vicini a quanto si puo` fare a scuola…

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Il materiale qui presentato è pubblicato in maniera più organica in:
Marco Giliberti, Elementi per una didattica della Fisica Quantistica, CUSL, Milano (2007).
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CENNI DI STRUTTURA DELLA MATERIA
(VICINI A QUANTO SI PUO’ FARE A
SCUOLA…)
Marco Giliberti
Dipartimento di Fisica Università degli Studi di Milano
Premessa
In queste ultime pagine vogliamo provare a gettare un ponte fra questo corso e il suo
laboratorio, nel quale costruirete dei percorsi didattici basate su quanto abbiamo discusso
insieme. Per questo le argomentazioni che seguono verranno svolte ad un livello molto vicino
a quanto potrebbe essere davvero svolto negli ultimi anni di una scuola superiore e…
ovviamente seguiranno il razionale di Quanta-Mi…
Relazioni di Heisenberg
Nella maggior parte dei casi nello studio dei fenomeni ondulatori si ha a che fare con
gruppi di onde o “pacchetti d'onda” che sono fenomeni limitati nel tempo e nello spazio. Ad
esempio la nota suonata da un pianoforte dura un tempo finito e l'onda elettromagnetica
prodotta dallo scoccare di un fulmine dura solo una frazione di secondo. In tali condizioni
si può dimostrare che l'onda emessa non può essere monocromatica ma, al contrario, essa
risulta somma di più onde monocromatiche che hanno frequenza compresa in un
intervallo la cui misura ∆ν è collegata alla durata ∆t della perturbazione. Come sappiamo, il
teorema di Fourier ci assicura che, sotto opportune condizioni matematiche che non staremo
qui ad analizzare, la relazione tra ∆t e ∆ν è la seguente:
∆t ∆ν ≈ 1.
(7.1)
Il significato fisico di quanto sopra scritto è semplice: sommando infinite onde
monocromatiche, scelte in maniera appropriata, si ottiene una localizzazione della
perturbazione ondulatoria; oppure, viceversa, si può immaginare che ogni pacchetto d'onde
sia costituito da infinite onde monocromatiche opportune.
Detto in altro modo e tenendo conto della (7.1), se un pacchetto di onde è localizzato in un
intervallo di tempo ∆t allora esso si può considerare come somma di infinite onde
monocromatiche con frequenze comprese in un intervallo di misura ∆ν tale che risulti
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∆ν ≈
1
∆t
Per fare un esempio numerico, osserviamo che le moderne tecniche di ottica consentono di
preparare impulsi elettromagnetici estremamente brevi, e cioè della durata di circa 10-14 s.
Tali impulsi sono, allora, estremamente non monocromatici essendo addirittura somma di
infinite onde monocromatiche con frequenze contenute in un intervallo di misura ∆ν ≈ 1/∆t ≈
1014 Hz!
Per arrivare alle relazioni di Heisenberg consideriamo un pacchetto di onde elettromagnetiche
di durata ∆t e centrato attorno alla frequenza ν0. Allora, per quanto detto, questo è somma
di infinite onde elettromagnetiche
monocromatiche con frequenze
appartenenti
all’intervallo (ν0 - ∆ν/2, ν0 + ∆ν/2) con ∆ν legato a ∆t dalla (7.1).
D’altra parte, come abbiamo visto studiando l'effetto fotoelettrico e l’effetto Compton,
un'onda monocromatica di frequenza ν interagisce per mezzo di fotoni di quantità di moto
hν/c; quindi il nostro pacchetto, che è somma di infinite onde monocromatiche contenute in
un preciso intervallo, sarà in grado di interagire solo per mezzo di fotoni appartenenti
anch’essi ad un preciso intervallo di quantità di moto. Essi dovranno, cioè, avere di quantità di
moto hν/c con ν compresa nell'intervallo di frequenze (ν0 - ∆ν/2, ν0 + ∆ν/2). Se la durata del
pacchetto è ∆t, l'interazione potrà avvenire solo in una zona di ampiezza ∆x = c∆t ; quindi,
essendo p = hν/c, sempre dalla (7.1) si giunge alla relazione
∆x∆p ≈ h
dove ∆p = h∆ν/c.
Analogamente, se pensiamo che un'onda elettromagnetica di frequenza ν interagisce solo
per mezzo di fotoni di energia hν, si giunge alla seconda relazione
∆E∆t ≈ h
essendo ∆E = h∆ν.
Così che, ad esempio, in ogni esperimento nel quale viene preparato un pacchetto di onde
elettromagnetiche ben localizzato, cioè con ∆x piccolo, la sua quantità di moto sarà nota
solo con una certa imprecisione e, viceversa, se il pacchetto ha una quantità di moto
conosciuta con buona precisione allora esso è necessariamente non ben localizzato.
Per capire meglio il significato delle precedenti relazioni consideriamo un esempio.
Immaginiamo di preparare un esperimento ideale nel quale una sorgente di onde
elettromagnetiche emetta pacchetti identici di energia E≈ hν0, centrati attorno alla frequenza
ν0, e in modo che risulti h∆ν <<hν0; così che essi siano monofotonici (cioè in grado di
scambiare un solo fotone). Supponiamo, inoltre, che tali pacchetti incidano su un rivelatore
ideale che rilevi tutta la radiazione incidente.
Ripetiamo l’esperimento molte volte, sempre nelle stesse condizioni, con il rivelatore
costruito in maniera tale da misurare con precisione l’energia dei singoli fotoni scambiati. I
risultati ottenuti mostrano chiaramente che le energie misurate non sono sempre le stesse ma,
anzi, sono sparpagliate attorno ad un valore medio. Sostituiamo ora il rivelatore con un altro
che è in grado di misurare in quali istanti di tempo vengono rivelati i fotoni. Anche in questo
caso osserviamo che i risultati ottenuti sono distribuiti attorno ad un valore medio.
Dall’analisi statistica dei risultati troviamo che se ∆t e ∆Ε sono gli scarti quadratici medi delle
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quantità misurate, allora risulta sempre ∆t∆E ≈ h . Il significato delle relazioni in esame sta
nel fatto che non è possibile preparare dei pacchetti per cui il prodotto delle precedenti
varianze sia zero. Possiamo avere impulsi elettromagnetici estremamente brevi, per i quali,
quindi, l’istante di interazione col rivelatore è fissato con grande accuratezza; in tal caso, però,
i quanti da essi scambiati hanno un’energia distribuita su un intervallo, la cui ampiezza è tale
da verificare le precedenti relazioni. Naturalmente se il pacchetto non è monofotonico quanto
da noi detto non cambia se non perché in ogni misurazione il rivelatore conterà più di un
fotonei.
Osserviamo che quanto detto fino a qui non contraddice la esatta relazione di Planck
E=hν. Infatti, in ogni esperimento di fisica nel quale si vada a misurare l'energia della
componente monocromatica del pacchetto di frequenza ν, si trova sempre che questa
vale proprio un multiplo di hν; solo che, quanto più l'apparato per la misura dell'energia
risulta preciso e la misura accurata, tanto più ci sarà un allargamento del pacchetto sul quale
verrà effettuata la misura e quindi tanto più risulterà incerto l'istante in cui tale apparato
rivelerà i fotoni. Infatti immaginiamo, ad esempio, di mandare un impulso luminoso
attraverso un prisma e poi su una serie di piccoli calorimetri (apparecchi capaci di misurare
l'energia elettromagnetica); fig. 7.1.
Fig. 7.1 Un pennello di luce incide su un prisma e poi su una serie di calorimetri
Dalla posizione dei calorimetri raggiunti dalla luce si possono ricavare le frequenze delle onde
monocromatiche componenti l'impulso mentre il valore misurato da ciascuno di questi fa
conoscere l'energia scambiata da quella particolare componente. Si può così ricavare con
grande precisione che la componente di frequenza ν scambia energia proprio per multipli di
hν. Possiamo così misurare con grande accuratezza l'energia e la quantità di moto dei fotoni
scambiati dal nostro impulso ma, nel passare attraverso il prisma, che essendo di vetro è
dispersivo, il pacchetto di onde si allarga e la localizzazione dei fotoni diventa quindi sempre
meno precisa, come previsto dalle relazioni di Heisenberg.
Come sappiamo anche i campi materiali hanno una propagazione di tipo ondulatorio.
Consideriamo, ad esempio, il campo elettronico. Il fatto che tale campo sia quantizzato, vuol
dire che ogni volta che viene creata o distrutta una componente di tale campo di lunghezza
d'onda λ, viene sempre creata o distrutta una quantità di moto, una energia, un momento
angolare, una massa e una carica elettrica multipla rispettivamente delle quantità: h/λ , h ,
hν, m, e (cioè per brevità viene scambiato un elettrone di una certa quantità di moto e di una
certa energia).
E' quindi evidente che, in modo assolutamente analogo a quello discusso nel caso del
campo elettromagnetico, si possono ricavare delle relazioni per il campo elettronico che sono
identiche e hanno analogo significato a quelle precedentemente viste per il campo
elettromagnetico.
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Vale ora la pena osservare che una analisi più raffinata fornisce delle relazioni che sono
appena più restrittive di quelle appena ricavateii e cioè le seguenti:
∆x∆p ≈ h;
∆t∆E ≈ h
o, se si vuole usare il segno di ≥ al posto di quello di ≈, le seguenti:
∆x∆p ≥
h
;
2
∆t∆E ≥
h
.
2
Tutte le nostre considerazioni sono state fatte per un'onda monodimensionale che si propaga
lungo l'asse x. E' evidente che analoghe considerazioni si possono fare per onde che si
muovono nello spazio; per tali onde si avranno, con ovvia simbologia, relativamente a tre
direzioni fissate, le tre relazioni, di evidente interpretazione:
∆x∆p x ≈ h;
∆y∆p y ≈ h;
∆z∆p z ≈ h
Queste tre, insieme alla relazione che lega ∆E con ∆t, qualunque sia il campo quantizzato cui
si riferiscono, vengono globalmente chiamate relazioni di Heisenberg, dal nome del premio
Nobel per la fisica Werner Heisenberg che per primo le enunciò nel 1927.
Alcune volte alle precedenti relazioni ci si riferisce col nome di "principio di incertezza" e in
tal caso esse vengono interpretate come riferite ad un singolo quanto nel senso che adesso
spiegheremo.
Consideriamo un pacchetto elettronico di quantità di moto approssimativamente hν0 /c e
centrato attorno alla frequenza ν0. Per quanto abbiamo visto, il pacchetto interagirà per
mezzo di quanti (elettroni) con quantità di moto
p≈
hν 0 1 h∆ ν
±
c
2 c
così che se h∆ν << hν0 il pacchetto "conterrà" un solo elettrone con quantità di moto
conosciuta con una certa incertezza ∆p e che potrà interagire in un qualsiasi punto di un
intervallo di ampiezza ∆x. In questo senso si può dire che la quantità di moto di un elettrone
e la sua posizione non sono grandezze simultaneamente ben definite ma, al contrario, sono
soggette ad un certa incertezza (da qui il nome dato alle relazioni). Questo fatto risulta
comprensibile se non pensiamo all'elettrone come ad una pallina che si sposta “in qualche
modo” all'interno del pacchetto d'onde, ma se pensiamo al campo elettronico come a
“qualcosa” che si propaga secondo la teoria delle onde e che interagisce per mezzo dei suoi
quanti, chiamati elettroni, in un modo che è statisticamente ben determinato (come per
esempio risulta dall'esperienza della doppia fenditura).
Per fare un esempio concreto consideriamo un rivelatore che agisce assorbendo il campo
elettronico; allora esso, interagendo con il campo, assorbirà in un unico istante un intero
quanto (cioè un elettrone). E' in questo senso che abbiamo parlato di elettrone contenuto in
un pacchetto e cioè nel senso che in una interazione nella quale il pacchetto viene distrutto,
tutto o parzialmente, esso scambia una quantità di moto, una energia, una massa, un momento
angolare e una carica elettrica per multipli rispettivamente delle grandezze:
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h, e ; con ν appartenente al preciso intervallo di frequenze del pacchetto.
λ
2
Dal punto di vista didattico facciamo notare che, spesso, ci si riferisce alle relazioni di
Heisenberg col nome di “principio di indeterminazione”. Noi preferiamo non usare questo
nome, innanzi tutto perché non rappresentano un principio nella formulazione assiomatica
della Meccanica Quantistica e neppure della Teoria Quantistica dei Campi (nella quale sono
“nascoste” nel valore delle parentesi di commutazione) e poi perché il termine
“indeterminazione” può facilmente portare a fraintendimenti. Inoltre, spesso, le predette
relazioni vengono introdotte a partire da esperienze di misura semiclassiche, inizialmente
proposte dallo stesso Heisenberg. Per esempio ci si chiede come potremmo determinare la
posizione di un elettrone con un microscopio. Nel fare questo si disegna l’elettrone e si
rappresenta un fotone come una bisciolina che incide sull’elettrone (fig. 7.2). Tralasciando le
ben note considerazioni che portano in tal caso alle relazioni posizione-quantità di moto,
osserviamo che così facendo si dà l’impressione che l’elettrone prima della misura abbia una
precisa posizione e una ben fissata quantità di moto e che sia solo l’atto di osservazione che
perturba il sistema in maniera in un certo senso imprevedibile. E ciò è per lo meno impreciso
perché è impossibile costruire uno stato dell’elettrone in cui la quantità di moto e la posizione
siano fissate in modo preciso, indipendentemente da qualsiasi misurazione.
h
, hν , m ,
Fig. 7.2 Schema dell’esperimento concettuale del “microscopio di Heisenberg”
Perciò noi riteniamo che questo modo di fare non sia opportuno perché facilmente si finisce
per dare l’impressione erronea che le relazioni di Heisenberg siano collegate ad una proprietà
del processo di misura e non siano, quindi, una proprietà intrinseca. Notiamo, inoltre, che le
relazioni riguardanti l’energia e il tempo hanno uno “status” differente dalle altre, infatti esse
non si possono ricavare (ci mettiamo qui nel contesto della Meccanica Quantistica usuale)
dalle parentesi di commutazione di operatori descriventi osservabili non compatibili; quelle
riguardanti la posizione e la quantità di moto, invece, rappresentano solo una delle tante
relazioni riguardanti, appunto, coppie di osservabili non compatibili, così come quelle tra
componenti diverse del momento angolareiii. Vogliamo ancora osservare che, nella Scuola
Superiore, e più in generale ogni qual volta la formalizzazione matematica debba essere
limitata, le relazioni di Heisenberg possono vantaggiosamente essere utilizzate per valutare gli
ordini di grandezza di molti fenomeni quantistici, e in tal modo le utilizzeremo anche noiiv.
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Considerazioni per una descrizione di tipo classico
Consideriamo un pacchetto monoelettronico con pulsazione centrata attorno a ω0, allora, dalle
relazioni di De Broglie
λ=
h
;
p
E = hν
per la velocità di fase (velocità della singola componente monocromatica), con ovvia
simbologia, si ha:
vf
E0
ω
2πν 0
E
= 0 =
= h = 0.
2π
p0
k0
p0
λ0
h
(7.2)
Ricordiamo ora che, almeno per un pacchetto non relativistico in assenza di forze esterne, il
legame tra l'energia E del quanto e la sua quantità di moto p è:
p2
E=
.
2m
Allora, dalla (7.2) otteniamo
vf =
p 02
p
= 0 .
2mp 0 2m
Per quanto riguarda la velocità di gruppo (velocità con cui si muove l’inviluppo del
pacchetto), invece, si ha
E
d 
dω
v0 =
(ω0 ) =  h  ( p0 ) =
dk
 p
d 
h
 p2 

d
 2m 

 ( p ) = p0 .
0
dp
m
(7.3)
Come si vede la velocità di fase e la velocità di gruppo sono diverse, e il legame “corretto” tra
velocità e quantità di moto è evidentemente quello dato dalla (7.3). La differenza tra velocità
di fase e di gruppo indica poi che il vuoto, per il campo elettronico, è un mezzo dispersivo
(come già sappiamo da quando abbiamo discusso le implicazioni della natura complessa
dell’equazione di Schrödinger) e che quindi un pacchetto elettronico che si propaga
liberamente non rimarrà indeformato ma, anzi, si allargherà col passare del tempo e, dopo un
tempo t sufficientemente lungo, si potrà trascurare la larghezza iniziale del pacchetto. In tal
caso, la sue dimensioni al tempo t saranno:
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∆x( t ) ≈
∆p
t.
m
Osserviamo ora che il pacchetto monoelettronico può essere descritto come una “particella
classica” se la sua larghezza può essere considerata piccola rispetto alla precisione con la
quale è osservata la posizione. Perché ciò sia possibile è necessario che tale larghezza sia
piccola rispetto alla distanza percorsa dal pacchetto, che è vgt; perciò, ricordando la (7.3),
questo accade se:
p
∆p
t << 0 t
m
m
cioè se
∆p << p0
,
e, quindi, per le relazioni di Heisenberg se
h
h
<< p0 =
∆x
λ0
da cui si trova
∆x >>
λ0
.
2π
(7.4)
Si ha così che la condizione perché il quanto del campo elettronico possa essere descritto
classicamente (ma ciò ovviamente è un fatto del tutto generale per qualsiasi campo materiale)
è che valga la (7.4), e cioè che l'incertezza sulle misure di posizione sia molto maggiore della
lunghezza d'onda media del pacchetto. In altro modo possiamo dire che nel limite nel quale
l’ottica ondulatoria si può approssimare con l’ottica geometrica la descrizione quantistica si
può approssimare con quella “quasi” classica.
Questo spiega, ad esempio, perché negli acceleratori di particelle la propagazione del fascio
prima dell’interazione viene descritta in termini sostanzialmente classici (relativistici,
ovviamente…). Infatti, tanto per fissare le idee, per un elettrone ultrarelativistico (cioè quando
la sua energia è molto maggiore della sua massa a riposo che è di circa 0.5 MeV), la relazione
tra energia e quantità di moto è data da
E = pc
E allora la relazione (7.4) diventa:
∆x >>
h
hc
.
=
2πp0 E0
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(7.5)
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Le tipiche energie utilizzate all’acceleratore LEP del CERN erano dell’ordine dei 100 GeV.
Sostituendo nella (7.5) tale valore si ha che per tali energie si può utilizzare una descrizione di
tipo classico se la precisione delle nostre misure di posizione ∆x è tale che:
∆x >> 10 −18 m
e questo, come ben si capisce, è senz’altro il nostro caso.
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L’atomo
Vogliamo ora approfondire qualche caratteristica dei campi quantistici confinati in una
porzione finita di spazio; questo ci porterà a muovere i primi passi nella struttura della
materia. In particolare vorremo arrivare a discutere,almeno sommariamente, la struttura
dell’atomo di idrogeno senza, in alcun modo passare attraverso i vari modelli atomici a tutti
ben noti; e questo, ovviamente sempre nello spirito di Quanta-Mi…
Accenneremo dapprima a due “classi” di esperimenti che sono stati fondamentali: gli
sperimenti di Geiger e Marsden (con l’interpretazione datane da Rutherford) e quelli di
Franck e Hertz. In seguito presenteremo alcune semplici considerazioni euristiche sulla
struttura dell’atomo.
Campi confinati
Prima di iniziare a descrivere i contenuti delle due esperienze vogliamo fare alcune
considerazioni basate sull’idea di campo quantizzato: ciò ci discosta nettamente
dall’approccio storico, ma ci consentirà di interpretare i fatti sperimentali che seguiranno con
estrema naturalezza.
In generale si sa che confinando un campo ondulatorio si formano delle onde stazionarie,
questo ad esempio è ciò che accade nel caso monodimensionale più semplice, quello della
corda vibrante, oppure anche quando un’onda elettromagnetica è confinata nella zona di
spazio delimitata da due specchi paralleli, perfettamente riflettenti.
Si abbiano, quindi, due pareti riflettenti separate da una distanza L e al loro interno un campo
ondulatorio non meglio precisato.
Ciò che avviene è che, come si vede dalla fig. 7.3, nello spazio interno alle due pareti, si
creano onde stazionarie le cui lunghezze d’onda soddisfano la seguente relazione:
λn =
2L
n
e si ottiene quindi:
λ1 = 2 L
λ2 = L
λ3 =
2
L
3
....
e così via.
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Fig. 7.3 Onde stazionarie su una corda
Per quanto detto a proposito della relazione di De Broglie, sappiamo che ciascuna di queste
onde è in grado di scambiare un quanto di momento:
pn =
h
λn
.
Nel caso non relativistico, con ovvia simbologia, si ha così che l’energia di ogni quanto è data
dalla relazione:
p2
E=
2m
è così possibile calcolare le energie dei quanti, associati alle varie lunghezze d’onda
stazionarie del campo ondulatorio confinato, ottenendo:
2
h
 
h2 2
λ
En =   =
n
2m
8mL2
(7.6)
La relazione appena scritta afferma che gli stati energetici di un campo materiale, confinato in
una zona finita di spazio, possono assumere solo certi valori E1, E2, E3... In altre parole
l’energia assume solo valori discreti (certe volte si dice che l’energia è quantizzata ma si deve
stare attenti a non confondere questa terminologia col fatto che, in questa situazione non si
hanno quanti di energia, ma solo alcuni valori permessi per tale grandezza che non sono
nemmeno multipli interi di una quantità fondamentale). Gli stati corrispondenti a queste
energie sono detti stati stazionari (cioè indipendenti dal tempo), mentre i possibili valori
dell’energia sono detti livelli energetici.
Come si vede l’esistenza di livelli energetici discreti dipende da due cose fondamentali: la
prima è che il campo considerato sia confinato e la seconda è che sia quantizzato. Queste due
sole cose implicano la discretizzazione dei livelli energetici.
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Per finire osserviamo che questi risultati si possono ottenere in Meccanica Quantistica
risolvendo l’equazione di Schrödinger per la cosiddetta buca di potenziale infinita (cioè, in
termini un po’ gergali, per un quanto, per esempio un elettrone, all’interno di una scatola).
L’esperimento di Franck-Hertz
Tornando alle osservazioni sperimentali sugli spettri di emissione sopra descritti, viene a
questo punto abbastanza naturale interpretare le righe spettrali come dovute all’emissione di
fotoni da parte degli atomi che passano da un livello energetico ad un altro.
Infatti abbiamo già notato come l’energia di un campo elettronico, confinato in una regione
finita, assuma valori discreti, e ci aspettiamo quindi che, anche nel caso del campo elettronico
di un atomo, che deve essere in qualche modo vincolato (per esempio da un campo
coulombiano, visto che l’atomo nel suo complesso è neutro), si abbia lo stesso fenomeno. In
fondo fu questa l’idea fondamentale di De Broglie che lo portò ad introdurre il concetto di
lunghezza d’onda per i campi materiali, come abbiamo già discusso precedentemente.
L’indicazione che abbiamo dalla spettroscopia è, allora, che i campi elettronici negli atomi
hanno energie che assumono solo valori discreti e che per l’atomo di idrogeno il loro
andamento è regolato dal termine –1/n2. Per controllare quest’idea possiamo provare a fornire
energia agli atomi e vedere se questa può davvero essere assorbita dal campo elettronico (di
qui in seguito diremo anche, più sbrigativamente, dagli elettroni) solo per quantità discrete. E’
quanto fecero Franck e Hertz nel loro famoso esperimento del 1914. Lo schema
dell’esperimento è descritto in figura.
Fig. 5.4 Schema dell’apparato dell’esperimento di Franck e Hertz
Un pennello elettronico è prodotto da un catodo riscaldato C e accelerato da una griglia G
posta a potenziale V0 rispetto al catodo. Parte del pennello supera la griglia positiva e
raggiunge la placca P posta al potenziale VP= V0-∆V, leggermente inferiore del potenziale di
placca. L’apparato è posto all’interno di un’ampolla riempita con del gas di mercurio.
L’esperimento consiste nel misurare la corrente di placca in funzione di V0. Al crescere di V0
la corrente cresce fino ad un valore massimo, poi descresce bruscamente, e quindi ricomincia
a crescere, come si vede dal grafico seguente, tratto dal lavoro originale (J. Franck, G. Hertz,
Verband Deutscher Physicalischer Gesellshaften, 16, 457, (1914)).
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Fig. 7.5 Intensità di corrente in funzione della differenza di potenziale
accelerante il pennello elettronico nell’esperimento di Franck e Hertz
La spiegazione dei dati non è difficile: all’aumentare dell’energia del pennello elettronico
aumenta la corrente di placca, ciò significa che l’interazione tra pennello e mercurio e
descritta in termini di urti elastici tra elettroni e atomi del gas che non fanno sostanzialmente
perdere energia al pennello, visto che il mercurio è un elemento piuttosto pesante. Infatti la
massa dei suoi atomi è circa 80 volte quella dell’atomo di idrogeno e in un urto elastico con
un elettrone esso praticamente non assorbe energia. Arrivati ad un valore di circa 4,9 V del
potenziale di griglia si osserva una brusca diminuzione della corrente, questo sta a significare
che cominciano ad esserci interazioni descritte da urti anelatici che mostrano livelli di energia,
per così dire, interni all’atomo. La spaziatura regolare (ogni 4,9 V) dei picchi nel grafico
precedente conferma tale interpretazione. Infatti (utilizziamo ora per semplicità, ma crediamo
senza pericolo di creare confusione, una terminologia particellare, visto che ci stiamo
occupando del processo di interazione elettronio-mercurio) gli elettroni accelerati da una
differenza di potenziale di 4.9 V in un urto con un atomo di mercurio perderanno tutta la loro
energia e non riusciranno a superare la differenza di potenziale frenante ∆V, così che non
arriveranno alla placca, e ciò si manifesterà in una diminuzione della corrente misurata.
Aumentando il potenziale accelerante fino ad arrivare al doppio di 4,9 V osserviamo che gli
elettroni possono ora perdere energia per due volte, negli urti con gli atomi del gas, e si nota
perciò una nuova diminuzione della corrente di placca; e così via. Si conferma allora una
struttura discreta delle energie del campo elettronico del atomo di mercurio, infatti tale atomo
può assorbire energia solo per quantità discrete, e precisamente solo di 4,9 eV, come
qualitativamente ci aspettavamo.
Con misurazioni precise si può notare, però, una struttura più complessa dei livelli energetici
dell’atomo di mercurio. La prima differenza di potenziale a cui avviene l’urto anelastico è
4,9V ma, successivamente, vi è una seconda differenza di potenziale per cui si ha di nuovo un
urto anelastico: tale differenza di potenziale è 6,7V. Continuando ad aumentare l’energia del
fascio si trovano anche altre differenze di potenziale “interessanti” che sono 8,8V e 10,4V.
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__________ 10,4 eV
(energia di ionizzazione)
__________ 8,84 eV
__________ 6,67 eV
__________ 4,86 eV
__________ 0 eV
Fig. 7.6 Livelli energetici ( tratti orizzontali) dell’atomo di mercurio
Se la nostra interpretazione dell’esperimento è corretta, allora, ci aspettiamo che gli atomi di
mercurio eccitati dal pennello elettronico, tornino nel loro stato fondamentale, cioè quello di
minima energia, emettendo un fotone di energia corrispondente al dislivello energetico fra i
due stati, quello eccitato e quello fondamentale. Nel nostro caso ci aspettiamo, quindi, di poter
osservare una radiazione corrispondente a fotoni di energia di 4,9 eV, corrispondente ad una
lunghezza d’onda di 2530 angstrom (quindi nell’ultravioletto) quando V0 è maggiore di 4,9
V,e nessuna radiazione emessa per potenziali inferiori. E questo è proprio ciò che si osserva,
confermando le nostre spiegazioni.
Gli esperimenti di Geiger e Marsden
Dal "semplice" atto della visione (nel quale vengono coinvolti la diffusione della luce da parte
di un oggetto, la sua rilevazione da parte dell’occhio e la susseguente analisi da parte del
cervello) fino agli affascinanti esperimenti di Fisica delle Alte Energie, la maggior parte delle
informazioni che abbiamo sul mondo che ci circonda proviene da esprimenti di diffusione
(scattering in inglese) cioè esperimenti nei quali alcuni fasci elettromagnetici o materiali
colpiscono un bersaglio, vengono da questo diffusi e, quindi, raccolti da un apposito
rivelatore.
Le esperienze di scattering sono di fondamentale importanza nello studio della struttura della
materia e, in generale costituiscono il modo per indagare nel microscopico: variano i target
(cioè gli oggetti in studio che vengono colpiti dai fasci) e variano i fasci che si utilizzano per
colpire i target, sia nella loro sostanza, sia nella loro energia.
Tutte le informazioni che si possono trarre da un esperimento di scattering derivano
dall’analisi della diffusione del fascio dopo l’urto.
I diversi comportamenti osservabili dipendono in maniera fondamentale dalle sostanze
costituenti fascio e bersaglio: da una analisi dei dati si possono poi ricavare molte
informazioni sulle strutture in esame e sulle loro interazioni. Si può dire che oggi questa
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tecnica sia la più usata per studiare la struttura della materia e le interazioni materia-materia.
Nell’esperimento di Rutherford un fascio di α proveniente da una sorgente radioattiva, viene
inviato contro una sottile lamina d’oro e un rivelatore posto al di là della lamina può muoversi
nello spazio per registrare l’angolo di deviazione del fascio.
Con grande sorpresa degli sperimentatori stessi, questi ottennero che la maggior parte del
fascio α, pur perdendo parte della sua energia, proseguiva senza subire una deflessione
apprezzabile nell’attraversare la lamina d’oro. In taluni casi, però, appariva una deviazione ad
angoli molto grandi, a volte persino una deviazione all’indietro.
Dall’analisi dei risultati accennati sopra, si può avere una prima informazione circa la
struttura della materia, indagata all’energia del fascio incidente: la maggior parte dello spazio
occupato dalla lamina d’oro è sede di intensi campi elettrici coulombiani prodotti, per così
dire, da un nucleo positivo circa 10.000 volte più piccolo dell’atomo stesso.
Non staremo qui a sviluppare nel dettaglio le considerazioni fatte da Rutherford e neppure,
per brevità, ne daremo una giustificazione più moderna basata su un modello quantistico [ma
per chi è interessato diciamo che fra non molti giorni contiamo che sia disponibile in rete una
sperimentazione, frutto del lavoro di tesi della dottoressa Nidoli, sull’insegnamento dello
scattering di Rutherford in una quinta liceo scientifico, secondo le indicazioni di Quanta-Mi].
Cosa sappiamo dagli esperimenti
Come abbiamo detto, con l’esperimento di Rutherford sappiamo che l’atomo ha le dimensioni
dell’ordine di 10-10m e che è tutt’altro che omogeneo, infatti, la quasi totalità della sua massa
è contenuta nel nucleo, il quale oltretutto occupa una zona estremamente ristretta dell’atomo,
infatti tra le dimensioni del nucleo e dell’atomo ci sono quattro ordini di grandezza di
differenza.
Un’altra informazione è che tutta la carica positiva è concentrata nel nucleo, mentre la carica
negativa è distribuita in tutto lo spazio rimanente dell’atomo: nucleo e zona circostante hanno
densità enormemente diverse.
Attorno al nucleo che ha una densità elevatissima (l’oggetto più denso che si sia finora
misurato) c’è dunque un campo elettronico di dimensione estesa.
Con l’esperimento di Franck-Hertz sappiamo quali sono le energie che può assumere il campo
elettronico intorno al nucleo, vale a dire sappiamo che questo campo elettronico può assorbire
o cedere energia soltanto in modo discreto, cioè non può scambiare quantità arbitrarie di
energia in un’interazione.
Ciascun atomo possiede il suo insieme caratteristico di livelli energetici, chiamato anche
spettro: i due termini, in pratica, sono intercambiabili, infatti, anche se lo spettro in realtà
rappresenta le energie corrispondenti alle transizioni che il campo elettronico realizza tra i
suoi livelli, in un certo senso dà implicitamente le informazioni quantitative dei suoi livelli
energetici.
La visione dell’atomo che ci si può fare dall’interpretazione degli esperimenti è che l’atomo
sia costituito da un nucleo centrale di carica positiva e da un campo elettronico intorno al
nucleo che si estende nello spazio occupando la maggior parte dell’atomo stesso: abbiamo
quindi a che fare con un campo confinato, che può essere studiato in modo simile a quanto
fatto all’inizio di questo capitolo.
Alcune considerazioni euristiche
Riusciamo ora a farci un modello teorico ragionevole che spieghi la struttura dell’atomo sopra
descritta? Come abbiamo sopra osservato, il campo elettronico di un atomo è un campo
confinato, certamente sarà molto più complesso rispetto al caso discusso precedentemente
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della a corda vibrante, infatti in primo luogo è tridimensionale e in secondo luogo il
confinamento non avviene ad opera di pareti geometriche riflettenti, ma ad opera di un campo
coulombiano che tiene legata la carica negativa.
Possiamo, in prima approssimazione, schematizzare un atomo di idrogeno come una
particella carica di massa relativamente grande, con carica +e, chiamata protone, considerata
fissa e circondata da un campo elettronico in uno stato ad un solo quanto.
L’energia del quanto di un campo tridimensionale di questo tipo si potrà scrivere come la
somma di due contributi: un’energia potenziale di tipo coulombiano e un’energia cinetica:
E=−
1 e2 p 2
+
4πε0 r 2m
dove r può essere pensata come la posizione del quanto del campo confinato nel momento in
cui avviene l’interazione.
Cerchiamo ora di estrarre qualche informazione da questo modello; proviamo a minimizzare
la funzione che definisce l’energia scritta sopra: se esisterà il minimo (finito) di tale funzione
e il suo valore sarà ragionevole, vorrà dire che il sistema considerato può raggiungere uno
stato di stabilità (lo stato fondamentale), come ci aspettiamo.
Prima di procedere a minimizzare l’energia E = E(r, p) utilizziamo le relazioni di Heisenberg
per ridurla ad una funzione di una sola variabile.
Ora osserviamo che, per la simmetria del problema, i valori medi della posizione e della
quantità di moto dell’elettrone sono nulli e che, quindi, la varianza di r e di p è data
rispettivamente da
∆r =
r2 ;
∆p =
p2 .
Interpretiamo le radici quadrate dei momenti secondi di r e p come stime del valore dei
moduli rispettivamente del raggio e della quantità di moto dell’elettrone e poniamo quindi:
r≡
r2 ;
p≡
p2 .
Ancora, interpretiamo il valore della varianza della posizione come una misura della
larghezza del pacchetto elettronico. Allora tenendo conto che le relazioni di Heisenberg, nel
nostro caso si scrivono:
∆r ⋅ ∆p ≈ r ⋅ p ≈ h ⇒ p ≈
h
r
si ha che l’energia del quanto diviene:
E (r ) = −
1 e2
h2
.
+
4πε 0 r 2mr 2
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Per trovare il minimo di questa funzione, ormai di una sola variabile, basta annullarne la
derivata prima:
dE
1 e2
h2
≈
−
=0
dr 4πε 0 r 2 mr 3
da cui si ricava
r = rmin =
h 2ε 0
πme2
= r0
dove r0 è il famoso raggio di Bohr che sostituito nell’espressione dell’energia dà esattamente
il valore dell’energia dello stato fondamentale dell’atomo di idrogeno trovato
sperimentalmente:
E (r0 ) = −13,6eV
Come si vede siamo riusciti a fare un modello ragionevole; se proprio si vuole un’immagine
mentale, ci sentiamo di suggerirne, quindi, una, l’atomo così descritto appare più come una
strumento musicale con la sua cassa armonica che seleziona i suoni emessi che come un
piccolo sistema solare in miniatura…
Ancora sui campi confinati
Tornando ora all’espressione (7.6) osserviamo che essa è molto utile per fare stime
significative di ordini di grandezza in varie situazioni, vediamo come.
La (7.6) contiene vari termini: la distanza tra le pareti, il numero intero n che indica il modo di
oscillazione, in altri termini il livello energetico, e la costante h2/8m che dipende dal campo
considerato.
Da essa si ricava che la differenza energetica tra due livelli consecutivi (per esempio tra n=2 e
n=1), ha come ordine di grandezza:
∆E ≈
h2 1 2
⋅
⋅n
8m L2
Ad esempio, per il campo elettronico (sostituiamo al posto di m il valore della massa
dell’elettrone):
h2
≈ 6 ⋅ 10− 38 J ⋅ m 2
8m
e quindi
1
∆E ≈ 10− 19  eV ⋅ m2 
.

 L2
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Se diamo ad L il valore L=10-10m (dimensioni di un atomo), allora troviamo ∆E ∼ 10eV
come giustamente ci si aspetta per le energie atomiche; mentre se L=1m (oggetto
macroscopico), allora ∆E ∼ 10-19eV e così si capisce perché nei sistemi macroscopici i livelli
energetici sono praticamente distribuiti con continuità e non ci si accorge immediatamente
della discretizzazione.
Per fare un altro esempio osserviamo che per il campo protonico:
h2
≈ 3,5 ⋅ 10 − 41J ⋅ m 2
2m
(basta mettere al mosto di m la massa del protone). Si ha così:
∆E ≈ 10− 22 eV ⋅ m 2
1
.
L2
Se allora poniamo L=10-14m (questo è il caso, per esempio, di un campo protonico confinato
nel nucleo), ∆E ∼ 1MeV: che è proprio l’ordine di grandezza delle energie nucleari. Se però
considerassimo un campo elettronico confinato in una zona delle dimensioni nucleari
troveremmo una energia minima dell’ordine del GeV. Questo ci fa capire perché non si
trovano elettroni nel nucleo, infatti un’energia minima di questo ordine di grandezza è di gran
lunga superiore all’energia coulombiana dovuta all’attrazione elettrone protone che, alla
distanza di 10-14m, è di circa 10 MeV.
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Note Capitolo 7
i
Se L’energia media del pacchetto è E0=nhν0 e hν0≤nh∆ν/n allora in ripetizioni successive
dell’esperimento il numero di fotoni contati dal rivelatore sarà, in generale di volta in volta diverso.
ii
La differenza è solo in un fattore 2π.
iii
In generale, ricordiamo che se ψ è il vettore di stato del sistema in esame, e  e Ĉ sono due
operatori relativi ad altrettante osservabili si ha:
^
^
^
1
ψ  A, C  ψ
∆ A∆C ≥


2
^
^
dove ∆ Â e ∆Ĉ rappresentano gli scarti quadratici medi di Ô e Ô’ nello stato ψ.
iv
Noi le utilizzeremo per determinare lo stato fondamentale dell’atomo di idrogeno, ma i casi in cui
sono utilizzabili nelle applicazioni sono davvero moltissimi..
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