n. 81 settembre-dicembre - rivista segni e comprensione

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International
RIVISTA QUADRIMESTRALE - ANNO XXVI
NUOVA SERIE - N. 81 – SETTEMBRE-DICEMBRE 2013
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This Review is submitted to international peer review
ISSN:1121-6530
Segni e comprensione International
Pubblicazione promossa nel 1987 dal Dipartimento di Filosofia e
Scienze sociali dell’Università degli Studi di Lecce, oggi Dipartimento di Studi
Umanistici dell’Università del Salento, con la collaborazione del “Centro
Italiano di Ricerche fenomenologiche” con sede in Roma, diretto da Angela
Ales Bello.
General Editor/Direttore responsabile
Giovanni Invitto ([email protected])
Daniela De Leo (vicedirettore - [email protected])
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Giovanni Invitto, Università del Salento (Editor/Direttore
responsabile), Angela Ales Bello, Università Lateranense; Angelo Bruno,
Università del Salento; Daniela De Leo, Università del Salento; Antonio
Delogu, Università di Sassari; Aniello Montano, Università di Salerno; Paola
Ricci Sindoni, Università di Messina.
Editorial board/Comitato editoriale
Jean-Robert Armogathe, École Normale Supérieure de Paris (F);
Renaud Barbaras, Paris I – Sorbonne (F); Francesca Brezzi, Università di
Roma 3 (I); ϯBruno Callieri, Università di Roma 1 (I); Mauro Carbone,
Université Jean Moulin Lyon 3 (F); Giovanni Cera, Università di Bari (I);
Claudio Ciancio, Università del Piemonte Orientale (I);ϯFrançoise Collin,
fondatrice di «Les Cahiers du Grif» (F); Umberto Curi, Università di Padova
(I); Roger Dadoun, Université de Paris VII-Jussieu (F); Franco Ferrarotti,
Università di Roma 1 (I); Renate Holub, University of California – Berkeley
(Usa); Roberto Maragliano, Università Roma Tre (I); William McBride, Purdue
University, West Lafayette, Indiana (Usa); Augusto Ponzio, Università di Bari
(I); Pierre Taminiaux, Georgetown University (Usa); Christiane Veauvy, Cnrs
(F); Sergio Vuskovic Royo, Universidad de Valparaiso (RCH); Chiara
Zamboni, Università di Verona (I)
2
Team/staff di redazione
Siegrid Agostini; Daniela De Leo (responsabile); Lucia De Pascalis;
Maria Teresa Giampaolo; Alessandra Peluso; Rosetta Spedicato.
Sede
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di Studi Umanistici, Università del Salento – Via M. Stampacchia –
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rimandi al Dipartimento di Studi Umanistici e al Siba con i link:
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I contributi scientifici dal prossimo numero dovranno essere scritti
in inglese, si richiede anche la versione in italiano. L’articolo deve riportare,
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italiano/inglese/francese) con parole-chiave (fino a 5) ed essere redatto
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I testi vanno inviati alla Direzione, indirizzati alla seguente e-mail:
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I testi, in forma anonima, verranno esaminati da due referees,
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contributi. Questi forniranno al Comitato Direttivo gli elementi necessari per
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The scientific essays must be written in English, with italian
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essays.
The texts must be sent to [email protected].
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This international review means to be an instrument for those who
are interested in theory and philosophical methods, focusing on
phenomenological and hermeneutical understandings.
5
INDICE
Saggi
8
Dino Cofrancesco
Il diritto alla nostalgia
22
Rossella De Rose
Zweig e Dostoevskij: un'ipotesi ermeneutica
36
Marianna Gensabella Furnari
Etica della cura e dolore della differenza
Note
52
Giovanna Bruco
Dal suono che segue la prima linea alla lettura della parola
nuove riflessioni sulle componenti psicobiologiche della dislessia evolutiva
82
Silvano Facioni
Orizzonti del trascendentale
90
Monica Gorgoretti
La capacità di andare oltre le apparenze
95
Gian Maria Greco
Sul fondamento filosofico del counsaling
110
Giovanni Invitto
Niagara. La violenza dell’acqua come metafora dell’esistenza
117
Pubblicazioni ricevute
6
News di Redazione
Il Documento del Consiglio direttivo della “Società italiana di
Filosofia teoretica”, in un documento del 21 dicembre 2011, ha deciso di
produrre e proporre una lista di riviste nelle quali trovano rappresentazione
ricerche relative al settore. Il documento afferma che le riviste elencate, tra
cui “Segni e comprensione”, sono, per tematiche trattate, impostazione dei
criteri editoriali, procedure di revisione – da considerare come sedi possibili,
e effettivamente utilizzate, di lavori scientifici degni di essere presi in
considerazione come tali, e dunque di essere oggetto di una peer review. Per
i motivi detti, - continua il documento - il carattere di tali riviste non è e non
può essere solo strettamente “disciplinare”, in quanto lavori pienamente
attinenti alla filosofia teoretica possono apparire su sedi nominalmente
dedicate a ambiti differenti del lavoro filosofico, che non conosce reali confini
disciplinari. Va ricordato inoltre che la rivista “Segni e comprensione” ha un
Comitato scientifico internazionale di valore primario: Jean-Robert
Armogathe, École normale supérieure de Paris (F); Renaud Barbaras, Paris I
– Sorbonne (F); Francesca Brezzi, Università di Roma 3; Mauro Carbone,
Université Jean Moulin Lyon 3 (F); Giovanni Cera, Università di Bari; Claudio
Ciancio, Università del Piemonte Orientale; Pio Colonnello, Università di
Napoli; Umberto Curi, Università di Padova, Roger Dadoun, Université de
Paris VII-Jussieu (F); Gilberto Di Petta, Napoli; Franco Ferrarotti, Università
di Roma 1; Renate Holub, University of California – Berkeley (Usa); Roberto
Maragliano, Università Roma Tre; William McBride, Purdue University, West
Lafayette, Indiana (Usa); Augusto Ponzio, Università di Bar; Carlo Sini,
Università di Milano; Pierre Tamianiaux, Georgetown University (Usa;
Christian Veauvy, Cnrs (F); Sergio Vuskovic Royo, Universidad de
Valparaiso (RCH); Chiara Zamboni, Università di Verona. Infine la rivista usa
la pratica del referaggio.
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Percorrendo un excursus letterario, storico-filosofico l'Autore si interroga sui valori della
democrazia nell'epoca attuale. Riscrivendo con tono nostalgico il pensiero liberale, con
quella nostalgia che può essere una disposizione interiore che, spegnendo
l’entusiasmo del nuovo, lo obbliga ad essere più prudente e guardingo, a non
dimenticare il calcolo costi/benefici, a non credere che tutto ciò che ci siamo lasciati alle
spalle fosse meritevole di estinzione. Il risultato, però, non è stato esaltante: la censura
etica e culturale della “nostalgia”, infatti, ha portato, in modo inavvertito, alla
cancellazione di quel pluralismo conflittuale che è stato, nei secoli, il segreto della
grandezza dell’Occidente.
En entreprenant un parcours littéraire, historique et philosophique, l'Auteur s’interroge
sur les valeurs de la démocratie à l'heure actuelle. En réécrivant avec un ton
nostalgique la pensée libérale, il prône une nostalgie qui peut être une disposition
intérieure qui, en atténuant l'enthousiasme des nouvelles forces, les rend plus
prudentes et plus circonspectes, incitant à ne pas oublier l’analyse coût-bénéfice et à
ne pas croire que tout ce que nous avons laissé derrière nous était digne d'extinction.
Le résultat, cependant, n'est pas excitant: la censure éthique et culturelle de la
«nostalgie», en fait, a conduit, de façon passant inaperçue, à l'annulation du pluralisme
conflictuel qui a été, au cours des siècles, le secret de la grandeur de l'Occident.
Going through a literary, historical and philosophical digression, the Author questions
on the values of democracy at the present time. Rewriting the liberal thought with a
nostalgic tone, with a nostalgia that might be an inner disposition which, weakening the
enthusiasm of the unknown, forces it to be more cautious and wary, not to forget the
cost-benefit analysis, and not to believe that what we have left behind deserves
extinction. The solution, however, has not been exciting: in fact, the ethical and cultural
censure of "nostalgia" has subtly led to the cancellation of the theoretical pluralism
which has been, over the centuries, the secret of the greatness of the West.
Non vorrei essere equivocato. Adopero il termine “diritto”
nell’accezione di «aspirazione legittima», non come lo si intende oggi ovvero
come pretesa - riconosciuta dallo Stato e iscritta nella Costituzione - a
prestazioni oggettive (economiche, sanitarie, educative) che i pubblici poteri
debbono garantire a tutti i cittadini. È l’accezione - la mia - che il “diritto”
assume nel «Manifesto della libertà dei moderni» come potrebbe chiamarsi la
SAGGI
IL DIRITTO ALLA NOSTALGIA
Dino Cofrancesco
8
Dichiarazione d’Indipendenza delle Tredici colonie americane: «Noi riteniamo
che sono per se stesse evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono creati
eguali; che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, che tra
questi diritti sono la Vita, la Libertà, e la ricerca della Felicità». Life, Liberty,
and the Pursuit of Happiness sono aspirazioni legittime convertite in “diritti
dell’uomo e del cittadino”, e quindi protetti dalle Leggi della Città, ma vi sono
molti altri valori che noi siamo liberi di perseguire - e tale libertà fa parte,
ovviamente, dei sacrosanti “diritti dell’uomo e del cittadino” - ma che non
possiamo pretendere di veder tradotti in obblighi vincolanti erga omnes: in un
mondo segnato dalla presenza di molti dei, è la democrazia - il risultato delle
urne - a decidere quali valori, e in quale ordine gerarchico, debbano, di volta
in volta, ispirare il legislatore.
Il gioco democratico,in una società civile educata alla scuola di
Montaigne e di Hume, però, va preso sul serio: se tutti gli individui e tutti i
loro ideali, tutte le loro aspirazioni e tutti i loro bisogni “stanno sullo stesso
piano”, hanno la stessa libertà di manifestarsi e lo stesso diritto all’ascolto,
non si può barare impunemente. «E quanto alla nobiltà dei fini ultimi metteva in guardia Max Weber - anche gli odiati avversari pretendono di
averla dal canto loro e soggettivamente in perfetta buona fede».
La democrazia liberale, in poche parole, non può essere intesa
come instrumentum boni, come la via maestra per realizzare i più alti e i più
nobili divisamenti umani, a quel modo in cui i profeti del Risorgimento
nazionale intesero la libertà. Giuseppe Mazzini, nei Doveri dell’uomo,
ammoniva: «la libertà vera non consiste nel diritto di scegliere il male, ma nel
diritto di scegliere fra le vie che conducono al bene. La libertà che invocano
quei falsi filosofi è l’arbitrio dato al padre di scegliere il male pel figlio. Che?
Se un padre minacciasse di mutilazione, di un guasto qualunque il corpo del
suo fanciullo, la società interverrebbe invocata da tutti; e l’anima, la mente di
quell’essere, sarà meno del corpo? La società non potrà proteggerla dalla
mutilazione delle facoltà, l’ignoranza; dalla deviazione del senso morale, la
superstizione?». L’agitatore genovese non poteva certo considerarsi un
precursore dell’antiliberalismo totalitario (di destra e di sinistra) giacché al
centro delle sue preoccupazioni era l’impegno etico-politico, vissuto e sentito
come da pochi altri, a rimuovere dal suolo italico i ruderi ancora ingombranti
dell’ancien regime sopravvissuto alla Presa della Bastiglia e all’avventura
napoleonica: un diritto familiare patriarcale, un clero invadente e reazionario,
una vita politica pressoché inesistente, una società civile asfittica e tenuta
sotto tutela dalle vecchie agenzie spirituali e da dinastie che nulla avevano
imparato dalle vicende rivoluzionarie. E tuttavia la costante polemica antiindividualista, l’ironia dispiegata contro il buon Sismondi che pretendeva che
a tutte le forze della nazione venisse garantita una rappresentanza politica
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adeguata, rinviavano a una concezione, per così dire, “cattolica” della libertà
intesa come collaborazione responsabile e consapevole al disegno divino sul
mondo, indipendentemente poi dal modo di concepire quel disegno. Così,
nello scritto Italia ed Europa , dopo aver ricordato che «La vita è per noi una
missione:il perfezionamento della nazione e per suo mezzo dell'umanità è
l'intento; la scelta dei mezzi, a seconda delle vocazioni particolari, è campo di
libertà all'individuo» e che «ogni uomo è oggi per noi un tempio del Dio
vivente:la terra, soggiorno di prova e di lavoro per lui, è l'altare sul quale si
sacrifica: l'incenso del sagrificio è l'opera che egli compie: l’amore è la
preghiera; l'amore tradotto in atti, l’associazione,è la sua potenza», Mazzini
colpiva alla radice lo zoccolo duro della “società aperta”, quella grande
divisione tra “fatti” e “valori”, tra conoscenza e fede che è il fondamento della
moderna convivenza civile dopo le grandi guerre di religione. «Noi
respingiamo – scriveva - quel dualismo, che fonda una opposizione immorale
fra il cielo e la terra, fra Dio e l'opera sua: crediamo che la terra sia scala al
cielo; essa rappresenta per noi una linea nell'immenso poema dell'universo,
una nota nell'infinito accordo, che celebra il pensiero divino; e l'armonizzarsi
delle nostre opere con quell'accordo, sarà base di giudicio per noi, cioè di
maggiore o minore capacità di progresso, attraverso quella trasformazione
che gli uomini chiamano morte. E dacché ciascun di noi è mallevadore, noi
crediamo che ciascuno sia libero,che quanto nega o inceppa l'esercizio della
nostra libertà sia cosa empia e che sia debito nostro rovesciarla, cancellarla
quanto più sollecitamente è possibile». E, concludendo, ribadiva la
concezione strumentale della libertà: «Libertà che è mezzo, non fine, scelta
dei modi di compire il dovere e raggiunger lo scopo, non diritto di abbandonar
l'uno e rinnegar l'altro».
Leggendo quanto si scrive oggi in Italia nei libri accademici, nelle
riviste scientifiche, negli articoli delle pagine culturali dei grandi quotidiani, si
ha la netta sensazione che la political culture maggioritaria abbia esteso alla
democrazia liberale la visione mazziniana e “cattolica” della libertà. Se ancora
durante la Prima Repubblica esponenti dell’opposizione comunista ai governi
democristiani potevano, nelle tribune politiche televisive, ricordare ai loro
avversari dell’estrema destra che i partigiani avevano restaurato la libertà e la
democrazia anche per loro (che non le avevano certo meritate), da qualche
tempo la democrazia rappresentativa, ”formale”, non sembra più l’architrave
del consenso istituzionale, il valore supremo che accomuna quanti siedono in
Parlamento, ripartiti nei vari settori, ma è ormai - e lo si scrive talora con un
candore sconcertante - il terreno su cui piantano le loro tende gli eserciti in
marcia verso obiettivi sempre più esigenti ovvero verso l’attuazione piena e
integrale della “Costituzione più bella del mondo”. La democrazia è diventata,
in tal modo, il ponte che consente a quanti dimoravano nella rive droite,
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prigionieri del passato - con il suo carico superstizioni, di ingiusti privilegi, di
pregiudizi atavici - di raggiungere la rive gauche delle “magnifiche sorti e
progressive”. A legittimare il regime fondato sulla sovranità popolare è la sua
capacità di portare a compimento il “Progetto 89”, com’è stato chiamato il
lascito illuministico con una discutibile terminologia che ricorda tanto il
moderno “manager” quanto il philosophe settecentesco. Questo significa che
quanti non si trasferiscono, armi e bagagli, sulla riva benedetta dal Dio del
Progresso godono sì dei diritti civili e possono persino deporre la scheda
nell’urna elettorale ma, sotto il profilo etico e culturale in senso lato, non fanno
parte dell’ala marciante dell’Umanità: non possono venir privati del voto - a
impedirlo è l’universalismo dei diritti di cittadinanza - ma, in quanto specie in
estinzione, si affida al Fattore B (Bios) il compito di liberare la terra della loro
presenza - a meno che non si riesca a rieducarli, come per molti “buonisti”
sarebbe più opportuno ed auspicabile, sempre nella logica mazziniana e
cattolica della “conversione al bene”.
All’interno di questa filosofia, democrazia non significa registrazione
(rispettosa) di quanto vogliono, desiderano, temono, gli individui uti singuli,
nella loro quotidianità concreta e sofferta, ma diventa conformità a ciò che
hanno deciso per il genere umano la Ragione o la Storia o la Natura o Dio.
Non sono i Lumi al servizio degli uomini in carne ed ossa ma sono gli uomini
al servizio dei Lumi: sono questi a indicare le mete da raggiungere, i sacrifici
che si richiedono, le ricompense che se ne ricavano. «Un uomo, un voto», sì,
ma in teoria: in pratica, bisogna vedere «chi» vota e «cosa» vota; non sono le
forme, le procedure, a legittimare le decisioni ma sono i contenuti, la qualità,
delle decisioni a legittimare forme e procedure sicché, se la gente vota come
non dovrebbe, si parla di una democrazia «svuotata» dall’interno, di una
camera d’aria rinsecchita dacché lo spirito del Progresso ne è fuoruscito. È in
vista di questa malaugurata eventualità che un gruppo consistente di maîtresà-penser del diritto e della filosofia politica - e non solo nel nostro paese - ha
pensato bene che la democrazia “sostanziale” potesse venir meglio protetta,
legando mani e piedi al popolo sovrano e rimettendo, sostanzialmente, il
potere sottratto al demos nelle mani di giudici illuminati e imparziali, che
diventano, in tal modo, i veri eredi dei filosofi-reggitori di Platone o, se si
preferisce, del pouvoir spirituel di Auguste Comte. Emblematico il caso di
Luigi Ferrajoli, che nella sua vasta produzione saggistica, propugna, apertis
verbis, l’impiego dell’espressione “democrazia sostanziale” per segnare il
punto di non ritorno rispetto alla “democrazia formale” (“vuota” il va sans dire)
e formare una sorta di cordone sanitario che impedisca all’uomo della strada
di far danni con il suo voto “sconsiderato”.
È particolarmente significativo quanto si legge in uno scritto su
Norberto Bobbio, pubblicato su “Filosofia politica” nel dicembre 2010: «Le
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costituzioni della seconda metà del secolo scorso […] – quella italiana, quella
tedesca, e poi quella spagnola, quella portoghese e da ultimo quelle di taluni
paesi latino-americani, non a caso stipulate tutte dopo la caduta di regimi
fascisti o dittatoriali – hanno cambiato simultaneamente, in forza della rigidità
a esse conferita dalla previsione di procedure speciali di revisione e del
controllo giurisdizionale di costituzionalità, le condizioni di validità delle leggi,
la natura della democrazia e il ruolo della scienza giuridica. La validità delle
leggi, innanzitutto, dipende non più solo dalla forma degli atti legislativi, ma
anche dalla sostanza delle norme prodotte; non più dalla loro semplice conformità alle procedure normativamente previste, ma anche dalla loro
coerenza o compatibilità con le norme costituzionali a esse sopraordinate;
non più, in breve, soltanto dal “chi” e dal “come”, ma anche dal “che cosa”
delle decisioni. Ne consegue, a causa del nuovo isomorfismo tra diritto e
sistema politico, una dimensione sostanziale sia della validità sia della
democrazia, dato che la costituzionalizzazione dei diritti fondamentali
equivale all’imposizione di limiti e vincoli di sostanza o di contenuto a
qualunque maggioranza: limiti generati dai diritti di libertà ché nessuna
maggioranza può validamente violare; vincoli generati dai diritti sociali che
qualunque maggioranza è tenuta a soddisfare. E ne consegue altresì
l'insostenibilità dell'avalutatività della scienza giuridica. Avendo le costituzioni
incorporato e positivizzato il “dover non essere” e il “dover essere” giuridico
dei contenuti delle leggi, stipulando sotto forma di diritti di libertà e di diritti
sociali ciò che nessuna maggioranza può decidere e ciò che qualunque
maggioranza non può non decidere, si è creato lo spazio del diritto illegittimo,
inconcepibile nel vecchio Stato legislativo di diritto; sicché la scienza giuridica
ha il compito non più solo di descrivere, ma anche di valutare l'invalidità
sostanziale delle norme pur formalmente esistenti o vigenti e di criticarne
l'illegittimità costituzionale onde promuoverne l'annullamento davanti alle corti
costituzionali».
Tenuto conto dell’amplissima estensione dei “diritti sociali” - che in
una recente versione della dottrina dovrebbero includere anche il “diritto alla
dignità” - non si vede agevolmente quali (importanti) materie rimangano
ancora di competenza del popolo sovrano. Il governo del popolo non è più
governo dal popolo - spesso traviato dai terribiles simplificateurs, i demagoghi
totalitari del XX secolo-- ma governo per il popolo messo al riparo dalla
“tirannia della maggioranza” grazie ai Soloni che non debbono la loro
investitura e la loro autorità all’incostanza dei ludi cartacei. Sono le
conseguenze fatali dell’illuminismo di tipo francese e del suo nocciolo duro
valoriale in base al quale gli uomini non si associano per trovare un’intesa, un
compromesso (bargaining) tra i loro interessi spesso discordanti e le loro
diverse aspirazioni, un compromesso che tocca al governo, istituito a tale
12
scopo, far rispettare, ricorrendo ove si rendesse necessario anche ai suoi
apparati coercitivi; gli uomini si associano per realizzare un “grande progetto”
inteso a rigenerare la società e a rendere l’esistenza più giusta e confortevole
per tutti gli abitanti del pianeta. Come scriveva il mite Condorcet, nel celebre
Abbozzo di un quadro storico dei progressi dello spirito umano, «verrà
dunque quel momento, in cui il sole illuminerà sulla terra ormai soltanto
uomini liberi, e che non riconosceranno altro padrone se non la propria
ragione; in cui i tiranni e gli schiavi, i preti e i loro strumenti stupidi o ipocriti
esisteranno soltanto nella storia e sui teatri; in cui ci se ne occuperà soltanto
per compiangerne le vittime e gli zimbelli, per mantenersi, attraverso l’orrore
dei loro eccessi, in una vigilanza utile, per saper riconoscere e soffocare,
sotto il peso della ragione, i primi germi della superstizione e della tirannia, se
mai osassero ricomparire». “Vaste programme” è proprio il caso di dire che,
però, ad onta di quanto pensava il democratico marchese, solo le menti più
aperte e più elevate sono in grado di intendere e di realizzare. Di qui il
carattere insieme elitistico - vedi l’enorme spazio e l’indiscusso prestigio
riservato ai “philosophes”, i nuovi sacerdoti dell’epoca della secolarizzazione-e potenzialmente rivoluzionario dell’illuminismo alla francese, che si ritrova,
pari pari, nei suoi tardi epigoni odierni, ma di qui pure, in piena coerenza,
l’assimilazione (attesa e scontata) della democrazia “reale”, quella praticata
da un popolo che non è fatto di angeli, al populismo: un’assimilazione che, a
ben guardare, non traduce tanto la diffidenza nei confronti delle masse che
vogliono prendere tra le mani il proprio destino, sottraendosi alla mediazione
politica, quanto il disprezzo e l’estraneità delle aristocrazie intellettuali alla
“gente meccanica e di piccolo affare” che non guarda più in là del proprio
naso e non si lascia guidare dai più capaci e dai più responsabili. La plebe
resta indietro sulla riva del passato, del pregiudizio, della tradizione e si rifiuta
di passare il ponte, di “andare avanti”, è come un peso inerte che impedisce
all’aerostato illuminista di raggiungere le altezze per le quali è stato costruito
e programmato: perché non impedirle di fare del male a sé e agli altri?
Non vorrei essere equivocato: non sto spezzando una lancia a
favore dei nemici di sempre dell’Illuminismo. Ad un dissacratore come
Voltaire, nonostante le incoerenze e le contraddizioni dell’uomo, dobbiamo lo
smantellamento dei pregiudizi che hanno avvelenato i rapporti umani
all’interno della famiglia, della comunità, dello Stato, dobbiamo il “sapere
aude” e lo stesso lievito individualistico in mancanza del quale è impensabile
la società moderna e secolarizzata che, specialmente, in tempi come i nostri caratterizzati da tanti rigurgiti fondamentalisti in molte aree del pianeta -,
garantisce, più che mai, l’ossigeno “culturale” indispensabile al vecchio
“spirito europeo” per sopravvivere tra tante sfide religiose e multiculturali. La
preghiera che il Principe dell’Illuminismo rivolge all’Onnipotente nel Trattato
13
sulla tolleranza rimane, forse, l’espressione più alta e insuperata - il
“manifesto” - della russelliana “saggezza dell’Occidente”. «Tu non ci hai dato
un cuore perché noi ci odiassimo, né delle mani perché ci strozziamo. - Fa
che ci aiutiamo l'un l'altro a sopportare il fardello d'una esistenza penosa e
passeggera; che le piccole diversità tra i vestiti che coprono i nostri deboli
corpi, tra tutte le nostre lingue insufficienti, tra tutti i nostri usi ridicoli, tra tutte
le nostre leggi imperfette, tra tutte le nostre opinioni insensate, tra tutte le
nostre condizioni ai nostri occhi così diverse l'una dall'altra, e così eguali
davanti a te; che tutte le piccole sfumature che distinguono questi atomi
chiamati uomini, non siano segnale di odio e di persecuzione; che coloro i
quali accendono ceri in pieno mezzogiorno per celebrarti sopportino coloro
che si accontentano della luce del tuo sole; che coloro i quali coprono la veste
loro d'una tela bianca per dire che bisogna amarti, non detestino coloro che
dicono la stessa cosa portando un mantello di lana nera; che sia eguale
adorarti in un gergo proveniente da una lingua morta, o in un gergo piú
nuovo; che coloro il cui abito è tinto di rosso o di violetto, che dominano su
una piccola parte d'un piccolo mucchio del fango di questo mondo e. che
posseggono alcuni frammenti arrotondati di un certo metallo, godano senza
orgoglio di ciò che essi chiamano grandezza e. ricchezza, e che gli altri
guardino a costoro senza invidia; poiché tu sai che nulla vi è in queste cose
vane, né che sia da invidiare né che possa inorgoglire».
Le cose, però, non sono così semplici giacché, nella stessa progenie
spirituale di Voltaire, la tolleranza diventa la testa d’ariete per abbattere i
castelli e le cattedrali dell’ancien régime e la coscienza della fallibilità della
ragione, che ingenera abiti di umiltà, è un’arma che viene rivolta solo contro i
custodi del dogma, secondo un abito mentale spesso denunciato negli
intellettuali cattolici: tolleranza - e libertà - quando si è in minoranza,
imposizione della recta ratio quando si è egemoni. Prendere sul serio
l’insufficienza e l’imperfezione umana significa disfarsi di ogni filosofia della
storia che contenga i protocolli della road map del Progresso, significa avere
il senso degli effetti perversi dell’azione sociale, prendere in considerazione il
fatto che talora “conservare” può essere più “salutare” che cambiare, che
senza un equilibrio tra passato e presente, fra tradizione e innovazione, tra le
“radici” e le proiezioni avveniristiche, tra Gemeinschaft e Gesellschaft, non c’è
salvezza né per gli individui né per le società. Rompere i ponti alle spalle,
lasciando per sempre la rive droite può significare sprofondare in una spirale
nichilistica in fondo alla quale non c’è la Raison ma solo la “perdita del centro”
e del “senso”. Ci sono sempre delle cause che spiegano perché le istituzioni,
le idee, gli stessi “pregiudizi”, a un certo punto, scompaiono per non
ripresentarsi più, almeno nelle sembianze antiche, ma non sempre le cause
sono “buone ragioni”: ciò che muta non merita necessariamente di mutare e
14
può capitare, non di rado, per adoperare un’abusata metafora che, con
l’acqua sporca del bagno, si butti anche il classico bambino. Prenderne
coscienza, significa riconoscere il “diritto alla nostalgia”. Per il «Grande
Dizionario della Lingua Italiana» della UTET, “nostalgico” è chi «prova
nostalgia», chi «si trova in uno stato d’animo caratterizzato dall’acuto
rimpianto di persone e luoghi cari e lontani( o anche di periodi della vita
irrimediabilmente trascorsi)»; chi vive in uno stato d’animo «improntato al
rimpianto e all’esaltazione del passato o di un determinato momento storico,
per lo più idealizzato»; e, in politica, chi «rimpiange un regime politico
l’assetto istituzionale di un passato alquanto recente», ne «propugna il
ritorno», agisce, «trama con tale intento». Si tratta di un tipo umano da
riguardare con fastidio o con disprezzo o, nel migliore dei casi, con
compiacente indulgenza?
In realtà, se nel mercato democratico si può portare qualsiasi
prodotto e cercare di soddisfare qualsiasi bisogno - purché non comporti
norme e comportamenti lesivi di diritti fondamentali - in base a quale principio
potrebbe autorizzarsi una dogana politica e culturale che lasci passare alcune
merci spirituali ma ne respinga altre? I valori sono spesso in conflitto: quelli
etici contrastano sovente con quelli economici, quelli estetici con quelli etici.
Una fin troppo nota pagina della silloge Il lavoro intellettuale come
professione di Max Weber scolpisce il problema una volta per sempre: «Oggi
riconosciamo se non altro che qualcosa può essere sacro non solo malgrado
il fatto che non sia bello ma perché e in quanto non è bello (ne trovate le
prove nel capitolo 53 d’Isaia e nel salmo 21); e che qualcosa può essere
sacro non solo malgrado il fatto di non essere buono, ma proprio perché non
lo è, così come c’informa di nuovo Nietzsche, e nel modo che voi già trovate
illustrato nei Fiori del male, come Baudelaire chiamò la sua raccolta di poesie;
ed appartiene al buon senso di tutti i giorni riconoscere che qualcosa può
essere vero sebbene non sia ed anzi perché non è né bello né sacro né
buono. Ma questi sono solo i casi più elementari di un tale conflitto tra divinità
dei singoli ordinamenti e valori. Non so come si possa decidere
“scientificamente” tra il valore della cultura francese e quello della cultura
tedesca. Anche qui sono in conflitto e perennemente divinità diverse».
In una democrazia rappresentativa reale al centro sta solo il singolo
individuo, con le sue scelte, con le sue aspirazioni, con le sue gerarchie del
desiderabile: ciascuno è un fascio di ruoli, dove ogni ruolo è regolato da
codici specifici, ma non c’è un punto di vista “esterno” che possa imporre un
ordine nel modo di organizzare tutti i ruoli, che ci troviamo a svolgere, in
senso piramidale e sulla base di imperativi categorici universalmente validi.
Salvaguardare un cascinale, un vecchio sentiero che si perde tra i boschi, un
prato in cui abbiamo giocato bambini e siamo andati rincorrendo, senza un
15
perché, farfalle per loro fortuna più leste di noi, può essere insensato, può
farci rinunciare ai grossi guadagni che ne ricaveremmo destinando quell’area
a insediamento industriale, può far perdere a qualche disoccupato un posto
sicuro di lavoro: ma con ciò? Finché non si ledono diritti altrui perché
dovremmo attenerci ai comandamenti del Dio Mercato? L’etica della
responsabilità ci impone di essere consapevoli delle conseguenze del nostro
agire per noi e per gli altri ma, una volta che se ne sia preso atto, perché
dovremmo seguire l’etica cognitivista che fa scaturire le nostre decisioni dalle
prevedibili conseguenze del’agire? Se per stare meglio, perdo un affare
perché dovrei venire colpevolizzato per non aver contribuito al benessere
collettivo? Il mondo è pieno di imprese folli che, però, sui tempi lunghi, hanno
vendicato chi le promosse con le migliaia di turisti che ogni giorno visitano il
Castello delle Fate – Neuschwanstein - di Ludwig di Baviera. (L’unico
rimprovero, sensato, che potrebbe rivolgersi al visionario Wittelsbach,
infatuato di Wagner e dei Nibelunghi, è di aver eretto i suoi manieri con i soldi
dei contribuenti bavaresi).
Non sto sostenendo, beninteso, che gli individui e i governi debbano
disinteressarsi dell’economia come della cultura o d’altro: le dissipazioni
finanziarie, a livello personale o collettivo, si pagano e pesantemente. Sto
solo ricordando che, essendo tanti e diversi i valori in campo che si
contendono l’animo umano, è la conta delle teste che risulta decisiva per
stabilire come debba essere impiegato il prodotto sociale. Insomma la
democrazia liberale è più importante del mercato, come è più importante della
“socialità”, della “fraternità”, della salute dell’anima (di competenza di
psicologi e di preti), dell’elevazione culturale delle masse etc. Di “assoluto”
essa conosce solo il rispetto dei diritti civili e politici di tutti i cittadini sicché,
nella sua ottica, non condizionata da “filosofie della storia” dei segni più
diversi, il rimpianto per il “mondo di ieri” è altrettanto legittimo della voglia di
futuro, un partito conservatore ha la stessa rispettabilità di un partito
progressista.
In una significativa lettera indirizzata, nel 1974, a Italo Calvino, Pier
Paolo Pasolini rivendicava il diritto alla nostalgia per un mondo perduto,
arretrato e premoderno: «Sfondare le pareti dell'Italietta, e sospingermi quindi
in un altro mondo: il mondo contadino, il mondo sottoproletario e il mondo
operaio. L'ordine in cui elenco questi mondi riguarda l'importanza della mia
esperienza personale, non la loro importanza oggettiva. Fino a pochi anni fa
questo era il mondo preborghese, il mondo della classe dominata. Era solo
per mere ragioni nazionali, o, meglio, statali, che esso faceva parte del
territorio dell'Italietta. Al di fuori di questa pura e semplice formalità, tale
mondo non coincideva affatto con l'Italia. L'universo contadino (cui
appartengono le culture sottoproletarie urbane, e, appunto fino a pochi anni
16
fa, quelle delle minoranze operaie - ché erano vere e proprie minoranze,
come in Russia nel '17) è un universo transnazionale: che addirittura non riconosce le nazioni. Esso è l'avanzo di una civiltà precedente (o di un cumulo di
civiltà precedenti tutte molto analoghe fra loro), e la classe dominante
(nazionalista) modellava tale avanzo secondo i propri interessi e i propri fini
politici (per un lucano - penso a De Martino - la nazione a lui estranea, è stato
prima il Regno Borbonico, poi l'Italia piemontese, poi l'Italia fascista, poi l'Italia
attuale: senza soluzione di continuità). È questo illimitato mondo contadino
pre-nazionale e pre-industriale, sopravvissuto fino a solo pochi anni fa, che io
rimpiango (non per nulla dimoro il più a lungo possibile, nei paesi del Terzo
Mondo, dove esso sopravvive ancora, benché il Terzo Mondo stia anch'esso
entrando nell'orbita del cosiddetto Sviluppo). Gli uomini di questo universo
non vivevano un'età dell'oro, come non erano coinvolti, se non formalmente
con l'Italietta. Essi vivevano quella che Chilanti ha chiamato l'età del pane.
Erano cioè consumatori di beni estremamente necessari. Ed era questo,
forse, che rendeva estremamente necessaria la loro povera e precaria vita.
Mentre è chiaro che i beni superflui rendono superflua la vita (tanto per
essere estremamente elementari, e concludere con questo argomento)».
I valori di Pasolini non erano i miei, il suo nostalgismo per il mondo
remoto di Medea mi era profondamente estraneo soprattutto per la sua
radicale valenza antiborghese, anticapitalista, anticonsumista ma, pur
scontata la sua difesa della “comunità chiusa”, ci si chiede in base a quale
superiore principio di legittimità fosse ritenuto sconveniente - e non solo da
parte di Italo Calvino - portare il rimpianto di una sentimentalità mai
riconciliata col “moderno” nel teatro della politica. Là dove ci sono credenze
forti, passioni intellettuali intensamente vissute, modelli esistenziali che
riscaldano i cuori, radicati che siano nell’immaginario mitico o nella storia
reale, una democrazia aperta e libera da preconcetti ideologici ha l’obbligo di
prenderne atto e procedere alla registrazione: sarà poi il confronto tra le varie
posizioni presenti in un paese a stabilire il peso legislativo (peraltro sempre
opinabile e revocabile) da riservare a ciascuna.
Tempo fa m’è capitato di rivedere un vecchio film di Luigi Comencini,
Pane , amore e fantasia (1953) e di essere rimasto non poco colpito dal
ritratto di un’Italia scomparsa per sempre ma ancor viva nella memoria dei
sopravvissuti. Era proprio quella che ricordavo nella mia lontana infanzia: un
paese pulito, povero, perbene, con tanti problemi di sopravvivenza quotidiana
- il bracciante al maresciallo Carotenuto, incuriosito dal poverissimo pasto,
rispondeva che il condimento della sua fetta di pane era la fantasia... - ma
con i panni stesi al sole, bianchi di bucato lavato a mano. A Castel San Pietro
Romano (che nel film diventa Sagliena), come nel mio paesello ciociaro, le
distanze sociali, retaggio di un’antica civiltà contadina e artigianale, i
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conformismi, lo strapotere clericale sugli animi, il gossip tipico della comunità
chiusa spiegano le trasformazioni profonde che intervengono nella vita di
relazione con l’irrompere del mercato, dei riflessi di una industrializzazione
che rivolta come un calzino la provincia profonda, promuove l’ascesa sociale
delle campagne e il tramonto dei notabili. Oggi, nonostante la crisi, in quegli
stessi paesi di Pane, amore e fantasia, si respira un’atmosfera di relativo
benessere, sono pochi a non possedere auto, tv, PC, cellulari, ipad e ipod e il
risultato non può non destare un sincero compiacimento in chi ricorda le
antiche privazioni del popolino. È un fatto, però, che l’afflato comunitario si è
dileguato, le piazze si sono svuotate e lo “struscio” domenicale ricorda
pallidamente quello che era un tempo quando la gente s’incontrava per la
passeggiata serale o si dava appuntamento al bar dello sport (in ogni paese
ce n’era uno con questo nome) dove, tra il fumo acre delle nazionali –che si
vendevano sfuse - e l’odore inebriante della macchina del caffè sempre in
funzione, si seguiva, dalla radio posta in alto, dietro il bancone, la cronaca del
Giro d’Italia o dei campionati del mondo.
Non si può non avere nostalgia per quel mondo, anche se in esso
pochissimi nascevano con la camicia e tutti gli altri erano condannati a
rivestire rozzi panni di cotone, quando gli stessi luoghi che nel ricordo
nutrivano il rimpianto del passato - «Sol nel passato è il bello, sol nella morte
è il vero» cantava il vecchio leone maremmano - sono diventati oggi
infrequentabili per lo spaccio di droga e talora per le imprese del branco. È
deplorevole il rimpianto solo perché non tiene in debito conto l’altra faccia
della Luna e nel nuovo vede solo decadenza morale e degenerazione
antropologica? Sennonché tutto ciò che viene al mondo sta nel segno
dell’ambiguità ontologica alla quale sono condannate tutte le creature, in virtù
(dicono gli spiriti religiosi) del peccato originale. Che ci siano quanti dubitano
delle “benedizioni della modernità” è inevitabile come è inevitabile che ci
siano spiriti dissacratori sempre portati a vedere «di che lagrime grondi e di
che sangue» il mondo che Stefan Zweig definiva «della sicurezza».
Sarebbe bello conservare il calore protettivo della “comunità” senza
dover rinunciare ai vantaggi della “società”, risuscitare le solidarietà
elementari di vicinato rievocate nei romanzi di Ignazio Silone (nato tra l’altro
non molto lontano da Sagliena) e poter disporre di tutte le “commodities” che
per i nostri antenati erano concepibili solo in una reggia. La sintesi è difficile e
traghettare nel futuro la capra del passato e i cavoli del presente è compito
quanto mai arduo. Ma perché ritenere che sia impossibile? Perché non
pensare che caldi spazi comunitari possono venir ritagliati e fatti rivivere pur
in un contesto societario, tecnologicamente avanzato?
In fondo, per chi abbia preso sul serio il liberalismo e i suoi valori, al
centro del mercato sta la sovranità del consumatore, come al centro della
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politica sta la sovranità del cittadino elettore. Non si può censurare la vendita
della merce “nostalgia”, absit iniuria verbis, come non si possono liquidare a
cuor leggero, assimilandoli ai moderni Pangloss, quanti nel capitalismo
vedono la più sconvolgente trasformazione dei rapporti sociali e le più
decisive rivoluzioni culturali mai sperimentate nella storia dell’umanità. Contro
il povero Proudhon, che in ogni fattispecie storico-sociale registrava il “buono”
e il “cattivo”, il “positivo” e il “negativo”, Marx sfoderava la sua sferzante
ironia - Proudhon era il piccolo-borghese per il quale i grandi protagonisti
della storia hanno fatto tanto bene ma anche tanto male…--ma, a ben
riflettere, era l’anarchico francese a cogliere nel segno. Non c’è momento
dell’esistenza individuale e collettiva che non abbia le sue luci e le sue ombre
giacché ciascun momento è scandito da un valore specifico e ciascun valore
può entrare in conflitto con un altro e toglierlo di mezzo. Ne consegue che i
sacerdoti dei vari templi hanno tutti un egual diritto a custodire e a
tramandare alla posterità il culto che è stato loro affidato.
In fondo, la nostalgia può essere una disposizione interiore che,
spegnendo l’entusiasmo del nuovo, lo obbliga ad essere più prudente e
guardingo, a non dimenticare il calcolo costi/benefici, a non credere che tutto
ciò che ci siamo lasciati alle spalle fosse meritevole di estinzione. In una delle
pagine più toccanti dell’Antico Regime e la Rivoluzione, il più pensoso dei
liberali moderni, Alexis de Tocqueville, ci offre un saggio di “nostalgia virile”
che dovremo tenere a mente prima di riversare sul capo di chi riguardiamo
come schiavo del passato - per riprendere il titolo del film di Joseph L.
Mankiewicz del 1947 - l’ironia e il sarcasmo di chi rifugge dai miti e dalle
idealizzazioni del buon tempo che fu: «Molti fra i privilegi, i pregiudizi, le
storture che più ostacolavano l'attuarsi di benefiche libertà individuali,
mantenevano presso moltissimi sudditi l'amore dell'indipendenza, e li
inducevano a irrigidirsi contro gli abusi dei dominanti. I nobili disprezzavano
cordialmente l'amministrazione propriamente detta, sebbene di quando in
quando si rivolgessero ad essa, come postulanti. Anche nell'abbandono del
loro antico potere, essi serbavano qualche riflesso dell'antico orgoglio,
ripugnante così alla servitù come alla norma. Poco si curavano della libertà
generale dei cittadini, né del fatto che la mano del potere gravasse, intorno ad
essi, su tutti gli altri; ciò che non volevano proprio, era il sentirsela pesare
addosso e, per evitarlo, erano pronti a gettarsi in grandi rischi. All'inizio della
Rivoluzione, la nobiltà, che tra poco precipiterà insieme col trono, ancor serba
di fronte al Re, e soprattutto di fronte ai suoi agenti, un atteggiamento
infinitamente più altezzoso e un linguaggio assai più libero che il terzo stato, il
quale pure fra poco rovescerà la monarchia. Sin d'allora la nobiltà altamente
rivendica quelle medesime garanzie contro gli abusi del potere, che di poi
possedemmo, durante i trentasette anni del regime rappresentativo.
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Traspare, dai suoi quaderni, fra tutti i pregiudizi e i difetti di casta, lo spirito e
qualcuna delle grandi doti dell'aristocrazia. Si dovrà perennemente
rimpiangere che, in luogo di piegar quella nobiltà all'osservanza delle leggi, la
si sia sradicata e distrutta. Agendo in tal modo, si tolse al paese una porzione
necessaria del suo tessuto, e si inferse alla libertà una ferita che non guarirà
mai. Una classe che ha camminato per secoli avanti ogni altra, non poté fare
a meno di contrarre, in una così lunga e incontestata consuetudine alla
grandezza, una certa fierezza d'animo, una spontanea fiducia nelle proprie
forze, un'abitudine di considerazione, che finiscono col farne la zona più resistente del corpo sociale. Essa può così giungere non soltanto a possedere
costumi virili, ma anche ad accrescere, coll'esempio, la virilità nelle altre
classi. Estirpandola, si debilitano i suoi stessi nemici. Nulla potrebbe
assumerne totalmente il posto, né essa ha la possibilità di rinascere; le sarà
dato ricuperare titoli e beni, non già ritrovare l'anima dei suoi padri».
Nella società contemporanea, plasmata da un illuminismo laicista,
ateo-razionalista, che non ammette soste ed esitazioni sulla via che conduce
al riscatto da quel malum mundi, che finora ha infierito sugli uomini e le loro
vicende individuali e collettive, il fatto che ci siano ancora uomini portati a
rimpiangere che, «in luogo di piegar quella nobiltà all'osservanza delle leggi,
la si sia sradicata e distrutta», diventa un vulnus intollerabile, un sottrarsi
all’ossequio per le grandi forze sociali e intellettuali che muovono la storia. Ne
deriva la “ghettizzazione della nostalgia”, la riluttanza - sia pure all’indomani
della tragica esperienza dei totalitarismi del secolo breve e la dimostrazione
da loro offerta di come la strada dell’inferno sia lastricata di buone intenzioni a riaprire una pratica già archiviata dal trascorrere inesorabile del tempo. Il
risultato, però, non è stato esaltante: la censura etica e culturale della
“nostalgia”, infatti, ha portato, in modo inavvertito, alla cancellazione di quel
pluralismo conflittuale che è stato, nei secoli, il segreto della grandezza
dell’Occidente. Quale pluralismo, infatti, potrebbe esserci se fosse il filtro di
un intelletto astratto, -il Verstand contrapposto alla Vernunft - a decidere quali
valori siano tanto rispettabili e “avanzati” da avere il permesso di entrata nella
“città dell’uomo”? Il passato non evoca solo l’idea della prigione, il futuro, se
n’è fatta esperienza, non evoca solo l’idea dell’emancipazione, della rottura
delle catene dell’«eterno ieri». È auspicabile che ci siano sempre uomini che
ci rammentino che the World we have lost - come suona il titolo del noto
saggio di Peter Laslett - era un carcere per gli spiriti liberi e che i privilegi e le
“servitù” non sono un destino («sapere aude») ma è altrettanto auspicabile
che altri uomini - i “nostalgici” - ci ricordino che quella prigione aveva pure
aspetti e momenti confortevoli e che ogni volta che si spezzano delle catene
ne sopraggiungono altre, giacché il “potere” è un destino e le forme nuove
che può rivestire possono essere più facilmente percepite da quanti hanno
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perso la partita che non da quanti salgono sul podio dei vincitori.
Non a caso un grande pensatore contemporaneo, Robert
Spaemann, ha potuto scrivere che la sociologia nasce dallo spirito della
Restaurazione.
21
ZWEIG E DOSTOEVSKIJ: UN'IPOTESI ERMENEUTICA
Rossella De Rose
L'autrice esamina il saggio dedicato a Dostoevskij da S. Zweig: sostanzialmente si può
scorgere l’affermarsi di una forma liminare e precaria di nichilismo tragico. Secondo
una ermeneutica negativa, in base alla quale la profondità speculativa di Dostoevskij
starebbe dalla parte oscura del male, mentre fiacco ed evasivo si farebbe sempre il
suo pensiero sulla corda del bene e della santità; il fascino di tale lettura ha avuto
peraltro notevoli effetti nella storia successiva delle interpretazioni dostoevskijane in
chiave filosofica, nonostante la provocatoria unilateralità.
The Author examines the paper dedicated to Dostoevskij by S. Zweig: basically, you
can see the emergence of a precarious tragic nihilism in accordance with a negative
hermeneutics, for which Dostoevskij’s speculative depth would be the dark side of evil,
whereas his thought on goodness and holiness would become weak and evasive; the
fascination of such a reading, however, has had a considerable impact in the
subsequent history of the interpretations of Dostoevsij in a philosophical tone, despite a
provocative unilaterality.
L'Auteur examine l'essai consacré à Dostoevskij par S. Zweig: fondamentalement, on
peut y voir l'émergence d'une forme de nihilisme tragique et précaire. Selon une
herméneutique négative, à partir de laquelle la profondeur spéculative de Dostoevskij
incarnerait le côté sombre du mal, tandis que sa pensée sur la bonté et la sainteté
deviendrait faible et fuyante, la fascination d'une telle lecture, cependant, a eu un
impact considérable dans l'histoire ultérieure des interprétations dostoïevskiennes de
style philosophique, malgré sa provocante unilatéralité.
La formazione intellettuale e l'incontro con Dostoevskij
L’opera di Stefan Zweig, testimone attento e imparziale della propria
epoca, si caratterizza esemplarmente oltre che per la dimensione
documentaristica e memorialistica, per la particolare tonalità della
comprensione dell’umano e del rispetto della libertà interiore.
Per Zweig, intellettuale e poeta del suo tempo, la vecchia Austria
asburgica si presentava come un’epoca felice e priva di contraddizioni,
un'ordinata e favolosa Mitteleuropa, in cui lo scorrere lento del tempo sembrava
spingere nella cupa profondità del passato cose e sentimenti.
Il rimpianto di un mondo saldo e sicuro, ancorato a vecchi e fermi
valori, si fondeva nostalgicamente con la rievocazione dei ricordi d’infanzia, dei
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profumi e dei colori, grazie ai quali la fiabesca atmosfera s’era impressa
indelebilmente nella memoria. Così Zweig ricorda il suo mondo di ieri, un mondo
di cui riconosce l’impotente lentezza e l’ipocrita mediocrità, e che tuttavia, nel
ricordo, diveniva una patria ideale, tanto immobile ed invecchiata, per quanto
avesse conservato virtù ormai incredibili, dignitoso decoro e correttezza, pedante
rispetto e comoda tranquillità, fugace e struggente gioia di vivere.
Durante gli anni del soggiorno berlinese egli strinse una profonda
amicizia con Emile Verharen, con Paul Valery e Romain Rolland. «La mia
compressa sete di sapere e di gioia, la curiosità intellettuale e artistica si lanciava
appassionatamente verso tutto ciò che accadeva fuori dalla scuola. Ogni giorno
inventavo nuovi metodi per utilizzare le ore più noiose della scuola in letture
1
private: Nietzsche, Kierkegaard, Strindberg» .
Nel corso degli anni scolastici frequentò il caffè Griensteidl, luogo di
incontri di letterati, poeti, uomini di cultura della Vienna del tempo, fra i quali
Arthur Schnitzler e Hugo von Hofmannsthal.
A partire dal 1904 intraprese moltissimi viaggi, nel corso dei quali diede
forma e consolidò in sé uno spirito cosmopolita. Il cosmopolitismo di Zweig è
un’eredità ebraica e allo stesso tempo un tratto caratteristico della società
asburgica e va compreso anzitutto come fiducia e consapevolezza nella funzione
storica della cultura, quale unico strumento che consente comunicazione e
dialogo fra gli individui e la società.
Il pacifismo non si tradusse mai in una piena adesione alle iniziative di
organizzazioni internazionali o partiti impegnati in una concreta azione per il
mantenimento della pace. Esso affondava le sue radici soprattutto
nell’esaltazione della coscienza interiore, alla quale soltanto l’individuo deve dare
2
ascolto .
Nel 1928, a Mosca, conobbe Maksim Gor’kij. «Stare con lui volle dire
per me comprendere la Russia, non la Russia bolscevica, non quella del passato
3
o di oggi, ma l’ampia, forte e cupa anima del popolo» .
Tutta l’opera di Zweig costituisce lo sforzo di ampliare la propria visione
culturale, per giungere, dalle premesse sovranazionali austroungariche, a una
4
coscienza europea .
«L’unico rimasto asburgico - scrive Claudio Magris - è l’ebreo, che non
può riconoscersi in alcun altro paese; l’ebreo libero da legami di sangue e da
5
passioni nazionalistiche è dunque l’erede del tramontato impero» .
Ancora una volta la presenza del nazismo - e più in generale la crisi
fascista attraversata dall’Europa nel ventennio fra le due guerre - determina un
nostalgico rimpianto del mondo asburgico. «L’austricità» di Zweig non è
nettamente scindibile dal resto della sua personalità; essa è strettamente
connessa con ogni altro elemento, e fa capolino di continuo, in battute, allusioni
e accenni che ricreano quasi inavvertitamente il mondo austroungarico in tutte le
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sue componenti. Certamente il mondo austroungarico è ritratto con sorridente
finezza, ma si tratta di una raffinata, continua citazione di particolarità ambientali,
di modi d’esprimersi, di note di costume, più che di una trasfigurazione fantastica
o, alternativamente, di una forte rappresentazione realistica.
Alla fine degli anni Venti, Zweig ebbe modo di collaborare con il
periodico viennese “Almanacco di psicanalisi” e di stringere così amicizia con
6
Sigmund Freud (al quale dedicherà in seguito un saggio biografico) .
Molte fra le novelle, che possono leggersi come raffinati studi
7
psicologici , (Amok, Novella degli scacchi, Storia di una caduta, Paura)
presentano, non a caso, quale motivo fondamentale, quello della colpa e dei suoi
grovigli interiori. Le sequenze oniriche sembrano, infatti, costruite sul modello
della Interpretazione dei sogni.
«Klages, Freud, Jung [...] Mia istintiva attrazione: perché sono pseudo8
poeti e aggiungono alla letteratura il sostegno della psicologia» .
Nel saggio dedicato a Dostoevskij, lo scrittore viene presentato come «il
9
grande distruttore dell’unità» .
Zweig procede secondo uno schema ampiamente usato da molti degli
interpreti dostoevskijani: sostanzialmente si può scorgere l’affermarsi di una
forma liminare e precaria di nichilismo tragico. È quanto avevano sostenuto
anche Lev Šestov e Gyorgy Lukács: la filosofia con Dostoevskij (prima ancora
che con Nietzsche) si trova di fronte al tragico come alla sua stessa
contraddizione.
Una lettura potentemente in negativo, in base alla quale la profondità
speculativa di Dostoevskij starebbe dalla parte oscura del male, mentre fiacco ed
evasivo si farebbe sempre il suo pensiero sulla corda del bene e della santità; il
fascino di tale lettura ha avuto peraltro notevoli effetti nella storia successiva
delle interpretazioni dostoevskijane in chiave filosofica, nonostante la
provocatoria unilateralità.
Anzi, la sua influenza sembra sia stata così efficace, da costituire il
preambolo, poi rimosso, di quella irruzione del pensiero dostoevskijano sulla
scena della filosofia europea per opera di autori che - come Lukacs soprattutto ne esalteranno univocamente le virtualità demoniache e «luciferine», sia nella
prospettiva di un messianismo apocalittico e teurgico, sia in quello di un
nichilismo aporetico e malinconico. Ogni singolo sentimento non può che essere
una scissione, una molteplicità, un'ambiguità. «Demoniaco» e «tormento di Dio»
costituiscono un tutt’uno, e sono cioè il risultato della rottura più radicale
dell’orizzonte della fede positiva come luogo di ricomposizione e di
riconciliazione. E proprio il Dio di Dostoevskij diviene, secondo Zweig, il principio
di ogni inquietudine.
Ad ogni modo, rispetto alla interpretazione di Šestov, quella di Vasilij
Rozanov costituisce già un correttivo valido. Soprattutto in un punto: là dov’essa
24
avverte, con impareggiabile finezza, che «il male in Dostoevskij è rappresentato
10
dal punto di vista di ciò che il male pensa di se stesso» .
La negatività è veramente tale dove si occulta, giustificando se stessa. Il
significato complessivo dell'interpretazione di Rozanov viene in chiaro, anche
prospetticamente, ossia in relazione alla interpretazione di Šestov, di cui
rappresenta una vera e propria critica antelitteram. In Dostoevskij vi è parimenti,
come Rozanov intravede, già al di là di Šestov, un movimento ulteriore, che si
inflette su quella passione e ne fa il luogo stesso d’un estremo, rischioso e
decisivo esperimento sulla negatività. Eppure sarà Šestov, ben più che Rozanov,
il punto di riferimento di quegli interpreti che nei primi anni del Novecento
riannoderanno le fila della ricezione filosofica dell’opera dostoevskijana. Tra
questi, senz’altro, Dmitrij Merežkovskij la cui interpretazione si configura come
una specie di cassa di risonanza di quella di Šestov. Egli riconosce pienamente
a Dostoevskij ciò che lo scrittore stesso si era attribuito, e cioè di avere fatto uso
di una “potenza di negazione” di portata eccezionale. Di certo Merežkovskij non
erra nell’affermare che Nietzsche sarà destinato a divenire l’interlocutore
privilegiato di Dostoevskij. Ed infatti il tragico - questo luogo centrale, questo
luogo di contraddizione - già in Dostoevskij come poi in Nietzsche implica
11
«l’affermazione della vita nei suoi più oscuri e crudeli enigmi» .
Non solo, ma esso non è dicibile se non da una parola che comprenda
sia l’insegnamento di Zosima sia l’insegnamento di Zarathustra: quella che
esprime la “fedeltà della terra”, e va nel senso di un prolungamento postcristiano
della preclassicità pagana: se gli antichi «nel più profondo del tripudio orgiastico»
avevano sempre «il presentimento di un tragico dolore», viceversa «noi, nel più
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profondo del dolore cristiano, abbiamo sempre il presentimento di una gioia» .
Ma Dostoevskij - come Nietzsche, del resto, e proprio qui, secondo
Merežkovskij il pensiero di Dostoevskij e, allo stesso modo, quello di Nietzsche,
mostrano il proprio limite - non pensa fino in fondo l’unità degli opposti e anzi la
conversione dell’uno nell’altro. Ad esempio, la visione del cadavere di Cristo
resta come un residuo sottratto all’amor fati anche se, paradossalmente, proprio
in ciò Dostoevskij si spingerebbe oltre Nietzsche, perché ha saputo interrogarsi
13
anche «sull’assurdo problema: come Dio abbia potuto permettere ciò» .
Indicazione, questa, particolarmente significativa dal punto di vista di
una rassegna delle interpretazioni filosofiche dostoevskijane. Muovendosi lungo
tale direttrice Zweig porta in primo piano quella linea interpretativa ch’era parsa
minoritaria rispetto alla tendenza dominante, tanto efficace ed eloquente nelle
sue variazioni sul negativo, quanto disarmante di fronte alla doppia, ma
dialettica, polarità del pensiero dostoevskijano.
25
Zweig interprete di Dostoevskij
In Dostoevskij, come sostiene Zweig, l’antitesi è permanente, l’unità
è distrutta, l’oscillazione risulta insaldabile. «Esiste o non esiste un dio?»,
grida Ivan Karamazov al suo sosia, il diavolo, in quel terribile dialogo. Per
torturare l’uomo lascia insoluta la questione di Dio, gli lascia il tormento di
Dio. Tutte le creature di Dostoevskij - ed egli stesso - hanno dentro di sé
questo Satana che pone la domanda di Dio senza dar risposta. L’esistenza e
il risveglio di questo Dio recondito, fuori e al contempo dentro di noi,
costituiscono, osserva Zweig, il problema di tutte le opere di Dostoevskij.
Nessuno dei personaggi può sottrarsi alla domanda; «essa è unita a loro
come l’ombra delle loro azioni, ora precorrendole, ora inseguendole come
14
pentimento» .
Non possono sfuggire ad essa e l’unico che tenta di negarla, «il
15
grande martire del pensiero» , Kirillov, deve uccidersi per uccidere Dio e
prova con ciò, più appassionatamente degli altri, la sua esistenza e la sua
natura ineluttabile. E in fondo a tutte le questioni, osserva Zweig, è la
questione di Dio: è il turbine interno che attira irrimediabilmente le loro idee.
Eterno padre dei contrasti, il Dio di Dostoevskij è contemporaneamente il sì e
il no, non è un essere ma uno stato, uno stato di tensione. È l’eterno
irraggiungibile, è il tormento, e dal petto di Dostoevskij erompe il grido di
16
Kirillov: «Dio m’ha tormentato tutta la vita» .
Il «segreto» di Dostoevskij sarebbe proprio questo: ha bisogno di
Dio e non lo trova, il suo cercare sta tutto nell’affermazione di un sempre
inconcluso differimento dell’esperienza, che, proprio in quanto tale, attesta
come tutto ciò che è in ogni momento ha nel fatto di essere, qui e ora e non
altrove, la sua ragione, e dunque è degno di esistenza, di amore, in definitiva
di vita.
Dostoevskij, predicatore cristiano, di fatto compie il passo decisivo
17
verso il superamento del cristianesimo .
Nei suoi personaggi ha descritto con eguale forza persuasiva le
estreme possibilità delle sue forme, da una parte l’umiltà di dedicarsi
interamente a Dio, e dall’altra il più grandioso estremo, cioè divenire Dio in
persona. La sua fede è una corrente di fuoco alternata tra il sì e il no: anche
davanti a Dio Dostoevskij rimarrebbe il grande escluso dell’unità.
«Divenire fecondo nel contrasto» ed estendere questo contrasto fino
all’infinito: Dostoevskij, l’uomo dei contrasti, il dualista creatore, forma il suo
ideale, il suo Dio, nell’antitesi di se stesso, abbassandosi fino ad essere
negazione. L’idea di Dostoevskij, osserva Zweig, è dunque di essere come
non è, di sentire come non sente, di vivere come non vive. Proprio questo
trarre un ideale etico dalla distruzione di se stessi non è mai stato più
completo in tutte le sfere spirituali e morali. Analizzando minuziosamente il
26
volto segnato dello scrittore, Zweig ne enumera le passioni e i rovesci,
mostra come Dostoevskij riuscisse a vivere fino in fondo anche le sofferenze
più atroci, quelle dalle quali gli altri escono schiantati, e trarne ragione di vita
e di scrittura. E così il crimine e il vizio sono vissuti sia come caduta sia come
missione.
Difatti, osserva Zweig, non solo nell’opera di Dostoevskij manca un
«principio d’ordine» che riconduca ad una unità di senso le forze centrifughe
che l’attraversano, ma proprio in ragione di ciò accade che vengano elevati a
sistema di conoscenza «il disordine febbrile», la scomposizione e la
dislocazione delle prospettive, lo sdoppiamento speculare ed anzi l’infinita
moltiplicazione - specchio contro specchio - d’ogni sguardo sul mondo.
Perciò l’«idea» appare sempre come straniata, sia per il suo quasi inevitabile
uscire da sé e mutare il tono e assumere carattere ossessivo, sia per il suo
non essere mai conforme a se stessa. I valori e i disvalori si mettono
vorticosamente in movimento, perdono la loro fissità e trapassano
scandalosamente l’uno nell’altro. Dal momento che gli opposti convivono, in
un dialogo tormentoso o in guerra continua, poiché le forze che compongono
l’entità uomo sono molteplici e compresenti, la risultante di questo
parallelogramma di opposti e di forze diverse non è mai chiara o evidente.
Zweig prende in considerazione, come esempio, il caso di Raskol’nikov: in
nessun momento della sua storia egli è solo nell’errore, nella perversione; al
fondo stesso della sua colpa logica ed etica vi è un grande pensiero, il
bisogno ardente di compiere delle opere a beneficio dell’umanità. In nessun
momento della vicenda appare sotto sembianze odiose o ripugnanti, perché
si avverte sempre in lui una coscienza in lotta, un'intelligenza acuta in
movimento. La dialettica è presente in ogni momento e non la si desume
soltanto dall’epilogo, quando è avvenuta una conversione o una catarsi. Il
principio stesso della Vielschichtigkeit dell’uomo, della staticità del suo
essere, fa comprendere che gli strati componenti entrano in urto ad ogni
18
istante determinando il conflitto delle tendenze .
Questa continua dialettica che nasce dalla convivenza degli opposti,
dal loro fluttuare sovente disordinato e inconscio, si esaspera dando origine
ad alcune figure enigmatiche, personaggi da sottosuolo, o da “menippea”
19
intrisa di spirito carnevalesco
- se si vuole adoperare il linguaggio
bachtiniano - perché non è possibile stabilire qual è il loro "contro", la loro
legge di movimento, il fine che si propongono nell’esistenza. La molteplicità
delle tendenze non si raccoglie nell’unità di una direzione e non si subordina
alla coerenza di una norma.
Tali sono anche i Karamazov, insiste Zweig, simbolo di una umanità
demoniaca e angelica insieme, destinata alla perdizione ed alla salvezza, alla
20
abiezione definitiva ed alla redenzione finale nella sofferenza .
27
Si assiste all'instaurazione di una realtà negativa, e la decisione di
una libertà illimitata, desiderosa di affermazione di là da ogni legge e da ogni
norma. Con tutta una gamma di sfumature che nei romanzi va dai personaggi
ignobili e abietti, che traggono un vile piacere dalla loro stessa degradazione,
fino ai personaggi superiori che consumano con risoluto titanismo il delitto, e
rimangono annientati da quella stessa decisione che, nel loro intento,
avrebbe dovuto affermarli al di sopra di sé e della legge. La dialettica
dostoevskijana, applicata soltanto all’uomo, è quella del salto qualitativo di
kierkegaardiana memoria. L’uomo è quell’essere che soggiace alla
tentazione, che si logora nelle passioni e nei vizi, ma la sua umanità derelitta
e mortificata dal peccato, avvilita nell'abiezione e nella colpa, trova e può
trovare il proprio riscatto in un salto etico, attraverso un processo di
interiorizzazione che dischiude un senso nuovo nell’esistenza. L’ardente
fonte creatrice dell’estasi dostoevskijana, secondo Zweig, è dunque proprio
l’amor fati, l’illimitata, assoluta, intera e consapevole dedizione al suo destino
21
antitetico .
Proprio perché la vita gli era stata misurata in maniera così potente,
proprio perché nel dolore essa gli palesava l’incommensurabilità del
sentimento, per questo la amava, crudele e benigna, divina e
incomprensibile. Come nella dialettica esistenziale di Kierkegaard, anche in
quella di Dostoevskij non si passa da una forma all’altra di esistenza per
mediazione logica, svolgendo dalla forma inferiore la superiore come sintesi
che contiene, inverato e conservato nel superamento, il momento
precedente; dalla forma inferiore si passa a quella superiore come un uomo
nuovo, che si apre a una nuova esperienza, spogliandosi dell’uomo antico,
rinnegando il proprio passato e la propria storia, saltando paradossalmente
ogni mediazione. L’antropocentrismo dostoevskijano prende questa forma:
l’uomo cade e si rialza, è gettato ontologicamente nella alternativa tra il piano
angelico e quello demoniaco, ma gli è dato qualcosa di proprio: di essere
parimenti angelo e demone restando pienamente uomo, la possibilità di
cadere e di rialzarsi. Zweig avverte che, invero, il Dio di Dostoevskij ha come
sede la sua assenza, un mondo assediato dal nulla che si insinua attraverso
22
gli abissi dell’anima .
Questi temi sono l’espressione di ciò che l’“esistenzialismo” di Zweig
cerca di chiarire concettualmente nelle sue analisi, con particolare attenzione
per la descrizione delle situazioni umane che recano in sé più fortemente
impressa la traccia della problematicità radicale dell’uomo. In alcuni momenti
si può scorgere un ritorno, più o meno totale, ad una situazione
preesistenzialistica, in altri l’avviamento ad una filosofia che progetti una
forma più razionale dell’esistenza umana nel mondo. L’esistenzialismo di
Zweig appare come il riflesso più fedele o l’espressione più autentica della
28
situazione di incertezza della società europea. Si può ben affermare che
l’opera letteraria di Zweig costituisce un importante anello di congiunzione tra
la situazione di quel momento e le forme concettuali dell’esistenzialismo.
Nella sua produzione letteraria e saggistica egli ha fatto leva, di preferenza,
sugli aspetti negativi e distruttivi dell’esistenza umana nel mondo, poiché ha
sempre tenuto presente (ed a volte anzi ha tenuto esclusivamente presente)
23
l’aspetto negativo delle possibilità esistenziali .
Con Zweig, oltre Zweig
A Dostoevskij spetta il merito di avere riconosciuto il male nella sua
intenzione satanica, immediatamente amorale o antimorale, nella sua
immane potenza. Ciò è quanto viene messo in rilievo anche da Henri de
Lubac il quale giudica Dostoevskij primariamente come un «pensatore etico»,
e nell’etica, egli annota - non senza una reminiscenza kierkegaardiana - «può
darsi un aut aut». Tema, questo, che de Lubac sviluppa, rilevando in
Dostoevskij, per la prima volta in tutta la sua complessità, una problematica
che avrebbe caratterizzato in seguito la vicenda della filosofia
24
contemporanea .
Molti gli esempi fatti da de Lubac. Basti ricordare, come già di per sé
significativo, il singolare rapporto di opposizione e di solidarietà - sottolineato
e svolto problematicamente da de Lubac, al pari di Zweig - che lega, sul
piano di un ideale continuità teorica, l’uomo del sottosuolo e Ivan Karamazov.
Quest’ultimo è il rappresentante del «pensiero euclideo», vale a dire di un
pensiero che, poggiando sulla propria interna coerenza e univocità, ritiene di
vincere la lacerazione da cui, di fatto, è dominato; ma, a ben vedere,
sull’asse di tale pensiero Ivan oscilla in modo perfettamente equivoco,
approdando alla constatazione dell’assurdità radicale dell’esistenza. Perciò
Ivan Karamazov e l’uomo del sottosuolo, considerati a partire da una
contrapposizione ingenuamente costruita nei termini di razionalismo e di
irrazionalismo, di fatto appaiono complici: li rende tali l’affidarsi a una
doppiezza di movimento che, mentre smembra e decompone il pensiero, di
fatto lo restituisce a se stesso come pensiero doppio, ma anche
25
programmaticamente falsificante, decostruttivo e distruttivo .
Dostoevskij sviluppa creativamente la propria visione della realtà
secondo un metodo che anche Reinhard Lauth chiama «schematismo
26
dialettico» dell’idealismo tedesco .
Quanto mai analitico risulta il discorso svolto nel corpo del libro,
laddove i principali problemi trattati sono rispettivamente quello della
dissociazione della personalità e della sua ricomposizione superiore, quello
della decisione morale come condizione della stessa distruzione dei valori e
29
quello della intuizione dell’unità armonica di tutti gli enti nell’essere; per
quanto riguarda la metafisica, in questione è il processo che, a partire dalla
separazione di «filosofia negativa» (l’essere “svuotato di senso”, la
negazione di Dio, il mondo in balia di un “sapere” che è volontà di dominio) e
di «filosofia positiva» (il conflitto degli opposti principi nell’uomo, la
riaffermazione del senso come “senso della sofferenza”, l’idea di una
“moralità oltrepassante in Cristo”), perviene alla saldatura dialettica dell’una e
27
dell’altra, sulla base della loro reciproca implicazione .
C’è uno snodo teorico che, per la sua centralità, serve bene da
esempio per l’intera interpretazione di Lauth: è quello in cui si discute del
«significato filosofico» della morte di Cristo. Zweig, al riguardo, aveva
osservato: «Può l’essere avere un senso, se l’essere stesso ha annichilito
quanto di più perfetto, per quel che si può umanamente giudicare, era stato
in grado di produrre e di portare in sé, cieco per il suo valore ed insensibile
28
per la giustizia ferita?» .
Dostoevskij lascia senza risposta la domanda o meglio, offre una
risposta indiretta: sia mostrando com’essa scaturisca da una logica che si
autodivora (come si vede dallo stesso esito suicida della ΰβρις intellettuale di
Ippolit e di Kirillov), sia alludendo alla possibilità di scavalcare questa logica
terrena ed “euclidea”, attraverso ciò che Dostoevskij chiama il pensiero «di
altri mondi». In ciò è possibile senz’altro riconoscere il punto nodale del
passaggio dalla “filosofia negativa” alla “filosofia positiva”. Se per positività
deve intendersi una realtà fattuale e rivelata – la resurrezione di Cristo, in tal
caso – tuttavia il cono d’ombra di tale realtà, trascendente l’empiria, è
rischiarato dalla metafisica. È dal punto di vista del pensiero «di altri mondi»
che la logica terrena ed euclidea è giudicata e mostra il suo limite
contraddittorio e tragico, non viceversa. Dostoevskij dà assolutamente la
precedenza al pensiero del senso e del valore sull’esperienza empirica. Ed è
appunto quanto egli ha espresso mediante il paradosso: tra la verità e il
29
Cristo, la scelta è in favore di Cristo .
Viene così definitivamente alla luce l’interno movimento del pensiero
dostoevskijano: che è tanto più metafisico, e dunque riconducibile ad una
concezione sistematica, quanto più annoda la sua trama alla scissione tra il
piano dell’empiria ed il piano della fede. Metafisicamente, tale scissione
appare come dialettica. Tale metodo non passa dall’opporsi delle idee alla
loro sintesi, ma pratica quella che con un'immagine, simbolicamente
espressiva, potrebbe caratterizzarsi come una “partita doppia”: si tratta cioè
di un metodo che procede come registrazione e svolgimento rigoroso di due
serie differenziate ed antitetiche di fattori, positivi e negativi. Sicché, sembra
che la relazione dell’uomo con la sua condizione condizionante divenga per
Dostoevskij la questione centrale della filosofia. Entrando in discussione con
30
le idee filosofiche del suo tempo riguardo alla questione del senso
dell’esistere dell’uomo, egli perviene a mettere a fuoco le due possibilità
estreme ed ultime che si aprivano ad una riflessione conseguente: nichilismo
o cristianesimo. Se egli riconosce ed afferma la verità di Cristo, come è
accaduto di fatto, ciò si è realizzato non per ignoranza o per aver
sottovalutato la potenza della posizione antagonista, ma grazie alla rigorosa
ed implacabile esplorazione di entrambe le possibilità fino alle ultime
30
conseguenze .
Dostoevskij esprime una radicale e costitutiva ambiguità: attraverso
paradossi spinti fino all’estremo, in cui esercita tutta la sua “potenza di
negazione”, scopre la contraddizione tragica e il movimento tragico che
esistono nello strato più profondo dell’essere umano, dove tale movimento e
tali contraddizioni sono immersi nello sconfinato essere divino senza tuttavia
31
dissolversi in esso .
Nell’opera di Dostoevskij il nichilismo tragico viene ad affacciarsi
precisamente lungo le frontiere, che sono emerse nell’esame della fallibilità
umana: il nulla informa di sé lo spirito nell’attività della sua conoscenza del
vero, della sua volontà del bene, del suo sentimento del bello. La tragicità del
nulla si affaccia anzitutto sul piano teorico, nelle vie della conoscenza del
32
vero .
La tragicità dell’esistenza umana si presenta, nondimeno, sul piano
etico: la dignità del patire si rivelerebbe anch’essa ambigua. Anche la
responsabilità e la colpa, dunque, si commisurano con una legge, ma diversa
da quella giuridica, che guarda a determinati atti, comportamenti, prestazioni
considerati nella loro dimensione puramente oggettiva.
L’etica chiama in causa il soggetto, la sua interiorità, la sua libertà:
prima che un “fare” richiede un “volere” che si autodetermina, perché ha in sé
medesimo il proprio principio, così che tutto quello che diventa moralmente
significativo, deve passare in qualche modo attraverso il crogiuolo della
soggettività: anche la legge morale, anche la legge naturale o razionale.
Allora tutto diviene «orchestrazione dell’oblio». Oblio è la società razionale,
lodata dal Grande Inquisitore, in cui coloro che conoscono il “segreto” - la
lucidità del nulla - dovrebbero finalmente liberare gli uomini dal sentimento
della colpa e dall’angoscia. Ma si tratta di una “liberazione” accompagnata
pur sempre da tormento e da estasi, da sconfitta e trionfo, da naufragio e
speranza.
1
S. ZWEIG, Die Welt von Gestern. Erinnerungen eines Europäers, tr. it. Il mondo di ieri.
Ricordi di un europeo, Mondadori, Milano 2013, p. 43.
2
Nemico delle frontiere e dei passaporti, il viaggiatore cosmopolita Zweig fu portavoce
di un pacifismo e di un europeismo interessanti e preveggenti. Propugnava una Europa
31
dei popoli che superasse le ideologie e i nazionalismi e i guasti prodotti da quelli che
chiama “riformatori professionali del mondo”. Pure, i contemporanei e le generazioni
seguenti hanno imputato a Zweig una certa superficialità nel suo rifiuto di schierarsi
politicamente: non bastava più loro l’impegno civile e vedevano nella presa di
posizione politico-ideologica un obbligo morale. Fu criticato da Mittner, Gadda, Musil;
Lukács ne trae un bilancio con alti e bassi; anche Thomas Mann nel suo discorso
commemorativo a dieci anni dalla morte dà mostra di non comprendere l’intransigenza
pacifista di Zweig. Cfr. S. BELLER, Austria, cuore d’Europa, Beit, Trieste 2011
3
Ivi, p. 288.
4
La concezione del tragico di Zweig prevede la totale sconfitta dell’eroe dai tempi del
suo primo dramma, Tersite. Tuttavia è alla biografia storica, genere di successo nel
dopoguerra, che egli deve un approfondimento di questa concezione. Come nota
Lukács, le sue biografie si oppongono a quelle gradite ai regimi fascisti, tese a
incensare le gesta del capo e a predicarne la necessità storica. Al contrario Zweig
racconta la storia in chiave anti-idealistica: essa si popola di piccoli uomini che nei
momenti cruciali si rivelano fatalmente inadeguati ai compiti cui sono chiamati. Lukács
apprezza in Zweig la coscienza dei limiti dell’intellettuale borghese in quanto voce
isolata di fronte alla storia. Si tratta, per utilizzare l’espressione di Jesi, di libri della fine,
costitutivi di una temperie sociologica condivisa anche da romanzi come Doktor
Faustus di Thomas Mann. La Novella degli scacchi non fa eccezione. G. Lukács, Il
romanzo storico, Torino, Einaudi 2009.
5
C. MAGRIS, Il mito asburgico, Einaudi, Torino 2009, p. 28.
6
Zweig nutriva una sconfinata ammirazione per l’opera fi Freud. Un parallelo tra Amok
e Novella degli scacchi evidenzia l’interesse per la metapsicologia e la pulsione di
morte. La psicologia serve anche per ribadire le frontiere culturali: se in Amok il servo
indiano della dama inglese è descritto come una sorta di adolescente immaturo, in
Novella degli scacchi gli “adolescenti immaturi” sono Czentovic e l’americano, in
opposizione alla profondità psicologica del dottor B. L’opposizione tra chi appartiene
alla cultura di Zweig e chi se ne pone ai limiti o all’esterno non è solo psicologica, è
anche fisiognomica. Un altro tema che accomuna la novella alle biografie è la
opposizione tra pietas e ybris. Cfr. J. LOTMAN, B. USPENSKIJ, Tipologia della cultura,
Bompiani, Milano 1995; U. ECO, Lector in Fabula, Bompiani, Milano 1979.
7
M. FRESCHI, La letteratura tedesca, Il Mulino Bologna 1995. “Zweig opta
costantemente per un incassamento di narrazioni: l’io narrante incontra un
personaggio che a propria volta racconta una storia in prima persona. Esso permette
all’autore di esplorare la psicologia dei suoi personaggi senza scomodare un narratore
onniscente. Non solo: così si mette in scena un conflitto di punti di vista, di conoscenze
e di valori tra i due narratori, arricchendo la polifonia testuale.
8
S. ZWEIG, Il mondo di ieri, cit., p. 90.
9
ID., Dostoevskij, Castelvecchi, Roma 2013, p. 38. Il saggio dedicato a Dostoevskij era
originariamente compreso nel volume Drei Meister, Frankfurt a. M. 1920, trad. it. Tre
maestri. Balzac, Dickens, Dostoevskij, Sperling e Kupfer, Milano 1938.
10
V. ROZANOV, La leggenda del Grande Inquisitore, Marietti, Genova 1989, p. 194.
11
D. MEREŽKOVSKIJ, Tolstoj e Dostoevskij. Vita. Creazione. Religione, Laterza, Bari
1947, p. 196.
12
Ivi, p. 140.
13
Ivi, p. 119.
32
14
S. ZWEIG, Dostoevskij, cit., p. 103.
Ibidem
Ivi, p. 104.
17
Si pongono le condizioni di un pensiero che si colloca al di là del problema di Dio, in
quanto problema dell’«unità» metafisica o del senso ultimo di tutte le cose. È proprio
quello che, secondo Zweig, Dostoevskij rende impensabile. Zweig chiama Dostoevskij
«il grande distruttore dell’unità». Ivi, p. 182.
18
Scrive Zweig: «Lo sguardo dell’intelletto, costruttore di schemi d’uso sociale,
semplifica il giudizio sugli uomini e li riassume in uno schema: l’ubriacone, la prostituta,
l’assassino, il gentiluomo, il prete, l’intellettuale, il mistico. Nel mondo dostoevskijano,
dove il personaggio non è mai schematizzato dall’esterno ma rivissuto
simpateticamente dall’interno, cadono tutti questi schemi e queste formule». Ivi, p. 50.
19
M. BACHTIN, Dostoevskij. Poetica e stilistica, Einaudi, Milano 1993.
20
«La loro sofferenza è allo stesso tempo la loro felicità, essi la tengono stretta,
stringendo i denti, la riscaldano sul proprio seno, l’accarezzano con le mani, l’amano
con tutto il cuore e solo se non l’amassero sarebbero infelici». S. ZWEIG, Dostoevskij,
cit.
21
«Se mi fossi convinto che tutto è un caos orribile, maledetto, e forse diabolico, se mi
toccassero anche tutti i più spaventosi disinganni umani, ebbene, io vorrei vivere
ugualmente». F. DOSTOEVSKIJ, Note invernali su impressioni estive, Feltrinelli, Milano
1993, p. 60. Questo passo, che richiama assai da vicino quanto Nietzsche scriverà in
un paragrafo della Gaia scienza, segna la svolta di Ivan Karamazov verso una
concezione positiva del nichilismo, dove lo scandalo del male sia piegato al si e alla
gioia. Ivan Karamazov accentua il momento della pietà e della tenerezza per il vivente,
Nietzsche invece quello della sua "panica" benedizione.
22
Se è noto l’aforisma di Nietzsche: «Dio è morto», lo è di meno il seguente passo
della Mite nel Diario di uno scrittore: «Il sole si alza. Guardatelo: non si direbbe che è
morto? Tutto è morto, ovunque non ci sono che morti. L’uomo è solo, all’intorno tutto
tace: ecco che cosa è la terra». Cfr. F. DOSTOEVSKIJ, Diario di uno scrittore, Bompiani,
Milano 2007, p. 981.
23
A differenza di Martin Heidegger e Karl Jaspers, nei quali la tematizzazione
dell’esistere è ontologica, in Zweig essa è ontica. Questo aspetto è riconducibile
soprattutto all’opera di Jean Paul Sartre ma anche di Albert Camus e Franz Kafka.
24
Dostoevskij, dunque, come profeta non tanto o non più soltanto (come volevano
molti degli interpreti fra le due guerre) della rivoluzione e più in generale del destino
dell’Europa, bensì della linea di tendenza del pensiero occidentale. Il saggio di de
Lubac su Dostoevskij è compreso nel volume Le drame de l’umanisme atheè, Plon,
Paris 1950, che nel dopoguerra avrebbe avuto notevole diffusione. H. DE LUBAC, Il
dramma dell’umanesimo ateo, in Opere, a cura di R. Grenier, Milano 1992.
25
Occorre fare alcune distinzioni, quelle che in Dostoevskij appaiono come i gradi di
una stessa idea. Si consideri, per esempio, l’idea dell’arresto estatico del tempo:
Myškin la mette in rapporto con le «manifestazioni più infime dell’essere» e ne coglie la
verità grazie al fatto di non prendersi sul serio, mentre Kirillov, ignorando tale rapporto,
non può che farne la tragica caricatura. Ciò vale, in Dostoevskij, per quella che può
definirsi la sua dialettica. Ivi, pp. 363-366.
26
Il tentativo di ridurre il pensiero di Dostoevskij a sistema è esplicitamente alla base
della ricerca, tanto ampia quanto documentata, che egli ha dedicato allo scrittore,
15
16
33
pubblicandone nel 1950 i risultati con il titolo La filosofia di Dostoevskij in una
presentazione sistematica. Il saggio è ora pubblicato all’interno del volume Dostoevskij
e la verità, a cura di M. Ivaldo, il Ramo, Rapallo 2005.
27
Tuttavia Lauth corregge o meglio stempera più avanti tale affermazione osservando
che in Dostoevskij si tratta sempre d’una «filosofia vissuta, e vissuta
conseguentemente», cioè calata nella vita dei personaggi, che incarnano una
determinata idea o più idee magari tra esse in contraddizione, e ne sviluppano tutte le
implicazioni. Ivi, p. 18.
28
S. ZWEIG, Dostoevskij, cit., p. 32.
29
Si consideri la morte di Cristo, scrive Lauth: se Cristo non fosse risorto, la sua vita
sarebbe un errore, e dunque perché giudicare la sua morte, al pari di Ippolit e di
Kirillov, dopo aver avanzato quell’ipotesi pur restando nell’ambito della “filosofia
negativa”, tale da trascinare nel non senso il senso stesso dell’essere?
30
A questo riguardo, Luigi Pareyson ha osservato che «se oggi non si può essere
veramente e consapevolmente cristiani ignorando Kierkegaard e Dostoevskij, ciò è
perché la loro professione di cristianesimo è confermata e riaffermata sulla possibilità
dell’anticristianesimo». Cfr. L. PAREYSON, Esistenza e persona, Il Melangolo,
Genova1985, p. 13. Dostoevskij in particolare ha affermato il cristianesimo avendo
sperimentato il nichilismo come «possibilità di cui si accetta costantemente il rischio»;
anzi il nichilismo è svolto e condotto da lui sino in fondo, sino al punto in cui «vinto
dalla sua stessa estrernizzazione, si rovescia nel suo contrario». Cristianesimo dopo il
nichilismo, e avendo “l’esperienza” del nichilismo come possibilità reale e giudicata:
questo sembra l’esito dell’antitetica dostoevskijana secondo Pareyson e Lauth. Lauth
ha per parte sua rievocato in una pagina suggestiva la prossimità e la differenza nella
interpretazione di Dostoevskij fra lui stesso e Pareyson, una pagina che, dato il suo
rilievo, conviene riprodurre per intero: «Consentivamo entrambi che lo scrittore ha
compreso in maniera profonda la terribile problematica della libertà e del male che da
essa è reso possibile. Ora, ciò che per il mio amico era il centro della sua
comprensione di Dostoevskij era la schietta visione della faccia spaventosa del male
satanico. Per me il centro risiedeva altrove; consisteva, se così posso esprimermi, nel
fatto che Dostoevskij potè guardare e raffigurare il Paradiso non soltanto o
prevalentemente in maniera astratta, ma in una concreta vita. Chi soprattutto mi parla
non è Ivan Karamazov, non è Stavrogin, ma il suo Myškin e la sua Sofija. Considero il
pensiero più profondo di Dostoevskij che l’amore etico, quale si manifesta
concretamente in queste figure, non rappresenta soltanto la giustificazione
insuperabile di loro stesse ma anche la definitiva vittoria sul potere del male. Myškin,
l’apparente “idiota”, ripete per Nastasja Filippovna la morte espiativa di Cristo e con
questo libera la “passione della vita” incorporata in Rogožin dalla maledizione del
peccato, dal fatto di poter soltanto attraverso un delitto conseguire la meta della sua
brama. Ma in questa maniera la collera veterotestamentaria di Dio cede il passo al
compimento ed alla sopraelevazione della giustizia di Dio stesso che è il vero amore».
R. Lauth, Ricordi delle mie conversazioni con Luigi Pareyson, in A. Di Chiara (cur.),
Luigi Pareyson filosofo della libertà, La città del sole, Napoli 1996, pp. 43-44.
31
È alla condizione tragica dell’esistere umano –conseguente al dramma della colpa,
ma permanente, e per certi versi amplificata- che anche Bruno Forte volge l’attenzione,
per completare in qualche modo il quadro di una “antropologia negativa”. Cfr. B.
34
FORTE, L’eternità nel tempo. Saggio di antropologia ed etica sacramentale, San Paolo,
Milano 1993, p. 106.
32
È qui che, secondo Forte, la questione radicale del male si presenta come sfida
permanente dell’esistenza di un Dio. Ivi, p. 107.
35
ETICA DELLA CURA E DOLORE DELLA DIFFERENZA
Marianna Gensabella Furnari
L'autrice affronta il tema della relazione di cura, in riferimento al "dolore della
differenza", quale tema della differenza tra normale e patologico, ma anche del
"dolore" della separazione del malato cronico grave e del disabile dal mondo dei
sani/normali. Argomentando intorno al concetto di "norma" . Il tutto inserito nel contesto
dell’etica della cura, in cui ci si pone la domanda di senso dell'agire: ripensando i
bisogni di cura in termini di diritti e facendo politica, per cercare di realizzare nel
mondo della polis le migliori condizioni possibili perché i diritti delle persone con
disabilità non siano solo riconosciuti da buone leggi, come avviene nel nostro paese
ma realizzati attraverso scelte politiche adeguate.
Reasoning about the concept of "rule", the Author deals with the subject of the
therapeutic relationship referring to the "suffering due to the difference," interpreted as
the difference between normality and pathology, but also as the "suffering" due to the
separation between chronic and disabled patients from the world of healthy/normal
people. All this as regards the ethics of the therapy, in which the question about the
meaning of acting arises: rethinking the health care needs under the terms of rights
and making policy to try to realize the best conditions in the world of the polis in order
that the rights of the disabled are recognized not only by good laws, as in our Country,
but achievable through appropriate policies, too.
L'auteur aborde le thème de la relation médecin-patient, en référence à la 'douleur de
la différenc É, sur le thème de la différence entre le normal et le pathologique, mais
aussi à la 'douleur' de la séparation du malade chronique grave et de l'handicappé du
monde des sains/normaux,en argumentant autour du concept de 'norm É. Le tout
s'insère dans un contexte d'éthique du traitement, où se pose la question du sens de
l'action: repensant les besoins du traitement en terme de droit et faisant de la politique,
pour essayer de réaliser, dans le monde de la polis, les meilleures conditions possibles
pour que les droits des personnes porteuses d'un handicap ne soient pas seulement
reconnus par des lois, comme c'est le cas dans notre pays, mais aussi concrétisés à
travers des choix politiques adaptés.
36
Un’etica dei deboli?
Nata dal pensiero delle donne, dalla rottura della separazione tra
sentimento e ragione, dal ripensamento dei confini tra privato e pubblico,
33
l’etica della cura trova le sue radici nell’esperienza, si basa per scelta su
una “ragion pratica impura”, contaminata dalle emozioni, condizionata dalle
relazioni che sono il suo punto di partenza e il suo punto di arrivo. Ciò che
caratterizza l’etica della cura è, infatti, non l’esclusione dei principi – che pure
34
sono chiamati in causa, alla fine, in un rapporto di interazione dialettica ma il primato delle relazioni. La prima mossa metodologica di quest’etica è,
quindi, la possibilità di ri-definire il contesto relazionale che è alla base del
dilemma morale.
É forse, come è stato detto, non solo un’etica delle donne, ma
35
“un’etica dei deboli” , di coloro che hanno esperito come dimensione unica
della loro vita il lavoro di cura perché costretti in una condizione di
dipendenza: non solo le donne quindi, ma anche gli schiavi e, in genere, gli
appartenenti alle cosiddette classi inferiori. La genesi dell’etica della cura si
estenderebbe, quindi, a tutte le
condizioni di debolezza/dipendenza:
condizioni “differenti” rispetto a quelle che recano il segno doppio del potere
e della libertà e che, secondo una distinzione che riprendiamo da Hannah
Arendt, relegano alla sfera del bios, della produzione e della riproduzione,
36
escludendo da quella del logos e della polis .
Tale ipotesi merita di essere presa sul serio: porta a pensare che
l’etica della cura derivi dalla negazione del potere ed insista in tale negazione
rovesciandone a logica. Là dove il potere separa, prevarica, sceglie tra l’uno
e l’altro, la cura vive di relazione, di mediazione, tenta costantemente di
tenere insieme e lo fa a partire da una differenza esperita nel dolore come
37
debolezza, dipendenza: lo fa per “sanare”, “riparare”
quel dolore,
“riparando” la differenza.
Si può parlare di un movimento che vuole rovesciare il potere in
servizio, proprio perché trova le sue radici nell’esperienza del servire?
Troppo facile e troppo netto. Vi sono molti modi di pensare il potere e molti
38
modi di pensare la cura . Anche chi cura esercita un potere nell’atto stesso
di servire: un potere essenziale, come sappiamo dalla lezione hegeliana sulla
lotta tra servo e signore, non solo per le implicazioni sulla dialettica del
riconoscimento, ma anche perché trova radice nei bisogni dell’altro. Al
tempo stesso un potere fragile, perché il curante rischia di perderlo se può
essere sostituito nel suo lavoro di cura, e che regge e si rafforza, o all’inverso
si indebolisce, nella relazione tra curante e curato: è solo nella relazione e
nel contesto che la circonda, che si decide se il curante è o meno
insostituibile. Ancora, la cura crea dipendenza tra curante e curato: una
dipendenza che può anche essere intesa e vissuta come reciproca. Anche
37
colei/colui che cura dipende, per motivazioni affettive o economiche o di
39
potere, dai bisogni del curato : il ritmo vitale di quei bisogni diventa il ritmo
della sua vita, determinando i tempi e i modi della soddisfazione dei suoi
bisogni, della realizzazione dei suoi desideri.
Come nota Joan Tronto, “la cura delinea posizioni di potere e di
40
mancanza di potere” . Il rapporto tra cura e potere è, quindi, ambiguo o
meglio ambivalente. Secondo Tronto, ”è l’enorme potere reale della cura che
41
42
rende necessaria la sua limitazione” . “Potere dei deboli” , e per secoli
delle donne in quanto deboli, la cura è stata anche usata dai forti per relegare
i deboli in spazi confinati, lontani dai luoghi delle scelte economiche o
43
politiche, consegnandoli ad un lavoro misconosciuto . La rabbia, il senso di
impotenza che prova chi ha bisogno di cura e non trova risposta, entrambi
tipici dei bambini, ma riscontrabili anche in tanti malati o disabili che
dipendono dalle cure degli altri, possono trasformarsi, sempre secondo
Tronto, in chi pensa di essere ormai autonomo, indipendente, in un senso di
alterità, di sottile disprezzo verso chi presta cura, ma anche verso chi ancora
44
dipende dalla cura .
Ma si è mai fuori dalla cura? Come leggiamo nel mito narrato da
45
Igino, Cura possiederà l’uomo per tutto il tempo della sua vita . É
quest’oscura certezza che rimane dentro di noi in tutte le stagioni della nostra
vita, anche in quelle in cui siamo più indipendenti, a trasformarsi in
“negazione” dell’antica dea, della sua importanza, del suo potere: una
negazione che assume il volto duplice del misconoscere il lavoro di cura e
considerare “differenti” da noi coloro che più ne dipendono.
Dietro la nostra negazione vi è insomma una paura del potere di
cura che non è senza ragioni. La cura può essere il luogo in cui si esercita il
più oscuro dei poteri - onnivoro come il materno che della cura è paradigma , il luogo in cui lo spazio dell’autonomia della persona si restringe sia per il
curante che per il curato o, all’inverso, può essere il luogo in cui l’autonomia
cresce, perché è la meta della stessa relazione di caring, punto di partenza e
di arrivo del progetto che la anima. Tra le due possibilità, di mezzo, c’è una
dialettica di reciproco riconoscimento tra curante e curato, in cui la vicinanza
a cui la cura obbliga deve essere temperata dalla distanza che il rispetto per
la persona richiede. La relazione di cura, come ogni relazione, forse ancor
più di tante altre, che insistono su progetti, azioni specifiche, ha bisogno di
etica per non trasformarsi in una relazione di potere che schiaccia la libertà.
Il motivo è evidente: la cura presuppone che ci sia una condizione
di asimmetria tra il curante e il curato, uno dei due è in quel momento, in
quella situazione, per un tempo più o meno lungo, a volte per sempre, “più
vulnerabile”, ha più bisogno di un aiuto che l’altro, e a volte solo “quell’altro”,
può dargli. La differenza è qui iscritta nel “di più” di vulnerabilità e può
38
assumere toni più o meno forti. Anche nei casi di “cura reciproca” c’è,
sottesa, la possibilità di una certa asimmetria che può di volta in volta
rovesciarsi. La maggiore vulnerabilità, il maggiore bisogno di aiuto indicano
una “differenza” che si declina come “dipendenza”. Certo, come si è detto, la
cura insiste su un contesto, su una relazione di dipendenza del curato dal
curante, che può rovesciarsi: così come il curato dipende dal curante per il
soddisfacimento dei suoi bisogni, il curante dipende dai bisogni del curato nel
momento in cui se ne assume, per volontà o per costrizione o ancora per
interesse economico, la presa in carico.
Relazione di cura e dolore della differenza
Accade che la relazione di cura sia attraversata non solo da questa
differenza-dipendenza che rischia costantemente di mettere in crisi
l’autonomia dei due e la relazione stessa, ma anche dall’avvertimento di
un’altra differenza. Accade, infatti, che il curato non sia solo più vulnerabile,
più bisognoso di aiuto rispetto al curato, ma che quel “di più” costituisca una
differenza rispetto alla “norma”. É la cura della persona disabile, o del malato
cronico grave, là dove la differenza del “patologico” rispetto al “normale” non
è soggetta alla speranza di riduzione o annullamento, di guarigione parziale o
totale, ma è da sempre o da qualche tempo, in ogni caso “ormai”, iscritta nel
corpo e nell’anima di colui che è preso in cura, ed è iscritta proprio come
pathos, dolore.
L’etica della cura si trova in questi casi esposta a una
radicalizzazione dei suoi momenti più significativi. Riprendendo qui in
particolare la lettura di Joan Tronto, possiamo notare: un rafforzamento
dell’asimmetria, o se si vuole della differenza tra curante e curato; una messa
alla prova dei suoi momenti essenziali, l’attenzione, la responsabilità, la
competenza e la reattività; una ridefinizione dei confini tra privato e pubblico,
tra sfera etica e sfera politica.
A muovere tale radicalizzazione è il dolore della differenza: un
dolore che non rimane iscritto solo in colui che è, o si sente, o è percepito
come “diverso”, ma che attraversa la relazione di cura, passando dal curato
al curante: quest’ultimo l’avverte tanto più intensamente quanto più intima ed
46
affettiva è la relazione stessa . Ne troviamo traccia nella difficoltà della
definizione di “disabile” e di “normale”, nell’ipocrisia del virgolettato con cui
spesso sentiamo l’esigenza di indicarli, quasi un voler rimuovere la differenza
47
della disabilità . Una difficoltà che indica qualcosa: un concetto da chiarire,
una de-finizione/distinzione non accettata, né accettabile per il dolore che
porta con sé, l’impossibilità di eliminarla come se non ci fosse.
39
Prima di prendere in esame i diversi punti, dobbiamo chiederci di
che tipo di differenza stiamo parlando, come si configura e perché si
configura in tale modo. É il grande tema della differenza tra normale e
patologico, ma è anche il tema del “dolore” della separazione del malato
cronico grave e del disabile dal mondo dei sani/normali. Pensiamo a Filottete
48
lasciato sull’isola dai suoi compagni, per l’orrore che suscitano le sue ferite ,
alla realtà triste di tanti cronicari o istituti per disabili gravi, alle barriere visibili
ed invisibili che separano i disabili da chi disabile non è. Quale è la ratio di
quella separazione? Come faremo a tornare a prendere Filottete sull’isola per
vincere la nostra battaglia di civiltà?
Normale?
Prima ancora la domanda è: cosa è la “norma” rispetto a cui la
barriera si alza e “il diverso” non passa? La definizione di quella norma ha un
peso: dà origine a sentenze rassicuranti, “è normale”, o a sentenze che
suonano come condanna, “non è normale.. c’è qualcosa che non va”. Come
leggiamo nel noto saggio di Canguilhem, la norma si dà tra fatto e valore:
indica ciò che accade per lo più, per la maggioranza degli individui della
nostra specie, ha quindi un rilievo statistico, ma tale dato è al tempo stesso
49
assunto come un valore normativo: è ciò che è bene che sia .
Se dire “è normale” significa esprimere un giudizio che si muove tra
fatto e valore, è importante comprendere chi è autorizzato ad esprimere tale
giudizio e a partire da quali ragioni. É il medico che, basandosi sulla sua
conoscenza della fisiologia, può esprimere quel giudizio che suona come
condanna più o meno grave perché più o meno escludente dal mondo dei
normali, più o meno limitante dei progetti di una vita, ma che tuttavia
pretende di essere “oggettivo”, perché basato su evidenze e parametri? O
sono piuttosto i soggetti stessi, i malati o i disabili? A proposito dei malati, là
dove la “non-normalità” è temporanea, scrive Canguilhem: “In fin dei conti
sono i malati a giudicare il più delle volte, e da punti di vista molto diversi, se
sono più normali o se sono ridivenuti tali. Ridivenire normale [...] significa
riprendere un’attività interrotta, o quanto meno un’attività giudicata
equivalente secondo i gusti individuali o i valori sociali del proprio ambiente.
Anche se quest’attività è ridotta [...] non sempre l’individuo guarda troppo per
50
il sottile” .
Possiamo adattare tutto questo alle differenze che non sono
temporanee, ma definitive, e dire che alla fine sono le stesse persone con
disabilità a dover giudicare se, come, fino a che punto si avvertano tali, o
viceversa se avvertano riuscita in tutta o in parte l’opera di abilitazione o
riabilitazione, se, come, fino a che punto si sentano “normali”. É importante
40
qui sottolineare l’interazione tra il sentire individuale e la dimensione del
valore sociale: come è stato ampiamente notato dagli studi sulla disabilità
confluiti nel passaggio dal modello medico a quello bio-psico-sociale, la
51
percezione di sé che il disabile ha passa attraverso la percezione dell’altro .
É dallo sguardo dell’altro, dal riconoscimento che avrà delle sue “capacità” e
delle sue “attività” che deriverà il suo giudizio di valore su se stesso. Ancora,
la stessa definizione di disabilità vira da un ancorarsi alla menomazione
52
fisica-psichica dell’individuo all’interazione tra menomazione e ambiente .
La disabilità, o “invalidità”, per usare il termine usato da
Canguilhem, “meriterebbe”, secondo il medico-filosofo, “uno studio da parte
di un perito medico che non vedesse nell’organismo soltanto una macchina il
cui rendimento deve essere determinato numericamente, di un perito
abbastanza psicologo da considerare le lesioni come perdite piuttosto che
53
come percentuali” . Si può aggiungere qui anche l’importanza dello sguardo
di un perito attento alla dimensione ambientale/sociale in cui la persona vive
e, se possibile, opera. Normalità o disabilità ricalcano quindi le piste della
dicotomia fisiologico/patologico, salute/malattia, chiamandoci alla sfida di
ripensare a partire dal soggetto, dalla complessità del suo vissuto, la linea di
demarcazione.
Ciò significare individualizzare e in certo senso relativizzare la
differenza della disabilità rispetto alla norma? Sì, ma ponendo attenzione a
non misconoscerne il carico di “dolore”, di negatività che essa porta con sé.
In altre parole, la disabilità, così come la malattia, rientra in quel patologico
che distanziandosi “dall’anomalia”, non è solo “differente”. Scrive
Canguilhem: “L’anomalo non è il patologico. Patologico implica pathos,
sentimento diretto e concreto di sofferenza e di impotenza, sentimento di vita
54
impedita. Ma il patologico è l’anormale” ; mentre l’anomalo non comporta di
per sé un ritorno in negativo sulla vita del soggetto, l’anormale sì: “quando
l’anomalia viene interpretata nei suoi effetti, in relazione all’attività
dell’individuo, e dunque alla rappresentazione che egli si fa del proprio valore
e del proprio destino, essa è invalidità. [...] Per l’invalido, in fondo, vi può
essere un’attività possibile e un ruolo sociale onorevole. Ma la limitazione
forzata di un essere umano a una condizione unica e invariabile è giudicata
negativamente, in riferimento all’ideale umano normale che è l’adattamento
55
possibile e voluto a tutte le condizioni immaginabili” .
Vi è qui una distinzione che fa riflettere e dalla quale alcune cose
sono senz’altro da riprendere, altre da ripensare. Per un verso è da
riprendere la constatazione realistica della limitazione che la disabilità porta
con sé. Sarebbe pleonastico notarlo se non vi fosse attualmente la tendenza
da parte di alcune associazioni di disabili a rivendicare come positiva la
differenza della propria disabilità: ne troviamo esempio, tra l’altro, nelle
41
comunità delle persone con autismo. Tali rivendicazioni hanno come
conseguenze il rifiuto del percorso di riabilitazione e la difficoltà della presa in
56
carico da parte della società .
Per altro verso però, le parole di Canguilhem sembrano segnare
una differenza troppo netta tra un orizzonte chiuso nella rappresentazione di
sé, delle proprie possibilità di vita e di azione, per l’invalido/disabile, ed un
orizzonte aperto, quello dell’uomo normale a cui si aprirebbero, almeno
idealmente, tutte le possibilità. Vi è qui una contrapposizione tra la dura
realtà del disabile e la visione di un uomo normale “ideale”. Ma se riportiamo
disabili e normali nel contesto della realtà, vediamo che questa dicotomia nel
rappresentarsi il proprio futuro non è così netta: per l’uno e per l’altro le
possibilità di progettarsi sono limitate da una serie di condizionamenti iscritti
nella situazione in cui vivono. La differenza che i disabili e coloro che li
amano avvertono con dolore è semmai nel “di più” della limitazione, nella sua
maggiore evidenza. Penso alle storie di tante persone con disabilità che,
costrette a rinunciare ai loro sogni, hanno avuto la forza di realizzarne altri,
compatibili con le loro disabilità e con le loro capacità. Non è così forse
anche per i sogni, i progetti di ogni essere umano? Un fare i conti con il limite
che per ognuno di noi è più o meno evidente, più o meno stringente?
Ciò non annulla la differenza tra normalità e disabilità: annullarla
sarebbe ipocrita, e alla fine, non farebbe che rafforzare il bisogno di
normalità, come scrive Pontiggia, “come un virus, reso invulnerabile dalle
57
cure per sopprimerlo” . Occorre piuttosto ripensare la normalità, ripensando
i criteri che la rendono “valore”, “normativa”: criteri che, secondo Canguilhem,
possono essere ricavati in rapporto alla vita, alla sua stabilità, alla fecondità,
58
alla variabilità di condizioni . É nell’individuo, nella sua esperienza, che quei
criteri valgono, che la differenza tra normale e patologico rileva: sarà lui a
dover giudicare “se”, “come”, “in che misura”, in rapporto a questi aspetti
della vita, la sua condizione avrà scavalcato la frontiera della normalità,
59
perché sarà lui a patirne .
Se il normale non ha più, nella lettura di Canguilhem, “la rigidità di
un dato di necessità collettivo, ma la flessibilità di una norma che si trasforma
60
ponendosi in relazione a condizioni individuali” , la disabilità non è più una
condanna senza revoca. I confini tra normale e disabile sono tratteggiati a
matita o a penna, come prima? Imprecisa in senso assoluto, la frontiera è
tuttavia precisa se guardiamo nella vita dell’individuo: è lì nel suo giudizio,
sulla base delle sue condizioni, che la differenza è patita o superata.
42
Momenti di un’etica della cura per la disabilità
Tornando all’etica della cura, la domanda che possiamo porci è: in
che senso individualizzare e relativizzare la differenza della disabilità può
aiutarci a “riparare” il dolore che tale differenza comporta? Prendiamo in
esame i quattro elementi dell’etica della cura delineati da Joan Tronto,
l’attenzione, la responsabilità, la competenza e la reattività, e vediamo come
si configurino quando la relazione di cura è attraversata da quel dolore.
Il primo elemento è l’attenzione a “quel” dolore di “quella persona”, a
ciò che significa nella sua vita. Alla sua radice c’è un problema di
riconoscimento del simile come tale o di disconoscimento. É il grande tema
del simile, che mi appare a volte come “quasi uguale” - e in quest’apparire ci
riconosciamo a vicenda e riconoscendoci ci riassicuriamo -, a volte come
“diverso”, una diversità che inquieta perché rende difficile o quasi impossibile
il riconoscimento. L’inquietudine si traduce in dolore, per chi avverte quella
diversità come un marchio sulla propria pelle, ma anche per chi,
prendendosene cura con amore, vede quella diversità come un ostacolo alle
relazioni con gli altri, all’accettazione sociale.
É l’esperienza di tanti disabili, ma anche di tanti genitori di disabili:
una differenza che non si riesce a dire, ad accettare, e che si vuole il più
possibile ridurre, tradurre in altre. La stessa parola fa problema, è posta tra
virgolette, così come la sua antitesi: quel “normale” che si ambisce e si teme,
come nemico/superiore/irraggiungibile. La parola è barriera perché dice una
differenza che fa male, non solo per il carico di dipendenza che porta con sé,
ma per lo sguardo dell’altro che suscita: troppo invasivo sulla menomazione,
e al tempo stesso sfuggente, incapace di posarsi su “chi” ne porta il segno, di
“guardarlo”. La parola “disabile” finisce quindi per “definire” la persona,
61
traducendosi in uno stigma che ne occulta l’identità .
La normalità è la speranza, la meta da raggiungere, a qualunque
costo: l’atto del curare rischia di essere fagocitato dall’intento di una
riabilitazione/ normalizzazione. Ma normalità per chi? Se la normalità deve
essere giudicata tale rispetto all’individuo, al suo benessere, ai suoi bisogni,
ai suoi desideri, ma anche alle sue capacità, la cura trova nell’attenzione la
sua misura, impedendole di cadere nell’accanimento riabilitativo come
62
nell’abbandono riabilitativo . Sono le parole di Eva Kittay che descrive il
difficile percorso di abilitazione della figlia disabile con la sua caregiver a
63
indicarci la via: “non a modo mio, a modo tuo, lentamente” . É lei, la
ragazza capace solo di amare e di gioire della musica e dell’amore che
riceve, ad essere la guida, ad indicare con i suoi movimenti impacciati, con i
suoi sorrisi e i suoi baci, cosa può fare e cosa non può, cosa la fa sentire
bene o meglio, cosa la fa stare male, troppo male, peggio.
43
Non è facile comprenderlo in una relazione di cura che tende a
rendere la persona “meno disabile”, “più vicina ai normali”, ma certo bisogna
provarci, e partire con il piede giusto, prendendo le mosse da quell’attenzione
che, come scrive Simone Weil, consiste nel sospendere il proprio pensiero,
nel lasciarlo disponibile, vuoto e permeabile all’oggetto [...] pronto a ricevere
64
nella sua nuda verità l’oggetto che sta per penetrarvi” . Una sospensione
che nel contesto del caring si traduce in uno svuotamento delle proprie
precomprensioni di ciò che è bene per colui di cui ci si prende cura, per
essere penetrati da ciò che desidera, da ciò di cui ha veramente bisogno,
dalle sue capacità, ma anche dal limite oltre il quale non gli è possibile
andare.
Ancora un’attenzione che deve qui essere ancor più radicale,
diremmo “più attenta”, più capace di svuotarsi, perché fa i conti con la sfida di
una differenza che, per natura o per un gioco del destino, rende più
difficoltoso sia l’ad-tendere sia quel movimento dell’essere penetrato
dall’oggetto che è il comprendere. L’attenzione all’altro, di per sé difficile per
l’allontanamento dal sé che richiede, è messa alla prova dalla differenza
marcata dell’altro rispetto alla norma. Ciò vale per le persone con disabilità,
in varia misura, dal momento che complesso e vario è il mondo delle
disabilità. Varrà in modo più accentuato per le persone con disabilità
mentale, là dove l’attenzione incontra lo scoglio della difficoltà di
comprendere ciò che l’altro comprende, sente e vuole. Ma tali difficoltà di
attenzione e di empatia segnano anche, con modalità e gradi diversi, le
relazioni con persone con disabilità fisiche, in particolare quando ad essere
differente è la percezione della realtà. In linea generale, ciò che rileva è la
necessità che l’attenzione rafforzi il movimento della “tensione a”,
traducendosi in una tensione ad ascoltare e decifrare un linguaggio
differente, di venire incontro a bisogni, desideri, capacità diversi per
condizione, e che spesso tentano ad esprimersi.
Il secondo momento è la responsabilità, che corrisponde alla presa
in carico, alla decisione del “prendersi cura”. Una responsabilità che può
comprendere in sé fattori diversi, come nota Tronto, tra il sentirsi
responsabile nell’aver contribuito a generare quel bisogno di cura - pensiamo
ai genitori, che si sentono responsabili per il fatto stesso di aver messo al
mondo il figlio disabile -, e il sentirsi responsabili perché riconosciamo un
65
bisogno di cura che non può essere soddisfatto se non da noi .
Responsabilità come “rispondere di” (di qualcosa che si è fatto), ma anche
come “rispondere a”, (a qualcuno che ha bisogno di noi). Una responsabilità
che, se la differenza si declina come dipendenza grave o totale, rischia di
essere percepita come infinita, onnivora, di risucchiare le energie di colui che
si prende cura. É l’esperienza di tanti genitori di persone con disabilità che
44
sentono, consciamente e inconsciamente, il peso dei due sensi della
responsabilità e che, interpellati non solo dai bisogni dei figli, ma anche dal
dolore di vederli, sentirli “diversi”, vivono spesso nell’isolamento la loro
esperienza di cura.
Da qui, da queste esperienze di solitudine e di alienazione, traggono
origine le domande poste da Eva Kittay: chi si prende cura di chi presta le
66
cure? quali sono i doveri della società verso il dependency worker ? chi
valorizza il suo lavoro? chi divide con colei/ colui (molto più di frequente una
donna) che lo svolge il peso della cura, dando respiro alla sua vita? Non
sono domande teoriche, ma interrogativi pratici, che portano l’etica della cura
ad assumere una valenza pubblica, sconfinando nella dimensione sociale e
politica. I confini della morale di cui Joan Tronto parla devono essere
67
continuamente attraversati, nell’uno e nell’altro senso , da una volontà etica
di denuncia di tutto ciò che ancora manca sul versante delle politiche sociali
per le persone con disabilità e per coloro che se ne prendono cura. E in tale
attraversamento la giustizia è chiamata in causa non come un principio altro
rispetto all’etica della cura, ma come alleata indispensabile perché le
68
relazioni di cura possano realizzarsi nel pieno rispetto delle persone .
La realizzazione di una “buona” cura, che agisca nel rispetto della
persona chiama in causa anche il terzo elemento di cui parla Joan Tronto, la
69
competenza, di cui è sottolineata l’importanza, come “idea morale” . Tale
sottolineatura ha il senso di ridare valore a un lavoro spesso misconosciuto,
affidato proprio per questo a persone che non hanno un adeguato sapere: ciò
è tanto più vero per la cura delle persone con disabilità, là dove la mancanza
di competenza può procurare danni duraturi, a volte irreversibili nel percorso
di abilitazione o riabilitazione.
La competenza è quindi considerata come un requisito essenziale
dell’etica professionale, ma anche come un punto forte della responsabilità
sociale. Non solo le persone che si prendono cura devono essere
competenti, ma anche chi ha la responsabilità di predisporre, organizzare la
cura, deve accertarsi della presenza delle competenze necessarie. Tale
obbligo morale è, sia per l’individuo che per la società, per un verso evidente,
tanto che sarebbe superfluo ribadirlo, per l’altro spesso poco rispettato nella
realtà quotidiana.
Un esempio tra tutti può essere quello della formazione degli
insegnanti di sostegno a cui è affidato il compito di sostenere non solo
l’alunno con disabilità, ma il docente e la classe in cui l’alunno deve essere
inserito per realizzare il suo diritto allo studio. Quali competenze hanno gli
insegnanti di sostegno delle nostre scuole? Sappiamo da recenti indagini
che, pur essendo l’Italia dotata di un’ottima normativa, la realizzazione del
70
diritto allo studio e all’integrazione degli alunni disabili non è delle migliori .
45
Vi è o no una responsabilità sociale nel mettere in atto tutte le misure
necessarie per assicurare al meglio l’acquisizione delle competenze degli
insegnanti di sostegno ed anche degli insegnanti curriculari? E tale
responsabilità non è tanto rilevante dal punto di vista etico da dover superare
gli ostacoli delle difficoltà economiche e organizzative? Le due domande
suonano retoriche, e tuttavia non possono non essere poste con forza oggi,
nel momento in cui la crisi economica ci espone al rischio di sempre nuovi
tagli anche in settori fondamentali quali l’istruzione e il welfare.
Quanto dobbiamo investire in termini di risorse economiche,
organizzative per dare alle persone con disabilità delle cure adeguate,
competenti, tali da fare emergere le loro capacità, da garantire i loro diritti allo
studio, al lavoro, all’integrazione? La domanda si ritaglia all’interno della
grande questione sollevata da Eva Kittay e Martha Nussbaum, a partire da
71
Rawls, ma andando oltre Rawls , delle ragioni per cui una società giusta
debba farsi carico delle persone con disabilità e di coloro che se ne prendono
cura.
Già in Rawls il “principio di riparazione” impone di compensare le
“diseguaglianze immeritate”, come quelle di nascita e di doti naturali,
secondo l’idea di “riparare i torti dovuti al caso, in direzione
72
dell’eguaglianza” . Sebbene questa logica “riparatoria” possa apparire come
la via maestra per inserire i diritti delle persone con disabilità tra le questioni
fondative di una società giusta, Rawls espressamente esclude che nella fase
costitutiva si tenga conto dei bisogni/diritti speciali: gli svantaggi di cui si deve
tener conto sono solo quelli misurabili in termini di beni sociali primari, e
73
comunque sempre entro la norma .
La sua idea di una società come “equo sistema di cooperazione” è
basata, come si legge in Liberalismo politico, sull’assunto che “le persone, in
quanto cittadini, abbiano tutte le capacità che permettono loro di essere
74
membri cooperativi della società stessa” . Che ne è quindi delle persone che
non hanno tali capacità? La questione è “messa da parte”, rinviata, dalla
75
fase fondativa a quella legislativa. Il differimento però “non è innocente” .
Cosa significa, infatti, se non ripetere sul piano della teoria quel gesto del
“mettere da parte” le persone con disabilità, del “tenerle a distanza”,
rifiutandosi di pensare la disabilità come un aspetto della condizione
76
umana ?
All’inverso, l’approccio delle capacità di Martha Nussbaum riporta la
disabilità “dentro” la visione dell’essere umano, ridimensionando l’aspetto
della razionalità e dell’autonomia, a vantaggio della “vulnerabilità”: tutti gli
77
esseri umani, in alcune fasi della vita attraversano la disabilità . Vi è nella
Nussbaum, la stessa istanza che ritroviamo al fondo dell’etica della cura: una
rivisitazione critica del mito originario a cui il contrattualismo si ispira, quel
46
78
patto tra uomini “liberi, uguali, indipendenti” , sancito per trarne reciproco
vantaggio. Ripensare l’essere umano secondo una concezione aristotelicomarxiana, come avviene nei testi della Nussbaum, significa ridare dignità alla
vulnerabilità in cui normalità e disabilità trovano una casa comune. Significa,
ancora, ripensare i rapporti tra esseri umani alla luce delle differenze, dei
pesi diversi di vulnerabilità che segnano la vita di ognuno, dei legami di
interdipendenza, generati dalle differenze dei bisogni e del potere di cura. Ed
ancora, ripensare il patto stesso come finalizzato non tanto al reciproco
vantaggio, quanto alla “condivisione dei fini e della vita”, all’intento di “vivere
79
con e per gli altri, sia con benevolenza sia con giustizia” .
Se si accettano tali premesse, le questioni dei diritti delle persone
con disabilità non possono che essere poste all’inizio di una teoria della
giustizia, a livello della sua fondazione, ponendo sotto il velo di ignoranza
pensato da Rawls anche ciò che Rawls non pone: il peso di vulnerabilità e il
potere di cura che segnerà la vita di coloro che contraendo il patto pongono i
80
principi della società giusta . Incrociando la teoria della giustizia, l’etica della
cura pretende quindi non solo di dilatarne le frontiere, ma più in radice di
ripensarne il momento fondativo, a partire dalla doppia questione: “da chi” e
81
“per chi” sono posti i principi di una società giusta . Se la disabilità
appartiene alla condizione umana, chi ne è segnato è tra i protagonisti
dell’uno e dell’altro momento di fondazione, tra chi stabilisce i principi, così
come tra i destinatari.
Tutto ciò implica, in concreto, che l’etica della cura, ripensando i
bisogni di cura in termini di diritti, scavalchi i confini e si “faccia” politica, per
cercare di realizzare nel mondo della polis le migliori condizioni possibili
perché i diritti delle persone con disabilità non siano solo riconosciuti da
buone leggi, come avviene nel nostro paese ma realizzati attraverso scelte
politiche adeguate.
Ma Perché ciò avvenga, forse ciò di cui c’è maggiore bisogno è la
ripresa di quell’ultimo elemento dell’etica della cura che Joan Tronto definisce
reattività, ovvero la capacità di accogliere la reazione dell’altro alla cura
82
83
ricevuta . Qui l’attenzione ritorna , quasi in un circuito virtuoso, non come
attenzione al bisogno o al dolore della differenza di cui abbiamo parlato, ma
come attenzione alla reazione - di soddisfazione o insoddisfazione - alla cura
che è stata data a quel bisogno, a quel dolore. Una reattività che deve
tradursi in “parola”, che denuncia, reclama e, al tempo stesso, propone e
progetta.
Solo le voci delle persone con disabilità e dei loro familiari, rese più
forti dall’associazionismo, entrando nei nostri dibattiti e, ancor più, nelle aule
in cui si attuano le scelte politiche ed economiche, possono dirci “se” e in che
47
misura “cura” e “giustizia” siano riuscite a entrare, insieme, nelle nostre
società.
1
Per l’etica della cura che prende avvio dal noto testo di Carol Gilligan, In a Different
Voice. Psychological Theory and Women’s Development ( 1982) (tr. it. A. Bottini: Con
voce di donna. Etica e formazione della personalità, Feltrinelli, Milano 1987), cfr. inter
alia: N. NODDINGS, Caring. A Feminist Approach to Ethics and Moral Education,
University of California Press, Berkeley Los Angeles 1984; V. HELD, Feminist Morality:
Trasforming Culture, Society and Politics (1993), tr.it. L. Cornalba: Etica femmnista.
Trasformazione della coscienza e famiglia post-patriarcale, Feltrinelli, Milano 1997; S.
RUDDICK, Maternal Thinking(1989), tr.it. E. Manzoni: Il pensiero materno, red edizioni,
Como 1993; J. TRONTO, Moral Boundaries. A Political Argument for an Ethic of Care
(1993), tr.it. a cura di A. Facchi: I confini morali. Un argomento politico per l’etca della
cura, Diabasis, Reggio Emilia 2006; e con particolare riferimento alle cure
infermieristiche: H. KUHSE, Caring. Nurses, Women and Ethics (1997), tr. it. R. Trovato:
Prendersi cura. L’etica e la professione infermieristica, Edizioni di Comunità, Torino
2000. Per la ripresa in Italia dell’etica della cura cfr.: L. BATTAGLIA, Bioetica senza
dogmi, Rubbettino Soveria Mannelli 2009; E. PULCINI, Il potere di unire, Bollati
Boringhieri, Torino 2003 e ID., La cura del mondo, Bollati Boringhieri, Torino 2009. Mi
sia consentito rinviare anche a: M.GENSABELLA FURNARI, Vulnerabilità e cura. Bioetica
ed esperienza del imite, Rubbettino, Soveria Mannelli 2008. Ormai ampia la letteratura
sull’etica della cura; per la letteratura italiana, con particolare riferimento alla bioetica
cfr.: L. BATTAGLIA, La ‘voce femminil É in bioetica. Pensiero della differenza ed etica
della cura, in S. RODOTA’ (a cura di), Questioni di bioetica, Laterza, Roma-Bari 1993; C.
BOTTI, Bioetica ed etica delle donne. Relazioni, affetti e potere, Zadig, Milano 2000 e
ID. Prospettive femministe. Morale, bioetica e vita quotidina, Espress Edizioni, Torino
2012; G. MARSICO, Bioetica: voci di donne, EDB, Bologna 2002; R. MORDACCI, Una
introduzione alle teorie morali, Feltrnelli, Milano 2003; L. PALAZZANI ( a cura di), La
bioetica e la differenza di genere, Studium, Roma 2007.
2
Sull’interazione tra etica della cura ed etica dei principi cfr.: V. HELD, Etica femminista,
cit., p. 88.
3
É Joan Tronto a portare avanti la tesi che un’etica della cura simile a quella delineata
nel pensiero delle donne, a partire dal testo di Carol Gilligan si ritrovi in altre categorie
di soggetti oppressi (Beyond Gender Difference to a Theory of Care, in “Signs”, vol. 12,
n.4, Summer 1987, p. 651).
4
Cfr. H. ARENDT, The Human Condition ( 1958), tr. it. S. Finzi: Vita activa. La
condizione umana, Bompiani, Milano 1988.
5
Il “riparare” è tra le azioni indicate da Joan Tronto come proprie della cura, secondo la
definizione elaborata insieme a Berenice Fisher: “Al livello più generale, suggeriamo
che la cura venga considerata una specie di attività che include tutto ciò che facciamo
per mantenere, continuare e riparare il nostro ‘mondo’ in modo da poterci vivere nel
modo migliore possibile. Quel mondo include i nostri corpi, noi stessi e il nostro
48
ambiente, tutto ciò che cerchiamo di intrecciare in una rete complessa a sostegno della
vita” (Confini morali, cit., p.118; B.M. FISHER, J. TRONTO, Toward a Feminist Teory of
Care in E.K. ABEL, M.K. NELSON (eds.), Circles of Care: Work and Identity in Women’s
Lives, State University of New York Press, Albany 1990, p. 40 ).
6
Cfr. A. JAGGAR, Feminist Ethics: Projects, Problems and Prospects, in C. CARD
(ed.), Feminist Ethics, University Press of Kansas, Lawrence, 1991, pp. 78-104; R.
TONG, Feminist Approachs to Bioethics, Westwieu Press, Boulder, Co., 1997; C. BOTTI,
Bioetica ed etica delle donne, cit; ID., Prospettive femministe, cit.; G. MARSICO,
Bioetica: voci di donne, cit.
7
Cfr. E. F. KITTAY, Lov És Labor – Essays on Women, Equality and Dependency
(1999), tr.it. S. Belluzzi: La cura dell’amore. Donne, uguaglianza, dipendenza, Vita e
Pensiero, Milano 2010.
8
Cfr. J. TRONTO, I confini morali, cit,. p.136.
9
Ibidem.
10
Cfr. Ibidem.
11
Evidenziando come il lavoro di cura sia per lo più - tranne casi di
professionalizzazione, in cui perde il carattere di mero lavoro di cura - misconosciuto
nel suo valore, Eva Kittay si pone il problema se chi vi si dedica non sia per ciò stesso
escluso dalla classe di eguali e cosa occoorra fare per ciò non avvenga ( La cura
dell’amore, cit., p. 33)
12
Cfr. J. TRONTO, I confini morali, cit., p.137.
13
Cfr. HYGINUs, Fabularum Liber, CCXX, tr. it. IGINO, Miti, a cura di G. Guidorizzi,
Adelphi, Milano 2005. Sul mito di Cura il riferimento filosofico classico è
l’interpretazione heideggeriana (Sein und Zeit (1927), tr.it. a cura di P. Chiodi: Essere e
tempo, UTET, Torino 1969, par. 42). Per la prospettiva bioetica vedi l’interpretazione di
W.T. Reich (voce Care in ID. ( ed.), Encyclopedia of Bioethics , The Free Press, NEW
York, 1978, vol. 1, e Alle origini dell’etica medica: mito del contratto o mito di cura?, in
P. CATTORINI, R. MORDACCI ( a cura di), Modelli di Medicina, Europa Scienze Umane
Editrice, Milano 1993.
14
Sul dolore dei genitori per gli sguardi che si posano sulla disabilità del figlio cfr. E. F.
KITTAY, La cura dell’amore, cit., ma anche PONTIGGIA, Nati due volte, Mondadori,
Milano 2000.
15
Cfr. G. PONTIGGIA, Nati due volte, cit., p.41.
16
Cfr. A. ALESSANDRI ( a cura di), Filottete. Variazioni di un mito, Marsilio, Venezia
2009; vedi su questo il saggio di S. AMATO, Se la ferita non guarisce, in M. GENSABELLA
FURNARI ( a cura di), Il Bene salute. Prospettive bioetiche, Rubbettino, Soveria Mannelli
2011, pp. 71-88.
17
G. CANGUILHEM, Le normal et le pathologique (1966), tr.it. di D. Buzzolan: Il normale e
il patologico, Einaudi, Torino 1998, in partic. p.95 e sg..
18
Ivi, p.91.
19
Cfr. A. ASSCH, Disability. Attitudes and Social Perspectives, in W.T. REICH ( ed.),
Encyclopedia of Bioethics, Simon & Schuster-MacMillan,New York 1995, pp. 602-608.,
20
Secondo la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità del
2006 la disabilità è “il risultato dell’interazione tra persone con menomazioni e barriere
comportamentali ed ambientali che impediscono la loro piena ed effettiva
partecipazione alla società su base di uguaglianza con gli altri” (Preambolo).
21
Cfr. G. CANGUILHEM, Il normale e il patologico, cit., p.92.
49
22
Cfr. Ivi, p.106.
Ivi, p.109.
La tesi che l’ autismo debba essere considerato non come disabilità, ma come
neurodiversità, una condizione d’essere che non deve essere curata, è sostenuta in
D.R. BARNBAUM, The Ethics of Autism. Among Them but not of Them, Indiana
University Press, Bloomington & Indianapolis 2008 e nel numero monografico della
rivista “Ethos, Journal of the Society for Psychological Anthropology” del marzo 2010.
Per una critica di tali posizioni cfr. N.PANNOCCHIA, L’autsmo: patologia, disabilità o
neurodiversità? Aspetti bioetici conseguenze socio-sanitarie, in “Autismo e disturbi
dello sviluppo”, vol.9, 2 maggio 2011, pp.269-275. Sull’autismo cfr. COMITATO
NAZIONALE PER LA BIOETICA, Disabilità mentale nell’età evolutiva: il caso dell’autismo, 1
agosto 2013, http://www.governo.it/bioetica/pareri.html.
25
Cfr. G. PONTIGGIA, Nati due volte, cit., p. 41.
26
Cfr. G. CANGUILHEM, Il normale e il patologico, cit., p.114.
27
Cfr. Ivi, p.147.
28
Ibidem.
29
Cfr. E. GOFFMAN, Stigma: Notes on the Management of Spoiled Identity (1963), tr. it.
Di R. Giammanco: Stigma. L’identità negata, Giuffrè, Milano 1983.
30
Cfr. COMITATO NAZIONALE PER LA BIOETICA, Bioetica e riabilitazione, 17 marzo 2006,
www.governo.it/bioetica/index.html.
31
Cfr. E. F. KITTAY, La cura dell’amore, cit., p. 283.
32
S. WEIL, Attente de Dieu (1969), tr.it. O. Nemi, a cura di J.M. Perrin: Attesa di Dio.
Obbedire al tempo, Rusconi, Milano 1996, p.75 e sg.
33
J. TRONTO, Confini morali, cit., p.151. Sulla responsabilità nella relazione di cura cfr.
anche E. KITTAY, La cura dell’amore, cit., pp.105-106.
34
Cfr. E. KITTAY, La cura dell’amore, cit., p.116 e sg.; cfr anche W.T. REICH, The Case:
Denny’s Story and Commentary: Caring as Extraordinary Means, in “Second Opinion”
17, no.1, July 1991.
35
Cfr. J. TRONTO, I confini morali, cit., passim.
36
Sul complesso rapporto tra cura e giustizia, vero nodo teorico dell’etica della cura, cfr.
tra l’altro: V. HELD (ed.), Justice and Care. Essential Readings in Feminist Ethics,
Westview Press USA, Boulder, Colorado - United Kingdom, Oxford 1995.
37
Cfr. J. TRONTO, I confini morali, p.152.
38
Cfr. Gli alunni con disabilità nella scuola italiana: bilancio e proposte dell’associazione
TreeLLLe , Rapporto della Caritas italiana e della Fondazione Agnelli, Torino, Erikson,
2011.
39
Cfr. E. KITTAY, La cura dell’amore, cit., parte seconda, pp.135-206; M. C.
NUSSBAUM, Frontiers of Justice. Disability, Nationality, Species Membership (2006),
tr.it. di G. Costa, R. Abicca, S. Zullo, ed. it. a cura di C. Faralli: Le nuove frontiere della
giustizia, il Mulino, Bologna 2007, pp. 113-172.
40
J. RAWLS, A Theory of Justice (1971), tr.it. a cura di S. Maffettone: Una teoria della
giustizia, Feltrinelli, Milano 1991, p. 97.
41
Cfr. M.ZANICHELLI, Persone prima che disabili. Una riflessione sull’handicap tra
giustizia ed etica, Queriniana, Brescia 2012, p.30
42
J. RAWLS, Political Liberalism (1993), tr. it. a cura di S. Veca: Liberalismo politico,
Edizioni di Comunità, Torino 1999, p.23.
43
M. C. NUSSBAUM, Le nuove frontiere della giustizia, cit., p.146.
23
24
50
44
Cfr. A. PESSINA ( a cura di), Paradoxa. Etica della condizione umana, Vita e Pensiero,
Milano 2011.
45
Cfr. M. C. NUSSBAUM, Le nuove frontiere della giustizia, cit., in partic. p 116.
46
Cfr. Ivi, pp.104-105.
47
Cfr. Ivi, p.176.
48
“Lasciamo che le parti nella posizione originaria non sappiano quale menomazione
fisica possano o non possano avere; poi e solo poi, i principi risultanti saranno equi
verso le persone con tali menomazioni”( ivi, p.132).
49
Cfr. Ivi, p. 38.
50
J. TRONTO, I confini morali, cit., p.153 e sg.
51
“La reattività adeguata richiede l’attenzione, il che mostra di nuovo il modo in cui
questi elementi morali della cura sono intrecciati” (ivi, p. 154).
51
1
Negli anni sessanta F. Cacciaguerra cercò già il confronto tra i saperi neuromotori e
quelli neuropsicologici facendo una distinzione tra la scorretta pronuncia dei suoni nella
lettura come disturbo della esecutività fonatoria -riferita all’azione motoria- e
l’articolazione fonologica come dimensione linguistica e semantica nel riconoscimento
dei segni-suoni. Gli sviluppi della moderna psichiatria ci suggeriscono oggi di cercare
un dove collocare la geometria delle linee tra fonetico e fonologico che sia diverso dai
precedenti modelli sperimentali che non sono riusciti a spiegare la molteplicità degli
ipotetici fattori eziologici e neanche i diversi livelli di compromissione della funzione
linguistica. Parlare genericamente di origine neurobiolgica della D. non è più
sufficiente se non la si fa risalire alla stimolazione luminosa della retina che alla
nascita crea la capacità di immaginare. Consentendo di trovare una saldatura ai tre e
aspetti, fonico, fonologico e immaginativo senza che restino discriminanti tra loro.
During the sixties, F. Cacciaguerra already attempted to compare neuromotor and
neuropsychological knowledge, making a distinction between the incorrect
pronunciation of sounds when reading - as a disorder of phonatory implementation
referred to a motor action - and phonological articulation as a linguistic and semantic
dimension in recognizing signs-sounds. The developments of modern psychiatry today
suggest to seek where to place the geometry of the lines between phonetic and
phonological, different from previous experimental models that have failed to explain
the multiplicity of hypothetical etiological factors and even the different levels of
impairment of linguistic function. Speaking generally of the neurobiolgical origin of D. is
no longer sufficient if it is not traced back to light stimulation of the retina that, at birth,
creates the ability to imagine. This allows to find a connection to the three and phonic,
phonological, and imaginative aspects, without discriminating among them.
Dans les années soixante F. Cacciaguerra a déjà essayé d’entamer une comparaison
entre les connaissances dans le domaine neuro-moteur et celles du domaine
neuropsychologique en instaurant une distinction entre la prononciation incorrecte des
NOTE
DAL SUONO CHE SEGUE LA PRIMA LINEA
ALLA LETTURA DELLA PAROLA
NUOVE RIFLESSIONI SULLE COMPONENTI PSICOBIOLOGICHE
DELLA DISLESSIA EVOLUTIVA
Giovanna Bruco
52
sons dans la lecture en tant que trouble de l’exécutivité phonatoire – référée à l’action
motrice – et l’articulation phonologique en tant que dimension linguistique et
sémantique dans la reconnaissance des signes-sons. Les développements de la
psychiatrie moderne nous suggèrent aujourd'hui de chercher un endroit où situer la
géométrie des lignes entre phonétique et phonologique qui soit différent des modèles
expérimentaux précédents, qui n’ont réussi à expliquer ni la multiplicité des facteurs
étiologiques hypothétiques ni encore moins les différents niveaux de compromission
de la fonction linguistique. Parler de manière générale à propos de l'origine
neurobiologique de la D. ne suffit plus si on la fait pars remonter à la stimulation
lumineuse de la rétine qui à la naissance crée la capacité d'imaginer. Ce qui permet de
trouver une soudure unissant tous ces trois aspects, c.-à-d. phonique, phonologique et
imaginatif, sans qu’ils restent discriminants entre eux.
Il carattere psichico delle nostre immagini acustiche
appare bene quando [...] senza muovere le labbra
nè la lingua possiamo parlare tra noi2
53
Cosa sappiamo della Dislessia Evolutiva (D.E.)
3
La dislessia è considerata una delle più classiche e studiate
difficoltà specifiche dell'apprendimento pur in assenza di carenze intellettive,
socioculturali ed affettive. Se fin dal 1896 il dott . Pringle Morgan intuì il
paradosso della profonda e persistente difficoltà di alcune brillanti persone di
fronte all’apprendimento della lettura, ancora oggi se ne analizzano i
complessi rapporti che regolano le difficoltà di sviluppo orale rispetto a quelle
del linguaggio scritto e la loro diversa evoluzione rispetto ai vari profili
neurolinguistici giungendo tuttavia alla conclusione che i criteri di
classificazione sono solo parzialmente soddisfacenti in quanto non rendono
4
conto dei fattori di tali disturbi e neanche della loro frequente trasformazione.
5
Già negli anni sessanta Cacciaguerra fece una distinzione tra la
scorretta pronuncia dei suoni nella lettura come disturbo della sequenza
fonatoria (ovvero dell’ordine fonetico riferito all’azione motoria di produzione
dei suoni, detta anche esecutività fonatoria), e l’articolazione fonologica
(dimensione linguistica e semantica nel riconoscimento dei segni-suoni).
Distinzione che persiste nello stesso approccio di molti contemporanei come
Piero Crispiani che è più attento all’azione fonatoria, mentre Giacomo Stella
sembra prediligere quella fonologica. Va dunque rilevato che il lavoro del
Cacciaguerra è ancor oggi attuale perchè i suoi paradigmi sulla natura della
D. già cercavano il confronto non solo con i saperi neuromotori ma anche con
quelli neuropsicologici.
E tuttavia vien voglia di chiedersi: rispetto a sessanta anni fa
neuropsicologico oggi cosa vuol dire?
E quì troveremo necessario spostarci sul terreno delle nuove
6
ipotesi che legano gli studi linguistici alla realtà psichica per cercare un dove
collocare la geometria delle linee tra fonetico e fonologico che sia diverso dai
7
precedenti modelli sperimentali dopo esserci chiesti: fino a che punto è
ancora valida questa separazione dei due processi che non è riuscita a
spiegare nè la molteplicità e diversa interazione degli ipotetici fattori eziologici
8
e neanche i diversi livelli di compromissione della funzione linguistica ?
Se pur nell’ampia letteratura gli esperti sono in grado di segnalare
9
diverse tipologie di dislessia- dal punto di vista scientifico è un disturbo di
cui sembrano accertate sia le basi biologiche sia le metodiche cliniche per
diagnosticarle in modo preciso- per stimolare le abilità necessarie
all’apprendimento della lettura, sarebbe forse necessario non solo averne
rilevato le caratteristiche (che in buona sostanza si legano all’associazione
suono segno), ma anche cercare di risalire a una base eziologica condivisa
laddove sembra che su questo fronte non si facciano molti passi avanti e ci si
10
affidi sempre più a supporti esterni .
In altre parole, finchè l’approccio psicodinamico scambia gli effetti
con le cause, gli scarsi contributi della neuropsicologia dell’età evolutiva non
sono in grado di indicare segni premonitori che consentano di differenziare il
comportamento del dislessico da quello di bambini che hanno un rifiuto della
scolarizzazione, e sembra ancora impossibile lavorare sulla prevenzione.
Vediamo allora di fare un passo indietro cercando di riassumere,
per quanto ci è quì possibile, a che punto è la conoscenza di questo disturbo
11
le cui innumerevoli ipotesi
costringono da una parte a chiedersi ancora
quali sarebbero in sostanza i moduli innati predisposti per l’apprendimento e
12
in secondo luogo quando questi moduli comincerebbero a funzionare .
Sappiamo che lettura e scrittura dovrebbero diventare automatiche
dalla terza elementare quando il bambino, usando la strategia fonologica
(che come abbiamo detto gli consente di riconoscere le singole lettere
trasformandole in suoni e fonderle fino a formare la parola) e la strategia
lessicale (che gli permette di riconoscere la parola tra quelle sapute per dirla)
riesce, aiutato dal contenuto del testo, a prevedere una parola prima di
leggerla. Da allora gli è possibile velocizzare la scrittura, personalizzare la
grafia e, nella lettura, sentire di accedere direttamente al significato.
54
Nei bambini dislessici si riscontra invece una difficoltà a mantenere
a lungo l'attenzione, ed è necessario saper distinguere se queste difficoltà
sono primarie, o se insorgono per l’affaticamento dovuto a un sovraccarico di
13
risorse attentive dovute ad altri deficit .
Nell’analisi di questo disturbo come primario generalmente si tende
a dare rilievo alla presenza di difficoltà nell’organizzazione spaziale e/o
14
temporale, alla lateralizzazione , quando invece statistiche dimostrano che
reali problemi di organizzazione spaziale e prassica sono presenti solo in una
minoranza, e che se c’è una compromissione della memoria è da riferirsi
solo alla ripetizione immediata di sequenze linguistiche e non al recupero di
15
informazioni a distanza di tempo .
Anche aver riscontrato che le difficoltà che i bambini con D.
possono avere in aritmetica riguardano la struttura del numero e non la sua
16
concettualizzazione , fa pensare che bisognerebbe tener più conto del fatto
che alla base del disturbo di lettura e scrittura c’è quasi sempre un problema
di tipo linguistico manifesto o latente.
17
Secondo M.Harris e M. Coltheart il bambino può comprendere
immediatamente il termine in questione solo qualora abbia già acquisito un
ampio vocabolario spontaneo che non lo costringa ad una semplice e sterile
memorizzazione.
Tra coloro che hanno approfondito le complesse
dinamiche della D. convinti che il problema fondamentale sia quello della
velocità della lettura e della sua automatizzazione, questi due autori hanno
18
evidenziato che il modello a doppia via conduce a due procedure mentali
che trasformano la rappresentazione ortografica in quella fonetica: quella
diretta, che si basa su un già avvenuto apprendimento da parte del bambino,
e quella indiretta o fonologica, che si basa sull’utilizzo di un sistema di regole
di corrispondenza ortografia-suono. Alla stessa procedura diretta faceva
riferimento negli anni ottanta anche R. Kempson quando scriveva della
19
intuizione del parlante come dato fondamentale per arrivare al significato in
quanto nei nostri reali processi di comunicazione come parlanti non
20
dipendiamo solo dalle nostre abilità linguistiche ma da quanto le promuove .
In buona sostanza riscontriamo che in linea generale le molte
discussioni sulla D. degli ultimi anni non sono approdate a una chiarezza
sulle sue origini. Anche se le ricerche più recenti tenderebbero a confermare
21
l'ipotesi di un'origine costituzionale su base genetica che darebbe la
predisposizione al disturbo, di questi deficit funzionali continuano a non
essere precisati i meccanismi esatti. Si ha la tendenza a vederli in chiave
22
percettivo-sensoriale senza tuttavia distinguere sensazione da percezione ,
e senza avanzare l’ipotesi di un disturbo relazionale pur ritenendo signficativa
l’influenza dei fattori ambientali (ambiente socio-culturale dei genitori e della
scuola) nell'amplificare o contenere il Disturbo.
55
G. Stella sostiene che la richiesta ossessiva di diagnosi della
scuola, che ha sempre negato la dislessia, tradisce una intenzione di
deresponsabilizzazione senza conoscenza della natura della “infermità”.
Nonostante le linee guida della legge 170 dell’ottobre 2010
prevedano di arrivare nella scuola personalizzando il rapporto, tale legge
viene vissuta dalla scuola ancora come una specie di punizione, di sconfitta,
nel dover riconoscere qualcosa di poco chiaro. Molti insegnanti pensano
che il disturbo su base neurobiologica influenzi ad es. il non imparare a
memoria le province di una regione senza sapere che quello è un
macroapprendimento e che il disturbo neurobiologico interessa invece i
microapprendimenti. Dunque la scuola chiede una diagnosi ma poi non
risolve il problema. Pur ritenendo che sia una definizione che tende a
classificare una serie di sintomi per ricondurli a un profilo riconosciuto o
confutarsi con uno che non è riconosciuto non sa distinguere i segni generici
da quelli patognomonici. Non ritiene di dover saper distinguere, come si fa in
medicina generale, una diagnosi d’organo da una d’apparato. Non sa che
laddove la prima ha una causa univoca, la diagnosi d’apparato deve risalire a
una diagnosi funzionale. Perché se dunque
portiamo un dislessico
dall’oculista per una diagnosi d’organo ci dirà che la sua acuità visiva è di 10
decimi, l’audiologo dirà che ci sente bene, il neurologo che l’esame
neurologico è indenne e il pediatra e l’insegnante che il bambino non ha
niente. Poiché l’acuità visiva è diversa dalla funzione visiva per capire la
natura della complessità non bastano gli esami strumentali. La diagnosi
funzionale è essenziale perchè è più di una sommatoria di organi ed è quindi
difficile trovare il punto patognomonico in cui si può stabilire che quella
prestazione diventa deficitaria, cioè espressione di un malfunzionamento
dell’apparato, che è quello che consente di stabilire la causa della
disfunzione dell’apparato. Che può essere multifattoriale essendoci l’ipotesi
fonologica, visiva, attentava, cerebellare, indifferenziazioni emisferiche e
altre; ma la funzione dei segni specifici deve essere inserita in una
dimensione più complessa sulla ricerca della causa.
La scuola non conosce la memoria a breve termine e
l’apprendimento. Quando parla di attenzione si riferisce a una attenzione
diversa da quella di cui parlano i neurobiolgi. Parla di attenzione focale
mentre loro parlano di attenzione automatica, insensibile alla volontà, come
ad esempio camminare per strada. Me se il bambino ha un disturbo di
attenzione automatica e deve lavorare sull’attenzione focale dopo un po’ non
ce la fa.
Il segno patognomonico va rilevato su un continuum: es il bambino
molto intelligente che però ha difficoltà di lettura è come se avesse un motore
della Ferrari e gli organi di trasmissione di una 500; quando sgassa le ruote
56
23
traballano . Ma dire che un bambino che non sa leggere ad alta voce è un
dislessico fa sì che la diagnosi tenda a chiudere tutto in uno schema troppo
descrittivo che non tiene conto del’evoluzione e del cambiamento nel tempo.
La legge è un punto di partenza ma non potrà mai esserci una norma che
24
contempla tutte le variabili .
25
Sulla base non cosciente delle componenti cognitive
Già a un Convegno del 2007 a Firenze, accanto ad altre ipotesi di
origine genetica e disorganizzazione neurobiologica, cercammo di introdurre
26
nel contesto pedagogico l’idea che la conoscenza della formazione del
27
pensiero-immagine teorizzata dalla moderna psichiatria potesse suggerire
nuove interpretazioni sulla eziologia del disturbo di D. rispetto ad altre ipotesi
28
ritenute discordanti .
In quella sede, prendendo spunto da una riflessione della collega
29
30
Catia Giaconi , parlammo della fantasia di sparizione
ponendo il quesito
se era lecito liquidare il disturbo di D. su basi cognitive senza affrontare la
31
sua relazione col pensiero non cosciente che caratterizza la realtà umana .
Poi, nel 2009, bicentenario della nascita di Darwin che aprì nuove riflessioni
sulle variazioni cognitive della nostra specie in vista di una possibile
32
integrazione tra discipline scientifice e umanistiche , al convegno di
Falconara cercammo di svolgere un intreccio dei legami tra neurologia,
33
genetica e cultura sulle basi del nuovo pensiero psichiatrico . Partendo
dall’osservazione che lo sviluppo delle tecniche di risonanza magnetica e di
visualizzazione metabolica avevano lasciato molti punti incogniti riguardo
34
all’anatomia cerebrale, e che non avrebbero mai potuto accedere alla
conoscenza della mente come pensiero derivato dal movimento invisibile
35
della realtà biologica , ci venne da dire che se gli attuali esperimenti
dimostrano sempre più che “I geni sono fatti per raccogliere i suggerimenti
36
dell’ambiente , ”i risultati che coinvolgono l’origine della nostra specie Homo
sapiens- e la stessa origine del linguaggio con il possibile ruolo della
cosiddetta memoria di lavoro, lo sviluppo delle asimmetrie cerebrali,
l’eventuale associazione con le psicosi o l’influenza dei fattori sociali- non
possono non tener conto del fatto che le stesse sette funzioni che vengono
37
date ai geni , tendenti a far sparire vecchi patterns per farne emergere di
38
nuovi , costringeranno a emanciparci verso le nuove teorizzazioni sulla
realtà mentale umana. Se pure il tema della D. sembra già essere stato al
centro dell'interesse dei filosofi e dei neuroscienziati – essendo i clinici
impegati a rispondere a domante più impellenti al momento della
scolarizzazione- noi sentiamo di dover rivendicare come concreta una nuova
proposta di ricerca su basi neurofisiologiche nella misura in cui, rispetto al
57
passato, sebbene si continui a ritenere che il disturbo psicologico sia
secondario rispetto a quello neurobiologico che sarebbe all'origine della D., è
però anche vero che oggi si sa che biologica (e non spirituale) è la stessa
39
origine della psiche come mente
e non come cervello, diversamente da
quanto sostenuto dalla psichiatria organicista rimasta da Giovanni Gentile
alla cattedra di neuropsichiatria fino al 1970.
Di conseguenza, se le molte diverse teorie sulla D. sono state
formulate per spiegarne i sintomi e le caratteristiche ma non le origini, e se
per lavorare sulla prevenzione è invece indispensabile risalire all’eziologia del
disturbo, pur con la dovuta attenzione al cromosoma 15, ritenuto da alcuni il
responsabile dell’origine genetica della D., si potrebbe tentare di esaminare
meglio questa che il prof. Stella chiama “caratteristica personale” non legata
a nessuna patologia specifica, tenendo conto delle recenti scoperte
psichiatriche convalidate da una prassi quasi quarantennale di ricerca. Un
punto da approfondire che ci è sembrato fondamentale è il seguente: se per
la teoria della nascita umana di Fagioli la sensazione precede di qualche
istante la percezione perchè per avere la percezione ci vuole il pensiero,
legare questa distinzione tra sensazione e percezione rispettivamente alla
ricreazione o rottura della linea nel primo pensiero immagine, potrebbe
essere indispensabile per risalire all’origine biologica dei disturbi della
formazione del linguaggio per due ragioni: a) perchè la “fantasia di
sparizione” neonatale, che diventa capacità di immaginare grazie alla
memoria tattile senza figura della vitalità-contatto recepita nell’omeostasi del
liquido amniotico dà luogo al primo pensiero come linea che viene a
caratterizzare il primo anno di vita del bambino senza essere legato alla
percezione visiva della memoria cosciente; b) e perchè, di conseguenza, se
la sensazione come memoria inconscia, la pura sensazione che esiste il
seno dopo separazione da esso tende a “ricreare” continuamente questa
linea interna dalla quale si sviluppa poi la parola, quella che nel cammino
verso la lingua appresa rischia di “romperla” separandola dalla sua origine
non può che essere la percezione cosciente. É solo nella distanza fisica
diventata rapporto invisibile come immagine interna che nasce la prima linea
silenziosa come ricerca di sensazione che condurrà il bambino all’esigenza
40
di legare poi il suono alla parola. E riteniamo sia opportuno sottolineare
41
ancora nella ricerca del senso prima ancora che del significato, come
accadde col primo vagito dopo il rifiuto del non senso dell’inanimato. Allora,
proprio perchè gli esperti sottolinenano che D. non significa disturbo del
linguaggio, nè definisce genericamente una difficoltà ad apprendere, sempre
riallacciandoci alle teorizzazioni di Fagioli che evidenziano che la
caratteristica dell’essere umano non è la ragione ma l’irrazionale del primo
anno di vita senza parola (dove il senso della parola udita verrà poi compreso
58
42
anche per un suo suono) noi vorremmo tornare ai recenti studi linguistici
43
che si legano alla realtà psichica per ricavarne alcune ipotesi da
sviluppare.
Quando Marcella Fagioli sostiene a proposito della scrittura quanto il
passaggio alla visione chiara dell’oggetto esterno sia importante per la
formazione del linguaggio, ci porta a riflettere sul fatto che nel passaggio
alla cosa scritta è come se la linea, delimitando gli spazi, tornasse alla
immagine prelinguistica in cui si formano le prime immagini interiori
comunicando un contenuto che ritorna ai primi mesi, e forse anche al
44
movimento invisibile dei primi istanti di vita . Questo iduce a pensare che se
la linea diventa espressione delle immagini acustiche prelinguistiche la parola
scritta ne diventa la definizione quando la biologia da cui è nato il pensiero fa
muovere la mano alla ricerca della figura. La teoria della nascita verrebbe
così a suggerirci ipotesi affascinanti sulle origini della D. che
concorderebbero con i nuovi indirizzi di ricerca, neurobiologica riferita non
45
solo al cervello , ma biologica in quanto legata alla formazione della mente
che può presentare disturbi funzionali come i deficit percettivi visivi. Se alla
formazione della mente fosse da far risalire l’integrazione delle informazioni
visive con quelle uditive e il loro accesso al magazzino lessicale, anche l'idea
di un rapporto tra sviluppo motorio e deficit di letto-scrittura potrebbe essere
46
definitivamente sradicata e trasferita sul non visibile del movimento della
mente che può “paralizzare” quello visibile come succede ad es. nei casi di
isteria. Questo perchè, se come abbiamo detto il pensiero nasce come linea
interna da una separazione, viceversa le linee contorte della scrittura come
lingua imposta e appresa potrebbero rappresentare, alla loro prima
comparsa, una sorta di impedimento a una evoluzione interna diversa,
avviatasi al momento della nascita in maniera forse più dirompente di quanto
normalmente avviene, tanto da indurre a “far sparire“ (come avviene ad
47
esempio con lo scotoma) qualcosa di sentito discordante pur essendo gli
organi fisici perfettamente funzionanti.
48
La deriva della lingua: la formazione del linguaggio tra mutazione
biologica e culturale
Ma facciamo un altro passo indietro ancora per dire che il nostro
49
interesse per la D. è sorto in seguito a un caso in cui ci siamo imbattuti,
che ci ha fatto riflettere sulle possibili cause concomitanti di questo deficit
quando non lo si possa considerare esclusivamente una disabilità con basi
neurobiologiche di natura prevalentemente ereditaria se ad esempio
rivelasse inaspettati recuperi o sorprese nel passaggio da una lingua ad
50
un’altra ; cosa che a nostro avviso rende secondaria la responsabilità della
59
51
lateralizzazione rispetto all’influenza dei fattori ambientali e culturali e che ci
porterebbe ad indagare sul passaggio dalla nostra originaria possibilità di
umani di annotare i suoni delle parole alla loro lettura. Spingendosi oltre
Harris e Coltheart, che distinguono i sistemi di scrittura pittografico e
logografico che illustrano la parola da quelli sillabico e alfabetico che
esprimono il linguaggio attraverso la scrittura dei suoni, il prof. F.Masini,
sinologo, si è chiesto ad es. come sia successo che il segno ideografico
che intende raffigurare una forma, “abbia poi indicato il suono di una parola
omofona che ha perso il suo valore grafico per assumerne solo uno fonetico
(ad es. il verbo a-mare, che ha lo stesso suono di mare che ha una figura che
52
il verbo non ha)” Ed ancora egli ha posto l'interrogativo di come sia
avvenuto che “l’evoluzione della lingua dalle scritture consonantiche
(semitiche) a quelle ideografiche (cinese), sillabiche (indiane e giapponesi) e
finalmente alfabetiche (fenicia, greca e latina) ha cancellato
progressivamente le immagini mentali che erano alla base della loro
53
nascita.”
É forse avvenuto attraverso quel processo che solo recentemente
è stato teorizzato come “trasformazione”, che è simile a quello che crea il
linguaggio delle immagini dei sogni per trasformazione delle percezioni della
54
veglia, o delle sensazioni corporee stimolate durante il sonno ?
Trasformazione che a sua volta risale a quella che avviene al momento della
nascita quando chiudiamo gli occhi per difenderci dalla luce e si forma la
55
prima immagine mentale ?
Questa domanda non è di poco conto perchè la trasformazione
radicale nel passaggio dal biologico allo psichico che fa sì che ci sia un
prima, della nascita, e un dopo, assolutamente nuovo e diverso (in totale
accordo con Edelman che sostiene che alla nascita c’è un rimodellamento
56
radicale dei neuroni ), la scoperta che solo in noi umani c’è una fusione di
biologico e pensiero che si influenzano a vicenda fino a che il nostro
organismo è vivente, deve far riflettere sul fatto che la capacità plastica e
rigenerativa della mente che inizia alla nascita e si ferma solo con la morte
legando indissolubilmente la mutazione biologica a quella culturale va
riconosciuta come responsabile dei maggiori cambiamenti della nostra
specie.
Per quel che quì più specificamente ci interessa, se la cultura si
57
evolve tramite il pensiero come immagine - e la psichiatria moderna ci ha
detto chiaramente che non è il cervello a far funzionare la mente, ma è la
mente, ovvero la prima pulsione neonatale come reazione che fa il buio dove
è la luce ad accendere il cervello come miccia che assorbe tutto l’apparato
sensoriale per farlo esplodere- e se le concettualizzazioni che ne derivano ci
dicono che non si nasce malati ma malati si diventa, e ci hanno anche detto
60
come, e se infine la formazione del linguaggio che esige corrispondenza tra
cervello e pensiero nella recezione di suoni e figure ha lo stesso movimento
su base biologica, si deve dire che si nasce irrimediabilmente dislessici o che
lo si diventa?
Ed allora è lecito chiedersi meglio come e quando?
Il pensiero immagine e la figura della parola dalla linea interna che
non ha suono alla percezione della figura
58
La nostra ipotesi è che se il primo pensiero come linea che
caratterizza il primo anno di vita del bambino per separazione dal ventre
materno è caratterizzato da una memoria non cosciente, l’impossibilità di di
fondere questa linea con la percezione della figura al momento della lettoscrittura, potrebbe essere dovuta a una predominanza della fantasia
inconscia che è la vera caratteristica umana di creare un pensiero-immagine
dalla sensazione passata, e che risiederebbe (questo semmai è da prendere
in considerazione come conseguenza e non come causa) nella parte sinistra
del cervello mentre quella destra sarebbe più deputata al pensiero razionale
legato all’utile (che è l’attività tipica del regno animale).
Ci serve a questo punto riportare quanto da noi esposto a proposito
dell’apprendimento di lettura e scrittura in un convegno del 2009:
Nella prefazione a Il bambino inventa la scrittura gli autori si
domandano: «Nei disturbi di apprendimento della lettura conviene porre
l’accento sull’apprendimento di tecniche, procedimenti o abitudini, come se la
capacità di leggere e scrivere si riducesse a riconoscere e riprodurre delle
forme (grafie), a seguire con gli occhi un testo e a tradurre in suoni le grafie
stesse? Ridurre cioè lettura e scrittura a delle tecniche percettivo-motorie?
Oppure uscire da quest’ottica associazionista e automatizzante e prendere in
considerazione fattori socio-affettivi e quindi porre l’accento sulla motivazione
59
e la volontà?» .
Se il primo orientamento ricorda le “azioni” numerate del professor
60
Crispiani che prendono corpo da quel terreno cognitivista dove “percezione”
e “memoria” non si curano di distinguere la memoria legata alla percezione
cosciente dalla memoria non cosciente che caratterizza il pensiero-immagine
del primo anno di vita del bambino, il discorso della motivazione e volontà di
cui parla il prof. Stella, molto si accosta a quello della fantasia di sparizione
neonatale che altro non è che volontà senza coscienza; che dà luogo a quel
pensiero per immagini che non sono visive, come quelle dei sogni, che
possono essere elaborazioni non coscienti di percezioni della veglia ma
anche immagini che avvengono per trasformazione immediata dovuta a
sensazioni come risposta a stimoli sia esterni che vengono a colpire uno dei
61
cinque sensi (ad es. la pentola a pressione che bolle che ci fa sognare il
fischio del treno), oppure interni (mal di stomaco ecc.). Dunque in quanto
legati a percezione e sensazione i sogni sono ricreazione del primo anno di
vita in cui il bambino sente il suono ma non vede distintamente, e fa rapporto
interumano (anche se nel nel sogno non c’è suono nè linguaggio verbale
61
perchè i sogni altro non sono che immagini per trasformazione) .
62
Che influenza può dunque può avere la linea interna che non ha
suono, nell’apprendimento di lettura e scrittura come prima silenziosa
63
“visione” del senso nella creatività del bambino ?
Pur sostenendo in molti che la molteplicità di ipotesi avanzate sulle
cause della D. è indice di grande interesse nel mondo della scienza perchè la
capacità della specie umana di rappresentare il mondo attraverso le parole è
64
assolutamente inseparabile dalla vita mentale dell'uomo , forse le diverse
ipotesi sulle origini di questo disturbo restano contrapposte e alternate
secondo le tendenze scientifiche dominanti a causa di una non distinzione tra
65
realtà mentale prima e dopo la nascita .
Quando il prof. Stella parla di D. recuperata, compensata o
persistente, e ci dice che restano da capire i motivi per cui alcuni si
66
compensano mentre in altri soggetti questo non avviene , egli ci stimola ad
approfondire alcuni aspetti dei casi in cui il recupero e la compensazione si
67
sono dimostrati possibili per poterne comprendere le ragioni sulle basi degli
studi più accreditati.
Sempre a proposito del fatto che la luce investendo la retina attiva
68
la prima capacità di immaginare , su una base di ipotesi neurobiologica che
non è stata mai abbandonata e che ritiene che le difficoltà di lettura abbiano
origine da un cattivo funzionamento dei processi visivi, Margaret Livingstone
(1991)ha dimostrato come le risposte delle aree visive a stimoli luminosi a
69
sequenza rapida e con basso contrasto siano ridotte . Ciò sembra dovuto al
fatto che il sistema magnocellulare, che ha il compito di elaborare le
informazioni in movimento (come sono le lettere che scorrono sotto la
scansione dei movimenti oculari e vengono fissate per un tempo brevissimo)
e che è specifico per la trasmissione della informazioni visive dalla retina ai
neuroni della corteccia occipitale, risulta disorganizzato nei suoi strati e con
cellule più piccole del normale nelle persone dislessiche. Sembra che i lettori
dislessici percepiscano in modo meno chiaro rispetto agli altri lettori gli stimoli
70
che si allontanano leggermente dalla fovea ; viceversa percepiscano troppo
distintamente gli stimoli alla periferia del campo visivo, rendendo confusa la
71
discriminazione visiva .
62
Queste ricerche, tornando ad affiancarsi a quella di Paula Tallal sui
segnali uditivi rapidi e rallentati dove i problemi specifici di linguaggio e
dislessia avrebbero origine in un difetto uditivo, confermano che pur
sentendo perfettamente i suoni, questi bambini li confondono e
sovrappongono (i suoni acustici rapidi, come le consonanti, non riescono ad
essere decodificati e vengono immagazzinati in rappresentazioni improprie
del fonema-suono) al punto da generare errori nella conversione mentale dei
suoni in lettere e viceversa. Ciò torna a far pensare a una “disconnessione
funzionale” (o connessione disturbata) fra i centri cerebrali deputati alla
72
decodifica della lettura riportandoci a un deficit del processamento
fonologico, di passare cioè dal codice visivo a quello uditivo e viceversa,
descrivendo la D. come una difficoltà a manipolare i suoni (come fare lo
spelling delle parole) Il deficit resterebbe quindi sempre inerente alla
capacità di convertire i caratteri ortografici in rappresentazioni fonologiche
73
che vengono poi abbinate al loro significato lessicale .
Ma a proposito di quanto sopra, tutte le volte che noi leggiamo di
autori che si chiedono quanto la D.sia un problema di vista o di udito e
propongono ipotesi di deficit percettivo-sensoriali accanto a processi
74
fonologici a noi torna in mente che quella che tende a collegarsi a tutti gli
organi di senso come materia fonica è l’immagine acustica di cui parlava
75
F.De Saussure .
Quando S. dice che il pensiero è una massa amorfa e indistinta,
senza saperlo lui ha già l’immagine inconscia sulla quale oggi si può lavorare
76
grazie ai nuovi studi cui abbiamo accennato .
Studi che nella clinica portano a dover osservare non tanto la
inabilità nell’esecuzione gestuale dovuta a lesioni corticali delle zone di
associazione, o quella dovuta a un difetto di controllo sensitivo che è
essenzialmente propriocettivo e che proviene dai recettori situati
nell’apparato muscolare o scheletrico, quanto il difetto di controllo sensoriale
77
che, essendo essenzialmente visivo, ma anche labirintico , uditivo, olfattivo,
ci riporta alla domanda già quì formulata alla prima pagina di questo lavoro:
se le ipotesi sulla eziologia della dislessia sono quasi tutte ad impronta
neurobiologica, neurobiologico riferito all’umano, oggi, cosa vuol dire? Fino al
1976 anche la malattia mentale era considerata di origine neurologica, gli
psichiatri si specializzavano in psichiatria e la cercavano nella materia del
cervello mentre oggi ai neurologi vengono affidate solo le lesioni dell’organo
perchè ormai si sa che con la malattia mentale non hanno niente a che
78
fare .
63
Il disorientamento del dislessico è una difesa dalla Ratlosigkeit?
La nostra idea è che così come oggi è stato appurato che la
malattia mentale non è organica ma un disturbo del pensiero che avviene (a
livelli più o meno profondi) al momento della nascita o quando, intorno al
sesto mese, la materia fonica non riesce a fondersi dopo un processo
graduale con la linea definita del volto della madre o chi per lei, allo stesso
modo anche i disturbi del linguaggio e le disprassie ad essi collegate
potrebbero avere a che fare con questo meccanismo dove, assieme a tutti gli
altri organi di senso, concorrono soprattutto la vista (al momento della nascita
assolutamente immatura) e l’udito (invece già completamente formato) che
dovrebbero riuscire a fondersi, invece di scomporsi, per raggiungere i
significanti di cui il pensiero verbale silenzioso prima, e il linguaggio articolato
79
poi, avranno bisogno .
80
Il disorientamento di cui parla R.Davis , quando i ragazzini vedono
girare nell’aria le linee delle parole scatenanti che non hanno figura (come gli
articoli, le congiunzioni o gli avverbi) e che non sanno come fermare, per
qualche ricorda la RatlosigKeit come frammentazione della prima immagine
mentale di cui parlano gli psichiatri; ma è come se nel dislessico, invece di
manifestarsi un problema mentale dovuto a un disturbo del pensiero, il
disorientamento resta legato a una incapacità di fondere la linea interna
come immagine indefinita con figure esterne- alle quali sarebbe impossibile
dare un senso che le colleghi - per una percezione prematuramente imposta
che saprebbe solo fotografare linee scollegate da un pensiero interno che
81
non riesce ancora a farsi esatto suono .
Il disorientamento sarebbe in sostanza l’impossibilità di una
elaborazione più elevata dello stimolo esterno alla quale si opporrebbe la
ricreazione della nascita come pensiero preverbale, che si tradurrebbe in una
difesa del “sentire” a scapito del riconoscimento di figure che con il pensiero
immagine legato all’affetto non ha necessariamente a che fare. Ronald
Davis, essendo egli stesso dislessico, parte un’analisi introspettiva che lo
porta ad affermare di aver capito che “la dislessia non è causata da una
malformazione del cervello, dell’orecchio interno o degli occhi, ma è un
prodotto del pensiero e una maniera speciale di reagire alla sensazione di
82
confusione” .
In sostanza poichè quali siano le connessioni tra corteccia uditiva,
visiva e i centri del linguaggio non è stato ancora chiarito, e in ogni modo
anche considerando la possibilità di interconnessioni corticali e sottocorticali,
si raggiungono parametri non calcolabili, Davis sostiene che per cambiare
83
prospettiva riguardo alla dislessia da incapacità in dono bisogna partire da
una comprensione chiara e precisa di cosa la D. è, e da cosa è causata.
Partendo dal presupposto comune che c’è una concettualizzazione verbale e
64
una non-verbale, egli sostiene che il pensiero non verbale è quello evolutivo
perchè l’immagine “si sviluppa” mentre il pensiero aggiunge altri concetti. Il
pensiero non verbale sarebbe migliaia di volte più veloce di quello verbale
84
tanto da essere subliminale , o sotto il livello di consapevolezza. Ovvero,
diremmo noi, è un pensiero senza coscienza.
Davis conferma poi che il pensiero evolutivo è un pensiero per
immagini che non sono visive, come quelle dei sogni, ma che forse
85
somigliano più a film tridimensionali, multisensoriali . Che probabilmente,
pensiamo noi, si svolgono lungo una linea interna come se si srotolassero da
una pellicola sulla quale deve esserci rimasto impresso qualcosa da quando
il bambino ha chiuso gli occhi per difendersi dalla luce dopo averli appena
86
aperti .
Ma se spiegandoci l'origine di queste immagini non visive per
trasformazione la moderna psichiatria ci ha detto che la caratteristica
dell’essere umano non è la ragione ma l’irrazionale del prima anno di vita
senza parola, questo fa pensare che anche se il periodo in cui si forma
l’aspetto, di disturbo dell’appredimento della dislessia è tra i tre e i tredici
anni, deve senz’altro iniziare entro i primi sei mesi di vita come le stesse
patologie mentali; perchè il potenziale dislessico deve essere primariamente
un pensatore non verbale, uno che pensa per immagini in modo
assolutamente irrazionale indipendentemente dalla funzionalità dei suoi
neuroni. Se dunque così fosse, parlare genericamente di
origine
neurobiolgica della D. oggi non è più sufficiente se non la si fa risalire alla
stimolazione luminosa della retina che alla nascita crea la prima immagine
mentale come capacità di immaginare. Allora la cosiddetta “disfunzione
congenita” che interferirebbe con i processi mentali necessari alla lettura,
essendo legata all’immagine interiore che ti fa sentire prima, e comprendere
poi, potrebbe essere dovuta allo scontro con la percezione che deve
elaborare oltre i cinque sensi (tra cui quello dell’apparato neuromuscolare)
87
significanti ancora estranei a una immaginazione personale .
Ci convince che tra gli stessi ricercatori vi è sempre più consenso
attorno all’idea che la D. non riguardi solo la struttura fonologica per la
pronuncia delle parole e la scomposizione dei fonemi, ma anche livelli
superiori del sistema linguaggio, quali quelli dell’elaborazione semantica e
sintattica. Ovvero che le difficoltà a livello inferiore, fonologico,
comporterebbero conseguenze anche a livelli superiori forse anche per il
fatto che alla valenza semantica e sintattica va aggiunta anche quella
,
espressiva come effetto degli affetti. Forse c’è l’intuizione che il responsabile
della funzione evolutiva nel passaggio tra materia fonica e linea definita è il
pensiero non cosciente.
88
89
La simbologia della scrittura deve essere legata all’immagine .
65
Per quanto fin qui detto c'è da pensare che forse uno dei motivi per
cui l’eziologia della D. è così frammentaria potrebbe ricercarsi nel fatto che,
per chi se ne è occupato finora, c’è stata l’idea di una continuità tra
situazione fetale e quella dei primi mesi di vita, cosa che non è; e di
conseguenza c’è stata l’impossibilità di valutare, dal momento della nascita in
poi, il legame tra la materia fonica come bagaglio di sensazioni legate
all’immagine, e linea definita per sparizione dell’immagine necessaria alla
ricreazione del pensiero verbale nella scrittura. Scrittura che sembra debba
contorcersi come in un tornare indietro alla ricerca della simbologia del
90
linguaggio per aver perso l'immagine da ritrovare nel tempo richiesto per
combaciare con l’altra parte mancante della figura percepibile .
La non conoscenza di questo processo non può che portare ad
approcci che fanno riferimento ad automatismi cognitivi che non si sa a a
91
cosa far risalire quando siamo in presenza di un deficit primario , perchè
non si è giunti a comprendere che è solo la neurobiologia della mente che
attiva il cervello ad essere quella deputata al linguaggio. Non è vero che il
92
feto può ascoltare Mozart . La percezione prima della nascita non c’è.
Perchè non c’è ancora il pensiero che consente di fare immagini acustiche.
C’è solo il riflesso neuromuscolare che darà luogo soltanto a memoria di
sensazioni. É solo poi, con la fantasia di sparizione alla nascita che c’è il
passaggio dall’apparato neuromuscolare che reagisce allo stimolo con il
riflesso, alla formazione della mente, ed anche la trasformazione della
sensibilità nervosa (che è delle papille tattili e gustative) in sensibilità umana.
Allora noi pensiamo che alle linee di studio che concordano
nell’ipotesi che i deficit della D. siano “strettamente correlati ad una ‘non
meglio definita’ alterazione del normale sviluppo biologico cerebrale in epoca
fetale e perinatale, potenzialmente ascrivibile a fattori di natura sia genetica
93
che non genetica” ,si dovrebbe aggiungere lo studio oggi possibile sulla
formazione del pensiero dalla reazione biologica neonatale “ che fa buio dove
è la luce” come movimento pulsionale che viene dall’interno del corpo senza
94
essere legato a nessun organo specifico incluso il cervello .
E di conseguenza, nella misura in cui i disturbi del linguaggio
95
fossero legati al pensiero puro senza immagine che si crea al primo impatto
96
con la luce e che si configura come realtà psichica fusa con l’intera realtà
del corpo non avendo una sede precisa in cui collocarsi all’interno
dell’organismo, ciò verrebbe anche a spiegare gli stessi i deficit della
97
motricità in assenza di lesioni, come conseguenza e non come causa .
L’idea di un confronto-distinzione tra i meccanismi della malattia
mentale (che non è riscontrabile nell’autopsia di un corpo morto come
avviene per le malattie degli organi interni) e i disturbi del linguaggio (che
contrariamente ad altre malattie genetiche visibili all’esterno-come nel
66
mongolino che ha un cromosoma in più- non presentano anch’essi
malformazioni corporee) ci è stata suggerita anche da questa analogia riferita
al non visibile che richiede un nuovo metodo di indagine deduttivo accanto a
quello sperimentale.
98
Secondo gli stessi neonatologi , il neurobiologico riferito al fetale
(dove per alcuni avverrebbero i danni cerebrali anche nel disturbo primario di
D.) non può incidere sulla vista o sull’udito come il neurobiologico riferito alla
mente che è subito occhi (l’unica parte del cervello esposta alla luce) e
orecchi, e riflessi motori possibili (i movimenti fetali sono simili a quelli della
rana decerebrata), solo quando il cervello- retina acceso dalla luce mette in
funzione i muscoli, la cassa toracica e la respirazione.
Allora potrebbe essere che nel dislessico “il fare buio dove è la
luce”, al momento della nascita, salverebbe l’affetto legato al primo pensiero
immagine, ma dopo ogni poppata ci sarebbe come un problema di figure
geometriche che invece di fondersi tornano al pensiero amorfo come
nebulosità prelinguistica conservando però la potenzialità della vitalità la cui
carenza è invece alla base della frammentazione schizofrenica.
Potenzialità che al momento della nascita si sia forse trovata nella
necessità (per una particolare ostilità dell’ambiente non umano?- )di dover
sviluppare con una forza straordinaria la prima linea indefinita come fantasia
inconscia, a scapito poi di una fusione suono-vista costretto a restare interno
(come quando recitiamo mentalmente una poesia nel silenzio di un affetto) di
fronte alla figura esterna della linea che compare solo dopo.
Questo potrebbe spiegare il perchè la scissione si manifesti a
livello di percezione cosciente visiva e uditiva invece che pulsionale come
nella malattia mentale dove gli affetti sono separati dal pensiero per un
impoverimento, opposto, della possibilità di creare una memoria fantasia
dalle sensazioni passate.
Un regalo ai filosofi della mente
99
Per concludere, volendo regalare ai filosofi del mind-body problem
100
una qualche intuizione sull’umano pensiero , potremmo quì tirare in ballo le
teorie connessionista e della rottura selettiva per operare il loro spostamento
dalla formazione della mente cui la filosofia non è mai approdata, a quella
del suo movimento invisibile che va a sottendere la formazione del
linguaggio.
Ovvero, se la caratteristica specie specifica dell’essere umano è il
101
primo pensiero immagine legato alla stimolazione della retina
e il defict di
decodifica della scrittura è legata a questo processo, le possibili origini della
D. potrebbero avvenire:
67
102
In base alla teoria connessionista , che prevede la
modularizzazione come risultato della sequenza evolutiva influenzata
dall’esperienza, le cause andrebbero ricercate intorno al sesto mese di vita
quando la nebulosità prelinguistica dovrebbe fondersi con le linee del volto
della madre o figure parentali significative nella vita del bambino. Se la
connessione non avviene si avrebbe la dislessia più lieve.
Per la teoria di Fodor della rottura selettiva invece, potrebbe essere
venuta a mancare la base su cui articolare le successive modularizzazioni
proprio al momento della nascita per ragioni tutte da scoprire (per uno
stimolo luminoso troppo debole o troppo forte, per un insufficiente
collegamento della retina al sistema nervoso centrale dalla 24esima
103
settimana di gestazione in poi , oppure per uno sviluppo neuronale
difettoso che ha reso insufficiente il circuito di retroazione talamo-corticale o
altro ancora). Se questa carenza non viene compensata dalla nebulosità
prelinguistica o dal volto della madre o chi per lei invece della dissociazione
mentale si avrebbe una forma di dislessia severa che non riesce a fondere la
prima linea-pensiero con una percezione più definita. Ma la “scissione”
resterebbe solo a livello suono vista diversamente dalla malattia mentale
dove il sentire del corpo è separato dal pensiero.
Sempre sulla scia di queste ipotesi ci viene da fare un’altra
riflessione: che i meccanismi genetici, tranne forse solo quelli rilevati nelle
malattie mentali (ad es.nell’autismo di Asperger alla discalculia dei dislessici
si contrappone una abnorme capacità di automatismo del calcolo) non sono
compensativi. Se c’è una carenza genetica non è compensata da un’ altra
qualità genetica Come si spiega allora che la maggior parte dei dislessici
104
presentano grosse valenze creative ? Anche lasciando da parte l’elenco di
105
illustri artisti defunti
vien da chiedersi se i moltissimi ballerini che
presentano queste caratteristiche sentano forse l’esigenza di tracciare col
corpo linee nell’aria, o i musicisti rincorrano suoni smarriti un tempo lontano
106
sulla barra degli strumenti .
Naturalmente queste sono solo ipotesi di ricerca da sviluppare e
approfondire, ma c’è da supporre che nel cammino verso la lingua appresa ci
debba essere, a livello mentale e non solo cerebrale, una parallelismo tra
alcuni processi dissociativi-compensativi, che alla luce delle recenti scoperte
psichiatriche potrebbero essere indagati. E ci si potrebbe anche chiedere se
la scoperta dell’origine biologica della psiche non sia oggi in grado, per aver
introdotto un concetto di “trasformazione”, che va oltre il movimento
biologico del feto e le possibili alterazioni genetiche non acquisite per
accostarsi anche a quelle acquisite, di trovare una saldatura ai tre e aspetti,
107
fonico, fonologico e immaginativo, senza che restino discriminanti tra loro .
Così ci si potrebbe finalmente spiegare il perchè, pur nelle diversità di
68
108
approcci (Davis ci parla di un occhio della mente , situato nella parte alta
posteriore della testa, da far immaginare al bambino per fargli controllare il
disorientamento) alcune dislessie sono recuperabili.
Al di là degli strumenti e procedure adottate, la relazione umana
con l’operatore verrebbe a ricreare quel collegamento temporaneamente
“sparito” tra linea interna e quella esterna legata al segno che deve diventare
109
suono . Nel rapporto con l‘educatore esperto la ricreazione del primo anno
di vita del bambino, in cui sentiva il suono ma non vedeva, può procedere
verso la trasformazione che lega la percezione al pensiero senza
110
coscienza .
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71
1
M. FAGIOLI, Il silenzio della vita in Left 2010, L’Asino d’oro ed. 2013.
F. DE SAUSSURE, Corso di linguistica generale (1922) Laterza Bari 1992, p.84.
3
Con questo termine quì ci riferiremo solo alla dislessia evolutiva o congenita
(caratteristica o anomalia presente fin dalla nascita ma non necessariamente
determinata geneticamente) dove il soggetto deve acquisire una funzione che non
possiede, che va ben distinta da quella acquisita riconducibile a una lesione, dove si
tratta invece di recuperare una funzione che il soggetto possedeva già in modo integro.
Detta anche legastenia (diversamente dalla alessia che dipende da lesioni localizzate
nell'area cerebrale posteriore sinistra), la D. è una difficoltà dell'apprendimento della
lettura che riguarda unicamente la trasformazione dei segni in suoni e viene messa in
evidenza attraverso la lettura ad alta voce. Interessa tre processi: il riconoscimento
dei segni dell’ortografia, la conoscenza delle regole di conversione dei segni grafici in
suoni, la ricostruzione delle stringhe di suoni in parole del lessico. Si manifesta con
inversioni di lettere( ad es.”la” al posto di “al”), scambio di lettere simmetriche (“p”
anziché “q") e troncamenti di simboli grafici. É detta “Evolutiva”perchè la difficoltà
selettiva nella lettura si manifesta in presenza di capacità cognitive e relazionali
2
adeguate e in assenza di accertati deficit sensoriali e neurologici. Ciò che è disturbato
della lettura è la decifrazione, cioè la correttezza e la rapidità con cui si legge, che
influenza la comprensione del testo. Gli errori tipici sono di tipo visivo, quando si
scambiano lettere che hanno tratti visivi simili o speculari (es. “e” con “a”, “r” con “e”,
“m” con “n”, “b” con 4d”) oppure di tipo fonologico riguardanti lo scambio di lettere che
hanno la stessa “radice” (es “f” con “v” e “c” con “g”). Spesso le difficoltà di lettura si
associano a difficoltà nella scrittura e /o nell’aritmetica perchè queste tre abilità
presentano delle basi comuni.
5
Ad oggi il criterio clinico basato su parametri eziologici sulla valutazione del deficit
funzionale ha permesso una generica distinzione tra: a) disturbi del L. primari o
specifici del linguaggio che si manifestano in assenza di problemi cognitivi, relazionali,
neuromotori; b) disturbi del L secondari che sono associati ad altre condizioni quali il
ritardo mentale, i disturbi relazionali, le paralisi cerebrali infantili con o senza disartria,
e la ipoacusia o sordità. ll disturbo di apprendimento di questi ultimi è detto secondario
perchè è più globale e riguarda le abilità cognitive in misura più generale. Cfr C.
CORNOLDI, I disturbi dell’apprendimento, Il Mulino, Blogna 1991.
6
F. CACCIAGUERRA, Direzionalità e difficoltà motorio-fonetica nella dislessia in Acta
Medica Auxologia, vol.1,n.2/1969, Centro Auxologico Italiano, Piancavallo (MI)
7
M. FAGIOLI, La parola dell’inconscio, Ipotesi che legano gli studi linguistici alla realtà
psichica” Tesi sperimentale 1992-93 Università la Sapienza di Roma
8
A p. 39 di La dislessia di G. STELLA, Il Mulino, Bologna 2004 (edizione ridotta
rispetto a quella con autori vari da lui curata nel ’96, ed.Angeli, Milano). viene riportato
un grafico con intrecci di linee che segnalano l’inversione della disposizione dei
neuroni nella rete neurale dei dislessici. Elaborato dall’autore secondo l’esempio del
fisiologo Berlucchi, il tracciato ipotizza che da neuroimmagini dinamiche come la Pet
(tomografia ed emissione di positroni) e la Rmf (risonanza magnetica funzionale) si è in
grado di mostrare le variazioni di attivazione delle aree cerebrali in conseguenza di
determinati compiti. Stella cita anche Albert Galaburda, che in piccole alterazioni delle
aree cerebrali coinvolte nell’elaborazione del linguaggio avrebbe rilevato piccole
esfoliazioni del tessuto corticale responsabili a suo parere dei deficit funzionali come
la D.
9
La percezione, come hanno dimostrato le ricerche sulla sinestesia, ha carattere
multimodale, cioè è l’unione e il passaggio fra più modalità sensoriali. Quest’ultimo
nell’uomo sarebbe subordinato ai processi psichici, alle formazioni delle immagini che
conferirebbero ad esso una plasticità e una variabilità pressochè infinite, non legate a
riflessi o reazioni o gerarchie precostituite, cioè istintuali” Cfr. F. FARGNOLI
presentazione di Teoria della nascita e castrazione umana di M. Fagioli alla libreria
Feltrinelli di Roma, riportata su Il sogno della farfalla N° 4 2012 L’asino d’oro ed.
10
Per come si presentano si avrebbero: Dislessici fonologici evolutivi, conosciuti
anche con il termine di disfonetici (che possono imparare a riconoscere le parole “ a
vista”, ma hanno difficoltà nella decodificazione e nella mediazione fonica); dislessici
evolutivi superficiali, noti anche come diseidetici o dislessici, che leggono mediante
ricodificazione (presentano dei problemi nell’individuare visivamente le parole e si
affidano quasi esclusivamente alla mediazione ed alla ricodificazione fonica); dislessici
misti (ovvero diseidetici-disfonetici che incontrano serie difficoltà con entrambe le
strategie di riconoscimento delle parole; disgrafici evolutivi, la cui ortografia si dimostra
72
altrettanto scarsa se non peggiore della lettura che sembrano dipendere dal
raggruppamento fonico.
11
Oggi appare molto importante introdurre nella scuola mezzi alternativi di
informazione come l'uso del registratore per le spiegazioni, del computer per scrivere,
della tavola pitagorica e della calcolatrice per la matematica. Cercare soluzioni per fare
scrivere i compiti ai bambini in modo diverso dal copiarli dalla lavagna o scriverli sotto
dettatura (come ad es.fornire foglietti scritti e fotocopiati) sono mezzi che vengono
adottati come aiuto strumentale concreto che non rimarca al bambino le sue difficoltà.
12
Che vanno da quella di un difetto delle funzioni corticali superiori (MATTIS 1978) al
deficit di processamento uditivo (TALLAL et al. 1991); dai deficit di processamento
visuo-spaziale (PAVIDLIS 1985) a quelli di processamenti fonologici (TEMPLE e
MARSHALL 1982 ) e metafonologici (LOVETT 1992 ) e, anche se meno specifici, dei
processi di automatizzazione (NICHOLSON e FAWETT 1990 ); e infine ipotesi sui defict di
alcune componenti del sistema di lettura attribuibile al cattivo funzionamento di moduli
innati predisposti per questo tipo di apprendimento come quelle di COSTLES e
COLTHEART (1993) che parlano di rottura selettiva di questi moduli rispetto a
KARMILOFF-SMITH (1992) che fanno invece una ipotesi connessionista.
Cfr.NARDOCCI,BIANCARDI, STELLA (a cura di) La dislessia Angeli Milano 1996.
13
M. G. GATTI BECUCCI, F. FARGNOLI, M. FAGIOLI, U. ADEN, G. BUONOCORE Maturazione
funzionale della corteccia: il fondamento della vitalità; Il sogno della farfalla N°3, 2012,
L’Asino d’oro ed.
14
Come elencati nella nota 5.
15
Sulla lateralità (intesa come uso abituale di un occhio, un orecchio, una mano, un
piede siti su uno stesso lato del corpo, alla cui mancata o ritardata maturazione
sarebbero attribuite disprassie del gesto motorio e disorganizzazione percettiva a
livello sensoriale) sono state scritte migliaia di pagine. Ma se tutti gli autori concordano
sulla differenziazione funzionale dei due emisferi cerebrali, nessuno ha mai spiegato
cos’è che non fa maturare il sistema nervoso in una corretta stabilizzazione della
dominanza laterale, di qualsiasi tipo (destra, sinistra, ambidestra, mista, crociata) che
sembrerebbe il requisito essenziale ad attivare i necessari riferimenti direzionali,
sequenziali ed organizzativi per l’appprendimento della lettura e della scrittura. Lo
stesso Samuel Torrey Orton, che prima ha ridefinito la D..come “lateralizzazione
incrociata del cervello” e poi ritenendola sbagliata ha introdotto la seconda teoria della
“dominanza emisferica mista”- che significa che a volte la parte destra del cervello fa
quello che deve essere fatto dalla sinistra e viceversa- non spiega perchè questo
avverrebbe.
16
Quello di cui si è certi è che normalmente il controllo di suoni avviene attraverso
l’oreccho destro che ne trasmette i messaggi direttamente all’emisfero sinistro del
cervello dove ha sede anche il centro di decodificazione delle informazioni sonore; solo
se non c’è un uso predominante il processo subirà un rallentamento per il fatto che
dovendo procedere alla lettura grazie ad una ritmica successione, da sinistra a destra,
alternando fissazioni e spostamenti, se i due occhi non agiscono in sinergia (nel senso
che uno, quello dominante è il riconoscitore e l’altro il rinforzatore), si produrranno
tempi di latenza non solo sulla percezione di fonemi particolari, ma anche sull’ordine
temporale delle sequenze di fonemi nel discorso normale.
17
M. FAGIOLI , La linea e il numero: Movimento e separazione creano l’immagine della
trasformazione in Left 2010, L’Asino d’oro ed. 2013.
73
18
M. HARRIS, M. COLTHEART, L’elaborazione del linguaggio nei bambini e negli adulti
Bologna, Il Mulino, 1986.
19
Che prevede l’esistenza di una via semantico-lessicale basata sulla correlazione
diretta tra sistema semantico- accesso ortografico e uscita fonologica, e una via non
lessicale che si basa sulle regole di conversione fonema-grafema;,Cfr. S.M. AGLIOTTI,
F. FABBRO, Neuropsicologia del linguaggio, Bologna, Il Mulino , p.138.
20
Noi oggi diremmo meglio anche “al senso”; vedi in rete il video della lezione su
Lingua e linguaggio tenutasi il 22 maggio 2009 all’Università di Chieti-Pescara dal
prof. Federico Masini.
21
Cfr. R. KEMPSON, La semantica, Il Mulino, Bologna 1989.
22
A parere di alcuni l’ipotesi genetica spiegherebbe sia la tendenza della D. alla
familiarità (specie in famiglie con gemelli dove se uno è dislessico è più probabile che
anche l’altro lo sia se è un gemello identico, omozigote, piuttosto che se si tratta di un
gemello non identico, dizigote); sia la tendenza della D. a persistere nel tempo pur
modificandosi e attenuandosi con terapia neuropsicologica e interventi più avanzati di
tipo metacognitivo.
23
Come faremo quì di seguito al IV paragrafo
24
Da un interventio in rete del prof. Giacomo Stella.
25
Tuttavia il Ministero della P.I. considera norme nuove e indica strumenti da utilizzare
per tecniche di insegnamento adattate al bambino dislessico, disortografico,
discalculico. In molti Paesi Europei la scuola tiene conto delle difficoltà dei dislessici
adottando di prassi una serie di misure come ad es. far leggere a mente e non ad alta
voce, concedendo tempi maggiori per l'esecuzione dei compiti scritti anche durante gli
esami finali, non correggendo gli errori di tipo fonologico nella scrittura (in Toscana un
nuovo disegno di legge sulla D.E., approvato dal dirigente generale dell’ufficio
scolastico regionale di Firenze Cesare Angotti e vigente dall’8 febbraio 2010, rende
disponibile gratuitamente, per le scuole primarie che ne faranno richiesta, personale
appositamente formato nel settore, in grado di informare in modo scientifico sul
problema). Sarà quindi fondamentale lavorare sulla formazione degli insegnanti di
sostegno.
26
Che segna una separazione radicale dalla errata concezione tramandataci dal
mondo greco secondo la quale fino all’età della ragione il fanciullo non avrebbe il
pensiero.
27
G. BRUCO, Formazione dell’unità bio-psico-operante e sviluppo del linguaggo, X
Convegno Fiped tenutosi a Firenze il 19 maggio 2007 nell’’Istituto degli Innocenti”. Atti
in rete.
28
M. FAGIOLI, Istinto di morte e conoscenza 1972, 13° ed. 2010. Roma, L’asino d’oro
ed..
29
Di intuizioni che non congiungono l’interpretazione della sindrome con un coerente
trattamento parla anche il prof.CRISPIANI nell’introdurci all’ articolo del Cacciaguerra
degli anni 60 già citato; Cfr. P. CRISPIANI, “Eppure avevano capito” G.di pedagogia
della Fiped N° 1, 2007.
30
Vedi quì di seguito alla nota 111.(Abbiamo voluto riportarla a chiusura dell’articolo
perchè a nostro avviso particolarmente significativa)
31
Anticipammo che Fagioli fece risalire la “fantasia di sparizione” a qualcosa che
avviene al momento traumatico della nascita quando il neonato si difende
dall’aggressione degli stimoli esterni, soprattutto dalla luce; e cercammo di spiegare
74
che la chiamò fantasia di sparizione perchè arrivò a concettualizzare che, staccandosi
fisicamente dalla potenzialità della carica libidica originaria, simultaneamente il
neonato vi “ritornava” con un movimento che non poteva essere che mentale, e che
diventava capacità di immaginare l’esistenza di se stesso, nato non dal nulla, come
sua prima espressione di creatività che percepiva la realtà umana nello stesso istante
in cui faceva sparire la realtà non umana circostante. Questa prima immagine
pensiero di sè, sarà quella che gli consentirò di riconoscersi allo specchio
diversamente dal restante regno animale. Cfr. M. FAGIOLI, Fantasia di sparizione,
Lezioni 2007 L’asino d’oro ed. Roma 2008.
32
Ancora non era stato approfondito nella ricerca dell’Analisi Collettiva che si ispira
all’opera teorica di Fagioli che questo pensiero che occupa un terzo della nostra vita e
che si esprime attraverso il linguaggio dei sogni iiniziava a formarsi nei primi venti
secondi dal momento della nascita, prima del vagito, quando il corpicino del neonato è
ancora inerte, ma nella sostanza cerebrale investita dalla luce si attiva un movimento
invisibile dando inizio con la pulsione fantasia al tempo umano.
33
Un capolavoro chiamato mente in Left N°42, 2008
34
Cfr. G.BRUCO, L’’apporto della moderna psichiatria alla prevenzione e recupero della
Dislessia Evolutiva Atti del X Congresso Nazionale della Fiped, collana di Pedagogia
Clinica a cura di Marco Paolo Dellabiancia, edizioni Junior Azzano S. Paolo (BG)2009
35
Nonostante come abbiamo accennato alla nota 8 le tecniche di visualizzazione
biomedica ne possano rivalutare gli aspetti anatomici e funzionali.
36
In quanto lo studio della mente invisibile richiede un metodo di indagine deduttivo
diverso da quello delle scienze positive ; Cfr. M. PETTINI, Teorie scientifiche della
natura e della realtà umana, Il sogno della farfalla N°1, 2009 , Nuove Edizioni Romane
37
“Le giovani oche di Lorenz sono geneticamente programmate per ‘fissarsi’ su
qualsiasi oggetto proponga loro l’ambiente come genitore. Le scimmie di Harlow sono
geneticamente inclini a preferire certi surrogati materni, ma non si sviluppano
normalmente senza amore materno" MATT. RIDLEY Il gene agile (2003) Adelphi
edizioni Milano 2005 p.406.
38
MATT. RIDLEY , cit. paragrafo su “ I sette significati di ‘gen É p.342-366”
39
I geni non sono burattinai che muovono i fili del nostro comportamento, ma piuttosto
burattini alla mercè di quel comportamento, in un mondo in cui le influenze ambientali
sono meno reversibili di quelle genetiche, dove la natura incontra l’ambiente,
l’esperienze e la cultura”. Ivi.
40
Cfr. MATT. RIDLEY, Teoria della nascita e castrazione umana” 1974, 8° ed. 2006
Roma, Nuove Edizioni Romane; 1 Ed. L’Asino d’oro 2012.
41
É come se le linee del pensiero verbale tornassero all’immagine indefinita da cui
trasformandosi si sono create” FAGIOLI M.,Come nel sonno in Left 2010, L’Asino d’oro
ed. 2013.
42
Una recente ricerca condotta dalle psicologhe Sue Hespos della Vanderbilt University
di Nashville ed Elizabeth Spelke dell'Università di Harvard, e pubblicata sul numero del
22 luglio 2009 della rivista "Nature" ha mostrato che nei bambini che non sanno
ancora parlare il linguaggio si fonda su un sistema pre-esistente di interazioni con il
mondo tridimensionale e i suoi oggetti. E che questa capacità suggerisce che “i
bambini sappiano pensare prima ancora di imparare a parlare". Sembra inoltre che
siano capaci di individuare determinati concetti che gli adulti, invece, non distinguono
spontaneamente. "Gli esseri umani - conclude Spelke - possiedono una ricca varietà
75
di concetti anche prima di apprendere il linguaggio. A seconda della lingua che
apprendiamo, siamo portati a favorire alcuni di questi concetti rispetto ad altri, ma
esistevano tutti prima che li esprimessimo con le parole".
43
Bisogna distinguere il segno linguistico dal pensiero che vuole esprimere perchè “ la
parola va intesa con la vicenda pulsionale di chi la usa” Cfr. M. FAGIOLI, Istinto di morte
e conoscenza cit 2° capitolo La perdita dell’oggetto e la creazione del simbolo verbale.
44
Cfr. M.FAGIOLI. La parola dell’inconscio, Ipotesi che legano gli studi linguistici alla
realtà psichica” cit.
45
Venti secondi” in Left n°1, 2011
46
"Funzioni mentali complesse come la memoria, la percezione, il linguaggio non
possono essere ricondotte all'attività di singole aree cerebrali, o di alcuni geni o
molecole [...] la clinica neurologica mostra come piccole lesioni in aree circoscritte della
sostanza cerebrale determinino la perdita di funzioni psichiche come la percezione
visiva, il riconoscimento dei volti o del significato delle parole[...]” ma ”la formazione
dell'immagine mentale rappresenta un tema cruciale e oggi universalmente
riconosciuto come tale nell'ambito delle neuroscienze [...]” tanto da “ essere
considerata il punto di unione e di passaggio fra cervello e mente.” Cfr F. FARGNOLI,
Una ricerca sulla sinestesia, Il sogno della farfalla, 2, 2010, p.57-58
47
A questo proposito a p.42 del suo ultimo La dislessia (cit) Stella evidenzia che “l'idea,
molto diffusa, che la mancata comparsa della fase del gattonamento potesse essere
un segnale premonitore di successivi problemi di apprendimento si è rivelata del tutto
infondata.
48
Fenomeno studiato per la prima volta dai francesi(Laforgue )per cui non vediamo
qualcosa che è sotto i nostri occhi pur essendo tutti i nostri sensi perfettamente
funzionanti
49
Cfr. E. SAPIR, Introduzione alla linguistica, a cura di Ramat P. Einaudi 2007.
50
Un bambino inglese di otto anni che non ha mostrato difficoltà nell’apprendimento
dell’italiano come seconda lingua e che era stato diagnosticato dislessico nella lingua
madre.
51
Nel caso in questione ci eravamo limitati a pensare che un sistema di letto/scrittura
regolare come quello dell’italiano aveva creato differenze nell’organizzazione cerebrale
rispetto all’apprendimento dell’inglese che è molto irregolare. Se il problema chiave
della dislessia era l’incapacità di scomporre le sillabe in fonemi, veniva facile da
pensare che nell’inglese, che ha centinaia di regole dove cambiando nella parola una
sola lettera se ne crea una nuova, il lavoro di decodifica era decisamente maggiore. Il
fatto cioè che l’inglese impegnasse di più il sistema deputato all’attribuzione dei nomi
perchè molte parole non possono essere lette correttamente usando solo le regole
foniche ma devono essere già conosciute, lì per lì poteva sembrare sufficiente a
spiegare il recupero nell’apprendimento della lingua italiana. Poi però ci venne in
mente il caso, opposto, di un ragazzino italiano che aveva dovuto frequentare la prima
e la seconda elementare negli Stati Uniti, e che una volta tornato in Italia aveva avuto
problemi con le doppie, gli accenti, le h mute e non aspirate, e e che quando la
maestra cominciò a fare dei freghi rossi e blu sui suoi quaderni che erano stati sempre
perfetti ebbe leggeri problemi di dislessia e smise di scrivere. Per reazione cominciò a
disegnare al bordo di alcuni giornaletti, partendo dall’alto verso il basso, la figura di un
bambino in posizioni tali e diverse che, nel susseguirsi delle pagine fatte scorrere
velocemente col pollice, venivano a rappresentare il movimento di una capriola.
76
L’esigenza di recuperare il movimento della mano fu poi soddifatta definitivamente
quando dal disegnare i suoi rudimentali cartoni animati il bambino cominciò a studiare
pianoforte con passione. In seguito alle esperienze con questa forme recuperabili di
disturbo di letto-scrittura, la riflessione fu che, probabilmente, come sostiene J
Hebrard, la lingua inglese, pur nella sua irregolarità che non costringe a suddividere la
parola lettera per lettera, consente quel processo di predizione che favorisce
l’approccio globale al senso della lettura ma che, se era stato difficile per il bambino
inglese, al bambino italiano viceversa non era venuto a mancare. Quali allora le
cause dei diversi e rispettivi temporanei deficit?
52
Lo studioso Li Hai Tan ( pubblicato sulla rivista Nature), ha mostrato come le
differenze tra D. europea e cinese siano motivate anche dal diverso funzionamento
“linguistico” del cervello. Sembrerebbe che i dislessici inglesi mostrano un minore
svilupppo della regione parietale sinistra, implicata nella conversione delle lettere in
suoni, mentre i cinesi dislessici presentano invece un volume di materia grigia inferiore
nella sezione del lobo frontale coinvolta nella memoria e nell’identificazione delle
immagini e delle forme. Secondo gli studiosi, la scoperta va correlata proprio alle
differenti abilità richieste nella lettura delle lingue ideogrammatiche; questo fa sì che si
possano sviluppare esercizi “specifici” che stimolano parti diverse del cervello
attraverso metodi diversi in diverse culture. Sulla stessa onda di osservazione un altro
studio svoltosi all’Università di Hong Kong (La notizia è apparsa su Associated Press e
Discovery Channel: “Il cinese annulla la dislessia”) afferma che per alcune persone la
dislessia sparisce se imparano il cinese. Cioè lo studio dimostra che le persone che
sono dislessiche per una lingua potrebbero non avere problemi con altre lingueparticolarmente nel caso che la D. si verichi in una lingua “alfabetica” e l’altra sia di tipo
“simbolico”- Dallo stesso studio è stato anche accertato che se la parte del cervello
che gestisce l’analisi fonemica non funziona adeguatamente si avranno dei problemi
nella lettura dell’inglese, ma non in giapponese. (Cfr. RIAN BUTTERWORTH e JOEY
TANQ; Istituto di neurologia cognitive di Londra: L’ideogramma nella mente, Dislessico
in inglese ma non in giapponese. Questione di cultura o di organizzazione cerebrale?).
53
Cfr. F. MASINI, L’urlo diventa scrittura in Left N° 26, 2007.
54
Cfr. ID. L’immagine umana e la nascita delle scritture in Left N° 24-25, 2007.
55
Cfr. ID., Mare calmo in Left 2010, L’Asino d’oro ed. 2013.
56
Anche se nella evoluzione della lingua il processo è inverso perchè si passa alla
figura per perdita dell’immagine.
57
Il noto premio Nobel per la medicina ha inoltre evidenziato che persino nell’adulto,
anche quando si sono costituiti gli elementi principali della neuroanatomia, i confini
delle mappe corticali possono cambiare radicalmente a seconda degli stimoli
ambientali.
58
La stessa archeologia sta sviluppando legami con la neuropsichiatria cercando,
attraverso i suoi modelli cognitivi di interpretare tracce di ‘pensiero fossilizzato’ in
termini di organizzazioni sociali o produzioni simboliche”: Emiliano Bruner in Left
Avvenimenti N°9 2009.
58
M. FAGIOLI ,“ La linea invisibile”Il parlare è fare quando rende pensabile ciò che non è
percepibile, in Left 2010, L’Asino d’oro ed. 2013.
59
F. NARDOCCI, G. STELLA, Il bambino inventa la scrittura, Franco Angeli, Milano
19925.p.7.
77
60
P. CRISPIANI , N. BITTI, L. ESPOSITO, A, FIORILLO, F. GULLI, C. GIACONI, DislessiaDisgrafia. Azione 2: La motricità, Azione 3: Le percezioni, Azione 4: La memoria,
Junior, Azzano San Paolo (Bg) 2007; P. Crispiani, L. Capparucci, Dislessia-Disgrafia.
Azione 8: La letto-scrittura, Junior, Azzano San Paolo (Bg) 2008.
61
G. BRUCO, Ricreazione o rottura della linea del primo pensiero immagine:sensibilità e
percezioni nelle disprassie e nell’autismo negli Atti dell’XI Congresso Nazionale della
Fiped “Disprassie e Spettro autistico: dalla valutazione funzionale al trattamento
educativo”, Università degli studi Roma Tre, Facoltà di Scienze della Formazione, 22 e
23 maggio 2009.
62
“Il 20 agosto 1999 a Palau ho detto che la linea non può essere ricordo di cosa
percepita perchè in natura non esiste; esiste soltanto come creazione della mano
dell’essere umano, esiste come pensiero, concetto, immagine indefinita” M. FAGIOLI, Il
linguaggio nuovo Left 2009, L’Asino d’oro ed.2012.
63
A proposito della D. dopo la scuola elementare Giacomo Stella sostiene che
l’evoluzione del bambino con dislessia sembra paradossale per il fatto che la lettura
migliora mentre i problemi scolastici aumentano, e si chiede il perchè. Cfr. G. STELLA,
Storie di Dislessia, Libri Liberi, Firenze 2007.
64
A. BIANCARDI , G. MILANO, Quando un bambino non sa leggere, Rizzoli, Milano, 1999.
65
M. G. GATTI, Leggere la biologia umana Il sogno della Farfalla, Nuove Edizioni
Romane, 2, 2008.
66
G. STELLA (a cura di), La dislessia, cit.
67
Nel suo libro Quello che non ti aspetti Francesco Facchinetti racconta (Mondadori
Multicenter) il recupero della sua D.. In una intervista a Radio 24, nella trasmissione
“Essere e Benessere” condotta da Nicoletta Carbone, il prof. Stella ringrazia il cantante
per la sua testimonianza che gli evita di dover far sempre ricorso ai geniali dislessici
defunti come Leonardo o Einstein o Walt Disney ecc.
68
Cfr. M. FAGIOLI, La luce e la retina in Left 2010, L’Asino d’oro ed. 2013; ID., Il
pensiero dell’immagine in Left 2009, L’Asino d’oro ed. 2012
69
Ciò non contrasterebbe con la teoria della nascita ma confermerebbe quanto rilevato
dai neonatologi sulla indispensabilità della stimolazione della retina:“Sembrerebbe che
per l’attivazione dei nervi ottici che vengono stimolati direttamente rispetto a quelli
sonori bastano pochissimi fotoni e quindi anche al buio la retina può essere stimolata e
di conseguenza disinibire quanto era bloccato nel feto facendo sì che la cassa toracica
si decomprima e il neonato respiri., Cfr. G.GATTI, Dal passato al presente: la donna tra
pensiero poesia e biologia; Corso di formazione professionale tenutosi all’Istituto
Russel Newton di Scandicci (Fi) il 24 marzo 2009.
70
La fovea è una piccola porzione della retina in cui è massima l’acuità visiva. Ha un
diametro inferiore al mezzo millimetro.
71
M. S. LIVINGSTONE, G. D. ROSEN, F. W. DRISLANE and A. M. GALABURDA (1991)
Pysiological and anatomical evidence for a magnocellular defect in developmental
dyslexia. PNAS 88:7943-7947; M. S. LIVINGSTONE, Vision and Art, The biology of
seeing, New York, New York: Harry N. Abrams.
72 P.
TALLAL, (1998) lo sviluppo e i disturbi di parola e della lingua: implicazioni per la
plasticità neurale e comportamentali, in “Maturational Windows: plasticità corticale e
adulti”; a cura di B. Julesz e I. Kovacs, Santa Fe Institute Studi in Scienze della
Complessità, Proceedings. XXIV, v. 6 (3), pp. 257-268.
73
Come abbiamo già detto a proposito del modello a doppia via (n. 19).
78
74
Che il prof.P. Crispiani ritiene a nostro avviso erroneamente sintomi secondari in
accordo con Cacciaguerra (cit). quando sottolinea, tra i paradigmi dei necessari saperi
neuromotori e neuropsicologici, la distinzione tra fonetica (come azione motoria di
produzione dei suoni) dalla fonologia (dimensione linguistica e semantica) sulla quale
invece sorvolerebbero molti autori contemporanei .
75
“ Il segno linguistico unisce non una cosa e un nome, ma un concetto e un’immagine
acustica. Quest’ultima non è il suono materiale, cosa puramente fisica, ma la traccia
psichica di questo suono, la rappresentazione che ci viene data dalla testimonianza dei
nostri sensi: essa è sensoriale […] Il carattere psichico delle nostre immagini acustiche
appare bene quando noi [...] senza muovere le labbra nè la lingua possiamo parlare
tra noi [...] Per il fatto che le parole della lingua sono per noi immagini acustiche
occorre evitare di parlare dei “fonemi” di cui sono composte [...] Parlando di suoni e
sillabe di una parola si evita il malinteso purchè ci si ricordi che si tratta di immagini
acustiche” Cfr. F. DE SAUSSURE, Corso di linguistica generale (1922) Laterza Bari
1992,p.84.Nota edd.: “Questo termine ‘immagine acustica’ sembrerà forse troppo
ristretto poichè accanto alla rappresentazione dei suoni d’una parola vi è anche la sua
articolazione, l’immagine muscolare dell’atto fonatorio, ma per F. Saussure l’aspetto
motorio può essere sottinteso o comunque può occupare un posto subordinato in
rapporto all’immagine acustica” (corsivo mio).
76
M. FAGIOLI, La parola del’inconscio. Ipotesi che legano gli studi ligistici alla realtà
pschica.cit.
77
Diciamo labirintico oltre che uditivo perchè nei momenti di disorientamento che R.
Davis (1994) descrive benissimo, alcuni bambini soffrono di perdita dell’equilibrio
proprio come quando si ha una labirintite pur sentendoci benissimo.
78
Cfr. G.ZILBOORG, Storia della psichiatria, ed. Italiana a cura di Marcella Fagioli,
Nuove Edizioni Romane, Roma 2001.
79
“Ed io penso che la parola è nascosta nel corpo e non rivela l’immagine del
movimento perchè non è cambiamento della materia percepibile in cui la realtrà
precedente diventa ricordo cosciente. Cfr, M. FAGIOLI, Segni Contorti in Left N° 24,
2010.
80
Cfr. R. DAVIS Il dono della dislessia Armando Armando, Roma 1998; p.121.
81
“Ma i segnetti neri, quando c’è ricreazione del mare calmo della nascita, vanno da
soli come polvere invisibile che fa Ratlosigkeit agli occhi e al lobo occipitale; e si
affonda nel sottocorticale e le frasi fanno muovere il biologico delle sensazioni, oltre le
immagini e i sentimenti” M. FAGIOLI, Mare Calmo in Left 2008, L’Asino s’oro ed. 2011.
82
Cfr. D. RONALD, cit. p.25 (corsivo mio).
83
Ivi p.112.
84
Ivi p.103.
85
Ivi p.104.
86
Se fosse solo il linguaggio articolato quello costitutivo del pensiero, si arriverebbe
alla logica conseguenza che prima di imparare a parlare il bambino non pensa. Se il
linguaggio è acquisito, imposto dall’educazione, anche il pensiero allora sarebbe
imposto, appreso. Tutto ciò non spiega lo sviluppo del pensiero ed è in contrasto con
studi recenti sull’acquisizione del linguaggio che evidenzano una partecipazione fisica
e affettiva nella selezione e scelta delle parole, ovvero che c’è un pensiero che crea
immagini dalle sensazioni e dal sentire del corpo.
79
87
“Potrebbe essere utile cambiare prospettiva sulle disprassie legate a dislessia come
disturbo primario, [...] dove lavorare su sensibilità e percezione è fondamentale. Se tutti
sappiamo che la sensazione ci è inviata dagli organi di senso come reazione a uno
stimolo, mentre la percezione che ne deriva è un’elaborazione più elevata dello stimolo
stesso, forse una cosa a cui non si era mai pensato prima è che laddove la percezione
in sé non ha movimento, [...] il pensiero che parte dalla sensazione come risposta a
uno stimolo e che è quello che dalla nascita ci accompagna per tutta la vita, è la
capacità specie specifica umana di modificare le cose con fantasia proprio quando la
coscienza che si limita a riprodurre le cose nella forma con cui vengono percepite, non
c’è più.Ed è impossibile non riflettere sul fatto che la parola udita dal bambino è il
mezzo con cui egli fa diventare suono le sue immagini ignote e silenziose senza
coscienza del pensiero preverbale. Questa posizione, che si lega ai concetti di
movimento e trasformazione della mente, si stacca radicalmente dalla scuola della
psicomotricità francese che per quanto riguarda dislessia e disgrafia, risalendo a
Piaget, sostiene che nel coping viene impiegato il pensiero, e di conseguenza anche
dall’interesse alla sequenza dei grafismi secondo gli stadi piagettiani“ G. BRUCO,
Ricreazione o rottura della linea del primo pensiero immagine. Sensibilità e percezioni
nelle disprassie, cit.
88
A proposito della simbologia necessaria alla scrittura come tecnica strumentale da
acquisire, vien da ricordare che il significato originario della parola simbolo in uso
nell’antica Grecia era quello di connotarsi come mezzo di riconoscimento
combaciando con l’altro spezzone smarrito.
89
Cfr.M. FAGIOLI , Il pensiero dell’immagine in Left 2009. L’Asino d’oro ed. 2012.
90
“So che non è una volontà cosciente, è realtà del corpo che deve svilupparsi con
una personale lentezza o velocità . E non so distinguere la mente dal corpo. Soltanto la
parola sviluppo pretende il legame con la realtà biologica forse superba e triste insieme
perchè non ha la parola trasformazine”. Cfr, M. FAGIOLI, Segni contorti cit.
91
Vedi nota 5.
92
Ne La dislessia cit.. G. STELLA (a cura di) Bersani sostiene che quale marker
fenotipico della malattia esiste il riscontro di alterazioni strutturali del S.N.C.
presupponenti una alterazione del neurosviluppo che in particolari periodi fetali della
crescita dell’individuo potrebbe determinare una vulnerabilità con conseguente
debolezza di funzioni psichiche superiori per alterazioni dei circuiti neuronali deputati
alla percezione ed alla elaborazione delle informazioni.
93
Ivi p. 58
94
Esclusa ovviamente le estroflessione neuronale della retina che può essere stimolata
solo dalla 24esima settimana in poi di gestazione, Cfr G. BRUCO La reattività del
neonato come fonte del pensiero Giornale di Pedagogia Fiped N°2, 2008
95
M. FAGIOLI, “Venti secondi” Scrivere è ricreare il silenzio dell’inizio della vita umana,
in left N°1, 2011
96
ID, “Bologna 2010” Le tre linee del tempo del cammino diventano pensiero verbale,
in Left 2010, L’Asino d’oro ed.2013.
97
“Scrivo e non parlo perchè il pensiero verbale va direttamente al braccio ed alla
mano escludendo, dal suo cammino, la gola e la bocca”. M. FAGIOLI, Segni contorti in
Left cit.
98
La reazione su base biologica che accende il cervello e segna il passaggio alla vita
psichica, è stata confermata su basi sperimentali dalla neonatologa M. Gabriella Gatti
80
che ha verificato che durante le fasi del travaglio del parto, contrariamente a quanto
avviene per il battito cardiaco, l’ EEG non mostra modificazioni evidenti del tracciato
come invece avviene subito dopo la nascita, alla comparsa dell’attività mentale. M. G.
GATTI, Leggere la biologia e la vita umana, cit.
99
Ci riferiamo ai filosofi fisicalisti, identitisti e funzionalisti che non sono riusciti a
spiegarsi la relazione mente corpo Cfr. MORAVIA SERGIO L’enigma della mente Laterza,
Firenze 1988.
100
Cfr. G. BRUCO , Recensione a L’esistenza ferita di Sergio Moravia, Il sogno della
farfalla N° 1, 2001.
101
Sostenuta anche da G.STELLA e M.LIVINGSTON, cit.
102
Seconda teoria che si oppone a quella di Fodor della rottura selettiva Cfr. MORAVIA
SERGIO L’enigma della mente, cit.
103
M. G. GATTI, Leggere la biologia e la vita umana cit.
104
Rita Levi Montalcini ha sostenuto che la genialità non è programmata. Non è
modulata dai geni ma dagli epigeni (ambiente). La molecola da lei scoperta (l’N.G.F.
cura l’Alzheimer e in futuro anche I tumori)ha una influenza sia sulle cellule nervose
periferiche che su quelle del sistema neocorticale sviluppate nell’Homo sapiens. La
passione per la ricerca, quindi il pensiero non cosciente che la caratterizza,
risiederebbe nella componente neocorticale del cervello e non in quella arcaica. Lei
sperato che a prevalere sia sempre più la componente neocorticale in quanto quella
che è in pericolo e minaccia l’Homo sapiens è la parte emotiva del cervello.
105
R. DAVIS, cit., p. 21.
106
Ci ha colpito il fatto che R. Davis sostiene che il dislessico non è creativo
nonostante sia dislessico, ma proprio perchè lo è; Ivi p.20.
107
Cfr. P. CRISPIANI, cit., 2007.
108
R. DAVIS, cit. p.125.
109
Anche se “Resterà sempre ignoto il cammino che dalla rètina, dal timpano che si
muove ed anche dall’olfatto e dalla pelle, va alle varie zone della corteccia e si
trasforma in pensiero verbale che passa alla gola ed alla mano e fa parlare e scrivere”
Cfr. M. FAGIOLI, Pensiero e immagine in Left 2008. .
110
Questa la riflessione della collega Catia Giaconi - anticipata alla nota 31- fatta
circolare via e-mail dal presidente della Fiped prof. Piero Cispiani: «D’altra parte,
durante la lettura in genere, quando il bambino inciampa in parole o lughe o nuove, io
di colpo gliela copro: lui mi guarda e la dice. Mi sono domandata allora se recuperi
l’immagine della parola o se l’articolazione fonetica sia resa più facile perchè
alleggerita dello stimolo visivo». Ci aveva colpito il fatto che la collega parlava di
immagine della parola e non di figura. Decodificando potremmo dire che, quando
sparisce la percezione del segno scritto legato alla memoria cosciente, guardando il
volto umano che gli sta di fronte, il bambino recupera l’articolazione della parola
assieme alla propria immagine interiore; o, più specificatamente recupera
l’articolazione fonica della parola riconducendo il processo fonologico al recupero della
propria immagine interiore.
81
1
ORIZZONTI DEL TRASCENDENTALE
Silvano Facioni
La proposta teorica di Pio Colonnello si sviluppa intorno ad un'ermeneutica della
soggettività che, attraverso la verifica dell'avventura della fenomenologia, si muove
verso un'istanza etica capace di raccogliere le provocazioni che provengono da autori
come Heidegger (nelle sue letture di Aristotele e Kant), ma anche Freud, Husserl e la
scuola fenomenologica latinoamericana (Gaos) che vengono interpellati intorno alla
domanda sul senso del rapporto tra soggettività e storia.
L'étude critique proposé par Pio Colonnello s'enracine dans une herméneutique de la
subjectivité que, par la vérification de l'aventure de la phénoménologie, se déplace
vers un exigence éthique qui est capable d'écouter les provocations qui viennent de
auteurs comme Heidegger (dans ses lectures d'Aristote et Kant), mais aussi de Freud,
d'Husserl et de l'école phénoménologique latino-américaine (Gaos). Tous ces auteurs
sont interrogés sur la question de la relation entre la subjectivité et l'histoire.
Pio Colonnello introduces to a hermeneutic of subjectivity which through the proof of
the phenomenological current, moves toward a new ethical philosophy. His deep
analysis responds to some questions that come from authors such as Heidegger (in his
readings of Aristotle and Kant), but also as Freud, or Husserl and the Latin-American
phenomenological school (Gaos), who are questioned by the meaning of the
relationship between subjectivity and history.
Stretta tra l'esigenza di rendere sempre ragione del proprio
procedere e di esplorare territori poco o affatto visitati, la filosofia del nostro
tempo si direbbe incontrare difficoltà che per molto tempo si è creduto
fossero solo transitorie, legate magari alla contingenza socio-culturale in cui
germinavano, e in ogni caso schivabili o risolvibili attraverso oculate strategie
82
metodologiche (e talvolta retoriche). Ma la transitorietà, la contingenza, il
tempo in cui si vive sono, oltre che movente, "oggetto" stesso del sapere
filosofico, ed è allora necessario procedere con la consapevolezza che solo
«i piedi nel fango e gli occhi alle stelle» (come auspicava Montale nel
Quaderno genovese) aprono i sentieri accidentati del pensiero e permettono
loro di divenire tracce di un possibile senso che è già un senso possibile.
Prima di proseguire, è sicuramente opportuno sottolineare la
strutturale unità che sottende il mobile percorso di pensiero illustrato da
Orizzonti del trascendentale: un'unità che tiene unite l'istanza ermeneutica e
quella etica attraverso la verifica critica dell'avventura della fenomenologia
che, come ha dichiarato Derrida in un'intervista, «sicuramente non si è
conclusa, e le domande che sarà possibile rivolgerle fanno parte della sua
storia». Ecco, allora, che nell'indagine sviluppata da Colonnello, si tratta
anzitutto di recuperare l'istanza, per così dire, "verbale" dell'esistenza, vale a
dire l'intrinseca dinamicità di un soggetto che si trova nella costitutiva
necessità di oltrepassare se stesso e le sue determinazioni storico-politiche e
che, comprendendosi come "divenire", "movimento", "storia", scopre il mondo
non soltanto come suo correlato intenzionale, ma come il "luogo" di un'autocostituzione che è, insieme, necessaria e transitoria. Comprendere «l'io
storico nel suo immanente spazio mondano» (p.7) è, per questo, un'esigenza
che impone di riattraversare le esperienze fondanti il vivere dell'uomo e il suo
assumere le domande che provengono dal mondo: qui il rovesciamento (di
marca levinassiana) dell'istanza ontologica in istanza etica si compie proprio
a partire dall'idea che l'altro (vale a dire il mondo) suscita il soggetto che pure
non può non porsi dentro il mondo come istanza sovrana di comprensione o
di Sinngebung. L'orizzonte del trascendentale, quindi, è da sempre inquietato
da un'alterità che non si oppone ad esso, ma ne costituisce piuttosto il
doppio, l'altro lato, il rovescio: l'ermeneutica e, più ancora, l'ermeneutica
eticamente orientata, non potrà che situarsi nel punto di convergenza tra, se
così si può dire, il "diritto" e il "rovescio" della domanda fenomenologica, vale
a dire nel punto in cui il programma fenomenologico, dopo aver dispiegato
tutte le risorse di cui dispone, (si) apre all'auto-superamento del suo stesso
tragitto.
I capitoli che articolano Orizzonti del trascendentale (dei quali si
potrà in questa sede, rendere conto solo attraverso alcuni "assaggi" che non
ne esauriscono certo la portata teoretica) costituiscono l'ulteriore tappa di una
consistente e rilevante produzione che orbita intorno ad un ermeneutica della
soggettività che non lascia scoperti nessuno dei campi che attraversa e che,
anzi, proprio avvalendosi degli apporti della letteratura, della poesia, della
psicoanalisi, si muove in direzione del recupero di uno statuto che non può
essere solo metodologico (pena la perdita dell'affettivo, dell'heideggeriana
83
Befindlichkeit che costituisce uno dei modi dell'essere del Dasein), e
nemmeno solo esistenziale (pena la perdita della dimensione teoricoepistemologica che è lo specifico del pensiero): ecco allora che il sapiente
intreccio di temi e autori del nostro tempo (Heidegger, Freud, Husserl, Gaos,
Zubiri) ritrova una sorta di "perno" teorico nella prima edizione della Critica
della ragion pura di Kant in cui, come precisa l'autore, «la capacità
trascendentale di immaginazione risulta essere non ancora la facoltà
dell'intelletto, bensì dell'anima, … ed è, perciò, la scaturigine stessa della
sintesi ontologica» (p. 39). Seguendo, allora, la lettura di alcuni passaggi
kantiani proposta da Heidegger, Colonnello sottolinea come la «sintesi della
riproduzone nell'immaginazione, […] rivelerebbe il carattere temporale
dell'immaginazione trascendentale» (p. 46) ma in tale sottolineatura del
tempo (comprese le difficoltà a cui va incontro) si fa strada una più ampia
questione che mette in relazione il rapporto tra finitezza e razionalità: qui
Colonnello discute la problematicità della lettura heideggeriana e mostra
come la tensione kantiana «tra finitudine e infinitezza, tra ragione e
immaginazione intuitiva» rimanga costante e, insieme, irrisolta, ma che «è
appunto in questa tensione, nel "tra" (Zwischen) che si qualifica lo spazio
etico dell'uomo». C'è dunque una tensione che apre al trascendimento del
finito e che, come mostrerà la Critica della facoltà del giudizio, attraverso il
sentimento del sublime mostra come «la qualità del sentimento del sublime
coincida senz'altro con quella del sentimento morale, consistendo nella
subordinazione della sensibilità alla maestà della legge e del dovere, alla
dignità della ragione» (p. 50).
Come già l'indagine su Kant mostra, è a partire dalla nozione di
intreccio che, come più sopra accennato, la ricerca di Colonnello procede
verso l'individuazione di una terza via, di un entre-deux che, senza nulla
concedere al fascino di pallide suggestioni, assume l'orizzonte del
trascendentale per tentare il passo al di là di esso: dal confine verso il suo
oltre o, come mostra l'analisi dedicata ai percorsi della ragione etica, verso
quell'altro che, secondo il dettato levinassiano richiamato dall'autore, è
sempre "oltre", al di là di quella relazione simmetrica io-tu che, a partire da
Hegel e fino a Schmitt, si è configurata come lotta per il riconoscimento
lasciando fuori quell'«altro [che], pur nella sua debolezza, resta imprevedibile,
si sottrae e si rivela protetto da una trascendenza insormontabile» (p. 90).
Unitamente al saggio dedicato a Kant, il capitolo dedicato all'etica può
costituire il secondo polo della ricerca di Colonnello: esistenza ed etica o,
meglio, esistenza come etica, vale a dire come tentativo di superamento
della simmetria sempre "polemica", sempre belligerante che, come aveva
intuito Levinas nei rilievi mossi al "principio dialogico" di Martin Buber, satura
lo spazio della relazione riconducendola nell'orizzonte trascendentale di un
84
soggetto che, permanendo quale criterio del costituirsi del pensiero, proprio
dell'orizzonte trascendentale rischia di divenire prigioniero. Si tratterà allora,
come ha insegnato Giuseppe Capograssi (che, unitamente a Pietro Piovani
rappresenta uno dei riferimenti del percorso delineato da Colonnello), di
riconoscere nella «dissimiglianza fraterna» l'indice categoriale ed etico di un
pensiero della comunità «concepita come comunione di soggetti» in cui
l'elemento propriamente storico che sostanzia la realtà del soggetto si verifica
(si mette, letteralmente, alla prova) nell'istanza morale, ovvero in quell'ideale
dell'agire che nel carattere universale che lo struttura ricapitola l'umano e, in
un certo senso, ne salva la singolarità. Ecco allora, centrale, la posizione di
Emmanuel Levinas che aveva letto nell'analitica dell'Esserci di Heidegger
una sorta di chiusura rispetto al mondo o, meglio, che aveva trasformato
l'esigenza di universalizzazione in una sorta di pulsione espansionistica che
è, da ultimo, modulazione di quella volontà di potenza che costituisce la
radice ontologica dell'umano (compresa la sua apertura che,
heideggerianamente, si dà nella gettatezza) e per la quale, scrive Colonnello,
«non c'è spazio nella dimensione dell'intersoggettività che per la lotta» (p.
97). In tale quadro culturale (che viene "filtrato" anche attraverso la
riflessione sulla libertà condotta da Sartre) che, è opportuno ribadirlo, si
presenta come l'esito di un Occidente non sempre capace di pensare fino in
fondo le sue derive, Colonnello fa appello all'idea
oggi di fondamentale
importanza, tenuto conto dei nuovi assetti geo-culturali che interrogano il
mondo cosiddetto "globalizzato"
di «meticciato» di provenienza
latinoamericana, come se una delle chance offerta oggi all'Occidente e, in
particolare, all'Europa, consistesse nel guardare al di là, oltre i confini
culturalmente determinati che hanno contrassegnato la sua storia: la
categoria di «meticciato», attraverso le voci di autori come Betancourt,
Arriarán o Beuchot e, soprattutto, Serge Gruzinski, permette di riconsiderare
la questione del soggetto alla luce di istanze non più metafisiche (e, dunque,
radicalmente sovrane) e, in un certo senso, nemmeno "intersoggettive"
(come è accaduto in molte filosofie dialogiche del XX secolo che, da ultimo,
riconducono l'alterità a quella nozione di alter ego che già caratterizza
l'indagine squisitamente trascendentale condotta da Husserl nella Quinta
Meditazione cartesiana), ma alla luce di un'ingiunzione etica che proviene
dall'altro e che consente all'«io, trasfigurato, [di] convertirsi, dopo essere
stato svuotato di se stesso, in dono e generosità» (p. 104).
La tensione etica, per definizione metafenomenologica o
ultrametafisica, costituisce una sorta di "basso continuo" dei saggi di
Colonnello: il richiamo alla fenomenologia husserliana, infatti, si rivela come
lo snodo a partire dal quale e intorno al quale deve essere pensata l'uscita
dall'anfibologia fenomenologica che, come illustra magistralmente il saggio
85
dedicato a Husserl e a José Gaos, rischia di rimanere impigliata nell'aporia
teoreticista di un io trascendentale che non riesce ad appropriarsi fino in
fondo dell'io psicologico e, viceversa, di un io psicologico che non trova un
fondamento teorico capace di superare il trascolorare del tempo e della
coscienza. Il primato dell'affettivo che Gaos (via Scheler) elabora a partire dal
dinamismo delle mociones che rende possibili sia il pensiero, sia le
emociones, viene interpretato da Colonnello come il tentativo non solo di
superare l'intrinseco dualismo tra logos e sensibilità ma, più ancora, come il
percorso «dalla fenomenologia della fenomenicità ad una problematica
metafenomenologica»: ancora una volta è la costituzione etica del soggetto a
proporsi come "fondamento" che assume e trasforma il logos sempre
intimamente attraversato dal rischio di un'apodissi saturante e, per questo,
snaturante il proprium dell'umano, per aprirlo verso quella dinamicità che è il
segno della storia e che chiede di essere accolta nel percorso ermeneutico.
Non è, allora, casuale, l'attenzione rivolta verso la fondamentale
idea di «intelligenza senziente» che caratterizza il pensiero maturo di Xavier
Zubiri, che viene indagata per riscoprire, anche in alternativa ad alcune
posizioni "estremistiche" assunte da Zubiri nella rilettura che compie
dell'opposizione tra sentire e intellezione, «tracce spesso nascoste, talora
fluenti come una corrente carsica nelle profondità dei "sistemi" teoretici»: il
rapporto tra sensibilità, immaginazione e intelletto che costituisce la specola
teorica del passaggio dalla prima alla seconda edizione della Critica della
ragione pura, costituisce lo snodo per una riconsiderazione della circolarità
tra vita e mondo in cui il tempo si dispone come la circolarità stessa che
sottrae l'uomo alle pericolose notomizzazioni a cui vorrebbe costringerlo i
saperi tecnico-scientifici o una considerazione "biologicista" del divenire.
Parlare di divenire significa sempre, al di là della prospettiva teorica
che viene assunta, parlare di storia, ed è in questo senso che l'indagine di
Colonnello si rivolge, in un illuminante capitolo, all'elaborazione dell'intreccio
ontologico dei temi della colpa, del dolore, della dimenticanza e del silenzio di
Dio che, soprattutto dopo l'immane catastrofe generata dai regimi totalitari
nella prima metà del XX secolo, ha trovato nella filosofia un banco di prova
insieme radicale e fecondo.
Assumendo, come fosse una sorta di stella polare del percorso, la
notazione borgesiana secondo cui «l'oblio è una forma della memoria, il suo
luogo sotterraneo», Colonnello intraprende una densa ricognizione dell'idea
di colpa sviluppata nel pensiero greco (soprattutto in quello tragico) e nel
pensiero cristiano, individuando nella dimensione della "dimenticanza"
l'effetto, per quanto riguarda il mondo greco, di una concezione della vita che
(come aveva acutamente compreso Nietzsche) è intrinsecamente gioco di
crudeltà e di inoppugnabile destino, mentre nel pensiero prima ebraico e
86
successivamente cristiano, la dimenticanza è causa di colpa e dolore, come
mostra non soltanto la letteratura profetica veterotestamentaria, ma anche gli
scritti più squisitamente sapienziali come, ad esempio, il libro di Qohelet che
presenta indiscutibili punti di tangenza con il mondo greco, ma pure
altrettanto indiscutibili differenze e che, forse non casualmente, si articola
come riflessione sul tempo individuale e su quello più generalmente storico
che dell'oblio e della memoria è, per così dire, il riflesso esistenziale.
Recuperando il Borges presente nella riflessione di Colonnello, vorremmo
però richiamare un altro testo famoso (oltre alla Biblioteca di Babele da cui è
tratto quanto abbiamo definito una sorta di stella polare del percorso
teoretico): si tratta dell'altrettanto noto racconto dal titolo Funes, el
memorioso, in cui si narra di Ireneo Funes, bizzarro personaggio che, dopo
essere stato travolto da un cavallo selvaggio, era rimasto completamente
paralizzato. L'ipnotico racconto di Borges ci dice come Ireneo Funes, dopo la
caduta da cavallo, fosse divenuto incapace di dimenticare qualunque evento
gli fosse capitato non solo di vivere, ma addirittura di immaginare: ricordava,
infatti, ogni singolo istante, ma in questa prodigiosa memoria, nel
«vertiginoso mondo di Funes», non c'era posto per il pensiero. Scrive Borges
che Funes «era quasi incapace di idee generali, platoniche», e che nel suo
«mondo sovraccarico non c'erano che dettagli, quasi immediati»:
l'impossibilità di dimenticare diviene, così, non solo la condanna all'afasia del
pensiero ma, più ancora, la condanna ad un'esistenza fatta di «dettagli»
irrelati, incapaci di costruire storia. Proprio questo sembra essere l'esito
dell'indagine di Colonnello: se, come scrive, si tratta di rileggere «la
questione della dimenticanza come il volto in ombra della colpa» (p. 55) per
scoprire come la dimenticanza «assuma una facies ambivalente, un aspetto
gianico» che, da un lato, la vede aprirsi alla possibilità del pentimento e del
perdono e, dall'altro, la condanna all'inesorabilità dell'accaduto, del passato
immodificabile, è forse possibile dire come anche la memoria, il ricordo,
possano trasformarsi, come accade a Funes, in una sorta di colpa da cui è
impossibile uscire e che, letteralmente, paralizza l'uomo nei «dettagli», vale a
dire in quanto non riesce a disporsi, nel divenire, come suo costitutivo
momento o tappa, ma rimane irrelatamente statico e, per questo, condannato
ad una sorta di non redenzione. Il nesso colpa/dimenticanza, allora, come la
costellazione teorica di Colonnello lascia intravedere, non è scindibile dal
consustanziale nesso colpa/memoria, ed è nel mutuo rinviarsi di memoria e
dimenticanza che la Schuldfrage acquista tutta la sua pregnanza
ermeneutica, come mostra la riflessione di Agostino sapientemente
richiamata da Colonnello: nel libro X delle Confessioni, infatti, Agostino riflette
sulla memoria come "memoria dell'oblio", ed in questa aporia, nota
Colonnello, «Agostino trascorre da un piano fenomenologico ad uno
87
metafenomenologico» in cui ad essere obliato è l'io che ricorda (proprio
quanto non riesce a Ireneo Funes) il quale «per quanto ricordi di sé, ma i può
giungere al proprio fondo» (p. 60) perché, da ultimo, l'anima cerca Dio, e tale
inesausta, inesauribile ricerca costituisce, dell'uomo, la deriva e, insieme, la
possibilità della salvezza.
Da questo punto di vista, il richiamo alle indagini sul perdono svolte
da Hannah Arendt, a cui si aggiungono quelle, successive, di Ricoeur,
Jankélévitch e Derrida assume un'importanza centrale: uscire da quanto
viene chiamato la «logica della retribuzione» che presuppone una sorta di
simmetria tra la colpa e il perdono, equivale a riconoscere la dismisura
(quanto Derrida chiama l'«imperdonabile») di una gratuità che non conosce
ritorno e che si proietta al di là di sé.
La colpa di Ireneo Funes, in fondo, consiste in una inconsapevole
incapacità di farsi perdonare che lo inchioda alla pietrificazione degli attimi
del tempo: ma cosa avrebbe da farsi perdonare Funes? Il racconto non
presenta appigli per stabilire ipotesi, ma è forse possibile dire che la colpa di
Ireneo e, dunque, quanto deve essere perdonato, consiste proprio nel suo
non riuscire a riscrivere il passato, nel non essere in grado, come scrive
Colonnello, di «interrompere o meglio "trasformare" il continuum temporale
pietrificato nella necessità del già stato», perché «mutare il passato
svincolandoci dalle sue conseguenze, ha senso per aprire appunto nuove
possibilità per il futuro» (p. 63). «Sapere poetico» e «ragione metafisica»
(come recita il titolo del capitolo del libro) (ri)trovano una sorta di comune
origine in quell'esigenza che accomuna il sapere e la ragione e che consiste
nella necessità di aprire la storia al futuro o, ma si tratta dello stesso, al
perdono: perdono, infatti, è uno dei nomi possibili del futuro e nelle screziate
tracciature di Orizzonti del trascendentale, tale nominazione è sempre
discretamente all'opera come invito alla pietas di un pensiero che nella
propria debolezza rintraccia la forza che sospinge verso la ripresa e
l'approfondimento.
Ripresa e approfondimento delle ragioni della storia e dell'uomo che
le scopre, le inventa ma, soprattutto, le lascia accadere offrendo loro lo
spazio e il tempo dell'elaborazione, nella convinzione che la voce degli
uomini porta sempre e comunque, anche di fronte all'abisso del non senso, la
traccia di un'eccedenza di senso che, ancorché nascosta o ignota, lavora
sotterraneamente e attende di essere colta e discussa. Si tratta,
indubbiamente, di un compito inesauribile e non facile al quale, però, è
impossibile sottrarsi, come è impossibile sottrarsi all'ascolto di quanto
l'interprete, «accorto rabdomante» secondo le parole di Colonnello, riesce a
scoprire nella convinzione che «interpretare è sempre un nuovo modo di
filosofare».
88
1
A proposito del volume di Pio Colonnello, Orizzonti del trascendentale, Mimesis,
Milano 2013, p. 141.
89
LA CAPACITA DI ANDARE OLTRE LE APPARENZE
Monica Gorgoretti
Partendo dalla frase “La capacità di andare al di là delle apparenze” l'Autrice conduce
un percorso sulla ricerca della conoscenza. Partendo dal mito socratico verso il
cammino infinito della conoscenza che dona una capacità tutta nuova di guardare e di
vedere, la conoscenza squarcia il velo del quotidiano positivismo, agita le acque calme
e placide dell’abitudine, abbatte miti, credenze, disancora dall’indolente dormiveglia
della tradizione, libera l’uomo dalle catene attraverso cui spesso la storia lo ha
imprigionato, volendo imprigionare non tanto il suo corpo, ma il suo spirito, la sua
mente, le sue idee, che cambiano il mondo, la storia.
À partir de la phrase «La capacité à aller au-delà des apparences», l'auteur se lance
dans un parcours à la recherche de la connaissance. À partir du mythe socratique vers
le chemin infini de la connaissance qui donne une toute nouvelle capacité de regarder
et voir, la connaissance perce le voile du positivisme quotidien, agite les eaux calmes
et tranquilles de l'habitude, démolit les mythes, les croyances, éloigne de l'indolent
demi-sommeil de la tradition, libère l'homme des chaînes à travers lesquelles l'histoire
l’a souvent emprisonné, en voulant emprisonner pas seulement son corps, mais son
esprit, son âme, ses idées qui changent le monde, l'histoire.
Starting with the phrase "The ability to go beyond appearances," the Author conducts a
search on the knowledge. Starting from the Socratic myth towards the path of the
infinite knowledge that gives a whole new ability to look and see, knowledge pierces
the veil of everyday positivism, shaking the calm and placid waters of routine; it
demolishes myths and beliefs, it removes from the apathetic lethargy of the tradition, it
releases man from the chains through which the history has often imprisoned him to
imprison not only his body, but his spirit, his mind, his ideas which change the world
and the history.
“La capacità di andare al di là delle apparenze”, questa la frase che
echeggiava nella mia mente, nella mia anima che, come una voce interiore,
mi ha guidata e condotta sino all’incontro con la filosofia.
Questa eterna e seducente sconosciuta non ha prodotto risposte,
non ha calmato la mia sete, il mio bisogno di indagare l’animo umano, non ha
colmato vuoti, ma ha aperto voragini oscure, profonde, causandomi in modo
inaspettato un insolito e sottile dolore, quel dolore particolare che solo
90
l’interminabile cammino verso la conoscenza può provocare. Essa, difatti,
causa una sottile forma di sofferenza, poiché il conoscere, non solo è una
strada da sempre impervia, ma possiede il potere di distruggere molte
convinzioni, così fortemente radicate nell’animo umano da sembrare quasi
suoi elementi costitutivi, rendendo dolorosa la presa di coscienza della loro
relatività, quando le pensavamo assolute, della loro infondatezza, quando le
ritenevamo fonte ed espressione di verità.
1
Nel mito socratico della caverna , gli uomini sono incatenati,
impossibilitati a volgere lo sguardo verso la luce e condannati a ritenere che
le immagini proiettate sul muro che hanno di fronte rappresentino la realtà;
ma qualora uno di essi riuscisse a liberarsi e a volgere lo sguardo verso la
luce, non solo proverebbe dolore poiché i suoi occhi non sono abituati a
guardare la luce, ma proverebbe sgomento e incertezza vedendo per la
prima volta la causa delle immagini proiettate sul muro, sino ad allora ritenute
realtà e probabilmente sentirebbe l’impulso irrefrenabile di ritornare
nell’oscurità, dove si sentiva al sicuro; abbandonato il luogo riparato nel quale
aveva da sempre vissuto e, vedendo crollare le sue certezze, l’uomo liberato
dalle catene è inizialmente vulnerabile, come un barca, che lasciato il porto,
si ritrova nel mezzo di una tempesta, senza punti di riferimento, in balia di
moti vorticosi, simili a quelli che agitano il pensiero, quando, destatosi dalla
quiete della non-ricerca, inizia il suo percorso verso il sapere. Ma, divenuto
cosciente di aver creduto sino ad allora in una realtà che tale non era, e
finalmente consapevole di essersi liberato dalle catene dell’ignoranza, non
potrà più tornare indietro e, sebbene dinanzi a lui si stagli una strada
impervia e certo infinita, rinuncerà per sempre alla tentazione di rintanarsi
nuovamente nella caverna, nell’oscurità del non-sapere.
Il cammino infinito della conoscenza dona una capacità tutta nuova
di guardare e di vedere, la conoscenza squarcia il velo del quotidiano
positivismo, agita le acque calme e placide dell’abitudine, abbatte miti,
credenze, disancora dall’indolente dormiveglia della tradizione, libera l’uomo
dalle catene attraverso cui spesso la storia lo ha imprigionato, volendo
imprigionare non tanto il suo corpo, ma il suo spirito, la sua mente, le sue
idee, che cambiano il mondo, la storia.
La ricerca è luce contro l’oscurità che concilia il sonno del pensiero,
e Socrate rimprovera agli ateniesi la loro noncuranza nei confronti del nuovo
rappresentato dall’indagine filosofica, dicendo per bocca di Platone
nell’Apologia: «Ma voi, con ogni probabilità, contrariati come chi venga
scosso sul punto di pigliar sonno, […] mi manderete a morte senz’altro, e
2
passerete il resto della vostra vita dormendo» .
La ricerca socratica, che evidenziava i limiti delle conoscenze del
suo tempo ritenute fonte di ogni verità, scuoteva dalla pigrizia intellettiva,
91
rappresentava il rumore contro il silenzio dell’abitudine e Socrate stesso
3
sosteneva che una vita senza ricerca non era degna di essere vissuta . Oggi
come ieri, aprirsi al nuovo richiede di sacrificare l’illusorio lido delle certezze,
per intraprendere un viaggio lungo una vita che non si sa mai dove condurrà.
Tale viaggio richiede una forte dose di coraggio poiché significa aprirsi un
varco verso l’indefinito, superando le “colonne d’Ercole” della tradizione,
abbandonando il sicuro approdo delle convinzioni.
Il nostro mondo che, a fatica e a spinte alterne, tende al
multiculturalismo, che coniuga, in un connubio misterioso e antinomico, il
progresso scientifico e culturale nella sua più ampia accezione, con una
forma deviata di patriottismo, con un ancora imperante pregiudizio
generalizzato, necessita più che mai di una guida che gli fornisca gli
strumenti per ritrovare un senso dell’umano che ha smarrito.
Ciò che rende “umano” l’uomo è il pensiero, che per esercitare la
sua potenza costruttiva esige un altro elemento antropico: la capacità critica.
Non esiste strumento più efficace di questo per sfuggire alle catene che la
consuetudine, la tradizione ci hanno stretto attorno, impedendoci di ritrovare
gli altri che noi siamo. Ricordando Merleau-Ponty, gli uomini sono uominimatrioska, «se si potesse aprirne uno, vi si troverebbero tutti gli altri come
4
bambole russe» , come elementi costitutivi e inseparabili di una unità che
prescinde e precede la singolarità di ogni individuo.
Ritrovare questa radice comune, consentirebbe di riscoprire
nell’altro noi stessi, perché compartecipi dello stesso grado di umanità e ci
renderebbe capaci di dialogare con le diverse culture, religioni, ma anche più
semplicemente con altri punti di vista. Viviamo in un assoluto isolamento
intellettuale, chiusi in un solipsistico egoismo culturale, che ci rende incapaci
di vedere l’umanità del mondo di cui siamo parte, divenendo così facili prede
di un sistema che ci vuole schiavi di una logica economica, di mercato, che ci
spoglia della nostra cifra peculiare: l’umanità, appunto.
Esiste oggi una forma generalizzata e diffusa, di immaturità
intellettiva, un’incapacità, cioè, di sviluppare pensieri autonomi, svincolati
dalla convinzione che la credenza diffusa e maggiormente accettata
possegga uno statuto di verità incondizionato, proprio in virtù di tale larga
accettazione. L’a-criticità di questa forma-mentis, ci induce al pregiudizio nei
confronti di chi persegue percorsi di vita differenti, di chi possiede e
manifesta coraggiosamente idee contrarie rispetto a quelle più comunemente
accettate, ci rende ciechi dinanzi all’umano che è elemento costitutivo
dell’immigrato, del “diverso” per religione, per fede politica, sino a condurci
allo scherno di chi è diversamente abile.
Il pensare come tutti pensano, da una parte ci rende affiliati alla
comunità alla quale apparteniamo, ponendoci al sicuro dalla derisione e
92
dall’isolamento cui spesso la comunità condanna chi ha il coraggio di rendere
pubbliche le proprie discordanti idee e di perseguire una vita ad esse ispirata
come accadde per Socrate, accusato di essere un sobillatore di giovani, il cui
5
obiettivo era quello, secondo i suoi accusatori, di introdurre nuovi dei . D’altra
parte ci rende incapaci di combattere contro la dilagante povertà intellettuale,
causa prima di tali difetti del pensiero e di aprire un varco nelle coscienze, tra
le diversità, riconoscendole finalmente come ricchezza infinita.
L’esercizio della ragione è l’unico modo che l’uomo possiede per
6
uscire da questa forma di schiavitù dogmatica . La ragione, d’altra parte, è
l’elemento che ci contraddistingue dalle altre forme di vita, essendo il tratto
peculiare e imprescindibile dell’essere umano (pur non essendo l’unico), così
come sostenevano gli stoici. Secondo costoro, infatti, la natura ha dotato gli
esseri viventi sin dalla nascita, di un impulso, il cui obiettivo è quello
dell’autoconservazione fisica e psichica dell’essere animato. Negli animali
questa tendenza non verrà mai superata; nell’uomo, invece, la natura ha
previsto una crescita psicofisica che mira allo sviluppo della razionalità,
7
elemento che appunto lo rende sostanzialmente differente dalle altre specie
(è bene sottolineare che questa differenza che ha permesso all’uomo di
evolversi nella specie dominante, non giustifica il suo accanimento contro il
mondo che abita e contro le alte specie che con lui condividono l’Essere).
Dunque l’uomo ha strutturalmente la possibilità di accedere al cammino della
conoscenza e di spezzare le catene dell’oscurantismo intellettivo.
La filosofia è lo strumento che tien desta la mente, consentendole di
sfuggire alla presa dell’omologazione intellettiva, la quale impedisce lo
sviluppo del pensiero critico, spogliandoci della nostra cifra peculiare: il
pensiero razionale. Ampliare i nostri orizzonti, attraverso lo studio dei grandi
pensatori di ogni tempo, apre un varco tra ciò che riteniamo essere
assolutamente giusto, e la presa di coscienza della sua infondatezza,
ponendoci nella condizione di dover ascoltare con una nuova disposizione
d’animo tutto ciò a cui eravamo sordi. L’ausilio della filosofia nel riscoprire e
ritrovare la capacità di ragionare, nel rendere il nostro animo propenso
all’ascolto dell’altro, concorre alla strutturazione di una coscienza capace di
sfuggire alla cattura del pregiudizio, alla immobilizzazione del pensiero in
categorie stereotipate, attraverso le quali giudicare l’altro. Tutto ciò che da
esse fuoriesce, come sopravanzo di vissuto, è duramente criticato,
fortemente osteggiato. L’uomo che rinuncia al difficile cammino della
conoscenza, ritenendo tra l’altro la filosofia come una disciplina desueta e
relegata nell’angusto ambito accademico, non possiede gli strumenti
sufficienti per leggere in tale sopravanzo la ricchezza della diversità e il
fascino della non-omologazione di chi non vuole arrendersi alla schiavitù
93
rappresentata dall’accettazione a-critica delle credenze appartenenti alla
comunità in cui si nasce e si vive.
Ogni scritto, ogni pensiero è in buona parte figlio dei tempi,
assoggettato alle particolari condizioni politiche, storiche, nonché
economiche e sociali in cui vive l’autore, ma l’esercizio della ragione,
permette di estrapolare da ognuno di essi, da ogni teoria filosofica, quegli
interrogativi e quelle ipotesi di risposta che sorprendentemente sfuggono alla
presa del tempo, imponendosi all’attenzione dello studioso e dello studente,
in tutta la loro attualità.
1
PLATONE, La Repubblica, tr. it. a cura di F. Sartori, intr. di M. Vegetti, Laterza, RomaBari 1998, VII, 515 a-b, pp. 229-230.
2
PLATONE, Apologia di Socrate , trad., intr. e n. a c. di G. Lombardo, La Nuova Italia,
Firenze 1992, p. 46.
3
Ivi, p. 61.
4
M. MERLEAU-PONTY, Notes de cours. 1959-1961, Gallimard, Paris; tr. it: È possibile
oggi la filosofia? Lezioni al Collège de France 1958-59 e 1960-1961, a c. di A. Pinotti,,
Raffaello Cortina, Milano 2003, p. 201.
5
PLATONE, Apologia di Socrate, cit., p. 30.
6
Utilizzo il termine “dogmatica” per definire il pensiero a-critico della “mentalità”
dilagante e imperante della cultura di appartenenza, perché molti dei concetti
stereotipati che essa costruisce e attraverso i quali giudichiamo l’altro, sono
difficilmente giustificabili logicamente dai loro stessi sostenitori, dunque sono accettati
come fossero dei dogmi di fede che posseggono uno statuto di verità indiscutibile in
virtù della loro larga accettazione.
7
P. DOMINI, F. FERRARI, L’esercizio della ragione nel mondo classico, Einaudi, Torino
2005, p. 239.
94
SUL FONDAMENTO FILOSOFICO DEL COUNSELING
Gian Maria Greco
Il testo presenta alcune riflessioni sul fondamento filosofico del counseling. La tesi
fondamentale è che il counseling, quando pienamente compiuto, trova le sue ragioni e
i suoi strumenti nella filosofia. L’argomentazione si basa su due assunti: da un lato che
la storia del pensiero è segnata da un processo di de-antropocentrizzazione che ha
portato ad individuare nella razionalità, o meglio, nella possibilità della razionalità
l’elemento precipuo dell’essere umano; dall’altro che la storia della filosofia è mossa
dalla continua ridefinizione del proprio oggetto di analisi, e che questo processo ha
portato allo sviluppo, grazie alla svolta linguistica, del ragionamento critico come
strumento filosofico per eccellenza.
The paper presents some reflections on the philosophical foundations of counseling.
The fundamental thesis is that counseling, when fully accomplished, finds its reasons
and its tools in philosophy. The argument grounds on two assumptions: on the one
hand, that the history of thought is marked by a process of de- anthropocentrization
that led to the identification in rationality, or rather in the possibility of rationality, the
principal element of the human being; on the other hand, that the history of philosophy
is driven by the continuous redefinition of its object of analysis, and that this process
led to the development, thanks to the linguistic turn, of critical reasoning as the
philosophical tool par excellence.
Le texte présente quelques réflexions sur les fondements philosophiques de la
consultation. La thèse fondamentale est que la consultation, lorsqu'elle est bien
remplie, trouve ses raisons et ses outils en philosophie. L'argument repose sur deux
hypothèses: la première, que l'histoire de la pensée est marquée par un processus de
de-anthropocentrisme qui a conduit à l'identification de la rationalité, ou plutôt dans la
possibilité de la rationalité, l'élément principal de l'être humain; d'autre part, que
l'histoire de la philosophie est entraîné par la redéfinition continue de son objet
d'analyse, et que ce processus a conduit à la mise au point, grâce à la tournant
linguistique, le raisonnement critique comme l’outil philosophique par excellence.
95
Introduzione
Tra le attività umane dare consigli è una delle più praticate. Chi
almeno una volta non è stato preso dalla tentazione di dare un consiglio a
qualcun altro? I consigli sono sempre dietro l’angolo. Non importa
l’argomento o il problema. Che sia un piccolo cruccio quotidiano o una
questione profonda, c’è sempre qualcuno pronto a dare consigli in proposito.
La pratica del dare consigli esplicita al meglio un certo moralismo latente in
ognuno di noi. Dare consigli è facile perché è gratis e ci permette di innalzarci
su un pulpito. Ma è anche indicativo di una intima tendenza verso l’altro, una
tendenza costitutiva della natura di ogni uomo. Dare consigli è indice della
relazione di aiuto che lega ogni uomo all’altro, a volte in modo non cosciente
ma comunque presente. Ciò emerge con maggiore chiarezza quando si
analizza questa relazione dall’altro capo ovvero nella richiesta di un consiglio
che viene avanzata verso gli altri. Chiedere consiglio è una forma di chiedere
aiuto. Chiedere consiglio mette in luce la natura intrinsecamente umana della
richiesta di aiuto. Si chiede aiuto agli altri perché si riconosce un legame con
gli altri non forzato o estraneo o posticcio ma naturale, proprio dell’essere
uomo. Chiedere aiuto è indizio anche della natura opaca del sé, della
impossibilità di avere pieno controllo e coscienza della propria profondità
interiore. Ci si rende conto, in maniera consapevole o meno, che dell’altro
abbiamo bisogno prima di tutto per comprendere meglio noi stessi. La
relazione di aiuto, quindi, è indicativa del fatto che la dimensione della
relazione – in generale – è strutturalmente propria all’uomo.
Il nucleo fondante del counseling non è certo dare genericamente
consigli né tantomeno suggerire una soluzione a un certo problema. Il nucleo
fondante del counseling è aiutare l’altro a “consigliare” se stesso, a
esplicitare la propria visione del mondo, a fornire strumenti per la riflessione
critica che permettano di smascherare le fallacie argomentative annidate in
essa, col fine di elaborarla, vagliarla, tutto in un continuo scambio dialogico
paritario: solo dopo sarà possibile interpretare il proprio problema alla luce di
tutto questo. La soluzione del problema, quale essa sia, non spetta al
counselor, non rientra nel raggio di azione del counseling. È una decisione
che poggia tutta sulle spalle di colui che chiede aiuto. Il ruolo del counseling
è portare il cliente a elaborare in proprio la strategia da lui ritenuta migliore
1
per risolvere in proprio il problema .
Scopo del presente lavoro è presentare alcune riflessioni sul
fondamento filosofico del counseling. Non verrà qui preso in esame l’ampio
dibattito sulle differenze tra conseling e psicoterapia, né le numerose critiche
mosse al counseling come pratica pseudo-psicoterapeutica, critiche
elaborate per lo più all’interno degli ambiti medico e psicoterapeutico. Non
verranno prese in considerazione nemmeno le discussioni sulle varie forme
96
di counseling né si tenterà una trattazione delle differenze tra le varie famiglie
di counseling. Tali questioni non sono funzionali all’economia del presente
lavoro e non contribuirebbero a intaccare o supportare la riflessione che qui
si propone.
La filosofia e il suo oggetto
La storia dell’uomo è storia di svolte. Che si tratti del fuoco o della
ruota, della scrittura o della polvere da sparo, della stampa o della
pennicillina, la storia dell’uomo è segnata da punti critici con cui l’uomo
2
interviene sul mondo, modificandolo e ridefinendolo . Sono nodi che
esprimono al meglio il carattere intimamente poietico dell’uomo, in grado di
agire sull’ambiente che lo circonda così da cambiare se stesso e il corso
della propria storia. Si tratta di estrinsecazioni dell’uomo come homo
poieticus più che come homo oeconomicus, homo ludens, homo faber, zòon
politikòn ecc.. Indicano la capacità proattiva dell’uomo sul mondo, sugli altri e
su se stesso. Una capacità che non è semplice sfruttamento e utilizzo
strumentale del mondo e degli altri, ma azione creatrice positivamente
indirizzata, in grado di ristrutturare e soprattutto avere cura del mondo, degli
3
altri e di se stesso .
4
Anche la storia della filosofia è storia di svolte . La storia del
pensiero filosofico è continuamente declinata intorno alla riproposizione del ti
estì socratico. Ciò che contraddistingue le varie svolte è il cambiamento
dell’oggetto della domanda. Lungo tutto il suo percorso la filosofia ha, infatti,
sempre manifestato l’intima tensione alla continua ridefinizione del proprio
oggetto di ricerca. Tale ridefinizione è segnata da molte tappe. Dal momento
che la filosofia ha la proprietà di poter essere essa stessa oggetto della sua
indagine è addirittura possibile dire che ogni momento del percorso della
filosofia è una svolta. Partendo proprio dall’idea che la filosofia ridefinisca
continuamente il proprio oggetto di analisi è possibile compiere un’azione di
astrazione e individuare lungo tutto questo percorso, non certamente lineare,
alcune svolte essenziali, ovvero svolte che hanno segnato un vero e proprio
cambio di paradigma, un cambio radicale dell’oggetto di indagine, dei metodi
5
e delle risorse concettuali utilizzate .
Una delle prime grandi forme che prende la domanda filosofica è
quella legata all’Essere. Il grande problema che si pone la filosofia è quello
6
ontologico . “Che cos’è l’Essere?”, “che cosa esiste?”, “che cosa c’è?” sono
le domande in cui si istanzia molta parte della ricerca filosofica del pensiero
antico e medievale. La questione ontologica è il cuore della riflessione dei
pensatori chiave di questi periodi storici, si pensi a Platone, Aristotele,
Plotino, Agostino, Tommaso. Ciò non implica l’assenza di ogni altra domanda
97
diversa da quella sull’Essere, non implica un’attenzione dedicata in maniera
esclusiva alla questione ontologica, non implica cioè che non ci sia spazio
per altre domande, come quelle sull’etica, sulla società, sulla politica, sulla
conoscenza. Sono questioni tutte presenti ma spesso subordinate alla
questio princeps. La questione ontologica è forma e contenuto della
preoccupazione filosofica, è la cornice entro cui si muovono tutte le altre
riflessioni, è la tela su cui vengono tracciate tutte le altre linee teoriche. Con
estrema sintesi, potremmo dire che in questo periodo della storia del
pensiero la questione ontologica è quella principale, è il problema che si deve
affrontare anche quando si tratta di altro.
Come oggetto eminente della riflessione filosofica la questione
ontologica è un oggetto tanto potente quanto ingombrante. In filosofia un
sistema è tanto più solido e offre risposte argomentativamente valide e
convincenti quanto più sono solide le premesse su cui è costruito, ovvero
quanto più sono solide le premesse su cui sono costruite le argomentazioni
delle risposte che propone. La solidità delle premesse si fonda anche sulla
maggiore gestibilità concettuale. La questione ontologica per secoli si è
mostrata potente ma anche fragile perché facilmente preda di numerose
difficoltà e critiche, in quanto basava le proprie argomentazioni su premesse
molto impegnative in termini di risorse concettuali. Proprio come risposta alle
difficoltà poste dalla questione ontologica, i filosofi hanno iniziato
gradualmente a spostare la propria attenzione in cerca di un problema che
sembrasse più facilmente gestibile, sul quale si potessero fornire risposte
basate su argomentazioni più solide, fornite le quali solo in un secondo
momento sarebbe stato quindi possibile tornare ad affrontare la questione
ontologica.
La ricerca di un modo nuovo di porre la domanda filosofica, che
pervade tutta la filosofia, trova sponda nel fermento dell’Umanesimo e del
Rinascimento e si esplicita nel pensiero di figure come Cartesio e Kant, dove
la domanda “che cos’è la conoscenza?” diviene prioritaria rispetto a “che
cos’è l’Essere?”. Non è una priorità ontologica, ma funzionale e per certi versi
logica. Ci si rende conto che prima di poter rispondere a una domanda come
“che cosa c’è?” è necessario affrontare e rispondere alla domanda “come
funziona la conoscenza?”. Prima di poter affrontare la questione di cosa ci
sia o meno è necessario comprendere i meccanismi tramite i quali l’uomo è
in grado di conoscere ciò che c’è (o meno). La domanda filosofica viene così
a configurarsi come una domanda sulla conoscenza. Siamo di fronte alla così
detta svolta epistemologica. Come sia possibile conoscere il mondo diviene il
problema principale della filosofia. Ancora prima di interrogarsi su che cosa
sia la realtà, e al di fuori da domande radicali come se la realtà esista o
meno, i filosofi concentrano la loro attenzione sulla prioritaria necessità di
98
comprendere i meccanismi con cui l’uomo può conoscere la realtà e quindi i
meccanismi con cui l’uomo può conoscere gli altri. Come detto in
precedenza, la tensione propria della filosofia a ridefinire continuamente il
proprio oggetto e quindi a individuare una nuova domanda focale è legata, in
particolare, alle risposte a tale domanda. La filosofia non pone solo problemi
ma propone anche risposte. Risposte la cui solidità è legata alla tipologia di
strumenti usati e alla validità delle argomentazioni addotte. Cercare di dare
risposta a questioni epistemologiche permette di utilizzare strumenti più
gestibili, meno impegnativi sotto il profilo dell’impegno ontologico e di quello
delle risorse concenttuali. La proposta kantiana ne rappresenta un esempio
mirabile.
I numerosi problemi propri della dimensione conoscitiva hanno
portato a un ulteriore tentativo di ricerca di un oggetto di indagine che, unito a
nuovi metodi e strumenti concettuali, potesse permettere di riformulare i
problemi filosofici in maniera fruttuosa. Come testimoniano secoli di storia del
pensiero, nemmeno la svolta epistemologica è stata pienamente in grado di
soddisfare la necessità della filosofia di formulare proposte solide e
convincenti. Le numerose questioni irrisolte in ambito epistemologico hanno
portato quindi i filosofi a cercare nuovamente un altro oggetto di indagine che
rispondesse ancora meglio ai requisiti di minimalismo concettuale e di minore
impegno ontologico, ovvero hanno portato la filosofia a cercare una nuova
quaestio princeps. Ci si è resi conto che, quali che siano i problemi e le
questioni sul piano epistemologico, per poter offrire risposte convincenti è
necessario prima ancora indagare le questioni proprie del linguaggio. È con il
linguaggio che si porta avanti l’analisi della conoscenza, anzi il linguaggio
rappresenta un nucleo essenziale nella teoria della conoscenza. I problemi e
le soluzioni in ambito epistemologico vengono formulati tramite il linguaggio;
è con questo che vengono comunicati, vagliati, analizzati, criticati. Con la
svolta linguistica l’indagine, quindi, si sposta dai meccanismi della
conoscenza a quelli di elaborazione e strutturazione della stessa. Prima
ancora di chiedersi come sia possibile conoscere il mondo e quali siano i
processi conoscitivi, è necessario interrogarsi e comprendere la natura e i
meccanismi del linguaggio ovvero dello strumento con cui l’indagine
conoscitiva è formulata, portata avanti e condivisa.
I filosofi hanno così iniziato a concentrare le proprie indagini sul
linguaggio, riformulando la domanda filosofica centrale in “che cos’è il
linguaggio?”, eleggendo il lunguaggio nuova questio princeps. Il filosofo a cui
solitamente si fa risalire la così detta svolta linguistica è Frege. Con lui si fa
iniziare quel movimento di pensiero, spesso identificato come “filosofia
analitica”, che trova tra i suoi esponenti figure come Moore, Russell,
Wittgenstein e i pensatori del Circolo di Vienna e che vede nell’analisi del
99
linguaggio, fortemente improntata ai metodi della logica, la vera frontiera
della filosofia, il suo primario ambito di indagine, se non addirittura l’unico. Le
interpretazioni più intransigenti dello spirito analitico hanno, infatti, portato a
ritenere che le questioni relative al linguaggio e alla logica siano le uniche di
cui si debba occupare la filosofia, lasciando da parte ogni interesse per le
questioni sociali, politiche e morali. L’espressione più netta dell’influenza di
questo atteggiamento si rintraccia nelle ricerche in ambito etico portate avanti
nella filosofia di stampo anglosassone tra la fine dell’Ottocento e buona parte
del Novecento. In questo periodo e contesto, c’è un netto predominio delle
ricerche in metaetica su quelle in etica normativa e etica applicata. La
metaetica – quella parte della filosofia che si occupa della natura delle teorie
etiche, del ragionamento morale, della natura e del significato dei termini e
dei giudizi morali – è per molti filosofi anglosassoni di ambito analitico di quel
periodo l’unica indagine possibile in ambito etico. Il compito della filosofia, per
quanto riguarda le questioni morali, è per essi solo e soltanto quello di
7
indagare le questioni relative il linguaggio morale .
La svolta lingustica non ha concluso la ricerca del proprio oggetto da
parte della filosofia. Al contrario, il Novecento ha visto un fiorire di proposte
spesso intepretate, se non postesi direttamente, come svolte nella ricerca
8
filosofica. Si pensi alla svolta ermeneutica o a quella informazionale . Sono
però tutte svolte che si muovono entro i confini segnati dalle questioni relative
al linguaggio. Sono svolte che dalle questioni del linguaggio e della logica
9
non possono prescindere .
10
Merito della svolta linguistica è avere dato l’impulso decisivo per la
strutturazione del movimento analitico, il cui lascito più importante è la
necessità di uno sforzo continuo, in ogni ragionamento filosofico, verso un
linguaggio chiaro, l’uso di argomentazioni logicamente fondate e più in
generale la necessità della centralità del ragionamento critico. Con radici che
affondano fin nella logica aristotelica e che attraversano tutta la storia del
pensiero passando per Port Royale, Leibnitz e Boole tra i tanti, la svolta
linguistica e più ancora tutto il movimento analiticio da essa sviluppatosi
hanno gettato ancora più luce sull’importanza del ragionamento critico e degli
11
strumenti ad esso collegati .
La caduta dell’antropocentrismo
La storia dell'umanità è una continua erosione delle certezze
fondamentali dell'uomo, prima fra tutte il suo posto nel mondo, in questo
mondo. Basti ricordare l’immagine della Genesi in cui Dio, dopo aver creato il
mondo e gli altri esseri viventi, crea l’uomo e di tutto questo lo mette a capo.
Se Dio è il supremo padrone del mondo e di ogni essere creato, l’uomo è il
100
signore del mondo terreno. Dio è il centro e il fine ultimo di tutto, l'uomo è il
centro di questo mondo. Il mondo esiste in virtù dell’uomo e il creato è stato
fatto per soddisfarlo. La storia del mondo scritta dall’uomo è un romanzo in
cui il protagonista assoluto è lui stesso. È sotto questa luce antropocentrica
che l'uomo ha interpretato per secoli il suo ruolo nel mondo e il ruolo del
mondo stesso. Se si legge con attenzione la trama della storia del pensiero,
emerge con chiarezza che, lungo lo svolgimento di questa, l’uomo si è
sempre considerato un essere speciale. Si riesce a individuare cioè
nell’uomo un’intima tendenza a considerarsi superiore agli altri esseri viventi.
Di più. È una tendenza a considerarsi non solo misura ma fine ultimo di tutte
le cose. Questa tendenza ha portato l’uomo a sviluppare nei secoli
concezioni culturali fortemente antropocentriche. Per secoli l’uomo si è letto e
interpretato come il signore dell’universo, della natura e di se stesso.
L’analisi di questa intima propensione umana è stata
magistralmente compiuta da Freud. In Una difficoltà della psicoanalisi Freud
fornisce una interpretazione della storia dell’uomo come storia di un peccato,
il peccato di narcisismo. Tutta la storia dell’uomo è percorsa da due direttrici:
da un lato la costruzione di una immagine di sé come essere speciale,
dall’altro l’impietosa decostruzione di questa immagine. Per Freud la storia
del pensiero è un grande processo di de-antropocentrizzazione che trova
compimento in tre grandi tappe: Copernico e la rivoluzione eliocentrica,
Darwin e la teoria dell’evoluzione, Freud stesso e la psicanalisi.
Con Copernico l’uomo prende coscienza di non avere un posto
speciale nell’universo, di non esserne il centro. Chi esce sconfitto dalla
rivoluzione copernicana non è la Terra, sostituita dal Sole, ma la teoria
antropocentrica dell’universo, scalzata da una teoria che pone al di fuori della
Terra, e quindi al di fuori dell’uomo, il centro intorno a cui gravita tutto
l’universo. Sconfitto da Copernico, all’uomo restava sempre la certezza di
essere il signore e padrone degli esseri viventi, di essere superiore ad essi in
virtù di una origine speciale. Con Darwin l’uomo impara che non ha alcuna
origine speciale. Egli è parte integrante del regno animale e ha avuto origine
secondo le regole di quel regno, le stesse regole che hanno determinato
l’origine degli altri esseri animali. La genesi dell’uomo non è speciale, è la
stessa degli altri animali. Perso il ruolo di signore dell’universo e quello di
signore della natura, all’uomo rimaneva la pretesa di essere almeno il signore
di se stesso, di essere costantemente in controllo di sé. L’uomo era almeno
speciale perché pienamente cosciente di sé, pienamente padrone di sé. Con
Freud l’uomo impara che le sue azioni non sono sempre guidate da motivi
razionali né che egli è sempre padrone consapevole di esse. Freud mostra
impietosamente che l’uomo è opaco a se stesso. L’uomo viene deposto dal
101
trono che si era eretto. Non più signore dell’universo, non più signore della
natura, non più signore della sua stessa psiche.
A queste «gravi umiliazioni» del «narcisismo, l’amor proprio
dell’uomo in generale», come le chiama Freud, identificate in tre figure
specifiche, ne vanno aggiunte, a mio parere, altre due, non prese in
considerazione da Freud perché ancora non compiute al suo tempo. Di
portata differente rispetto alla tenuta unitaria delle prime tre, queste due
nuove figure sono cruciali nel rendere tangibile l'urgenza della crisi dell'uomo
contemporaneo. Anche queste due è possibile identificarle con delle figure
specifiche: Aldo Leopold e Alan Turing. Ponendo la questione se esistano
basi su cui poter considerare gli altri componenti della natura come dotati di
valore intrinseco, ovvero di valore in sé e per sé, Leopold ha avviato il
processo di de-antropocentrizzazione dell'etica che ha portato allo sviluppo di
etiche ambientaliste di tipo ecocentrico, in cui la natura ha valore morale
intrinseco, indipendentemente dall'uomo, per contro alle etiche classiche di
tipo antropocentrico, che danno valore strumentale alla natura. Con Leopold
l’uomo impara che è possibile sviluppare un’etica il cui metro di giudizio e i
cui valori non siano l’uomo stesso.
Con sullo sfondo la capacità dell'uomo di manipolare il mondo e di
essere egli stesso creatore (homo poieticus, come detto in precedenza),
Turing d’altro lato ha mostrato come creatore e creatura, simulato e
simulatore, processore e processato non sono più così facilmente
distinguibili. È il portato di una tecnologia prodotta dall'uomo ma talmente
potente nella sua capacità di manipolazione da mettere in discussione ambiti
finora ritenuti di esclusivo appannaggio umano, come intelligenza e vita, al
punto da parlare di intelligenza artificiale e di artificial life.
Questo lungo processo di de-antropocentrizzazione, se da un lato
ha portato a ridimensionare la pretesa dell’uomo di essere speciale, ha
dall’altro permesso di individuare quel nucleo essensiale, quella
caratteristica, quella propeità che in qualche misura continua a distinguere
l’uomo dagli altri essere: quella che Nozick chiama la «capacità della
razionalità», ovvero la possibilità di sviluppare e utilizzare strumenti razionali.
La filosofia come cura del Sé
Fin dal suo principio la filosofia ha rappresentato la dimensione più
profonda dell’interrogarsi su se stessi e sugli altri. Anche quando si è
interrogata sulla natura costitutiva del mondo, sulla natura genuina della
realtà, la filosofia lo ha sempre fatto come mezzo per interrogarsi sull’uomo e
sull’altro. Domande come “che cos’è la natura?”, “che cos’è la realtà?”, “che
cos’è la conoscenza?”, “che cos’è il linguaggio?” non possono prescindere
102
dall’interrogarsi sulla natura dell’uomo e sulla relazione con l’altro. L’uomo
socratico quando si interroga sull’arte, sul bene, sulla conoscenza,
sull’essere lo fa sempre tenendo ben presente la sua complessità e la sua
natura sociale. Ad esempio, tutto l’impianto metafisico e logico di Aristotele
funge da supporto per le sue indagini etiche e politiche, così come la ragion
pura di Kant cede il passo all’urgenza di quella pratica.
Le teorizzazioni della filosofia non sono, soprattutto non devono
essere, astratte elucubrazioni. Ogni filosofia che si chiude nella torre d’avorio
non è filosofia. Ogni filosofia che lascia fuori dal suo orizzonte l’uomo, i suoi
problemi, la sua vita, la relazione con gli altri è filosofia incompiuta. Ha
sprecato i suoi talenti. Ha disatteso la propria natura. L’indagine filosofica non
può prescindere dalla quotidianità dell’uomo. Ogni filosofia che sia tale è
sempre contemporanea, parla al proprio tempo e così facendo diventa
universale.
Lungi dall’essere lineare, la storia della filosofia è una storia densa,
sferica protremmo dire. Il procedere non avviene lungo tappe irreversibili. La
filosofia ritorna continuamente su se stessa, ripropone antiche domande
cambiando accenti e prospettive, ne formula di nuove usando sia quanto
raccolto lungo il percorso che le conoscenze del proprio tempo. Ciò che è
stato detto prima non è superato o inattuale ma sempre potenzialmente
attuale, sempre pronto a essere ripreso e ridiscusso in nuove forme. Ogni
filosofia che sia tale ha il suo tormento ultimo nell’uomo e nelle sue questioni.
Ogni svolta della filosofia si ferma di fronte all’uomo. Angustie,
preoccupazioni, sofferenze, paure e illusioni attanagliano l’uomo ogni giorno.
12
La carne e l’anima urlano nell’uomo e all’uomo e lo rendono inquieto . In
Esercizi spirituali e filosofia antica Hadot parla della filosofia come «terapia
13
delle passioni» , e in Che cos’è la filosofia antica? parla, meglio, di terapia
14
dell’anima .
Tutto ciò vale ancora di più oggi. Il progressivo processo di deantropocentrizzazione, analizzato in precedenza, ha scalzato ogni sicurezza
rendendo l’uomo contemporaneo soggetto a un’urgenza di comprensione di
sé. Questo smarrimento si declina in tanti modi quanti sono gli uomini. Si
manifesta nelle piccole questioni quotidiane e nelle grandi decisioni vitali. A
ben vedere non ci sono problemi grandi e problemi piccoli. Ogni persona vive
i propri problemi come fossero vitali. Ogni problema, qualunque esso sia, è
un problema che viene percepito e interpretato dal singolo come un problema
esistenziale. Che siano problemi lavorativi, affettivi o sociali, tutti i problemi
dell’uomo sono legati alla sua visione del mondo. Certo, non tutti i problemi
dipendono dal singolo. Ci sono situazioni causate da fattori esterni che la
persona vive in modo problematico, ma sta a lei saperli interpretare e
contestualizzare, darne il giusto peso, il proprio peso, il peso giusto per la
103
sua vita. Gli strumenti per fare ciò sono strumenti filosofici. La filosofia è lo
strumento con cui l’uomo può avere cura dell’uomo. Non curarlo, ma averne
cura. Dietro ad ogni indirizzo e teoria psicoterapeutica c’è una specifica
visione del mondo, dell’uomo e del suo rapporto con gli altri. Non sempre la
teoria sottostante una teoria psicoterapeutica è esplicitata, ma è comunque
presente; spesso è ingenua, non ben formulata, confusa, ma comunque al
fondo di ogni indirizzo psicoterapeutico c’è sempre una filosofia. A partire
dagli anni ’50, con lo sviluppo da parte di Rogers della terapia centrata sul
15
cliente , ha inizio un processo che porta molti indirizzi psicoterapeutici ad
affermare «la presenza di un elemento filosofico forte nei loro procedimenti
basati sulla psicologia» (Raabe 2006, p. 6). Senza entrare nell’annoso
dibattito di cosa siano i disturbi e le malattie psicologiche, di come vengano
classificate e dei metodi di diagnosi usati, si può qui assumere che la
psicoterapia sia specifica per quelli che Ruschmann chiama «disturbi e
malattie classificabili» (Ruschmann 1998 p. 21). La maggior parte dei
problemi esistenziali della persona non sono però disturbi e malattie di
questo tipo. Usare la psicoterapia in questi casi è come cercare di aggiustare
un apparecchio con l’attrezzo sbagliato, è come spolverare una stanza
usando un caterpillar.
Come detto all’inizio, l’uomo ha un carattere primariamente poietico.
Questo vuol dire che ha in sé la capacità di agire sul proprio atteggiamento
verso il mondo, se stesso e gli altri e modificarlo. Il più delle volte questa
capacità è assopita, l’uomo non è cosciente di averla perché offuscato da
timori e insicurezze spesso causate da pregiudizi e inferenze fallaci. Il ruolo
del counselor è portare il cliente a prendere coscienza della sua capacità
poietica e aiutarlo ad usarla. Per Ortega y Gasset l’uomo deve stare facendo
sempre qualche cosa. E la prima cosa che deve fare è decidere ciò che deve
fare. Ma per decidere ciò, deve prima foggiarsi una interpretazione generale
della situazione, formarsi un sistema di convinzioni su ciò che è e ciò che lo
circonda, che gli serva da piattaforma per agire tra e su le cose (Ortega y
Gasset 1946, p. 14).
È proprio sull’interpretazione generale e sul sistema di convinzioni
che agisce il counseling. Il counselor aiuta l’uomo a sentirsi meno «naufrago
in un elemento misterioso e frequentemenete ostile» (Ortega y Gasset 1946,
p. 15). È in questo che si istanziano, ad esempio, le tesi pratico-morali del
16
personalismo anglo-americano secondo cui l’uomo contemporaneo è solo
di fronte alla verità, solo di fronte al mondo, solo di fronte agli uomini. La
filosofia deve liberarlo dalla metafisica della solitudine riportandolo in
comunione con la verità, col mondo e con gli uomini.
Nel counseling cade ogni atteggiamento parternalistico proprio dei
metodi psicoterapeutici. Il counseling non è imporre all’altro una visione del
104
mondo ritenuta giusta. Nel counseling non c’è malattia, non c’è terapia. Il
counseling rende evidente la natura costitutiva della relazione per l’uomo,
rende evidente che si tratta di una relazione tra una persona e un’altra in cui
una delle due accompagna l’altra su un percorso di autonomia e fioritura di
sé, per usare una terminologia aristotelica. Questa relazione è connaturata
all’uomo, è parte integrante degli elementi che lo definiscono. Ogni azione
umana è sempre azione socialmente relata. L’uomo è un animale sociale
perché è nel rapporto con gli altri che trova pieno compimento l’individualità.
Gli atti della persona sono «già atti sociali, tali cioè che possono trovare la
loro effettuazione in una possibile società» (Scheler 1944 197). Nel momento
in cui la persona pone se stessa, si pone come individuo sociale. È all’interno
di questo equilibrio tra il naufragio interiore da un lato e la burrasca con gli
altri e il mondo dall’altro che si svolge l’attività di counseling. Il counselor si
prende cura del cliente, lo aiuta a raggiungere la consapevolezza e così a
liberarsi dagli schemi che lo tengono prigioniero nei confronti di se stesso e
degli altri.
Tutti hanno la possibilità di interrogarsi su se stessi. Il counselor lo
fa utilizzando sapientemente gli strumenti della filosofia e mettendoli a
17
disposizione del prossimo . Tra tutti gli strumenti ce n’è uno che sembra
particolarmente adatto al compito del counseling: il ragionamento critico.
Come si è visto in precedenza, la filosofia ha sempre dato un ruolo centrale
all’analisi concettuale ma nel Novecento, a partire dalla svolta linguistica, è
diventata fondamentale. Decenni di studi di logica e filosofia del linguaggio
hanno contribuito a formare un corpus specifico con metodi e regole per lo
smascheramento delle argomentazioni non corrette e non valide. Molti dei
problemi esistenziali sono conseguenza di una visione del mondo strutturata
su ragionamenti fallaci o inficiata da pregiudizi. Il counselor nella relazione di
cura con il cliente lo aiuta, in modo dialogico, a esplicitare la propria visione
del mondo, a individuarne le fallacie, a mettere in evidenza le proprie
credenze, a ponderarle in modo cosciente, a individuare le soluzioni a lui più
consone e le azioni da intraprendere. Il counselor non impone la propria
visione del mondo su quella del cliente. Non c’è alcun atteggiamento medico,
psicoterapeutico o cattedratico nella pratica del counseling. Il counseling è un
percorso di facilitazione del cliente verso la responsabilità, ma è un percorso
paritario; non c’è una persona che vuole giudicare, impartire lezioni o dare
consigli a un’altra: «Fare counseling e dare consigli sono due funzioni
nettamente distinte. Il consiglio […] è un rapporto a senso unico. Il vero
counseling opera invece in una sfera più profonda, e le sue conclusioni sono
sempre il risultato del lavoro congiunto di due personalità che lavorano allo
stesso livello» (May 1991). La relazione psicoterapeutica è a senso unico, il
counseling è una relazione dialogica. Gli psicoterapeuti forniscono contenuti
105
al cliente, gli forniscono i propri contenuti, cercano di ristrutturare la visione
del mondo del cliente e adattarla a un’altra visione del mondo, la propria,
quella che ritengono corretta. I counselor non forniscono contenuti ma
facilitano un processo. È una relazione paritaria tra counselor e cliente, in cui
il primo accompagna il secondo in un processo di autonomia, libertà e
responsabilità. Perdere la certezza del proprio ruolo centrale nelle ragioni del
mondo e nella sua storia ha avuto due effetti sull'uomo: liberarlo da
costrizioni metafisicamente ingombranti e aumentarne il senso di insicurezza.
Perdere il proprio ruolo al centro del mondo ha permesso all'uomo di
concentrarsi su se stesso e sul mondo senza il peso di ingombranti
assunzioni metafisiche e teoretiche. Proprio per il loro peso, però, queste
fungevano anche da àncora e deriva, permettendo all'uomo di non ribaltarsi o
di fermarsi al riparo durante tempeste particolarmente violente. Senza queste
certezze l'uomo si ritrova in balìa del mare burrascoso dell'esperienza e della
storia. Il destino della filosofia è quello di agire concretamente nel mondo
aiutando l’uomo a superare le proprie antinomie interiori tramite la piena
realizzazione della relazione con gli altri e l’intero sviluppo di se stesso.
Come sostiene Dewey la filosofia ha ancora un’opera da compiere; può
conquistarsi una funzione volgendosi verso il problema del perché l’uomo è
ora così alienato dall’uomo. Può volgersi a progettare grandi e ardite ipotesi
che, se usate come piani di azione, daranno direttive intellettuali agli uomini
che cercano il modo di fare effettivamente del mondo un mondo di valori e di
significati, più familiare […] la filosofia contemporanea non può desiderare un
lavoro migliore di quello di impegnarsi in quel compito maieutico che le fu
assegnato da Socrate venticinque secoli fa (Dewey 1950, p. 41). Il
counseling è uno dei modi in cui la filosofia riesce a espletare al meglio quel
compito maieutico a cui si riferiva Dewey. La relazione paritaria tra counselor
e cliente – che come visto in precedenza è requisito necessario affinché il
processo di counseling abbia davvero effetto - si compie pienamente solo nel
counseling filosofico. Le altre tipologie di counseling, pur sviluppando assunti
e metodi propri, si muovono sempre nell’orizzonte delle varie teorie
psicoterapeutiche; ovvero si basano sempre su una specifica visione del
mondo, che tendono a imporre sul cliente/paziente. Il counseling filosofico, al
contrario, è indipendente da queste, non porta con sé costrutti rigidi da
imporre al cliente. Facendo propria la lezione di secoli di riflessione teorica e
di pratica filosofica, il counseling filosofico si fonda sull’assunto che non ci sia
una specifica visione corretta del mondo alla quale dover aderire e
conformarsi. Ogni persona ha la propria visione del mondo e tutte hanno pari
dignità. Compito del counselor è aiutare il cliente a smascherare le proprie
fallacie argomentative, usando gli strumenti del ragionamento critico affinati
in particolare nell’ambito della filosofia analitica. Questo è possibile proprio in
106
virtù del fatto che il lungo e impietoso processo di de-antropocentrizzazione
subito dall’uomo nel corso dei secoli, come abbiamo visto ha portato al
contempo a individuare nella razionalità le potenzialità per la piena
espressione dell’uomo stesso. Come sostiene Nozick: Ciò che ha continuato
a dare all'umanità uno status speciale è la sua capacità di razionalità. Forse
noi non esercitiamo costantemente questo attributo prezioso, eppure ci
contraddistingue. La razionalità ci fornisce il (potenziale) potere di indagare e
scoprire tutto e di più; ci permette di controllare e dirigere il nostro
comportamento attraverso l'utilizzazione di principi (Nozick 1993, p. XI, trad.
mia).
L’orizzonte del counseling filosofico è, quindi, l’uomo e lo scopo è il
suo empowerment.
Ringraziamenti
Ringrazio Francesco Bellino per gli utili commenti su una prima
bozza di questo testo, Mariastella Giannini per i commenti su una versione
più recente, nonché Giovanni Invitto e Daniela De Leo per la disponibilità.
Ringrazio inoltre Antonella Locoro, Patty Calzolaio, Giovanni Carrozzini per
discussioni sull’argomento. Sono in profondo debito con Carlo Dalla Pozza.
Come sempre, i suggerimenti preziosi di Davide Ruggieri mi hanno salvato
da alcune imprecisioni. Sono ovviamente il solo responsabile di eventuali
errori ancora presenti nel testo.
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107
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21-35.
M. SCHELER, Il formalismo e l’etica materiale dei valori, Bocca, Milano 1944.
M. SCHLICK, Die Wende der Philosophie, “Erkenntnis”, 1930/31, n. 1, pp.4-11.
P. SINGER (a cura di), Applied Ethics, Oxford University Press, Oxford 1986.
108
1
Nella letteratura e nella pratica del counseling si è soliti riferirsi a colui che si rivolge al
counselor come “cliente”, più raramente come “paziente”. Nel presente lavoro si scarta
il secondo perché di frequente uso in ambito medico e psicologico e si utilizzerà il
primo perché, seppur eccessivamente carico di connotati commerciali, è ormai
divenuto termine di uso comune, standardizzato financo nei codici deontologici delle
relative figure professionali.
2
Se le svolte costituiscano punti critici di non ritorno, ovvero se il cambiamento
prodotto sull’uomo e sul mondo sia tale da essere irreversibile, è argomento dibattuto
nell’ampia letteratura sul tema. Il dibattito ha interessato in particolare la seconda metà
del Novecento, quando, a partire da Schilck 1930-31, ha preso avvio una intensa
discussione non solo sulla natura e sulla portata delle svolte ma anche sul concetto
stesso di svolta, mettendone in discussione l’efficacia e validità. Al riguardo, basti
pensare al dibattito sui fondamenti e il procedere del pensiero scientifico tra Popper,
Feyerabend, Lakatos, Carnap, giusto per citarne alcuni.
3
A tal proposito si veda Greco 2013a, Greco 2013b e Greco e Ruggieri 2013.
4
Si usa qui il termine “svolta” in senso più propriamente filosofico come si è venuto a
delineare nel dibattito contemporaneo a partire da Schlick 1930.
5
Come affermano lucidamente Bynum e Moor 2000: «Di tanto in tanto, si sviluppano in
filosofia degli importanti movimenti di pensiero. Questi movimenti iniziano con poche e
semplici, ma davvero fertili, idee ⎯ idee che forniscono ai filosofi un nuovo prisma con
cui guardare i problemi filosofici. Gradualmente, i metodi filosofici e i problemi sono
ridefiniti e compresi secondo queste nuove nozioni. Una volta che nuovi e interessanti
risultati filosofici vengono ottenuti, il movimento cresce in un’onda intellettuale che
pervade tutta la disciplina. Emerge un nuovo paradigma filosofico» (traduzione mia).
6
Sebbene nel corso del tempo “ontologia” e “metafisica” abbiano acquisito significati
ben distinti, nel contesto specifico della riflessione qui avanzata non si tiene conto della
loro distinzione.
7
Come ha sostenuto Singer 1986 ciò non vuol dire che la filosfia analitica tra
l’Ottocento e il Novecento si sia interessata esclusivamente di metaetica, né che l’etica
applicata sia nata nella seconda metà del Novecento. È vero però che le ricerche in
ambito metaetico sono state predominanti per lunga parte di quel periodo.
8
A tal riguardo si veda Greco 2004 e Greco 2005.
1
Si sposa qui, in linea generale, una tesi già sostenuta convincentemente da
Dummett, secondo il quale ciò che la svolta linguistica ha portato «è il convincimento
che, in primo luogo, una spiegazione filosofica del pensiero sia conseguibile attraverso
una spiegazione filosofica del linguaggio e, in secondo luogo, che una spiegazione
comprensiva sia conseguibile solo in questo modo» (Dummett 2001, p. 13).
9
Sulla svolta linguistica si veda almeno Rorty 1967.
10
La così detta svolta cognitiva, ad esempio, sarebbe difficilmente comprensibile se
non collegata a quella linguistica.
11
«Qui la carne non è una parte anatomica del corpo, ma in senso quasi
fenomenologico e del tutto nuovo, a quanto pare, in filosofia, il soggetto del dolore e
del piacere, ovvero l'individuo» (Hadot 2010, p. 111). Benché Hadot scriva queste
parole a proposito dell’epicureismo, ci sembra che l’immagine sia valida in sé.
12
L’uso del termine “terapia” è da intendersi in senso puramente metaforico, perché il
counseling filosofico non cura ma si prende cura.
13
Dice ancora Hadot che la filosofia «è una conversione che sconvolge la vita intera,
che cambia l’essere di colui che la compie. Lo fa passare dallo stato di una vita non
autentica, oscurata dall’incoscienza, rosa dalla cura, dalle preoccupazioni, allo stato di
una vita autentica, dove l’uomo raggiunge la coscienza di sé, una visione esatta del
mondo, la pace e la libertà interiori» (Hadot 2005, p. 30).
14
Si veda Rogers 1997.
15
Mutuo questa espressione da Bellino 2005.
16
L’espressione più piena della relazione di counseling si ha solo quando questo è
fondato filosoficamente. Questo perché il counseling è legato profondamente alle
declinazioni delle pratiche filosofiche come si sono venute a sviluppare nei secoli a
partire dal pensiero classico. Il counseling prosegue e dà corpo al cammino di pratica
relazionale della filosofia. Quando Gramsci dice che «tutti gli uomini sono filosofi»,
intende dire che «il primo e principale problema della filosofia» è «che cos’è l’uomo?»,
ed è un problema che in un modo o nell’altro attanaglia tutti e che solo con la pratica
diventa «che cosa l’uomo può diventare?», cioè diventa la domanda che ognuno di noi
si pone su se stesso e sul rapporto con gli altri (Gramsci 1977, pp. 1543-44). A tal
proposito si veda Baratta 2010.
109
NIAGARA. LA VIOLENZA DELL’ACQUA COME METAFORA
DELL’ESISTENZA
Giovanni Invitto
L'Autore compie una articolata disamina del film Niagara per sviluppare il tema cinemaacqua. La scelta ricade su tale pellicola non per motivi esclusivamente estetici e di
panorama. In Niagara chi nutre, con estrema incoscienza, anzi con nascosta frenesia,
desideri di violenza e di morte è Rose.
The Author examines carefully the film Niagara to develop the theme of cinema and
water. The choice falls on this film not only for aesthetic and landscape reasons.
In Niagara it is Rose who, with extreme thoughtlessness and hidden excitement
indeed, has desires of violence and death.
L'Auteur fait un examen attentif du film Niagara pour développer le thème cinéma-eau.
Si le choix tombe sur ce film, ce n'est pas seulement pour des raisons esthétiques ni
de paysages.Dans le film Niagara, c’est Rose qui, avec une inconscience extrême, ou
plutôt avec une frénésie des désirs cachés, a des désirs de violence et mort.
1. In un repertorio di film, che sceglie circa 540 pellicole, Niagara
1
non c’è . Né si trova nelle antologie dei film più importanti. Eppure i due
protagonisti erano di primaria importanza: pensiamo a Joseph Cotten e,
soprattutto, a Marilyn Monroe che allora era sicuramente l’attrice emergente
in senso assoluto. È stato pure detto e scritto che si tratta di un brutto film e
che anche l’interpretazione di Marilyn rimarrà negli almanacchi che riportano
la sua vita per due motivi: Niagara è il suo primo film a colori ed è l'unico film
in cui si scosta dal modello di donna che stava costruendo per sé e che la
renderà famosa, per presentare un personaggio calcolatore e cattivo.
2
Allora, perché parlare di questo film , che non ha fatto storia, a
proposito di un discorso cinema-acqua? Perché, comunque, parlando a una
certa generazione delle cascate del Niagara, non si può fare a meno di
accostarle a quella figura femminile. Altri hanno ricordato che
l’interpretazione dell’attrice fu così intensa che Andy Wahrol si ispirò a questo
film per realizzare le serigrafie raffiguranti Marilyn che ancora oggi, in copie di
nessun valore, girano per il mondo.
110
Il «Los Angeles Explorer» scrisse che in quei giorni si erano
incontrati «due dei grandi fenomeni della natura, le cascate del Niagara e
3
Marilyn Monroe» . E chi, come chi scrive, ha rivisto il film in dvd non può
tacere che uno dei molti (o pochi?) elementi positivi di questo film è,
indiscutibilmente, la colonna sonora totalmente incentrata sulla musica di
4
Kiss che accompagna e identifica il rapporto amoroso trasgressivo della
protagonista. Kiss è suonata anche dalle campane, pure loro
apparentemente mediatrici del tradimento coniugale. Non a caso nel film il
marito, che sa che si trama contro di lui e che quelle canzone è il leitmotif
della tresca, spezza il disco.
Qualcuno ha scritto che è il primo e sicuramente unico film in cui
Marilyn Monroe interpreta un personaggio negativo, anche se non sappiamo
se, come dicono alcuni, Niagara appartenga più alla storia di Marilyn che al
regista che la dirige, Henry Hathaway. Forse questo è il film nel quale la
sensualità carnale di Marilyn è più evidente, anche sulla base della trama, e
ciò è manifesto anche nella sceneggiatura. Il fatto che non si tratti di una
commedia ma di un thriller e/o di un noir non fa che incrementare la
sottintesa tela erotica e sensuale del film.
2. Non è una domanda banale chiedersi perché la 20 Century Fox e
il regista abbiano scelto di ambientare il film nel paesaggio della cascate
quasi continuamente riprese, spesso in maniera suggestiva come
converrebbe per un documentario di promozione turistica. Ma sembra giusto
andare oltre e azzardare l’ipotesi, ma non lo giuriamo, che sia passata nella
mente dello sceneggiatore e del regista una domanda retorica: e se le
cascate fossero una metafora dell’esistenza? L’acqua è da sempre segno
della vita: il feto vive e cresce nel liquido amniotico, inoltre ci sono religioni e
culture che inaugurano la vita immergendo il neonato nell’acqua. Oppure per
quella di Niagara si tratta di una metafora involontaria? Certo nel film è un
conflitto tra le immagini-cartolina del paesaggio e la vita infernale dei
protagonisti.
Portiamo avanti il discorso e chiediamoci: perché proprio il Niagara?
Sicuramente non per motivi esclusivamente estetici e di panorama. Già il
nome Niagara ha origine dal termine in lingua irochese, pellerossa
d’America, Onguiaahra, che significa «acque tuonanti». Niente di
tranquillizzante, quindi. Ma anche l’antica storia delle cascate è storia di
morte. Una leggenda della zona narra di Lelawala, una ragazza obbligata dal
padre a unirsi a un ragazzo che lei detestava. Allora, per non sposarsi,
Lelawala sacrificò se stessa al suo amore nascosto, He-No, il Dio Tuono, che
dimorava in una caverna dietro la Cascata «a ferro di cavallo». La ragazza
attraversò in canoa le correnti del Niagara e precipitò dal bordo della cascata.
111
He-No la prese mentre precipitava ed i loro spiriti vivono uniti per l'eternità,
nel santuario del Dio Tuono, sotto le cascate. La leggenda aggiunge che
Lelawala divenne la dama della nebbia a causa del vapore acqueo provocato
dal fiume in caduta precipitosa.
Al di là dei miti, però, le cascate del Niagara sono state causa di
morti reali, come è immaginabile. Non si contano coloro che sono annegati,
sono morti in quell’acqua o si sono sfracellati contro i massi che si trovano
alla base delle cascate, in quell’acqua che porta, quindi, non solo vita ma
anche tanta morte.
In questa valutazione anche estetica, viene in mente quanto disse
Kant, distinguendo tra il bello e il sublime e attribuendo quest’ultimo termine
ai fatti e realtà della natura:
L’animo, nella rappresentazione del sublime naturale, si sente commosso; mentre nel
giudizio estetico sul bello della natura resta in calma contemplazione. Tale
commozione (specialmente al suo principio) può essere paragonata ad uno
scotimento, vale a dire ad un alternarsi rapido di ripulse e di attrazioni dell’oggetto
stesso. Ciò che trascende l’immaginazione (e a cui essa è spinta nell’apprensione
dell’intuizione) è come un abisso, in cui teme di perder se stessa; ma per l’idea
razionale del soprasensibile è legittimo, non trascendente, il produrre tale sforzo
dell’immaginazione: quindi ciò che per la pura sensibilità era ripugnante, diventa
attraente nella stessa misura.5
Quindi la natura, pur nella sua maestosità, non è mai bella. Secondo
queste categorie, l’acqua che riempie le scene di questo film è, sì, «sublime»,
ma non «bella». I fatti della natura, per il filosofo del criticismo, possono
creare attrazioni e ripulse, possono essere insieme attraenti e ripugnanti.
Così è per il Niagara.
3. In Niagara chi nutre, con estrema incoscienza, anzi con nascosta
frenesia, desideri di violenza e di morte è Rose, cioè il personaggio di
Marylin, che qualcuno ha definito una variazione della figura della dark lady.
Questo è chiaro sin dalle prime immagini del film. È una adultera, aspirante
uxoricida. Naturalmente il regista lavora su questo alfabeto iconico.
La prima immagine del film è l’acqua che scende precipitando tra il
bianco della schiuma e l’azzurro-grigio dei riflessi che spesso spezzano
l’arcobaleno che è il riflesso ottico permanente. Poi appare il marito che alle
cinque del mattino esce dalla stanza del villaggio turistico in cui sono ospitati
e, parlando da solo, ma rivolgendosi idealmente alle cascate, dice a se
stesso e all’acqua delle cascate: «Sarò sempre un debole di fronte ai vostri
10.000 anni». Quando rientra nella stanza, la moglie sta fumando nel letto, è
nuda sotto le lenzuola, e fa finta di dormire. Il regista ci fa ben osservare che
lei ha il rossetto anche quando è nel letto per dormire. Alla fine della storia, il
112
marito prenderà quel rossetto. Marylin è già un’icona sessuale e Rose
sculetta provocatoriamente, quando cammina ostentando le proprie qualità
fisiche.
L’arcobaleno, che appare costantemente, non significa pace e
serenità, come lo era stato per il biblico Noè, ma è un puro fenomeno fisico.
La dimensione negativa e letale dell’acqua è sempre segnalata, anche come
metafora: «L’amore può travolgerli con l’impeto di quelle cascate». Cosi un
legno di grosso spessore cade nelle cascate e lo spettatore ascolta il
commento: «Niente, neanche Iddio, può impedire di travolgerlo fino al salto
poi giù».
Questa fine vale anche per gli umani: il marito è ingoiato con la
barca, si salva solo la giovane, occasionale amica innocente. Intanto, la
strategia uxoricida di Rose era fallita perché era stato il marito ad antipare le
mire della coppia adulterina, uccidendo prima l’amante della moglie, che
avrebbe dovuto ammazzare lui, poi anche la moglie Rose. E lui non è
rintracciabile, perché aveva fatto propri i documenti del giovane assassinato.
L’inseguimento finale sulle acque della cascata si concentra sulla figura di
Joseph Cotten, oramai pluriassassino. Ma qualche critico ha scritto che,
oramai, a questo punto è come se la scomparsa di Marilyn interrompesse
l'energia del racconto e del film.
Qualcuno ha anche notato che il film è pieno di amarezza e che è
anche un film nel quale la misoginia, per quanto poco evidente, se non nella
esagerata, e programmata, provocazione della protagonista, fa coppia con
un non molto sottolineato, ma pur leggibile, vuoto di cui e in cui vivrebbero le
coppie «regolari».
In fin dei conti, l’acqua sembra una forza irrazionale che colpisce gli
uomini o di cui gli uomini si servono per la loro tendenza, non sempre
inconscia, all’homo homini lupus.
4. Ma come si colloca Niagara, episodio anomalo nella filmografia di
Marilyn Monroe, all’interno della sua storia di icona del divismo? Mentre
scriviamo queste note, alla voce Marilyn in Internet si trovavano migliaia di
possibili connessioni e siti: Google dà in questo momento, in 0,28 secondi,
76.500.000 occorrenze con altrettanti possibili approfondimenti di testo.
6
È stato scritto che il mito di Marilyn è anche qualcosa di più della
7
leggenda e della sua stessa icona, icona amata dalla luce , come è stato
scritto da un’altra donna. Icona dalle tonde labbra rosse. Il cinema l’ha saputa
usare e forse l’ha uccisa come fa l’acqua delle cascate. Quando appare per
la prima volta nuda in Niagara, si sa che Marilyn si sentiva a proprio agio
soprattutto nuda: in casa o in giardino girava senza abiti e dormiva senza
113
8
niente addosso . Viveva il proprio corpo come la parte più vera e meno
manipolata del suo essere:
Il mio impulso ad apparire nuda e i miei sogni relativi non avevano niente di
vergognoso o di peccaminoso. Sognare la gente che mi guardava mi faceva sentire
meno sola. Penso di aver desiderato che la gente mi vedesse nuda perché mi
vergognavo degli abiti che indossavo: lo sbiadito vestito blu della povertà che non
cambiavo mai. Nuda, ero come le altre ragazze.9
Roy Menarini ha scritto che le prime sequenze del film compongono
una specie di spogliarello al contrario. Lei viene inquadrata dapprima a letto,
poi in piedi fasciata da una leggera sottoveste, poi in vestaglia e, in seguito,
la situazione si ripete quando si vede la silhouette della donna sotto la
doccia, ancora acqua, qui simbolo di purificazione e di vita, poi
l’asciugamano che le lascia libere le spalle, infine l’abito da sera destinato a
suscitare scandalo. E, conclude il critico, questo stratagemma dimostra come
il fascino di Marilyn sia ancor più irresistibile invertendo l’ordine del desiderio
maschile: perché si passa prima dal corpo nudo poi al corpo disegnato dagli
10
abiti .
Niagara è un gradino cinematografico comunque importante proprio
perché, per la sua inattesa riformulazione dell’immagine, ha sancito il divismo
di Marilyn Monroe. Come ha scritto Vincenzo Camerino, parlando proprio del
fenomeno del divismo, il paradigmatico catalogo figurato delle star di
supremo glamour, talvolta festeggiato di erotismo soft per l’inglobante cultura
puritana, si può scoprire con un certo numero di attrici. Ne elenca
11
trentacinque, da Mary Pickford alla «imperitura» Marilyn . Non solo, ma il
critico aggiunge qualcosa di più rilevante: «la morte di Marylin (Monroe per i
non addetti alle attrattive dello sguardo), la sua arrendevolezza senza
riserve, rappresentano il declino del divismo, “l’ultima sublime realizzazione
12
dello star-system” (Morin). Il crinale del passaggio» .
Tornando al nostro film di sessanta anni fa, si può affermare che il
ruolo di Rose è completamente modellato dall’attrice su se stessa. La
protagonista di Niagara è costruita sul corpo, sui movimenti, sulla
coinvolgente musica di Kiss, sulla intatta carica sensuale di Marilyn Monroe
con una forte valenza cinematografica e un forte impatto. Lei, seduttiva come
i colori del Niagara, è contemporaneamente autodistruttiva e di una ferocia
nascosta, come è per quell’acqua iridescente che spesso è icona di morte e
non segno di vita.
114
1
Cfr. M. CIOTTA E R. SILVESTRI, Cinema. Film e generi che hanno fatto la storia del
cinema, Einaudi, Torino 2012.
2
(USA 1952, 1953, colore, 89m); Interpreti e personaggi: Marilyn Monroe (Rose
Loomis), Joseph Cotten (George Loomis), Jean Peters (Polly Cutler), Casey Adams
(Ray Cutler), Denis O'Dea (ispettore Starkey), Richard Allan (Patrick), Don Wilson (Mr.
Kettering), Lauren Tuttle (Mrs. Kettering), Russell Collins (Mr. Qua), Will Wright
(barcaiolo), Lester Matthews (medico), Carleton Young (poliziotto).
3
www.scoprinewyork.it (consultato il 9 aprile 2013)
4
Canzone di Lionel Newman e Haven Gillespie.
5
E. KANT, Critica del giudizio , trad. di A. Gargiulo, IV ed. riveduta da V. Verra, Laterza,
Bari 1960, p. 108.
6
Cfr. M. FORCINA, Il mito-Marylin, in Fenomenologia delmito. La narrazione tra cinema,
filosofia, psicoanalisi, a . c. di G. Invitto, Manni, S.Cesario di Lecce 2006, p. 173.
7
Cfr. M. SCHIAVO, Amata dalla luce, Tre Lune, Mantova 1999.
115
116
Pubblicazioni ricevute
Aa. Vv., Frammenti di cultura del Novecento, a c. di I. Pozzoni, Gilgamesh,
Asola 2013, pp. 374
Aa. Vv., L’esistenza come viaggio. Il cinema come viaggio, a c. di G. Invitto,
Amaltea, Melpignano 2013, pp. 152
F. Birules y Rosa Rius Gatell, eds., Lectoras de Simone Weil, Icaria,
Barcelona 2013, pp. 222
M. R. Bozzetti, Tu, l’altra carne, poesie, Milella, Lecce 2012, pp. 120
H. Cavallera, Max Horkheimer e Theodor W. Adorno. Tenebre e dialettica,
Pensa, Lecce 2013, pp. 246
G. Coglitore, Sulle emozioni. Filosofia e Neuroscienze, Pellegrini, Cosenza
2012, p. 270
L. De Bernart, Antico Manoscritto, Fondazione “MarioLuzi”, Roma 2012, pp.
218
F. De Natale, La presenza del passato. Un dibattito tra filosofi italiani dal
1946 al 1985, Guida, Napoli 2012, pp. 164
P. Di Nunno, Riflettere Bergson. La filosofia come rovesciamento, Trauben,
Torino 2012, pp. 338
A. Invitto, Roccia, Libro aperto ed., Marino 2013, pp. 54
G. Invitto, Lanx satura. Asterischi filosofici su soggetti temi ed eventi
dell’esistenza, Mimesis, Milano-Udine 2013, pp. 316
S. Lo Giudice, Breve documento sulla “Nuova Filosofia”, n. e., Pellegrini,
Cosenza 2012, pp. 118
Maine de Biran, Difesa della Filosofia, a c. di S. Cavaciuti, Il Ramo, Rapallo
2013, pp. 172
F. Pasca, L’a-Thea (Uomo) di Nazareth, Il raggio verde, Lecce 20121, pp.
126
P. Ricci Sindoni, Viaggi intorno al Nome. Percorsi e figure dell’ebraismo
contemporaneo, Le Lettere, Firenze 2012, pp. 254
L. Romano, Diario Elementare, Fernandel, Ravenna 2012, pp. 182
I. Tavilla, Senso tipico e profezia in Sǿren Kierkegaard. Verso una definizione
del fondamento biblico della categoria di gjentagelse, Mimesis, Milano-Udine
2012, pp. 160
A. Zoretti, Carmelo Bene il fenomeno e la voce, Lupo, Copertino 2012, pp.
224
117
Periodici
Annuario Filosofico, n. 27, 2011; Mursia, Milano
Chiasmi International, n. s., n. 14, Vrin, Mimesis, Penn State University;
Foedus, n. 33 e n. 34, 2012; Associazione Artigiani e Piccole Imprese,
Mestre
Idee, n. s., a. II, n. 4, 2012; Milella, Lecce;
L’immaginazione, n. 273, 2013; Manni, San Cesario di Lecce;
Itinerari. Quaderni di studi di etica e di politica, n. 3, 2012, a. LI; Ed. Itinerari,
Lanciano;
Plat. Quaderni di Pratiche linguistiche e analisi dei testi, n. 1/2012, Tempo,
corpo, scrittura, Pensa multimedia, Lecce
Ricercazione, v. 4, n. 2, 2012¸ Erickson, Trento
118
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