Sia nella prestazione esecutiva che in quella della
percezione, insomma, le tue canzoni si attengono a quello
che potremmo definire un “lessico popolare”. Eppure mi pare
che qua e là affiorino modelli di origine colta. Tra gli altri
esempi, mi vengono in mente la policoralità di Pavana,
l’esordio in stile imitato di Nikolajewka, gli stretti ritmici
presenti nelle ultime righe di Sanmatìo. Qual è dunque il
debito che ti vincola alla formazione di musicista colto?
Grazie per essere entrato nel giusto significato del mio lavoro.
L’immediatezza comunicativa me la impongo continuamente
perché mi chiedo: «Chi canterà le mie storie? Uomini, donne,
ragazze, ragazzi che per lo più non sanno leggere la
musica…». Ecco: voglio facilitare il loro impegno. Potrei
elaborare tessiture più complesse, certo. Ma a me basta,
come diceva il mio grande amico Rigoni Stern “fare
compagnia a qualcuno” con le mie storie cantate. Però vorrei
che dai concerti corali si uscisse con la memoria di qualche
40
Bepi De Marzi____
Ha fondato e dirige il coro I Crodaioli. Ha suonato per vent’anni l’organo e il
clavicembalo nei Solisti Veneti di Claudio Scimone. Ex insegnante nel conservatorio
di musica di Padova, svolge una intensa attività di giornalista e di narratore. Ha
lavorato a lungo con il poeta padre David Maria Turoldo nell’elaborazione dei Salmi
per la liturgia. È compositore di musica sacra. Per il repertorio corale di ispirazione
popolare ha scritto centocinquanta canti nuovi, parole e musica; il primo è stato
Signore delle cime, ormai intonato e tradotto in tutto il mondo.
Bepi De Marzi ritratto dal suo corista Gianni Frizzo
passaggio melodico, di qualche motivazione poetica e sociale,
per continuare a vivere la tormentosa felicità di quel “perché”.
Ciò che ho scritto lungo gli anni è stato dettato in parte dai
miei studi giovanili, che sono anche i tuoi. Venendo dal
conservatorio e operando nella musica nei diversi campi, ci si
lascia tentare dalle grandi forme polivocali, pur se
consapevoli che tutto il meglio sia già stato realizzato.
Tra le qualità più apprezzate nelle tue creazioni c’è quella di
una semplice, ma attraente e coinvolgente vena melodica.
Ritieni che questo sia il dato che più di ogni altro favorisca
la popolarità del tuo repertorio?
Ne ho la certezza. «Cosa fai di mestiere?», mi ha chiesto un
mite fraticello della Verna nel tempo in cui ancora andavo a
confessarmi. Di solito, a chi mi fa una simile domanda
rispondo «faccio l’idraulico». Quella volta, lassù, non potevo
mentire: «Il melodista», ho risposto. «Oh, Gesù, e che
mestiere sarebbe?». Proseguendo dai pensieri precedenti,
confermo il mio costante impegno nel realizzare piccole
immagini cantate, facili da memorizzare. Molti dei miei canti
vengono da tempo accompagnati con la chitarra o con altri
strumenti. Vivono perciò per la sola melodia. A Lourdes, una
volta che facevo servizio in un pellegrinaggio, mi sono
avvicinato a dei coristi italiani che intonavano un mio
mottetto con organo. «Lo sa anche lei?», mi hanno chiesto.
Sono queste, le piccole e inattese felicità.
Tra le tue canzoni, La contrà de l’Acqua ciara è quella che
preferisco. Ogniqualvolta mi capita di ascoltare questo
struggente motivo, la familiarità con i luoghi, in cui entrambi
viviamo – ora ahimè imbruttiti da scempi indecenti – accresce
la partecipazione emotiva. L’amara malinconia di questa
canzone consolida in me l’immagine di Bepi De Marzi cantore
dell’inesorabile fine del mondo contadino-montanaro veneto.
Mi sbaglio?
Mi conosci bene, ma bene. La mia è un’infinita disperazione.
Io, il “perché” l’ho sempre avuto, l’ho sempre espresso in
diversi modi. Piango un mondo umiliato e offeso. Urlo anche
per lo scempio delle città: «Come fosse morto il mondo, se la
città d’autunno non ha più foglie gialle nei viali di cemento
nero. Le foglie non sono mai nate, son rimaste nel cuore dei
rami duri come pietra…». Questo canto ha sorpreso i miei
amici milanesi. Nella contrada che ho cantato, come in altre
delle nostre montagne, ora vivono molti immigrati; e sono
tornati i giochi dei bambini, magari in lingue diverse. Ecco
un’altra felicità che consola i miei giorni inquieti.
Hai percorso la tua carriera a fianco di una nutrita schiera di
musicisti, con i quali hai condiviso con successo un progetto
di crescita e valorizzazione del canto corale. Quali, tra i
compositori e direttori di coro della tua generazione,
consideri più affini alla tua esperienza artistica?
Ho conosciuto e ammirato le dilatazioni vocali di Malatesta,
le seduzioni armoniche di Bon, il sapiente fervore di
Agazzani, la nobiltà internazionale di Gervasi, la passione
popolare di Vacchi, l’arguzia di Corso, la poliedricità di
Bordignon, il puntiglio popolare di Vigliermo, l’acutezza di
Leydi. Ma il mio pensiero riconoscente va ai miei maestri di
pianoforte, di organo, di composizione. E quanti sogni!
Determinante è stato il mio entrare nei Solisti Veneti come
clavicembalista e organista. Da Claudio Scimone ho imparato
che nella musica non si deve mai finire di cercare, cercare e
cercare. Anche nel dirigere i cori per Vivaldi, Mozart o
Beethoven, il mio fraterno amico e maestro padovano ha
sempre cercato la chiarezza per un’emozionante
comunicazione. Bandito l’intimismo, ha cercato, e ancora
cerca, di parlare al mondo, di illuminarlo, di renderlo
migliore. Si può fare con Vivaldi, con Bach! Ma anche con
Pigarelli. Mi ha incoraggiato e aiutato Silvio Pedrotti, proprio
il grande Silvio che ora più nessuno ricorda. Lui sì che
manifestava il “perché” del cantare in coro. «Non basta
cantare: bisogna far pensare», mi ha scritto affettuosamente
quarant’anni orsono.
Vorrei ora mettere a fuoco un paio di punti sul tuo ruolo di
direttore di coro. I Crodaioli di Arzignano sono la fucina
portraiT
presso la quale hai plasmato gran parte delle tue creazioni.
Mi sembra di cogliere in questo complesso vocale anche una
certa originalità timbrica. Quali sono a tuo avviso i connotati
fonici che distinguono I Crodaioli nel panorama dei cori
alpini?
Forse eravamo un coro alpino. Le mie prime sei raccolte
pubblicate dalle Edizioni Curci avevano l’unico titolo Voci della
montagna. Per la vocalità, è risaputo, bisogna adattarsi alle
voci disponibili, plasmandole per la soluzione migliore
nell’amatorialità. Nelle tre raccolte seguenti ci sono anche dei
rifacimenti, delle rielaborazioni. Qualche canto tra i più diffusi
l’ho proposto addirittura all’unisono. Ho creduto nella vocalità
vagamente aggressiva, intensa, per una varietà dinamica
tendente a provocare emozioni. Ultimamente ho un poco
attenuato questo atteggiamento. Mi ripeto nel dire che questo
è un momento di attesa. Perciò, rimanendo nel presente,
dopo una pausa di un paio d’anni abbiamo deciso insieme di
mutare l’impostazione vocale limitando l’estensione sui
modelli polifonici a voci uguali. Ora i tenori
primi hanno un timbro pieno e reale, non più
di “falsetto”. Le armonie sono più intense con
le voci “vicine”.
41
rimando a una prossima puntata, lo spinoso argomento della
musica liturgica, pur sapendo quanto ti stia a cuore e quanto
ti sia speso per tutelarne il decoro.
Qualche tempo fa fecero un certo scalpore alcune tue
apocalittiche previsioni in merito al futuro del canto corale.
Tra le altre, leggo queste affermazioni: «Il mondo corale
amatoriale sta attraversando una profonda crisi, ma non solo
per la mancanza di voci giovani, bensì per la confusione dei
repertori. I testi in italiano non interessano più, tanto meno
quelli nei vari dialetti». Sei ancora convinto di tutto ciò?
Manca la curiosità e la caratterizzazione. Il problema del
ricambio delle voci nei cori maschili è sempre più sentito. Mi
preoccupavo però della perduta dignità dei complessi corali
che proponevano espressioni senza precise motivazioni. I cori
misti nascono e si spengono in continuazione anche per la
mancata ricerca di una personalizzazione. Per la musica sacra,
e spero che se ne parli presto a più voci in queste pagine,
non c’è niente da fare: siamo da tempo nel degrado. Le
Piango un mondo umiliato e offeso.
Urlo anche per lo scempio delle città.
C’è un particolare nel tuo modo di condurre il
fraseggio che mi ha sempre incuriosito.
Quello cioè di “tirare la frase” senza
interruzione e, alle volte, con alquanta
lentezza, mettendo a dura prova le voci nel sostenere i
suoni; quasi volessi cercare una continuità sonora in grado di
oltrepassare i limiti del respiro. Penso a un brano come
Bènia Calastoria. Mi chiedo se si tratta di emulazione di
sonorità strumentali, come possono essere, ad esempio,
quelle dell’organo. Insomma, vezzo o scelta motivata da
ragioni espressive?
Forse hai ascoltato qualche mio canto dai cori che non
fraseggiano chiaramente. Benia Calastoria ha i respiri ben
segnati. La mia esecuzione può dare l’impressione della
continuità che tu sottolinei, ma è solo un’impressione perché
c’è un pedale continuativo affidato prima ai bassi, poi ai
baritoni, che riempie le brevissime sospensioni dei respiri.
Pur usando per lo più l’omoritmia, tengo molto alle possibilità
umane per un fraseggio naturale. Non ho mai contato i canti
che ho fatto. Ma ci sono pedali all’alto, bassi ostinati, forme
cicliche… La nona raccolta, edita sempre dalla Curci di Milano,
contiene anche un canto in tre movimenti, Brina Brinella.
C’è un Largo come introduzione, un Corale-Andante e una
Fuga-Vivace costruita con soggetto, controsoggetto,
modulazioni, divertimenti e stretti. In questo caso, il “perché”
sta nel raccontare l’ansia del contadino per il raccolto
minacciato dalle improvvise gelate primaverili.
Un lato non secondario della tua poliedrica personalità è
rappresentato dalla vis polemica con la quale affronti
pubblicamente tematiche relative alla vita musicale e non.
Vorrei riservare a esso le ultime riflessioni. Tralascio, e
messe sono ovunque un’avventura locale e i canti prediligono
i versi tronchi in “ai, ei, oi, ui”. Le musiche? Impera la “non
melodia”. Hanno inventato la cantillazione, un recitativo con
effetti esilaranti.
Infine, vorrei dire che reputo meritoria la tua indefessa
azione di denuncia del degrado socio-culturale in cui siamo
sprofondati da un paio di decenni a questa parte. Pensi che
la crisi eclatante e finalmente riconosciuta a ogni livello, si
possa ergere a spartiacque tra un’epoca di infimo
decadimento e una nuova stagione di rigenerazione morale e
riscoperta di valori culturali, morali e sociali più autentici?
Insomma, c’è una speranza dietro l’angolo, o no?
Mia mamma era di Milano e mi diceva come «i veri milanesi
non sono mai indifferenti davanti alle vicende del mondo».
La mia amata Milano, però, ha perduto molto del suo
cosmopolitismo per diventare una specie di bigottificio
provinciale. Mio papà, per il suo lavoro di tecnico
elettromeccanico, aveva l’abbonamento per tutta la rete
ferroviaria italiana e mi diceva: «Non accontentarti mai di ciò
che ti dicono: vai a vedere e racconta la verità». Per uscire
da questo grigiore qualunquistico c’è solo da sperare
nell’Europa, dove dobbiamo portare il calore della nostra
rinnovata poesia.
Aspettando
il Festival…
Europa Cantat Torino 2012
di Lorenzo Montanaro
Si avvicina l’estate e con essa il grande appuntamento con il Festival Europa Cantat XVIII Torino
2012. Attraverso le sue pagine, Choraliter è lieta di offrire ai suoi lettori gli ultimi aggiornamenti sul
programma artistico, sulle folte iscrizioni ricevute, sulla nuova proposta dei discovery atelier
pensati per rispondere alla curiosità e ai gusti di chi vorrà, anche solo per un giorno, vivere con noi
questa straordinaria esperienza!
aspetta
Un coro può essere un cammino di crescita: le persone che cantano insieme nel tempo imparano a
condividere esperienze, a vivere insieme, ad ascoltarsi. È con questa consapevolezza che Torino si
prepara per la diciottesima edizione di Europa Cantat, il più importante festival europeo dedicato
alla musica corale, per la prima volta ospitato in Italia. Dal 27 luglio al 5 agosto la città sarà
felicemente invasa da una festa di voci e lingue differenti: gli oltre 4000 partecipanti già iscritti
provengono da ogni angolo del mondo. Con più di 100 concerti e grandi eventi il festival abbraccia
stili e linguaggi diversissimi: dal canto gregoriano alla polifonia sacra, dal barocco al romanticismo,
dal jazz al pop, senza trascurare il folk, gli esperimenti di cross over e perfino qualche incursione
nell’elettronica. Ma Europa Cantat non è solo esibizione, è anche studio e ricerca. Gli iscritti al
festival possono scegliere tra 40 atelier dai 4 agli 8 giorni e vari discovery atelier ogni giorno:
occasioni per arricchire il bagaglio musicale e affinare la tecnica esecutiva, secondo il livello e le
aspettative di ciascuno.
Nato nel 1961 per iniziativa della federazione europea da cui prende il nome, il festival Europa
Cantat si svolge ogni tre anni in una città diversa. Nel 2009 ha fatto tappa a Utrecht (Paesi Bassi),
nel 2015 sarà a Pécs (Ungheria). L’edizione torinese è una grande occasione per l’Italia, che può
rispondere all’invito europeo accogliendo i partecipanti con un patrimonio artistico di immenso
ASSOCIAZIONE
43
valore. Il programma è un invito a incontrare la musica in tutte le sue forme. Tra i grandi eventi classici spiccano
due concerti sacri: l’esecuzione dell’oratorio Le Laudi di Hermann Suter, con la partecipazione dell’Orchestra
Sinfonica Nazionale della Rai, e l’esecuzione del Vespro della Beata Vergine Maria di Claudio Monteverdi, un tributo
alla bellezza di valore universale. Non solo: Europa Cantat Sound System, una serata guidata dai Lou Dalfin,
celebre gruppo occitano, e animata dalla presenza di molti artisti rock, folk e reggae di area mediterranea; uno
spazio per il grande jazz, con il Sacred Concert di Duke Ellington; un progetto di tango argentino; una giornata alla
Venaria Reale, durante la quale i magnifici ambienti della Reggia sabauda faranno da cornice alle esibizioni dei cori
partecipanti; una collaborazione col Museo Nazionale del Cinema e molto altro ancora. Le nottate torinesi saranno
ravvivate da un ricco programma articolato su tre filoni: repertorio classico, folk mediterraneo e unexpected, cioè
“la musica che non ti aspetti”, con esperimenti, contaminazioni e sorprese. E come dimenticare gli open singing? Si
tratta di momenti magici, durante i quali cadono le barriere tra chi canta e chi ascolta, in nome di un unico grande
coro: alle 20.00 ogni sera l’appuntamento è in Piazza San Carlo sotto il palco principale per provare l’emozione di
cantare tutti assieme.
Fedele alla tradizione che da sempre lo caratterizza, il festival Europa Cantat riesce a coniugare atmosfera giocosa
e serietà delle proposte artistiche. Molti sono gli ospiti internazionali, tra cui l’Estonian National Male Choir, coro
maschile acclamato in tutto il mondo, e tre prestigiose formazioni a cappella, capaci di spaziare tra i vari generi: il
gruppo svedese Real Group, l’ottetto inglese Voces8 e i belgi Witloof Bay. Si segnala anche la presenza di nove cori
giovanili nazionali europei, tra i quali non poteva mancare il Coro Giovanile Italiano, nato nel 2003 su impulso di
Feniarco. A fare gli “onori di casa” ci sarà anche il Coro Maghini, realtà nata e cresciuta sotto la Mole che sa farsi
apprezzare in Italia e all’estero.
“On stage”, “festa” e “soul food”: ecco le parole chiave che sintetizzano un evento unico a cui tutti possono
partecipare. E tu sei pronto a cantare con noi?
Per costanti aggiornamenti sul programma: www.ectorino2012.it
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Discovery Atelier
Sabato 28 luglio 2012
9.30-13.00
Mercoledì 1 agosto 2012
9.30-13.00
G11Family Singing (Part I) - Marleen Annemans (BE)
G12Aleatoric Music - Pier Paolo Scattolin (IT)
G13Choral Flash Mob - Kjetil Aaman (NO)
con esibizione finale
G14Mare nostrum: Xavier Montsalvatge (1912-2002), a
portrait - Daniel Mestre (ES/Cat)
G15 Vocal Coaching
G51Mediterranean Folk - Lo Cor de la Plana (FR)
G52 Voice and Physique - Panda von Proosdij (NL)
G53Singers troubles and solutions - Isabelle Fini-Storchi (IT)
G54 Body Percussion - Richard Filz (AT)
G55New Gospel - Joakim Arenius (SE)
G56Norwegian folk songs and improvisation in folk style Berit Opheim Versto (NO)
Domenica 29 luglio 2012
9.30-13.00
Giovedì 2 agosto 2012
9.30-13.00
G21Family Singing (Part II) - Marleen Annemans (BE)
G22Mediterranean Folk: Love and Fun Songs from South
Italy - La Paranza del Geco (IT)
G23 Breathing technique for singing - Nadia Sturlese (IT)
G24Last Tango in Torino - Oscar Escalada (RA)
con esibizione finale
G25Spiritual - Avis Graves (US)
G26Mare nostrum: A trip to the monastery of Montserrat
- Daniel Mestre (ES/Cat)
G27A taste of Romantic repertoire for male voices
G61Mediterranean Folk: Occitan Songs - Lou Dalfin (IT)
G62Conducting for singers - Anne Karin Sundal-Ask (NO)
G63Palestrina’s pupils: Anerio and Nanino Paolo Da Col (IT)
G64Eastern Orthodox repertoire
Discovery Atelier speciale di due giorni
(per voci maschili selezionate)
Sabato 28 e domenica 29 luglio 2012
9.30-13.00
G01Advanced atelier for male voices
con esibizione finale
Lunedì 30 luglio 2012
9.30-13.00
G31Festa! - Kjetil Aaman (NO) con esibizione finale
G32 Discovering Venaria Reale
G33Latin American Renaissance Music
G34Singin’ history of vocal jazz
Martedì 31 luglio 2012
9.30-13.00
G41Mediterranean Folk: Dancing Songs from South Italy
- La Paranza del Geco (IT) con esibizione finale
G42Spiritual - Avis Graves (US)
G43Improvisation - Gary Graden (SE/US) and WÅG Trio (SE)
con esibizione finale
G44Proel Method for singing - Isabelle Fini-Storchi (IT)
G45Microtonal Singing - Gro Shetelig (NO)
Venerdì 3 agosto 2012
9.30-13.00
G71 Das Alt-Bachische Archiv (collection of motets made by
J.S.B.) - Erik van Nevel (BE)
G72Psycophonie - Anne Vasseur Gilbert (FR)
G73Mediterranean Folk - con esibizione finale
G74Improvisation
G75Opera Choruses
Sabato 4 agosto 2012
9.30-13.00
G81My First Gregorian - Enrico De Maria (IT)
G82Last Tango in Torino - Oscar Escalada (RA)
G83Family Singing - Anne Vasseur Gilbert (FR)
e Silvana Noschese (IT)
G84Mediterranean Folk - con esibizione finale
G85 A taste of Baroque repertoire
Discovery Atelier speciali di due giorni
Venerdì 3 e sabato 4 agosto 2012
9.30-13.00
G02Mare nostrum: Songs of the Sea - Daniel Mestre
(ES/Cat) con esibizione finale
G03Atelier for male voices - con esibizione finale
Il programma potrà subire variazioni.
Per aggiornamenti visita il sito www.ectorino2012.it
ASSOCIAZIONE
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BASE ASSOCIATIVA, GRANDI EVENTI, COMUNICAZIONE:
tre temi importanti sotto la lente dell’Assemblea Feniarco
a cura di Sandro Bergamo
La consueta assemblea primaverile di Feniarco si è tenuta ad
Arezzo, il 17 e 18 marzo scorsi. Due giorni intensi, resi
comunque piacevoli dall’ospitalità organizzata
dall’Associazione Cori della Toscana e culminata nel concerto
offerto dal Gruppo polifonico F. Coradini e dall’Insieme vocale
Vox Cordis nell’antica e suggestiva Pieve di Santa Maria.
Anche in questa occasione si è registrata la presenza di quasi
tutte le associazioni regionali iscritte, alle quali si è aggiunta,
significativamente, quella di Laura Crosato, presidente della
Federazione Italiana Pueri Cantores, e il saluto inviato
all’assemblea da Erich Deltedesco (purtroppo assente per
motivi personali), presidente della Südtiroler Chorverband che
riunisce i cori altoatesini di lingua tedesca: due federazioni
con le quali Feniarco ha sottoscritto un protocollo di intesa,
segno di apertura a tutto il mondo corale, in ogni sua
espressione. Una strategia peraltro praticata anche a livello
locale dalle Associazioni Regionali, che studiano i modi per
associare cori scolastici, cori parrocchiali e altre realtà meno
strutturate ma pur vive nel nostro panorama corale.
L’approvazione dei bilanci e dell’attività per l’anno in corso ha
evidenziato un continuo sviluppo della federazione: l’editoria,
con tre nuovi volumi già pronti e altri in dirittura d’arrivo,
l’attività del Coro Giovanile Italiano e del Coro Accademia
Feniarco, il Festival di Primavera, che si conferma come uno
degli appuntamenti fondamentali, il Salerno Festival, che si
prepara a celebrare la terza edizione, dopo il crescente
successo delle prime due. Su tutto si staglia l’impegno di
Torino 2012, i cui numeri prospettano questa XVIII edizione
del Festival Europa Cantat come una delle più riuscite della
sua storia.
Uno degli aspetti più significativi di questa assemblea è stato
sicuramente, nella seconda giornata dell’assemblea, la
formazione di gruppi di lavoro, chiamati a delineare le linee
strategiche su alcuni temi importanti. Tre i tavoli che si sono
costituiti: Base associativa, evoluzione e aggiornamento,
coordinato da Sante Fornasier; Festival e manifestazioni
Feniarco, coordinato da Pierfranco Semeraro; Informazione,
comunicazione, promozione, coordinato da Alvaro Vatri.
È su questo momento dell’assemblea che vogliamo
concentrare l’informazione di questo numero, pubblicando il
sunto dei tre tavoli.
Base associativa, evoluzione e aggiornamento
Particolarmente ampio, e al tempo stesso estremamente
concreto, è stato l’ambito di riflessione del primo dei tre
gruppi di lavoro: tra i temi affrontati si è discusso
innanzitutto degli attuali criteri di iscrizione dei cori e delle
rispettive quote associative, constatando in primo luogo
come essi siano – giustamente – stabiliti autonomamente
dalle singole Associazioni Regionali. L’opinione condivisa dal
gruppo di lavoro è tuttavia che, pur mantenendo l’autonomia
delle singole realtà regionali, si debba giungere nel tempo
all’uniformità di tali criteri, magari basando le quote su
parametri proporzionali all’effettivo numero dei coristi.
Ipotesi, questa, avvalorata tra l’altro dall’esperienza positiva
di alcune Associazioni Regionali, le quali hanno già
incorporato all’interno della quota associativa l’assicurazione
per i singoli coristi e l’abbonamento alla rivista nazionale:
pensiamo che con soli pochi euro a persona, da includere
nella quota annuale, sarebbe infatti possibile garantire a ogni
corista la copertura assicurativa – quanto mai importante
nell’attività di ciascuno dei nostri cori! – nonché
l’abbonamento a Choraliter, forte strumento di fidelizzazione
e di appartenenza per il nostro mondo corale italiano. Va
detto che, attualmente, oltre alla convenzione assicurativa
valida su tutto il territorio nazionale, stipulata direttamente
da Feniarco e disponibile sul sito della federazione, vi sono
diverse altre convenzioni a livello locale: l’obiettivo, da
perseguire nel prossimo triennio, è il raggiungimento di
un’unica convenzione assicurativa che possa garantire le
migliori condizioni. D’altra parte, con 2500 cori iscritti e oltre
46
firma sulla dichiarazione dei redditi, se sottoscritta da ogni
corista, potrebbe costituire una fonte di autofinanziamento
straordiaria per la federazione, rendendo così possibile un
ulteriore ampliamento dei servizi, delle iniziative e dei progetti
che Feniarco mette in campo per la promozione e la
diffusione del canto corale.
centomila persone coinvolte, i presupposti per una buona
contrattazione ci sono eccome! E visto che è stato possibile
(traguardo recente, anche questo disponibile sul sito)
stipulare accordi con BancaProssima e Poste Italiane per conti
correnti agevolati per i cori, perché non immaginare per un
domani delle convenzioni con i treni, gli autobus e altri mezzi
di trasporto per favorire le trasferte dei nostri cori…
Rimanendo nell’ambito associativo, le riflessioni si sono poi
spinte oltre: è possibile pensare a un’iscrizione individuale a
Feniarco? Basti pensare a compositori, direttori, musicisti,
semplici appassionati che vogliano entrare a far parte in
maniera diretta e attiva del mondo della coralità associativa,
pur magari senza essere necessariamente
coristi di un coro associato. Fermo restando
il principio che l’iscrizione dei cori debba
passare per le rispettive Associazioni
Regionali, per le singole persone – sul
modello di quanto avviene ad esempio a
livello europeo con European Choral
Association - Europa Cantat – si potrebbe
pensare in futuro a una modalità di iscrizione diretta a
Feniarco. I dettagli, naturalmente, saranno da studiare a
fondo, ma i processi di evoluzione implicano sempre analisi e
riflessione!
O ancora: come estendere l’adesione a Feniarco a realtà
importanti e ampiamente diffuse sul territorio come quelle dei
cori scolastici e dei cori parrocchiali? Un primo passo, da tutti
condiviso, è stato quello di associare i cori scolastici
partecipanti al Festival di Primavera di Montecatini per il
tramite delle rispettive Associazioni Regionali; per il futuro, si
potrà pensare a un promo che presenti la federazione e le
sue attività, da diffondere capillarmente nelle scuole e nelle
parrocchie.
Non da ultimo, la riflessione si sofferma su quello strumento
importante ma spesso sottovalutato che è il cinquepermille: a
fronte di un “costo zero” per il contribuente, una croce e una
Festival e manifestazioni Feniarco
Il gruppo di lavoro si è mosso da una prima considerazione
relativa ai dati numerici e statistici delle più importanti
manifestazioni Feniarco con un’analisi completa degli ultimi
tre anni. Il Festival di Primavera – organizzato con la preziosa
collaborazione dell’Associazione Cori della Toscana – dal 2009
al 2011 ha visto incrementare la sua partecipazione in maniera
considerevole: dalle 800 presenze sino alle ultime 1300 con
un aumento del 60% in tre anni. Importante è il numero dei
cori scolastici che annualmente rinnova la propria presenza.
In proporzione sul totale la partecipazione al festival è stata
per le scuole medie inferiori del 39% nel 2009, del 57% nel
2010, del 45% nel 2011; per le scuole medie superiori del 61%
nel 2009, del 43% nel 2010, del 55% nel 2011. È stato ribadito
che maggiore attenzione in futuro dovrà essere garantita da
parte delle singole associazioni regionali anche attraverso la
presenza, nelle fasi finali del festival, delle proprie cariche
istituzionali. Un suggerimento comune è stato quello di poter
indirizzare le brochure promozionali direttamente al
responsabile musicale della singola scuola.
La settimana cantante Alpe Adria Cantat negli ultimi tre anni
ha visto un incremento del 30% consolidando le presenze
dell’ultimo anno. 313 sono state le partecipazioni nel 2009 di
cui il 49% provenienti dal territorio italiano e il 51%
I processi di evoluzione implicano
sempre analisi e riflessione.
dall’estero; 451 nel 2010 di cui il 51% provenienti dal territorio
italiano e il 49% dall’estero; 431 nel 2011 di cui il 53%
provenienti dal territorio italiano e il 47% dall’estero: dunque
una manifestazione in piena salute con un’importante
presenza estera che accredita la Settimana come una tra le
più apprezzate in Europa. Anche per questo evento le
riflessioni scaturite nel gruppo di lavoro sono collegate alla
presenza delle istituzioni regionali alla Settimana, almeno per
la fase conclusiva, la qual cosa permetterebbe uno scambio
di esperienze utili anche per la buona riuscita di eventi
similari nelle diverse regioni.
L’andamento positivo dell’Accademia Europea per direttori di
coro di Fano è ovviamente fortemente legata al repertorio e al
direttore stesso. Nel 2009, con la direzione di Fred Sjöberg e
il coro laboratorio preparato da Alessandro Cadario,
l’Accademia ha registrato la presenza di 11 direttori italiani e 3
ASSOCIAZIONE
47
un’ottica di continuità con il Festival di Primavera potrebbe
ricevere riscontro positivo una proposta festivaliera da
dedicare ai cori universitari, pur quest’ultimi avendo un loro
circuito. Un festival da dedicare al repertorio sacro potrebbe
ancora trovare spazio ovviamente legando il tema al luogo e
per quest’ultima ipotesi si potrebbe pensare ad Assisi.
Sante Fornasier e Laura Crosato sottoscrivono il protocollo d’intesa tra
Feniarco e la Federazione Italiana Pueri Cantores
uditori esteri; nel 2011, con la direzione di Nicole Corti e il
coro laboratorio preparato da Lorenzo Donati, la presenza
internazionale è stata di 6 cantori e di 7 direttori mentre gli
italiani si sono suddivisi in 2 uditori e 7 direttori. Ovviamente
la location è oramai fattore caratterizzante l’Accademia stessa
in quanto la coincidenza con la settimana degli Incontri
Polifonici permette una maggiore offerta culturale ai
partecipanti. Un’attenzione superiore all’omogenea
preparazione dei partecipanti garantirebbe probabilmente una
maggiore incisività da parte del docente nello svolgimento del
suo lavoro.
Stesse considerazioni sono state espresse nei confronti del
Seminario Europeo per giovani compositori di Aosta che ha
visto la presenza di 16 effettivi nel 2008 provenienti per la
metà dall’Italia. Nel 2010 invece la presenza dei compositori è
stata di 22 allievi di cui 13 italiani. Il seminario rappresenta un
importante investimento e la sua identificazione con la
regione e la città di Aosta sta crescendo di anno in anno.
Il Festival di Salerno, nato da nel 2010, ha sorpreso per il
successo ottenuto in un così breve tempo. Dalle 1600
presenze della prima edizione 2010 si è passati alle 2000
presenze dell’anno successivo. Da evidenziare l’impatto
positivo sulla coralità della Campania oltre alla riuscita
collaborazione con il team messo a disposizione
dall’Associazione Regionale dei Cori Campani: un festival
integrato nel territorio che rivolge il suo sguardo a tutti, un
festival “popolare” che guarda anche alla qualità dell’offerta
musicale. Il gruppo di lavoro ha proposto poi riflessioni su
possibili scenari futuri a cominciare dal Festival Europa Cantat
XVIII Torino 2012 e sull’eventuale possibile capitalizzazione
delle esperienze e conoscenze acquisite in questi anni; con la
conferma oramai dei due importanti festival – di Salerno nel
sud-Italia e di Primavera nel centro – potrebbe essere una
buona proposta quella di allestire un festival nel nord del
Paese, magari in Val Gardena che ben si presta per un evento
simile o a Merano come proposto da Corrado Borgogno. In
Informazione, comunicazione, promozione
Nell’ambito del terzo gruppo di lavoro, le riflessioni hanno
messo in luce, prima di tutto, come Feniarco abbia raggiunto
una posizione importante sul fronte della rappresentatività e
della progettualità del movimento corale amatoriale italiano. Il
suo ruolo è apprezzato e riconosciuto sia sul versante interno
che su quello esterno e istituzionale. È dunque
un’organizzazione del terzo settore rilevante nella quale
l’informazione e la comunicazione hanno un ruolo strategico.
Già dal 2005 la federazione ha iniziato una riflessione sulla
peculiarità della comunicazione nel settore no-profit; è giunto
ora il momento di dare impulso a questa attività utilizzando
tutti i mezzi a disposizione, da quelli tradizionali a quelli più
innovativi. In tal senso l’esperienza della comunicazione del
Festival Europa Cantat XVIII Torino 2012 (brillantemente
illustrata da Michela Francescutto) fornisce un modello
sperimentato che dovrà essere capitalizzato nel “dopo
festival” e sarà utilissimo per la definizione dei processi della
comunicazione di Feniarco.
Un importante ruolo è e dovrà essere sempre più svolto dalla
rivista Choraliter, che è chiamata a rappresentare il mondo
corale amatoriale italiano presso il pubblico più ampio e allo
stesso tempo a rispecchiare la sua varietà interna, la
ricchezza dei contenuti e dei contributi che le varie regioni
possono portare e, infine, essere un fattore identitario per
tutti i cantori amatoriali italiani.
Comunicare l’identità e l’appartenenza è centrale per
consolidare il ruolo della federazione in ambito nazionale e
internazionale. Sicuramente da questo punto di vista la
molteplicità delle sigle regionali rappresenta un problema, ma
d’altra parte queste ultime hanno una loro storia e una
riconoscibilità locale importante che sarebbe dannoso
disperdere. Si tratta quindi di trovare il modo di testimoniare
l’appartenenza senza rinunciare all’identità, cosa non
impossibile: si può cominciare, ad esempio, abbinando
l’elemento unificante (il logo Feniarco, magari dopo averlo
sottoposto a un restyling grafico) alle sigle regionali;
proseguire e completare l’adozione da parte di tutte le
Associazioni Regionali della piattaforma web, con qualche
implementazione che ne aumenti la funzionalità, ma altre idee
si possono aggiungere. La prossima Assemblea sarà
l’occasione per proporre e valutare tre o quattro proposte
nuove; intanto si potrà sperimentare, ad esempio, l’adozione
di una carta intestata tipo, nella quale al logo regionale venga
associata l’appartenenza a Feniarco.
Federazione Nazionale Italiana delle Associazioni Regionali Corali
33078 San Vito al Tagliamento (Pn) via Altan, 39
tel. 0434 876724 - fax 0434 877554 - [email protected] - www.feniarco.it
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ASSOCIAZIONE
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VOGLIA DI RIVISTA…
di Giorgio Morandi
«Vivere senza musica è possibile. Perfino attraverso i deserti
ci sono vie. Ma noi non vogliamo che le persone percorrano
la via della vita come se stessero vagando per un deserto,
quando a noi è possibile far sì che essi camminino attraverso
pascoli fioriti». (Z. Kodály)
Non so se i direttori e le redazioni delle riviste corali
nazionale e regionali sono d’accordo, ma in questa citazione
io vedo ben espressa la mission di tutti gli organi di
formazione e informazione della coralità italiana, quel grande
fenomeno che è un mondo variegato, composto da diverse
sensibilità e da persone di varia estrazione e formazione che,
però, in un contesto in cui lo scopo è cercare l’armonia con il
gruppo e cantare insieme, appena si trovano su un palco, in
sala prove, in un gruppo estemporaneo a cantare, sanno
trovare un comune animus.
E credo che questo pensiero ben introduca nel grande
argomento della comunicazione, che per noi in campo corale
è condivisione, è dibattito, è incontro; è riscoperta di radici,
di identità, e quindi confronto e conoscenza.
Tutti sappiamo che la comunicazione è una voce verso il
mercato (parola poco musicale che però qui ci aiuta a
inquadrare col pensiero tutto quell’ambito enorme
in cui la coralità si manifesta). L’efficacia di questa
voce è importante e, quindi, non può essere
improvvisata ma deve far parte di un piano
strategico che punti a creare notorietà e valore, a
instaurare una sinergia di lungo periodo
finalizzata alla crescita e al raggiungimento di un
ritorno di investimento positivo. Poiché il mezzo
immediato e principale attraverso il quale la
nostra comunicazione si realizza ed è
profondamente influenzata sono certamente le nostre riviste
corali che vogliono diffondere e far condividere quello spirito
di partecipazione appassionata, intelligente, gratuita che
costituisce il patrimonio della coralità amatoriale, questo
processo è fattibile perché da parte del management esiste
(lo ha ulteriormente dimostrato il convegno di Mestre) la
capacità e la convinzione che investire una parte dei propri
mezzi finanziari in queste attività è un’ottima regola da
seguire; è certamente fattibile perché esiste la convinzione
che la comunicazione va pianificata e studiata in funzione dei
bisogni e delle opportunità offerte.
Proprio per questo Feniarco, e in particolare il Comitato di
Redazione di Choraliter, ha pensato a un’iniziativa che
andasse in questa direzione e in una passata assemblea ha
proposto a tutte le Associazioni Corali Regionali la
partecipazione a un incontro fra la redazione di Choraliter e
Italiacori.it e i direttori delle testate regionali e/o i
responsabili della stampa e comunicazione delle varie regioni.
L’incontro si è realizzato sabato 21 gennaio 2012 a Mestre in
occasione della riunione del Comitato di Redazione di
Choraliter. Alla presenza di circa due terzi dei rappresentanti
regionali invitati, si sono affrontati i seguenti argomenti di
discussione: 1. Strategia editoriale di Feniarco; 2. Breve
relazione dei presenti sulle strategie editoriali e comunicative
delle rispettive Associazioni Regionali; 3. Raccordo e sinergie
tra la rivista nazionale e le riviste regionali; 4. Rapporto tra i
contenuti delle riviste regionali e della rivista nazionale; 5.
Rivista cartacea o rivista online? 6. Rapporti con le riviste
internazionali; 7. Allargamento della rete di collaboratori.
Il Direttore di Choraliter Sandro Bergamo ha introdotto la
discussione ricordandone lo scopo, quello di «mettere a
fuoco le strategie per evitare la frammentazione… contribuire
all’impostazione di un sistema di comunicazione che diventi
motore di diffusione delle nostre idee e della nostra
immagine… progredire sulla strada dell’ottimizzazione delle
risorse e far sì che le nostre riviste siano complementari e
non si sovrappongano».
«Raggiungere tutto questo – ricorda il Direttore – significherà
davvero sentirci parte di un movimento corale nazionale, un
La comunicazione va pianificata
e studiata in funzione dei bisogni
e delle opportunità offerte.
movimento corale che stimola e progetta innovazione, il tutto
senza ricalcare inutilmente le strade del passato e con
attenzione a non cedere a esagerate fughe in avanti».
Ma ancora un altro aspetto è stato ricordato, anche se in
particolare con riferimento alla rivista nazionale Choraliter.
«Nell’immaginario collettivo italiano il coro è considerato
minore rispetto a ciò che vale e che quindi si merita, per cui
– ha detto Sandro Bergamo – è evidente l’opportunità che la
nostra rivista oltre che arrivare a coristi, direttori di coro e
addetti ai lavori in genere come strumento di fidelizzazione,
debba arrivare all’edicola, alla grande distribuzione».
Al Direttore della rivista ha fatto eco il Presidente di Feniarco
e di European Choral Association - Europa Cantat Sante
Fornasier, affermando che «il nostro trovarci insieme vuole
essere una verifica dei percorsi, progetti, prospettive e
orientamenti del passato e del futuro, vuole essere un
percepire da voi sensazioni di base». Il Presidente ha
50
stimolato i presenti sulla necessità di fare sistema perché,
ricorda, «soltanto facendo sistema e soltanto attraverso
un’efficiente ed efficace comunicazione interna (soprattutto
tramite Choraliter e Italiacori.it) e una attenta e incisiva
comunicazione esterna (guadagnata tramite l’apparizione
sempre più frequente e di spessore culturale sui giornali
nazionali) insieme avremo importanza davanti all’opinione
pubblica».
Il Presidente ha ricordato che per arrivare a essere tutti
insieme più incisivi, «la riunione in corso
aveva anche lo specifico compito di
verificare proposte e aspirazioni e
incoraggiare uno scambio interessante e
fertile di visioni diverse».
Da parte dei responsabili di una dozzina
di testate regionali, ha fatto seguito una
breve presentazione della loro esperienza
editoriale (in edizione cartacea o in
edizione on-line) con chiara indicazione degli scopi prefissati,
della destinazione del messaggio, delle aspirazioni verso il
futuro già in fase di realizzazione attraverso innovazioni
spesso molto interessanti che vanno dall’aggiornamento
grafico all’inserimento di interessanti rubriche e partiture
corredate da note esplicative interessanti ed esaurienti.
Molto interessanti alcune motivazioni raccolte durante questi
interventi. «La nostra rivista è importante – hanno detto i
relatori – per far conoscere le nostre attività…»; «…a noi
interessa non fare cronaca, ma dalla cronaca trarre spunto e
fare approfondimento…»; «la rivista è un utile strumento
perché gli altri possano leggerci…»; «…il bollettino deve
circolare il più possibile, per questo è mensile…»; «…
importante è l’editoriale…»; «…importante è che la rivista
racconti l’associazione e sia palestra di formazione…»; «…un
buon organo di stampa aiuta l’associazione…»; «…la rivista è
un ottimo strumento per invogliare i cori al cambiamento del
repertorio…».
Altrettanto importanti sono state alcune riflessioni su aspetti
molto concreti connessi all’edizione di una rivista: un relatore
ha affermato che «l’edizione cartacea della rivista porta con
sé non tanto i costi della produzione, quanto i costi
esorbitanti per la spedizione e questo gioca pesantemente
contro un’auspicata necessaria diffusione capillare della
rivista stessa…».
Nonostante questo, però, in un successivo intervento si è
sostenuto che «l’edizione cartacea rappresenta un documento
molto importante da poter tenere in mano e offrire quando,
per esempio, si presentano progetti all’autorità…».
Sull’argomento della distribuzione è stata interessante la
testimonianza della Federazione Cori del Trentino che oltre
all’assicurazione copre la produzione e la spedizione capillare
della rivista attraverso una piccola quota associativa dei
singoli cantori.
Il fatto che le riviste online siano molto poche (almeno per il
momento in Lazio, in Toscana e in Lombardia) rispecchia
esattamente la preferenza emersa fra i relatori per una rivista
corale regionale in forma cartacea.
Un ultimo importante argomento, condiviso fra la presidenza
del convegno e i partecipanti, è la necessità di introdurre
nelle singole riviste degli elementi comuni che con
immediatezza rimarchino il loro collegamento reciproco, che
con nitidezza mostrino che le voci sono tante ma il
movimento corale italiano è unico.
Questa stessa relazione sul convegno di Mestre, richiesta dal
responsabile di Voglia di Coro a un membro della Redazione
Le voci sono tante ma il movimento
corale italiano è unico.
di Choraliter (il presente articolo è stato infatti pubblicato sul
numero 1/2012 della rivista piemontese, ndr), vuole essere
esplicitamente un piccolo segno concreto in questa direzione,
un esempio di ottimizzazione delle risorse, di raccordo e
sinergie fra la rivista nazionale e le riviste regionali. Dopo un
incontro così interessante il discorso dovrà continuare, ma la
regola è sicuramente (anche per piccoli passi, ma da subito)
quella del “fare”.
CRONACA
51
MARIBOR: IL GRAND PRIX NELLA CAPITALE DELLA CULTURA
di Rossana Paliaga
Il trofeo del Grand Prix europeo è stato consegnato per la
prima volta sul palco della sala Union di Maribor in Slovenia.
L’evento, organizzato dal Fondo pubblico nazionale per le
attività culturali (JSKD) con il sostegno della municipalità
locale, si è svolto nella città slovena che quest’anno detiene il
titolo di Capitale europea della cultura, una concomitanza
ideale nel calendario del GPE, che ha offerto alla Slovenia
l’ulteriore vantaggio di poter far conoscere ai numerosi ospiti
stranieri una parte del proprio patrimonio corale, abbinando
l’evento alla ventiduesima edizione del concorso corale
nazionale Nas̆a pesem anzichè al concorso internazionale che
si svolge con cadenza biennale. Per il più giovane degli
affiliati al circuito del Grand Prix (Maribor ne fa parte dal
2008) è stata una prima assoluta, attesa con emozione,
preparata con cura nonostante lo staff ridottissimo, infine
incoraggiata dalla presenza di un gran numero di personalità
della coralità internazionale. È stato un buon
debutto, forte dell’esperienza di una
manifestazione collaudata e che ha offerto al
pubblico, sempre numeroso, un programma
scorrevole, puntuale, condotto con professionalità
e seguito con interesse.
A dare il benvenuto nel concerto di apertura è
stata la formazione maschile Vokalna akademija
Ljubljana diretta da Stojan Kuret, attualmente il
coro sloveno più rappresentativo grazie ai riconoscimenti che
negli ultimi anni gli hanno fatto conquistare una grande
popolarità internazionale. Kuret ama combinare le capacità di
questi eccellenti coristi con l’apporto di solisti ospiti, metterli
alla prova con stili diversi, scegliere per loro programmi vari e
insoliti; il gala di apertura è stato infatti impreziosito dalla
partecipazione di diversi strumentisti e cantanti lirici (tra i
quali il noto baritono Marko Fink) che hanno affiancato il coro
in un percorso musicale senza confini temporali e geografici.
La capacità di distinguere le modalità di esecuzione e il tipo
di vocalità nel passaggio dalla musica antica a quella
romantica e contemporanea è stata anche uno dei termini di
giudizio degli esperti chiamati a valutare i ventidue gruppi
partecipanti al concorso nazionale. Il numero
proporzionalmente alto di cori e la loro qualità sono per la
Slovenia un vanto ampiamente riconosciuto che è stato
confermato da queste esibizioni. Alto è anche il numero di
compositori che scrivono (non occasionalmente) musica
corale, attività promossa dal regolamento stesso del concorso
che prevede la scelta di un brano di autore sloveno scritto
dopo il 1990, condizione che, con esiti vari, ha convinto molti
partecipanti a presentare brani in prima esecuzione. Molti
sono stati anche i direttori di coro che si sono messi per la
Un percorso musicale senza
confini temporali e geografici.
prima volta alla prova in questa competizione. Quasi a
conferma del detto sloveno “l’esperienza rende maestri”,
nessuno di loro ha conquistato l’oro, ma tra i vincitori
dell’argento si sono classificati entrambi i direttori dei due
cori partecipanti che appartengono alla minoranza slovena in
Italia: Marko Sancin per il coro misto Jacobus Gallus di Trieste
e Mateja C̆ernic per il gruppo femminile Bodec̆a nez̆a di San
Michele del Carso presso Gorizia. Quest’ultima è stata
insignita anche del premio speciale come giovane direttore
emergente e del premio per la migliore esecuzione di un
brano del XX secolo. Il primo premio assoluto è andato invece
al coro Megaron di Ljubljana, forte di un bel suono, precisione
e un grande numero di giovani coristi diretti dal compositore
Damijan Moc̆nik. La presidente di giuria Martina Batic̆,
direttore artistico del coro della Filarmonica slovena e
impegnata attivamente in diversi paesi europei come
direttrice ospite di cori di professionisti, non ha risparmiato
nel suo discorso di chiusura un giusto appunto alla mancanza
di una più ampia tavolozza stilistica nella scelta dei
programmi, ma ha voluto anche fornire alcuni suggerimenti
etici e pratici sull’approccio alle competizioni, dove non basta
rispettare il regolamento, ma occorre interpretarlo con
saggezza in rapporto alle proprie possibilità e, nonostante la
52
tensione della circostanza, senza mai dimenticare lo scopo
principale di questa attività artistica: diventare “strumenti
della musica”.
Senza dubbio hanno accolto da tempo e con convinzione
questo invito i vincitori dei concorsi internazionali di Varna,
Tours, Tolosa, Maribor e Arezzo, che si sono contesi il
“premio dei premi” in un concerto che ha ben meritato il
tutto esaurito. La strategia delle esibizioni è stata simile per
tutti i cori partecipanti con programmi che hanno
considerato sia la necessità di sfoggio tecnico che le
esigenze dello spettacolo. Maribor ha portato fortuna al
proprio candidato, laureando a detentore del Grand Prix il
coro svedese Sofia Vocalensemble, vincitore su questo
palco nell’edizione dell’anno scorso. La giuria internazionale
ha condiviso così l’opinione generale del pubblico,
premiando l’alta qualità, ma anche l’autenticità amatoriale.
Bengt Ollén ha diretto con grande complicità un coro di
raffinata preparazione e dalla musicalità solare, capace di
emozionarsi e di comunicare con il pubblico, affiatato, dal
suono omogeneo e dall’espressione che va “oltre le note”,
come il direttore stesso definisce il proprio obiettivo
fondamentale. Senza dubbio il coro svedese è risultato
meno appariscente del gruppo ucraino Oreya, penalizzato
proprio da uno smalto vocale e virtuosistico così esuberante
da rendere di difficile definizione il confine tra amatoriale e
professionale. Per i coristi di Alexander Vatsek l’esibizione
include anche elementi teatrali che li rendono maestri non
soltanto del suono (con uno sfruttamento del potenziale
vocale superiore alla media di un buon corista), ma anche
della spazializzazione. Al di là di ogni più razionale giudizio
critico, i coristi di Vatsek servono la musica con dedizione e
la loro ostentazione di sicurezza, come pure la tendenza a
riproporre un programma consolidato, non diminuiscono a
livello di ascolto l’emozione di un’espressività prepotente,
un suono avvolgente e una sintonia di gruppo totale.
Si è battuto per il premio anche il coro universitario filippino
di più antica tradizione,
l’Ateneo de Manila
College Glee Club,
diretto dalla sensibile
Maria Lurdes M. Hermo
che non ha convinto
sufficientemente per
scelta dei brani e
approccio stilistico. Il
Giappone ha avuto
l’opportunità di avere a
Maribor ben due
rappresentanti.
L’Harmonia ensemble,
che ha la particolarità di esibirsi senza direttore, è proprio
per questo motivo un modello interessante di esercizio di
ascolto reciproco, apprezzabile per la grande intesa e per la
limpidezza, a volte al limite del marziale, nella conduzione
ritmica dei brani, ma che ha mostrato uno studio efficace
della musicalità senza la necessaria espressione. Non hanno
brillato per varietà del programma i coristi del Vox Gaudiosa
dell’affermato Ko Matsushita che in questa occasione hanno
convogliato una grande energia verso l’esterno piuttosto che
in profondità, utilizzando soltanto una parte del potenziale
rivelato in altre occasioni.
Ogni concorso ha il proprio stile e carattere: nell’absburgica
Marburg che convive con il sapore dell’ex Yugoslavia, dove
con la notte cala il silenzio sulle strade del centro storico e di
giorno il rito del caffè si consuma al suono di una vecchia
fisarmonica, il Grand Prix ha trovato un’atmosfera
concentrata, raccolta, che ha attirato un pubblico attento di
compositori, direttori, coristi e studenti per i quali la capitale
della cultura è diventata per un giorno anche la capitale della
musica corale.
Foto di Janez Erz̆en
53
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54
Notizie dalle regioni
A.R.C.A. Abruzzo
Associazione Regionale Cori d’Abruzzo
Via Montesecco, 56/a - 65010 Spoltore (Pe)
Presidente: Gianni Vecchiati
Con soddisfazione per la crescita numerica e qualitativa dei suoi iscritti, l’annuale Assemblea
dell’Arca, riunitasi il 14 aprile a Montesilvano, ha approvato all’unanimità la relazione e il
bilancio 2011. Con le stesse modalità, approvato di seguito anche il bilancio preventivo
2012. Particolarmente apprezzata la partecipazione del Vicepresidente Feniarco Alvaro Vatri,
ulteriore dimostrazione di attenzione e supporto della Federazione.
Ampia e intensa partecipazione al corso di vocalità tenuto in due fine settimana di marzo
(3-4 e 25-26) a Vasto Marina da Stephen Woodbury, che oltre ad affrontare gli aspetti
principali della tecnica vocale quali postura, respirazione, gestione del fiato, ecc. ha coinvolto attivamente i presenti con esercizi di respirazione, vocalizzi e successivo lavoro sui
brani proposti. La riconosciuta professionalità, la cordialità e la simpatia del docente hanno
trovato nei coristi i meritati consensi e unanimi richieste di ulteriori incontri.
A.R.C.C. Campania
Associazione Regionale Cori Campani
Via Trento, 170 - 84131 Salerno
Presidente: Vicente Pepe
Il 3 marzo si è riunita a Salerno l’Assemblea generale dell’Arcc, con la partecipazione di
45 cori associati. Le elezioni per il rinnovo delle cariche hanno visto riconfermato all’unanimità il Presidente Vicente Pepe, mentre il Consiglio Direttivo si è tinto di rosa con l’elezione
di Anna Maria Galdieri e Santina De Vita; riconfermati inoltre il Vicepresidente Carlo Intoccia
e il Consigliere Amedeo Finizio.
Ricca l’offerta formativa proposta da Arcc nei primi mesi di questo 2012. Il 25 e 26 febbraio,
la città di Posillipo ha ospitato il corso di formazione “Però mi vuole bene… Il coro misto
tra swing e pop” tenuto dal maestro Mario Lanaro e dedicato da un lato alla didattica e
allo studio con i direttori di coro e dall’altra all’esecuzione di brani scelti. Il secondo corso
Arcc “Concertazione ed educazione nelle modalità di arrangiamento e di esecuzione per
brani pop” si è svolto a Salerno il 24 e 25 marzo, docente Fabio De Angelis; due giorni di
studio caratterizzati da energia, divertimento, studio e ritmo e incentrati sull’esecuzione
di brani vocal pop. Il corso “Concertazione ed educazione per cori di voci bianche e voci
pari”, sempre a Salerno, il 21 e 22 aprile, è stato tenuto dalla giovane Bèatrice Warcollier
ed è stato focalizzato sulla gestualità e sulla vocalità, con l’esecuzione di brani scelti. Il 28
e 29 aprile, infine, Antonella Tatulli ha tenuto un corso su “Prassi esecutiva dal gregoriano
al Rinascimento” dedicato all’interpretazione e alla prassi esecutiva della musica antica.
Vivace anche la proposta concertistica in Campania, con la terza rassegna di cori polifonici
della Città di Vallo della Lucania il 31 marzo, la rassegna “Corincantati - Festa della coralità
giovanile” il 28 aprile a Pomigliano d’Arco, la quinta rassegna dedicata ai cori scolastici e
giovanili “Cantagiovani” a Salerno il 4 e 5 maggio, la sesta edizione di “Ercolano in… canto”
dal 4 all’11 maggio.
REGIONI
U.S.C.I. Friuli Venezia Giulia
Unione Società Corali del Friuli Venezia Giulia
Via Altan, 49 - 33078 San Vito al Tagliamento (Pn)
Presidente: Franco Colussi
Nel 2012 l’Usci Friuli Venezia Giulia ha proposto con successo la seconda edizione di “Paschalia - Passione e risurrezione nella tradizione
musicale”, progetto di rete articolatosi tra marzo e aprile che ha visto
riuniti in un unico cartellone oltre sessanta appuntamenti corali (concerti, messe, sacre rappresentazioni…) legati al repertorio della Settimana Santa e della Pasqua, con l’intento di promuovere e favorire la
visibilità delle proposte musicali offerte dai cori nel periodo quaresimale e pasquale.
Il 13 aprile a San Vito al Tagliamento è stato poi presentato al pubblico
il volume Anìn anìn a nolis - Ninne nanne, filastrocche e rime infantili
della tradizione orale friulana, curato da Andrea Venturini e recentemente pubblicato dall’Usci Friuli Venezia Giulia in collaborazione con
la Società Filologica Friulana. La presentazione, inserita nell’ambito
del ciclo Note di conversazione, ha visto gli interventi dell’autore affiancato da Roberto Frisano e le esecuzioni dei brani a cura del Coro
di voci bianche Artemìa di Torviscosa, diretto da Denis Monte.
Sempre dedicata alla coralità infantile e scolastica, ha preso il via la
rassegna Primavera di voci, che da aprile a giugno coinvolgerà giovanissimi coristi della regione in quattro appuntamenti organizzati a livello provinciale per convergere nel grande Concerto di Gala che si
terrà domenica 3 giugno a Gorizia, con la partecipazione dei migliori
cori delle rassegne provinciali.
Infine, da segnalare l’attività formativa che tra gennaio e aprile ha
visto svolgersi i corsi “A scuola di coro”, organizzati con la collaborazione di Usci Pordenone e Uscf Udine, e articolati in quattro moduli
indipendenti dedicati al canto gregoriano, al repertorio vocal pop, al
canto popolare e alla vocalità infantile, affidati ai docenti Paolo Loss,
Adriano Dall’Asta, Alessandro Cadario, Deborah Summa, Krishna Nagaraja, Farbizio Barchi e Denis Monte.
U.S.C.I. Lombardia
Unione Società Corali della Lombardia
Via S. Marta, 5 - 23807 Merate (Lc)
Presidente: Franco Monego
Si è riunita sabato 14 aprile a Varese l’Assemblea annuale dell’Usci
Lombardia. Le elezioni per il rinnovo delle cariche hanno visto riconfermato Franco Monego quale Presidente dell’associazione regionale
e Tiziana Gori Premuroso eletta nuova Vicepresidente. Rinnovato anche il Collegio Sindacale, con la riconferma di Fedele Carnovali e l’elezione di Massimo Maccarini, Daniela Nason, Simone Giampaolo e
Maria Rosa Scotti.
Per quanto riguarda le iniziative proposte dalle associazioni provinciali
lombarde, segnaliamo la rassegna per cori di voci bianche “Cori di
Classe” tenutasi a Pavia sabato 28 aprile con la partecipazione di dieci
cori di voci bianche della provincia e la rassegna “Cantare la scuola”
domenica 29 aprile a Calcinate (Bg) con dieci cori scolastici del territorio bergamasco.
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A.R.C.L. Lazio
Associazione Regionale Cori del Lazio
Via Valle della Storta, 5 - 00123 Roma
Presidente: Alvaro Vatri
Nel corso dell’Assemblea ordinaria Arcl, svoltasi il 31 marzo a Roma,
è stato esaminato e approvato il bilancio consuntivo 2011 e il preventivo 2012. È stata anche l’occasione per fare il punto sull’attività sinora
svolta e da svolgere nei prossimi mesi. Da segnalare la nuova iniziativa
“Incontri Culturali 2012” che sarà avviata in maggio, con la collaborazione della FUIS (Federazione Unitaria Italiana Scrittori).
Due le iniziative formative che hanno aperto il 2012: il seminario “Il
gesto è già suono” tenuto da Walter Marzilli il 18 e 19 febbraio, incentrato sulle problematiche legate al gesto del direttore e alla tecnica
del “punto focale”, e il seminario sulla concertazione della musica
polifonica rinascimentale “Dal segno al suono”, tenuto il 25 marzo da
Fabrizio Barchi, il quale ha affrontato tra le altre cose gli aspetti musicologici dell’approccio alla musica rinascimentale, le competenze
richieste al direttore, le scelte di prassi esecutiva.
Segnaliamo inoltre la sesta edizione della rassegna “Terrapontina in…
canto” articolatasi in tre giornate (27-29 aprile) in tre siti importanti
delle città di Pontinia e Latina. Una importante novità ha caratterizzato
questa edizione: un progetto musicale comune tra i cori partecipanti
alla rassegna che prevede la realizzazione, nell’arco di un triennio,
dell’esecuzione della Missa brevis Sancti Joannis de Deo di Joseph
Haydn, della quale è stato eseguito il Kyrie nel corso della serata conclusiva della rassegna.
A.R.CO.M. Marche
Associazione Regionale Cori Marchigiani
Via G. Galilei, 5 - 63833 Montegiorgio (Fm)
Presidente: Luigi Gnocchini
Il 17 e 18 marzo a Porto San Giorgio (Fm) si è tenuto il corso “Canto
il ’900 - letteratura corale del XX secolo: repertorio e vocalità”, docente
Marco Berrini, con larga partecipazione di corsisti provenienti anche
da altre regioni (Puglia, Abruzzo, Emilia Romagna) e la presenza di
due cori laboratorio. Molto apprezzati l’argomento del corso e il metodo di lavoro adottato dal mestro Berrini.
Diverse le rassegne che hanno animato il territorio marchigiano tra le
fine del 2011 e gli inizi del 2012. Tra novembre e gennaio le due rassegne “Picenincoro” (16a edizione) e “Fermano in…canto” (2a edizione)
hanno coinvolto ciascuna quindici cori delle province di Ascoli Piceno
e Fermo, con la collaborazione delle rispettive Amministrazioni Provinciali. Sempre a cavallo tra 2011 e 2012, la rassegna “Puer natus
est” ha riunito in un cartellone dodici concerti dislocati sull’intero territorio regionale e dedicati al repertorio natalizio, con il coinvolgimento
di trenta cori partecipanti.
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SCAFFALE
Giro Giro Canto 4
Raccolta di canti corali per bambini e ragazzi
Feniarco Edizioni Musicali, 2012
Melos 3
Nuove composizioni corali
Feniarco Edizioni Musicali, 2012
La biblioteca di Feniarco si arricchisce di quarantotto nuove composizioni che ampliano il repertorio dei cori italiani. È quanto si può trovare nei due nuovi volumi
di Feniarco: il terzo della collana Melos e il quarto di Giro Giro Canto.
Diffondere nuovi repertori e valorizzare nuovi musicisti riveste un ruolo chiave nell’attività di Feniarco. Un progetto che si è sviluppato sia attraverso le iniziative di formazione – tra le quali il Seminario Europeo di Aosta rappresenta l’esempio più alto
– sia con un’attività editoriale sviluppata in tutte le direzioni e su tutti i livelli.
Le due più recenti pubblicazioni proseguono su questa linea. In Melos ciascun coro
potrà trovare il brano adatto al proprio organico e alla propria tipologia musicale:
Melos 3 è, come sempre, un’antologia policroma, dove sacro e profano, latino e
italiano, lingue straniere o minoritarie convivono pacificamente. Il repertorio proposto spazia dalle composizioni destinate alla formazione più comune, il coro misto
a quattro voci, fino agli organici più diversi, maschile o femminile, a tre o cinque
e più voci, offrendo così opportunità repertoriali differenziate per rispondere alle
più varie esigenze dei cori italiani. Variegato anche lo spettro stilistico, che affianca
scritture più tradizionali a quelle ispirate a linguaggi più innovativi e sperimentali,
mentre è significativa la presenza di ben sette brani accompagnati da organo,
pianoforte o percussioni (erano solo due nel secondo volume, nessuno nel primo)
indice anche questo di una linea evolutiva della nostra coralità.
Il quarto volume di Giro Giro Canto propone composizioni di alta qualità musicale
il cui studio, alla portata di tutti, contribuisce alla crescita musicale ed estetica dei
piccoli cantori. Accanto a proverbi, filastrocche, fiabe, la forza evocativa della natura è il filo conduttore che lega gran parte dei brani: ritroviamo alcuni elementi
fondamentali, come il sole, il fuoco, l’acqua, ma anche animali: cammelli, pesci,
topi, gatti popolano il mondo fantastico di Giro Giro Canto. Troviamo le stagioni,
e con esse il concetto di tempo, il cui inesorabile incedere è visto ironicamente
attraverso un orologio scassato: ancora una volta l’attenzione alle tematiche e alla
qualità dei testi fa di questo volume uno strumento formativo capace di andare
oltre la musica per divertire e far riflettere i piccoli cantori. Come per i tre precedenti, anche il quarto volume è accompagnato dal cd realizzato dal Coro di Voci
Bianche e Piccolo Coro Artemìa di Torviscosa (Udine) diretti da Denis Monte.
Queste nuove composizioni attendono ora di essere interpretate da tutti i cori
italiani, con l’entusiasmo che ha accolto le precedenti opere stampate da
Feniarco.
I volumi sono a disposizione dei cori associati su richiesta presso la segreteria
Feniarco.
RUBRICHE
Pier Paolo Scattolin
Elementi di base nella tecnica
della direzione
Manuale didattico con esercizi ed esempi musicali
tratti dalla musica strumentale e vocale
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ritmiche ed espressive. In ogni sua parte il volume è corredato da
una ricca serie di esempi musicali tratti dalla letteratura corale e
musicale di ogni tempo.
Il lavoro di Pier Paolo Scattolin è, insomma, un importante strumento di formazione e di lavoro, del quale ci auguriamo vogliano
approfittare tutti i nostri direttori di coro.
Feniarco Edizioni Musicali, 2012
Nella strategia di Feniarco,
vi è la convinzione che la
crescita qualitativa della
nostra coralità debba fondarsi principalmente sulla
formazione ampia e approfondita di coloro che, dei
cori, rappresentano in primis la guida e il riferimento: i direttori. Un settore in
cui Feniarco da tempo manifesta il proprio impegno
con iniziative didattiche
attuate dalla Federazione,
tra cui ricordiamo in particolare l’Accademia Europea per Direttori di Coro a
Fano e la rete di Corsi e Seminari realizzata in collaborazione con
le Associazioni Regionali Corali.
Ecco perché il tema della formazione direttoriale investe anche le
iniziative editoriali della Federazione. È uscito il volume di Pier
Paolo Scattolin Elementi di base nella tecnica della direzione che
rappresenta sicuramente un valido e interessante strumento su
cui possono formarsi direttori alle prime armi ma confrontarsi anche direttori più esperti.
Il manuale, già pubblicato un decennio fa come Propedeutica alla
direzione nella collana Quaderni della rivista «Farcoro», curata
dall’Associazione Emiliano-Romagnola Cori, viene ora riproposto
aggiornato e ampliato in ogni sua parte da esercizi di tecnica gestuale ed esercizi tecnico-musicali, che costituiscono il necessario
supporto alla teoria.
L’autore inizia la trattazione dall’esaminare l’impostazione del corpo, che il direttore deve padroneggiare, ottenendo rilassatezza e
indipendenza delle parti, per raggiungere un alto grado di comunicazione. Ampio spazio è dedicato alla gestualità, vero tema
dell’opera, in un percorso che, partendo dal delineare le figure
principali, si inoltra sempre più in profondità ad analizzare le relazioni tra il gesto e la struttura musicale nelle sue caratteristiche
Anìn anìn a nolis
Ninne nanne, filastrocche e rime infantili
della tradizione orale friulana
a cura di Andrea Venturini
Usci Friuli Venezia Giulia e Società Filologica Friulana, 2011
Nel corso del 2011 l’Usci Friuli Venezia Giulia ha ultimato – d’intesa
con la Società Filologica Friulana
– la pubblicazione del volume
Anìn anìn a nolis, a cura di Andrea
Venturini, che raccoglie parte del
repertorio infantile friulano di tradizione orale. Obiettivo principale, naturalmente, è quello di fornire un supporto pratico atto a
favorire la conoscenza e la fruizione di tale repertorio attraverso
uno strumento rivolto prevalentemente agli insegnanti della scuola
per l’infanzia e primaria e ai genitori che vogliano contribuire a
tramandare questo prezioso patrimonio culturale.
Il volumetto contiene le partiture dei brani, non armonizzati ma
nella loro più semplice forma melodica, i testi in friulano e le traduzioni in italiano. Le pagine sono arricchite da illustrazioni che
richiamano i contenuti dei testi e appositamente realizzate. La
pubblicazione è inoltre corredata da un audio cd contenente la
registrazione delle melodie, effettuata dal Coro di voci bianche
Artemìa di Torviscosa (Ud).
58
LA VITA CANTATA
Rubrica dedicata al canto di ispirazione popolare
a cura di Puccio Pucci
Nasce da questo numero di Choraliter una nuova rubrica; uno spazio di notizie,
interviste, curiosità e ricordi dedicato in principal modo a quanti operano nel
settore della coralità amatoriale di tradizione, quella che viene definita di “ispirazione popolare”. È questo forse il nucleo di complessi corali che, legati alla espressività del mondo popolare o a nuove elaborazioni che si ispirano a questo mondo,
vantano una lunga presenza, in quanto molto spesso iniziano la loro esperienza
associativa negli anni Sessanta-Settanta, sull’onda di un complesso guida, il coro
della SAT e di conseguenza forse il valore dell’età media dei cantori risulta più
alto, come altrettanto alta è la loro determinazione nel proseguire la propria
attività.
Ho voluto dare a questa rubrica il titolo di La vita cantata indirizzato da una riflessione che credo non si discosti molto dalla realtà. Infatti gran parte della
grande musica frequentata dai cori polifonici presenta testi tratti dalla tradizione
religiosa o testi poetici che l’autore riveste di melodie che si adagiano su di essi
e ne esaltano gli intrinsechi valori letterari. È insolito trovare in polifonia storie di
vita, come nel ’500 con Orazio Vecchi, oppure testi che raccontano un lavoro, il
forzato distacco per la tragedia della guerra, la passione di una donna tradita o
la condizione umana della gente più comune.
Ciò accade molto più spesso nel mondo dei cosiddetti “cori popolari”, che operano
con repertori musicali spesso tratti da approfondite ricerche etno-musicologiche
o con musiche di autori che, ispirati da questo mondo, creano brani e testi così
vicini alle tematiche di tradizione, tanto da essere quasi considerate appartenenti
a esso. Spesso una sola composizione è una cellula completa di vita, un racconto
di gioia, di dolore o di morte.
Ma al di là della diversificazione dei repertori, in ultima analisi poi la differenza
la fa la musica e il modo in cui viene eseguita dal coro; così un brano popolare,
elaborato o d’autore, potrà dare la stessa emozione di una composizione polifonica, di un gregoriano o di un gospel. Quindi non è la tipologia musicale che
determina la qualità di ciò che un coro canta, ma la genialità del musicista che
con le sue composizioni è riuscito a ricreare le atmosfere che il testo contiene e
la capacità di un direttore e di un complesso corale a rendere emotivamente e
vocalmente quanto la musica esprime.
Mi auguro che questa rubrica possa accrescere l’interesse dei lettori alla rivista e
possa diventare una finestra importante sulle attività in cui sono impegnati tanti
cori di espressività tipicamente “popolare” attivi in Italia.
Un appello a tutti, cori e associazioni regionali, per poter disporre di informazioni
su concerti significativi, su particolari eventi musicali, su corsi con i bandi e i risultati, su pubblicazioni, convegni di studio e su raccolte musicali, interviste a
compositori, interessati a questo particolare settore della musica corale.
In breve la rubrica vivrà in funzione della mano che potrete darci, collaborando
per renderla fruibile a tutti. Spero davvero di poter contare sulla vostra indispensabile collaborazione.
Puccio Pucci
[email protected]
051 6342819 - 335 6908629
RUBRICHE
ARMONIE IN VALLE
Trenta canti raccolti in Valtellina e Valchiavenna
armonizzati per coro maschile
© Coro Vetta 2011
È stato recentemente pubblicato questo bel libro che
il Coro Vetta di Ponte Valtellina ha prodotto, nell’anniversario dei suoi cinquanta anni di attività,
avvalendosi del coordinamento prezioso del maestro Angelo Mazza, a cui il
volume è dedicato.
Il progetto, ideato da Enzo
della Bona, per lunghi anni
presidente del coro, ha previsto una prima fase di ricerca, nella convinzione che
«il filo conduttore che legava la quotidianità della vita alle tematiche tratte dai brani di ispirazione popolare, era spesso dovuto alla specificità dei luoghi»,
come dice il presidente Franco Biscotti nella presentazione.
Dalla ricerca nelle due valli ne sono usciti ben 120 brani, raccolti
e trascritti anch’essi nel volume I canti della Memoria; musiche
che fissano le peculiarità originali e a volte uniche di questi
luoghi dell’arco alpino nella Provincia di Sondrio, vere testimonianze sonore di grande valore sociale e culturale.
Ma ecco la seconda parte del progetto: la scelta di trenta melodie ritrovate, che affidate a un gruppo di valenti musicisti,
sono state elaborate e raccolte in questo nuovo volume che
presentiamo e che ora offrono alla coralità nuovi interessanti
repertori, prezioso materiale da studiare e presentare come
genuina espressività della nostra gente di montagna.
Il prof. Giuseppe Calliari, nella prefazione, delinea molto bene
la tipologia delle parole e delle melodie che sono poi state
tradotte dagli autori nella «plasticità sonora del canto polivocale, nella forma compiuta di piccolo oggetto d’arte». Non manca anche un prezioso suggerimento agli esecutori nel cogliere
e riconoscere le caratteristiche peculiari che le intuizioni degli
autori hanno voluto dare alle loro elaborazioni.
Il volume si completa con una sintetica ma sufficiente rassegna
dei curricola degli armonizzatori, tra i quali notiamo personaggi
di grande spicco, già da tempo presenti con i loro elaborati in
numerose raccolte musicali; non mancano poi i nomi dei ricer-
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catori e dei raccoglitori, personaggi determinanti per la fase
propedeutica della ricerca. Credo che sarebbe stato anche interessante collocare i loro nomi in calce ai brani, magari con
qualche indicazione anagrafica del ricercatore/informatore e del
luogo in qui il brano è stato trovato, per offrire una ulteriore
indicazione allo studioso o al curioso.
Mi è parso significativo, nella prima uscita di questa nuova
rubrica, pubblicare la recensione che il critico musicale della
«Gazzetta di Parma», Gian Paolo Minardi, ha dedicato al concerto tenuto dal Coro della SAT il 4 febbraio scorso al Teatro
Regio di Parma. Minardi, profondo conoscitore del mondo della
coralità, ha delineato in modo perfetto le emozioni offerte dai
cori nello splendido incontro musicale.
DAGLI APPENNINI ALLE ALPI
di Gian Paolo Minardi
«Veniva in mente l’altra sera, mentre al Teatro Regio andava
snodandosi l’affascinante collana di canti proposti dal coro della
SAT, il risoluto commento di Brahms, amante spassionato del
canto popolare, alle critiche di alcuni musicologi convinti che le
testimonianze originali dovessero rimanere intatte, sottratte a
qualsiasi intervento di armonizzazione: “la scienza con la S
maiuscola ha voluto pubblicare ogni scartoffia con cui un grande aveva reso omaggio al proprio sedere”, per dire dello stacco
tra “scienza” e poesia.
Non a caso Massimo Mila, brahmsiano fervente quanto “patito”
della montagna, scrisse che se Brahms avesse ascoltato il Coro
della SAT “lo avrebbe aggiunto nel numero delle gioie artistiche
che gli dava l’Italia”, nella convinzione dell’ineffabile movente
poetico che regola da più di ottant’anni la celebre compagine
tridentina, con una coerenza che nasce dalla continua messa a
punto dello “strumento” per giungere a quella coesione del
suono che si variega con infinite sottigliezze. La ragione che,
insieme all’innato amore per la montagna, aveva affascinato
Benedetti Michelangeli il quale in quella costanza con cui i cantori lavoravano al suono vedeva riflesso il proprio inesausto
impegno alla tastiera. E come per il grande pianista, così è stato
per altri musicisti insigni, ognuno rilettore attraverso lo spettro
dell’armonizzazione della piccola vicenda racchiusa nella semplicità della testimonianza popolare; una prospettiva oltremodo
ricca come si è potuto osservare attraverso il programma offerto
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l’altra sera; proprio nella
varietà delle “lenti” il quadro s’illuminava in maniera affatto originale: incisivo il segno di Dionisi
quanto filtrato quello di
Michelangeli così come
dalle armonizzazioni di Pigarelli e di Pedrotti affiorava un senso più positivo
della narrazione, un’evidenza marcata al sapore,
a volte drammatico, di
quelle pittoresche schegge di vita. Prendeva corpo,
così, da questa variata antologia il senso più innervato nella sequenza dei
secoli che guida questa
magnifica compagine, uno dei tramiti più vitali di quella poesia vocale che dalle
antiche laudi al madrigale costituisce il connotato più autentico della nostra lunga
storia musicale.
A promuovere il ritorno al Regio, dopo diversi anni, della prestigiosa istituzione di
Trento è stato il nostro Coro Montecastello, compagine che sotto la appassionata
direzione di Giacomo Monica da anni si muove lungo un percorso affine nella rivisitazione di antiche testimonianze sonore della nostra terra, del nostro Appennino
in particolare, attraverso il diaframma di una coralità che illumini e renda sensibili
le ragioni poetiche racchiuse in quei lontani reperti. Un impegno che è ben risaltato
nel gesto di benvenuto, un mazzetto di tre canti delle nostre montagne nella sapiente e sensibile elaborazione polifonica di Monica, fresca e spontanea attestazione della autenticità dei legami che legano le due istituzioni. Un clima festoso
che è andato via via crescendo, col pubblico che gremiva il teatro entusiasta:
generoso il coro trentino – guidato da Mauro Pedrotti, determinato continuatore
della tradizione dei “padri fondatori” – ha replicato alcuni dei canti più amati per
poi concludere con una serie di applauditi fuori programma.»
da «La Gazzetta di Parma», 6 febbraio 2012
www.feniarco.it
RUBRICHE
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cori da tutta Italia
concerti in città e sul territorio
incontri e nuove conoscenze
turismo
arte
cultura e tradizioni
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MONDOCORO
a cura di Giorgio Morandi
Amici lettori di Mondocoro, leggerete queste note a periodo pasquale inoltrato, ma
ciò nulla toglie alla mia fortuna di poter fare i tipici e caratteristici auguri di primavera, una stagione appena avviata ma che già scoppia di colori: il rosso del melocotogno contro il giallo della forsizia e il bianco dei primi ciliegi e pruni, il giallo e
il bianco dei narcisi appena oltre le chiazze gialle delle primule e l’azzurro dei
nontiscordar. È la bellezza della natura che sicuramente vuole pareggiare la bellezza
di tanti concerti primaverili che premiano il lavoro invernale di direttori e cantori.
Forse non è un caso che un amico musicista non vedente identificasse le note con
i colori! Ma ecco da Mondocoro l’augurio ben intonato alla stagione.
Musica, tu anello universale
che illumini il creato della luce
che, partita dal centro, sale, sale
e fino al creatore ci conduce.
Quest’armonia è Dio che l’ha voluta,
creandoci a sua rassomiglianza
Ed ogni lauda a Lui sempre è dovuta:
l’uomo canta nella terrena stanza.
Il sole suscita un coro di bambini,
come angeli li senti osannare,
anche i grandi si fanno più piccini,
cantano e vogliono sognare.
I Canti diventano divini:
“Ognun che canta ha imparato ad amare”.
Il sonetto fu scritto ormai tredici anni orsono dal cantore poeta Emile D’Ars, del
coro Sette Laghi di Varese. Permetterete sicuramente, voi miei 24 lettori, che questo
sonetto augurale diventi anche affettuoso omaggio/ricordo del maestro Lino Conti
che a fine gennaio ci ha lasciati e che al coro Sette Laghi e a tutti noi amici per
oltre 40 anni ha insegnato proprio… come si ama.
Fare il direttore di coro
Talvolta, almeno in Italia, sembra quasi che “direttore di coro” o si è o non si è!
Tutti parlano di “corsi per direttore di coro”, ma nessuno, nessuna rivista, nessun
dossier affronta mai il discorso che “diventare direttore di coro si può”, che una
delle carriere possibili per il futuro dei nostri ragazzi è quella del direttore di coro.
Quanti giovanissimi vogliono diventare ingegneri, medici, pompieri, insegnanti,
perfino papa (io quando ero in seminario volevo diventare papa! Cosa ha guadagnato la Chiesa col mio cambio di idea!?!)… Normale. Ma a pensarci bene, si sente
mai un ragazzo giovane dire «da grande voglio fare il direttore di coro»? Qualcuno
glielo suggerisce mai? Gli “open day” presso i cori esistono? Le amministrazioni
pubbliche offrono percorsi formativi in questo campo?
RUBRICHE
Beh, forse sì, (anche se non si vedono molto, perché drasticamente limitare le espressioni della Provvidenza?!) e comunque…
proviamo a immaginare un giovane di questo tipo. Un giovane
che dice:
«Ho pensato molto a quale indirizzo di carriera professionale
intraprendere, e… stavo pensando di diventare direttore di coro.
Sì, voglio diventare direttore di coro. Ho cantato in coro per
oltre nove anni, e mi piaceva così tanto che per otto di questi
ho cantato in più di
un coro. Io penso
che avere l’opportunità di aiutare un
coro a interpretare
ciò che il compositore voleva comunicare, e osservare
i cantori che migliorano il loro cantare nel corso degli
anni, e ascoltare il bellissimo prodotto di tutto il loro duro lavoro
sia una cosa meravigliosa, senz’altro da farsi, senza curarsi
troppo di quanto paga.
Tuttavia ho certi problemi che forse potrebbero impedirmi di
ottenere questo tipo di lavoro, ed è per questo che, da qualche
professionista direttore di coro, cerco suggerimenti in merito.
In primo luogo, io sono terribilmente scoordinato. Arranco su
scale invisibili, vado a sbattere in oggetti visibili e mi ci è voluto
molto tempo per imparare a suonare il pianoforte, strofinare la
mia pancia e contemporaneamente battere la mia testa ecc.;
sono veramente preoccupato pensando che potrei essere un
direttore di coro terribile, perché nella realtà potrei non essere
in grado di dirigere a causa della mia mancanza di capacità
fisiche e potrei apparire un perfetto idiota.
Secondariamente, non conosco nessun altro che voglia diventare direttore di coro, e quando dico questo mio desiderio a
qualcuno, questi… mi guardano in modo strano. A quanto pare
se uno sceglie la carriera musicale si imbarca in un campo estremamente competitivo, ma il 95% delle persone della mia età
che conosco vogliono diventare medici, ingegneri e avvocati.
Sembra che ci siano un sacco di posti di lavoro liberi lì in quei
campi professionali. Ma… La professione del direttore di coro
è rara o è molto comune?
In terzo luogo non ho alte qualificazioni specifiche; io sono solo
a livello tre per il pianoforte e livello due per la teoria. Conosco
persone che hanno un livello superiore a sette ma non hanno
nessuna intenzione di intraprendere una carriera musicale, quindi… come faccio a immaginare di trovare un lavoro?
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Comunque ho anche alcuni elementi positivi a mio favore. Da
solo mi son fatto un abile orecchio relativo, mi piace fare e
ascoltare musica, posso comporre e arrangiare abbastanza
bene e ho almeno una conoscenza di base di pianoforte e di
teoria. Pensate che io possa affrontare questa carriera?»
Il nostro giovane attende una risposta.
Il canto va sempre incoraggiato
A Cesy, la moglie del mio
amico Mario, da sempre
piace cantare, ma solo recentemente ha deciso di
entrare nel coro della parrocchia. Ha preso la cosa
molto seriamente. Non
solo non manca mai alle
prove, in casa si esercita,
magari intanto che in cucina prepara il pranzo.
«Ora – mi ha confessato
Mario – avviene che ogni
volta che lei intona un Kyrie o un’Ave Maria o un Sacrum Convivium, io prendo la porta e mi rifugio sotto il portico o nel
giardinetto davanti alla casa».
Una volta, dopo pochi momenti che Mario se n’era andato, Cesy,
facendo una pausa nella sua esercitazione, lo ha raggiunto e
con fare un po’ risentito gli ha detto: «Mario, cosa c’è che non
va? Non ti piace il mio cantare?» «Amore – le ha risposto il mio
amico – il tuo cantare mi piace, ma voglio essere sicuro che i
vicini sappiano che non ti sto picchiando!».
Musica di lode / Praise music
Una musicista americana, direttore di coro, Denise R., afferma:
«Per quanto riguarda il termine “musica di lode”, a me piace
presentare pezzi di sei-ottocento anni orsono e sottolineare
quanto essi siano pieni di elogi. Non mi piace uno stile di musica
che rivendica come proprio lo scopo centrale della musica liturgica. La lode, com’è presentata nella musica, è vecchia quanto l’umanità stessa».
In un simpatico dialogo a distanza, le fa eco un collega con
queste parole: «…Davvero desidero congratularmi con Denise
R. per la sua definizione. Il termine Praise music (musica di lode)
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è un altro di quella sfortunata serie di termini-esca che sono stati adottati dalla
nostra cultura popolare. Negli anni ’90 il mio parroco un giorno mi ha chiesto se
sapevo… se potevo fare un po’ di “musica di lode”. Comprendendo perfettamente
quello che intendeva dire, gli dissi: «Qual è la musica che non si adatterebbe a
questa categoria?» Sorrise, ridacchiò sommessamente, e davvero non ebbe una
risposta, perché una risposta non c’è. Tutto, da O capo insanguinato di Bach a
Awesome God di Michael W. Smith, tutto è, in qualche modo e in qualche forma,
lode. Anche una canzone che esprima rabbia con Dio è, in un certo senso, piena
di lode, perché quando noi esprimiamo la rabbia (fintanto che è fatto in un modo
ragionevole e controllato, maturo e non-violento) dimostriamo che ci preoccupiamo
abbastanza per rendere migliore il rapporto.
Continuiamo a educare le nostre comunità con parole come ritmica, sostenuto,
vivace, calmo/placido, rispettoso, a mo’ di danza… che possono essere applicati
a brani scelti in qualsiasi tempo… e incoraggiamo questi sfortunati, imprecisi, termini confusi come moderno, contemporaneo, (forse anche pop e rock?!) a cadere
in disuso.
Contemporaneo, rock, ecc. non significa inferiore, se la musica e il testo sono ben
scritti, ben fatti, e il suono è progettato con sensibilità. Eh sì, c’è una crescente
evidenza che l’età non influenza il gusto. Per esempio, abbiamo portato il nostro
gruppo giovanile a una grande conferenza. I giovani hanno sperimentato sessioni
di Kirk Franklin altamente amplificate e servizi di Taizé. A tutti è piaciuto molto
Taizé. Quando la sessione Franklin è tornata in programmazione, un ragazzo (di
circa 15 anni) ha chiesto «dobbiamo tornare a quell’Arena della Sofferenza?». Lo
giuro, queste furono le sue precise parole!
Una vera impressione canora
Vent’anni orsono un giornalista chiese a un direttore di coro: «Vi considerate semplici esecutori o anche interpreti del canto popolare?» Ne ebbe, come risposta,
un’altra domanda: «Cosa può esprimere il canto e quali sentimenti può provare
chi lo ascolta?»
E così il maestro continuò: «A mio parere molti sono i sentimenti e gli stati d’animo
che si possono esprimere con il canto: gioia, allegria, felicità, tristezza, dolore,
dolcezza, religiosità, patriottismo. Altre sensazioni per l’ascoltatore sono quelle di
sentirsi trasportato mentalmente e immaginariamente nell’ambiente che viene descritto dal testo letterario del canto: la montagna, le rocce, i ghiacciai, i boschi, i
torrenti, i laghi, i fiori, le cupole delle chiese di una città, l’immensità della steppa,
il deserto, ecc. Ora, se un coro di tutto questo è solo esecutore, diciamo pure
anche a un buon livello tecnico-musicale, ma non riesce a smuovere l’ascoltatore
nel suo intimo e a destare in lui sensazioni con l’espressione e la forza dell’interpretazione, questo coro non è certo interprete del canto popolare, ma ne è semplicemente un esecutore piuttosto scialbo e indifferente.
Esiste forse un segreto per essere interpreti oltre che cantori? Direi di sì! Prima di
tutto, molto importante è una perfetta intesa fra maestro direttore e coristi, direi
quasi una collaborazione. In secondo luogo un’accurata scelta del repertorio nella
quale la sensibilità del maestro conta in modo predominante, per non costringere
RUBRICHE
i coristi a cantare quello che non sentono di poter interpretare;
di conseguenza l’interpretazione risulterebbe piatta, priva di
quella coloritura che si può dare alla musica. Io credo di poter
affermare che un coro deve mirare soprattutto all’interpretazione dei canti. In oltre 25 anni di direzione di coro ho potuto
constatare personalmente e insieme ai miei coristi, che cantare
è un’arte e quest’arte del canto, come tutte le altre forme d’arte,
deve esprimere qualche cosa: e questo qualcosa non deve essere unicamente l’emissione della voce, ma una vera “impressione canora”». (Kurt Dubiensky, 1982)
Libri
Conducting Choirs (Dirigere cori), tre volumi di David DeVenney,
per complessive 400 pagine, al costo di 100 $, Roger Dean
Publishing Co, Dayton OH. Titoli dei volumi:
1. Il Direttore di Coro promettente. Guida pratica per direttori
di coro principianti;
2. Musica da usare durante la lezione. Raccolta completa di
esempi musicali, comprensiva di cd per lo studio e l’applicazione
pratica;
3. Il Direttore praticante. Un’esplorazione di argomenti specifici
per il lavoro del direttore di coro.
Anche se non avesse scritto questi tre volumi David DeVenney
sarebbe, tra i contemporanei, uno dei più prolifici contributori
alla letteratura scientifica in campo corale avendo scritto oltre
quaranta libri e circa ottanta articoli. Egli ha attinto alla sua
enorme esperienza per fornirci un’aggiunta pragmatica e utile
nell’arena dei metodi corali.
Nella prefazione al primo volume dell’opera che si vuole presentare, così l’autore ufficializza il suo scopo: «Fornire una guida compatta e
completa che consenta di
insegnare le basi della direzione di coro, della conduzione delle prove e dello studio delle partiture».
Aggiunge che i destinatari
del suo studio sono «i futuri direttori di coro e leaders di cori meno esperti,
tra questi i cori scolastici,
i cori da chiesa e i cori
amatoriali in genere».
Importante è la precisazio-
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ne che il secondo volume si accompagna al primo, ma non
necessariamente deve essere usato come prosecuzione di quello. Il bel cd e il sito web www.conductingchoirs.com a esso collegato contengono le partiture corali di molti dei brani selezionati. Il volume è organizzato nei seguenti capitoli: Canto e
musica all’unisono (5 brani); Musica rinascimentale (6 brani);
Musica barocca (6 brani); Musica classica e romantica (10 brani);
Musica contemporanea (6 brani).
Il terzo volume, più che continuazione del primo volume, va
inteso in affiancamento dello stesso. Nella prefazione così scrive
l’autore: «Non è necessario procedere con questo volume come
se fosse uno specifico corso di studio. Piuttosto il lettore è
incoraggiato a esplorare quei capitoli che sono rilevanti in un
dato momento del suo percorso di insegnamento, passando
agli altri solo nel momento in cui ne avrà bisogno».
DeVenney ha fatto alla coralità un ragguardevole servizio indirizzando la sua attenzione anche a un argomento “disperato”
(e spesso dimenticato) quale quello della psicologia e dell’uso
del movimento durante le prove. Va aggiunto, come ultima annotazione, che il capitolo finale del primo volume è intitolato
Cantori e coro e comprende i seguenti argomenti: postura, respirazione, intonazione e differenze fra il canto solistico e il
canto corale. Complessivamente tutta la presentazione è chiara,
e concisa e si legge con piacere.
Per la natura stessa della rubrica Mondocoro non è possibile
fornire qui ulteriori dettagli, ma è a disposizione dei lettori che
la desiderano la dettagliata recensione in lingua inglese pubblicata da Choral Journal (febbraio 2012), rivista della ACDA
Associazione dei Direttori di Coro Americani.
Prove chiacchierone
Qualche tempo fa nel forum di ChoralNet c’è stato un ricco
confronto fra direttori di coro sull’argomento dei disturbi chiacchierecci durante le prove di coro, sia nei cori scolastici e quindi
giovanili, sia negli altri generi di cori (amatoriali e di chiesa, con
cantori d’ogni età). Ecco, telegraficamente, alcuni degli interventi più e/o meno interessanti.
1. Fondamentalmente due linee guida: a. non parlare mentre il
direttore parla con il coro o con una sezione del coro; b. non
parlare quando dovresti cantare tu o sta cantando un’altra
sezione.
2. Spiegare bene che mentre canta un’altra sezione il direttore
deve ascoltare attentamente senza essere distratto dal parlottare dell’altra parte di coro che può parlare, invece, prima e
dopo le prove o fra un canto e l’altro.
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3. Ferma la prova e guarda fisso le persone che parlano, fino a quando hanno
recepito il messaggio.
4. Per quanto possibile, le indicazioni devono essere non verbali. Fai in modo di
creare un ambiente in cui l’aspettativa è costantemente in progresso. Semplicemente aspetta che i tuoi cantori siano in silenzio. Se i colpevoli si riducono a un
paio di persone, sfodera nei loro confronti uno “sguardo diabolico“. Coi ragazzi può
funzionare anche il sistema che segue, io l’ho visto efficace. Alza una mano. Man
mano che i ragazzi la vedono, a loro volta alzano la mano e smettono di parlare,
richiamando anche i vicini. In breve tempo a un tuo gesto le tessere del domino
dovrebbero cadere tutte e tu dovresti avere l’attenzione dell’intero gruppo.
5. Spesso mi chiedo se durante le prove si parla abbastanza. Io incoraggio molto
i miei 90 cantori a parlare. Sento che la collaborazione e l’interazione alla pari
probabilmente è più importante della quiete. Questi ragazzi passano tutto il giorno
sentendosi dire di tacere, e a quale scopo? Voglio stipare a tutti i costi le mie idee
nel loro cervello o voglio sviluppare le loro e voglio che imparino a esprimerle? Il
mio obiettivo è l’autonomia, non un concerto perfetto. Quando voglio l’attenzione
del gruppo, semplicemente aspetto. In una situazione di reciproco rispetto, vedo
che ottengo l’attenzione del mio gruppo in pochi secondi dalla richiesta.
6. Forse inappropriatamente, ma io tendo a spiegare verbalmente, dicendo, per
esempio «Per favore!!!» e guardando gli interessati (io dirigo un coro di adulti) o
se voglio proprio essere “galante” dico «per favore, siate gentili con le altre sezioni
mentre si dan da fare con le loro parti. Voi vorreste la stessa cosa mentre guardate
le vostre» aggiungendo (anche se poco politicamente corretto – di solito sono le
donne le più chiacchierone) «soprani e contralti, scusate!». In casi proprio esagerati
si materializza una mia occhiataccia che porta immediatamente prima il silenzio e
poi una risata. Però se si parla di ragazzi e bambini, bisogna un po’ farci l’abitudine
e accettare. Sospetto che perfino i direttori di quei favolosi cori misti inglesi fatti
di uomini e ragazzi e anche il Vienna Boys Choir abbiano i loro momenti “peculiari”
con i ragazzi.
7. Non parlare mai sopra il balbettio. Al coro parla sempre con voce normale ma
decisa. Se qualcuno non sente perché continua a brontolare col vicino, aspetta in
silenzio. Questo funziona sempre.
Auguro ai cori italiani una
sala prove… spartana!
Le indicazioni sono quelle date da alcuni colleghi a un direttore di coro americano
che sta per avere dalla sua amministrazione la costruzione di una “piccola” sede
per il coro. E non solo. Pare che l’amministrazione abbia disponibilità anche di
qualche altro chilo di dollari per arredarla adeguatamente. Sul direttore (che di buon
mattino non ha pregato «Voglia di lavorare saltami addosso») è caduto improvviso
e pericoloso il problema di dover fare un elenco… per suggerire le cose indispensabili
alla “piccola” nuova sede corale. Per risolvere coscienziosamente e con professionalità il suo problema, il direttore ricorre alla fantastica (anche in senso letterale)
esperienza dei generosi consigli della gente del forum ChoralNet.
Sapendo di tanti cori italiani senza una sede, che magari dispongono solo di un
RUBRICHE
atrio nell’edificio comunale o in quello scolastico, ho fatto un
elenco (nemmeno completo!) delle indicazioni date e generosamente, “a gratis”, lo metto a loro disposizione.
Indispensabili almeno un paio di postazioni informatiche con
software di notazione musicale (preferibilmente Sibelius), soft­
ware di teoria musicale, software per la formazione dell’orecchio, software per una libreria musicale corale (ma utilizzando
Microsoft Access è possibile anche progettarlo in proprio – non
è difficile). Se si ha voce in capitolo, si deve dire agli amministratori anche la dimensione del coro più grande che lavorerà
in quella sede, per accertarsi che la sala abbia un numero sufficiente di metri cubi di spazio per gestire bene il suono. La
Società Wenger Riser ha ottime persone e materiali che sapranno dare indicazioni molto utili per avere le migliori dimensioni
della sala per il vostro coro più grande (con possibilità di aggiungervi anche un’orchestra… Potrebbe capitare di provare in
questo stesso spazio anche opere per coro e orchestra, vero?!).
È meglio se la sala avrà il soffitto a due livelli e alcuni tipi di
superfici sonore per gestire i bisogni particolari. Si assuma un
ingegnere acustico della zona, possibilmente un suonatore di
corno o comunque uno strumentista che capisce meglio come
i musicisti abbiano esigenze specifiche. E se durante le prove
si pensa di utilizzare il movimento, questo va tenuto presente,
perché avrà un impatto anche sulla dimensione dello spazio a
pavimento. Grandi pannelli bianchi magnetici e scorrevoli, a
parete, sarebbero favolosi. Oltre alle estensioni di soffitti e pareti, è molto importante l’altezza da terra del soffitto, elemento
che è spesso ignorato nel mondo corale. Se davvero si vuole
insegnare canto, i cantanti devono essere in grado di produrre
un suono che vada in alto 5 o 6 metri prima di ritornare alle
loro orecchie per essere analizzato. È per questo che si canta
così bene nelle chiese episcopali!
Un sistema di altoparlanti tutt’intorno alla sala è necessario per
permettere agli studenti di ascoltare in qualsiasi punto della
stessa. Non va dimenticato un computer di classe con iTunes.
Magari anche un iPod che contenga migliaia di canti da poter
far ascoltare ai cantori. Sì, non tanti canti… basta qualche migliaio! È assolutamente indispensabile un impianto di miglioramento vocale che consenta di comunicare senza dover urlare
sopra i ragazzi, come ogni direttore d’orchestra e di coro ha
sempre dovuto fare in passato. Non manchi una fontana grande
o più fontanelle di acqua per tenere idratate quelle masse che
non portano da casa una bottiglia d’acqua propria.
Non dimenticare comode mensole per le cartelle, una buona
scorta di cartelle e gli scaffali per mettercele. Ci si metta subito
alla ricerca di microfoni e cavi e tavole armoniche… Si contatti
qualcuno, come per esempio il Centro Chitarre, perché consigli
un pacchetto di soluzioni che soddisfi le vostre esigenze e i
67
vostri desideri. Per pedane a gradini, parapetti e leggii, si contatti la società Wenger. Sarà necessario anche un umidificatore
industriale…
E se non basta, scrivete! Qualcuno – lo dice esplicitamente chiudendo il suo intervento – ha ancora “un sacco di idee” da mettere a disposizione! (…ma i dollari non finiscono mai? Che bella
moneta!)
Coralità d’alto livello:
il St. Olaf C ollege
Un’istituzione
Fondata nel 1874, vicino a Minneapolis (USA, Stato del Minnesota), il St. Olaf College è una delle principali e più rigorose
istituzioni universitarie residenziali quadriennali con sede negli
Stati Uniti. St. Olaf è un college (non è considerato grande)
secondo la tradizione della Chiesa Episcopale Luterana d’America (ELCA). Fondato e impegnato sulle arti liberali persegue
una prospettiva di educazione globale e favorisce lo sviluppo
di tutta la persona nella mente, nel corpo e nello spirito.
Considerato, qui, soltanto dal punto di vista musicale e specificamente corale, il programma del St. Olaf College è uno dei
più diversificati, attesi, seguiti e acclamati in tutto il paese.
Ospita ben otto complessi corali di grande livello e gode di
attrazione e fama a livello nazionale e internazionale sostenuta
sempre più dal completo programma concertistico e dall’eccellenza espressa dalla facoltà di direzione corale attraverso work­
shop, masterclass, conferenze, ecc.
Un festival
È denominato St. Olaf Christmas Festival. Essendo stato creato
nel 1912 da F. Melius Christiansen, fondatore del St. Olaf Musical
Department, è una delle più antiche celebrazioni musicali natalizie di tutti gli Stati Uniti. Al festival partecipano circa 500
studenti di musica distribuiti in cinque cori e nella St. Olaf Orchestra. Regolarmente trasmesso da radio e televisioni pubbliche in tutto il paese, il St. Olaf Christmas Festival è elencato
dal New York Times International Datebook fra i cinque eventi
natalizi più significativi di tutto il paese ed è attentamente considerato e promosso da centinaia di pubblicazioni, TV Guide,
Wallstreet Journal e Los Angeles Times compresi.
I cori
Il St. Olaf Choir è senza dubbio “il gioiello della corona” della
tradizione corale di questo famoso College. Ma gli altri sette
complessi corali (per non citare una quantità di complessi stru-
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mentali) sono tutti più che degni di menzione, in particolare perché essi forniscono
la cornice nella quale i cantori del college si trasformano in artisti corali. Il Manitou
Singers è il complesso i cui novanta cantori sono selezionati fra le studentesse
del primo anno (il corrispondente coro maschile, più numeroso di questo femminile,
è conosciuto come il Viking Chorus) ed è l’organizzazione musicale più popolare
di tutto il campus universitario. Nonostante ogni anno ci sia un completo ricambio
di coriste, il coro canta alla cerimonia religiosa di apertura dell’anno accademico
e, durante l’anno, in numerose altre cerimonie, spaziando – come repertorio – dalla
musica sacra a quella profana e alle ballate popolari. Il Manitou Choir è richiestissimo sia all’interno sia all’esterno del campus universitario.
Un direttore
Mrs Sigrid Johnson nel St. Olaf College detiene attualmente la qualifica di St. Olaf
Artist in residence e di direttore del gruppo corale Manitou Singers. È B.M.
(Bachelor of Music) della St. Claud State University e M.M. (Master of Music) della
Michigan University con specializzazione in esecuzione vocale. Prima dell’incarico
al St. Olaf College, Mrs Johnson ha lavorato nei dipartimenti musicali di diverse
università americane. Attualmente è anche direttore associato dell’Ensemble Singers, il coro professionale di 32 voci che affianca il coro (130 voci) dell’organizzazione VocalEssence fondata nel 1969 da Philip Brunelle. Sigrid Johnson mantiene
anche un fitto calendario di interventi e di impegni come direttore ospite di numerosi festival, docente di corsi corali e workshops (anche in Australia). È membro
dell’ACDA, l’associazione dei Direttori di Coro d’America, della MENC - Music Educator’s National Conference, di Chorus America e di IFCM. Oltre che essere stata
direttore di alcuni tra i più famosi cori americani, Sigrid Johnson ha tenuto conferenze ai Symposium Mondiali per la Musica Corale del 2002 e del 2008 ed è stata
membro di giuria del prestigioso Bela Bartok International Choral Competition di
Debrecen nel 2006.
Un cd
Il cd che viene preso in considerazione è intitolato The Manitou Singers. Highlights
from the St. Olaf Christmas Festival (già citato più sopra). Si tratta di una raccolta
di brani registrati live dal coro Manitou Singers (diretto da Sigrid Johnson, già
sopra presentata) durante varie edizioni del Christmas Festival che hanno avuto
luogo fra il 1998 e il 2009. Il cd raccoglie grandi brani natalizi classici “incorniciati”
fra A Christmas Carol di Norman Dello Jojo e il popolare Procession and Balulalow
(da Ceremony of Carols) di Benjamin Britten. Molti di questi brani vengono cantati
spesso – a ogni livello – da molti cori in tutto il paese, ma questo cd è un grande
strumento didattico dal quale ogni educatore musicale può trarre grande beneficio.
Se paragonato a tutti i cori di studenti del primo anno di College, la musicalità del
Manitou Singers in questo cd sorpassa grandemente ogni più rosea attesa.
Reddite quae sunt Caesaris Caesari…:
Libera traduzione, elaborazione e integrazione dell’articolo Critic’s Pick…1 del giornalista Jonathan Slawson, su ICB Vol. XXX, Number 4, 4th Quarter 2011, pag. 75.
+ notizie>
Anno XIII n. 37 - gennaio-aprile 2012
Rivista quadrimestrale della Fe.N.I.A.R.Co.
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Paolo Bon, Alvaro Vatri, David Giovanni
Leonardi, Ettore Galvani, Lorenzo Montanaro,
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Redazione: via Altan 39
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In copertina: Corovivo 2011
(foto Renato Bianchini)
Editoriale
+ approfondimenti>
«Niente cultura, niente sviluppo. Dove per “cultura”
deve intendersi una concezione allargata che
implichi educazione, istruzione, ricerca scientifica,
conoscenza. E per “sviluppo” non una nozione
meramente economicistica, incentrata sull’aumento
del Pil, ma che includa cultura e tutela del paesaggio
e dell’ambiente tra i parametri da considerare.»
A dirlo è il Sole24Ore, che il 19 febbraio ha lanciato
un Manifesto per la Cultura, rovesciando il luogo
comune in base al quale con i soldi accumulati in
qualche modo ci si dedica all’hobby di lusso della
cultura: al contrario, spiega il quotidiano di
Confindustria, è partendo dalla cultura che si esce
dalla crisi attuale.
«È importante – prosegue il Manifesto – che l’azione pubblica contribuisca a
radicare a tutti i livelli educativi lo studio dell’arte (…) per poter fare in modo che
[i giovani] ne traggano alimento per la creatività del futuro. (…) Per studio dell’arte
si intende l’acquisizione di pratiche creative… è dimostrato che i ragazzi impegnati
in attività creative e artistiche sono anche i più dotati in ambito scientifico.»
La coralità si colloca a pieno titolo su questo percorso. Non è per caso, allora, che
in questi ultimi tempi siano nati tanti cori giovanili e di bambini, nella scuola e
fuori: quasi che l’organismo sociale generi da solo gli anticorpi con i quali reagire
alla malattia che lo ha preso. Il coro, infatti, non solo è luogo di formazione
culturale ma anche laboratorio di socialità, dove tutti, giovani e no, sperimentano
e apprendono i principi della responsabilità personale e collettiva, dell’impegno,
delle corrette relazioni.
Esserne consapevoli significa anche sapere che siamo chiamati a vivere il nostro
canto ricreandolo ogni giorno: cercare un nuovo repertorio, riscoprire un autore
dimenticato, eseguire composizioni inedite, creare accostamenti inattesi, sono
tutte azioni che prefigurano una capacità di innovazione di cui la nostra società
ha bisogno.
Se questo è il coro, allora il contributo, pubblico o privato, non è un sussidio
dovuto alla cortesia di chi lo può dare, ma un solido investimento per il futuro.
+ curiosità>
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