Il 12 novembre 2010 è morto Ernst von Glasersfeld Ernst von Glasersfeld Nel giugno del 1964, presso l’editore Lerici di Milano, pubblicai il mio primo libro, “la potenza di mneme”, dove le virgolette fanno parte integrante del titolo. L’avevo terminato il 2 ottobre del 1962 e un anno e mezzo dopo – ecco il significato delle virgolette – ne prendevo esplicitamente una certa distanza. In alcune Note occasionali premesse al volume dico comunque maluccio cose che continuo a ritenere valide e cose che, come minimo, avrei dovuto dire un po’ meglio. Fra queste, c’è il paragrafo conclusivo dedicato al problema del “significato”. Dicevo: “Il romanzo è stato scritto, di conseguenza è ‘cosa osservata’. Ciò che è stato il significato sono le reazioni del lettore, il processo d’uso (ci sia lecito, finalmente, auspicare all’eliminazione da i nostri esterni – metaforicamente -, - e dove sono gli interni ? – linguistico-operativi di proposizioni prive di senso – non di significato – enucleabili sotto l’egida delle metafisiche storiche): e implica una coscienza di ‘consumazione immediata’ (e qui si apre un discorso di estetica che, ovviamente, ha per oggetto le metodologie della critica).”. Chi abbia bazzicato la filosofia del Novecento vi riscontrerà facilmente le matrici degli ingredienti del calderone: analisi all’oxioniense, neopositivismo logico, Wittgenstein e, piuttosto sorprendentemente, una dose di Ceccato. Nello stesso mese, distribuito in contemporanea, l’editore Lerici pubblicò anche Gli effimeri di Sandra Von Glasersfeld. In quel momento avevamo entrambi diciannove anni e, dunque, accomunati dalle circostanze, va da sé che si facesse reciproca conoscenza. Nel settembre dello stesso anno, nella sede della Lerici, in via Santa Tecla, organizzai un seminario di studi su quella “metodologia della critica” che, evidentemente, turbava i miei sonni. Come di prassi in situazioni analoghe, vi furono relazioni varie e infuocati dibattiti successivi. Alla chiusura Sandra mi presentò la persona che l’aveva accompagnata al convegno e che, rimanendosene in rigoroso silenzio, ne aveva seguito l’andamento. Era suo padre, Ernst. Il quale mi disse subito che, con le idee che avevo espresso, avrei potuto andare d’accordo con un suo amico con cui, pertanto, avrei fatto bene a mettermi in contatto. Questo amico si chiamava Ceccato e io chiesi se di Silvio Ceccato, l’autore di Tempo e spazio in cibernetica, si trattasse. Lui mi disse di sì e mi propose di presentarmi a suo nome, nei giorni successivi, alla vicina Università degli Studi, al Centro di Cibernetica e di Attività Linguistiche. Ernst von Glasersfeld, dunque, orientò la mia esistenza in modo determinante. Sulle prime – prime che hanno durato almeno una ventina di anni – presi le cose con entusiasmo diciamo “autoreferenziale”, ma, poi, imparai ad essergliene grato. Il nostro rapporto ebbe andamenti che sarebbero giudicati strani se non si tenesse presente il rapporto di entrambi con Ceccato. Lui che aveva ottenuto un finanziamento per un progetto di traduzione automatica quando Ceccato – il suo “Maestro” – era rimasto con il sedere per terra; io, che, presentato da lui, cominciavo a lavorare con Ceccato. Lui, signorilmente sulle sue, più sul non dire che sul dire in relazione ai suoi rapporti con Ceccato; io, trascinato nel vortice di una rivoluzione. Ci frequentammo un poco – nei limiti in cui le differenze tecniche di ciò di cui ci stavamo occupando ce lo permettevano – e mantenemmo un minimo di rapporto più o meno continuo per via di sua figlia Sandra, presto in pericolo e indirizzata verso un tragico destino. Me lo ritrovai alfiere del “costruttivismo radicale” nel 1985, in occasione di un suo ritorno in Italia e tentai più volte di ricomporre i margini di una compatibilità tra lui e Ceccato – tentativi che, nonostante tutta la sua buona volontà, andarono in fumo grazie a tutta la cattiva volontà dell’altro. Del suo pensiero mi sono occupato a più riprese. Chi sia interessato a questo tipo di cose può leggere la mia Postfazione a Come ci si inventa (“storie, buone ragioni ed entusiasmi” di Heinz von Foerster e di Ernst medesimo, individuati come “due responsabili dell’eresia costruttivista” – il sottotitolo è mio – pubblicato da Odradek nel 2001) e Ernst von Glasersfeld e la Scuola Operativa Italiana (in “Constructivist Foundations”, 2, 2-3, 2007) – scritto, quest’ultimo, di cui Ernst, in una lettera del 9 aprile del 2007, mi si disse “infinitamente grato” per “aver detto tutto” sulla sua relazione con Ceccato e sulle “sottili differenze” del loro pensiero. In proposito non credo di dover aggiungere altro. Ne avessi il tempo e il modo, mi piacerebbe approfondirne pensiero e vicende, nella mutua loro relazione, per individuare le matrici di alcune sue suscettibilità e di alcune sue reticenze palesi (come quelle relative al Lana Project e al silenzio imposto sull’esperimento da una comunità scientifica straordinariamente ottusa), ma temo che queste mie curiosità non verranno mai soddisfatte. Mi tengo cara l’amicizia e la franca lealtà che hanno caratterizzato il nostro rapporto per tutti questi anni. E’ morto il 12 novembre scorso. Sapeva di aver pochi giorni a disposizione e – nei limiti in cui si può essere “preparati” alla morte - era preparato. Ha donato il suo corpo alla scienza – come si dice – e, a quanto mi si racconta, pochi giorni prima si è detto “pronto” per la sua “prima lezione di anatomia”. Felice Accame Methodologia Online, WP 239 1 Ernst von Glaserfeld nel ricordo.a Renzo Beltrameb Il ricordo di Ernst risale proprio agli inizi della mia attività, nel 1960, al centro di Cibernetica e di Attività Linguistiche dell'Università di Milano, e sul finire del mio corso di studi universitari. Incontri saltuari in quell'anno, per lo più insieme a Ceccato. Mi colpirono il suo sorriso amichevole, carico di curiosità, e quindi aperto - svolgeva, mi dissero, anche attività giornalistica, attraversato sempre da un tratto di ironia. Caratteri che la successiva conoscenza dovevano approfondire, confermandoli. Alla metà del '62, dopo la pausa del mio servizio militare, cominciò un periodo di attività congiunta, per me fruttuosissimo, nel progetto di traduzione meccanica. L'apertura e la curiosità intellettuale di Ernst erano grandissime, prive di quella carica polemica che colpiva in Ceccato, anche se pure in lui si attenuava nel momento della costruzione. Quella di Ernst era una curiosità partecipativa, divertita della varietà nelle sue diverse manifestazioni. Il giudizio veniva sempre molto dopo, se arrivava. Imparai che quello che mi era apparso un tratto di ironia, era in realtà un modo dialettico di vedere le cose e i problemi, illuminando sempre di ogni faccia anche l'opposta. In quegli anni mi regalò con dovizia di esempi l'idea che ad ogni lingua è sotteso un diverso modo di articolare l'attività mentale, liberandomi dalla concezione che fosse unica e universale quella che Ceccato mi allenava a cogliere e descrivere nelle singole parole e nelle frasi della mia lingua madre: l'italiano. Il suo lavoro "Operational semantics: Analysis of meaning in Terms of Operations" ripubblicato nei Festschrift, il suo studio sulle preposizioni inglesi, e il lavoro di gruppo sulle "costellazioni" incentrate sul verbo - in italiano, inglse e russo - rifluito nel Report "Mechanical Translation: the Correlational Solution", sono tra i ricordi più pregnanti di quel periodo. In particolare il lavoro sulle "costellazioni", che proponeva la scelta del verbo nella lingua di uscita sulla base della costellazione di verbo e suoi complementi espressi della lingua di entrata, ha contribuito in maniera determinante al sorgere di un mio legame profondo con Ernst. Ci metteva di fronte, con immediatezza, ad un fatto ovvio per lui traduttore: si incontrano spesso situazioni nelle quali bisogna riformulare un intero periodo, riarticolando quindi l'attività mentale costitutiva di ciò che si è capito secondo le parole offerte dalla lingua di uscita. Per me, interessato a un modello dell'attività mentale ma di formazione tecnico-scientifica, fu una acquisizione preziosissima. Ci univa il gusto per una ricostruzione dell'attività mentale che scendesse nei dettagli più minuti: le operazioni elementari di allora. Ci divideva il mio desiderio di fare ogni volta di questa articolazione un caso particolare di una teoria generale, come mi aveva abituato la meccanica. Credo lo capisse molto bene e lo sentisse fuori portata per entrambi, perché accompagnava i miei tentativi o le mie rimostranze con il suo abituale sorriso amichevole, dove si accentuava appena la pacata ironia. Così ho seguito il suo percorso, sopratutto poi, da lontano, accogliendone di volta in volta le acquisizioni con una partecipazione piena, e venata anche da una punta di malinconia per non riuscire ad incrociare fattivamente il mio percorso col suo. Sarà per una prossima vita! a b Methodologia Online [http://www.methodologia.it] - Working Papers - WP 240 - Novembre 2010 National Research Council of Italy - Pisa Research Area - Via Moruzzi 1, 56124 PISA - Italy - email: [email protected] Guido Calogero. Attualità di una rimozione. [Intervento di Claudio del Bello al Seminario di studi Guido Calogero. Dialogo, Resistenza, rimozione tenutosi a Roma il 27 ottobre 2010 alla Casa della Memoria e della Storia, con Vittorio Cimiotta, Gennaro Sasso, Claudio del Bello, e Stefano Gambari] Vengo spesso in questa Casa della Memoria e della Storia. È una delle poche piazze in cui si fa politica coralmente, per via delle tante associazioni che vi dimorano – accomunate dall'antifascismo. Qui ho ritrovato Stefano Gambari a dirigere la Biblioteca della Casa. L'ho conosciuto, saranno ormai 30 anni, perché seguiva un seminario che tenevo presso la cattedra di Filosofia Teoretica, per lui un effetto collaterale del corso di Guido Calogero. Le cui lezioni, come si vede, hanno lasciato traccia. Sono stato l'ultimo degli assistenti di Calogero. La formula non dispiacerà ai colleghi che mi hanno preceduto, ma la circostanza mi ha permesso di poterlo frequentare anche dopo la sua andata in pensione ed avere con lui tutta la familiarità che volle concedermi. Spero che il mio intervento non deluda il pubblico, anche perché è arduo riprendere un discorso che non è mai cominciato. Anzi, vorrei restituire il disagio per una commemorazione a più di ventiquattro anni dalla morte, ma anche il piacere di constatare che non pochi hanno voluto rispondere a questo invito. Non sono state molte, infatti, le occasioni per ricordare Guido Calogero in questi 24 anni trascorsi dalla sua morte, avvenuta il 17 aprile 1986 (era nato il 4 dicembre del 1904). D'altra parte, il disagio è avvertito già nel titolo di questo incontro: Dialogo, Resistenza, Rimozione, appunto. La commozione è banale, e comunque è un fatto privato, lo sdegno è impotente e ridicolo. Mi atterrò al tema proposto, ma lo farò soprattutto a partire, senza moralismi, e a ciglio asciutto, dalla perdurante attualità di quella rimozione. Una rimozione, plumbea, ferrata, catafratta. Non casuale, però, dovuta alla calogeriana, profonda, radicale estraneità, al genio italico, al genius loci, intendo, alla cultura specificamente, autoreferenzialmente, orgogliosamente italica e, in particolare, a certo storicismo. Perché, in ogni caso, estraneo gli era il folklorico e il vernacolare, il particulare. Il combinato disposto di questa rimozione, in compenso, ha comportato che il suo pensiero non sia stato appropriato, gestito, manipolato, falsificato, aggiustato, ridotto a scuola. Il che rappresenta l'unico, ma consolante, aspetto positivo. Se infatti un giovane studioso – semmai stuoli di giovani studiosi, mi auguro – vorranno occuparsene, non dovranno faticare per sfrondare, disincrostare, separare, emendare. [Ma, intanto, dovranno correggere la voce Guido Calogero su Wikipedia, quella sì emendarla, ma soprattutto integrarla perché, incredibilmente, vi manca – nel testo e in bibliografia – la menzione di La conclusione della filosofia del conoscere, l'opera apparsa nel 1938 e che rappresenta l'inizio del suo cammino solitario, filosofico e politico]. Il corpus delle sue opere è lì, pubblicate dallo stesso Calogero. Intonso, per lo meno da parte dell'ultima generazione. Estraneità, dicevo. Un corpo estraneo intorno a cui girare, da ammirare certo, da rispettare – ci mancherebbe! – ma risultato impossibile da replicare, da seguire, da imitare. Come elaborare allora questa sua diversità, come rubricarla? Mi auguravo uno stuolo di giovani studiosi. In realtà ne occorrerebbe uno solo, ancorché molto agguerrito, che ne scrivesse la Biografia. Nel caso di Guido Calogero, la biografia non sarebbe un espediente per parlare cronologicamente del pensiero, ma risulterebbe l'unico modo per parlarne, per dare altrimenti senso ad opere così disparate. Agguerrito e attrezzato per restituire i suoi studi sul pensiero antico. Per seguire e ricostruire la sua carriera universitaria, inclusi i suoi soggiorni all'estero – Heidelberg, prima, e poi Montreal e Princeton; la sua direzione l'Istituto italiano di cultura a Londra, dal '51 al '53; per ricostruire il suo lavoro di redattore dell'Enciclopedia italiana, per la quale scrisse le voci di tutti i filosofi greci, ma anche dei filosofi inglesi di Sei e Settecento, dei filosofi tedeschi di Otto e Novecento, e anche di Proudhon; quelle firmate, ma ce ne sono altre non firmate da rintracciare. Tenendo ben presente il poderoso epistolario – già da sola, la mappa dei corrispondenti mostra in filigrana la complessità delle sue relazioni e dei suoi interessi. E poi la produzione giornalistica – Il Mondo, l'Espresso, e anche gli articoli “leggeri” che apparivano su Panorama; ne ricordo uno: “Il pollo si mangia con le mani”, incantevole – dando inoltre conto della sapida aneddotica, quasi sempre affettuosa e corriva. Ma agguerrito per ricostruire il suo accidentato e frustrante percorso nella politica. Nel 1945 fece parte con autorevolezza della Consulta ma non lo troviamo nel primo Parlamento. Credo che fosse fatto il suo nome per il ministero della Pubblica istruzione, ma gli venne preferito De Ruggiero. Le sue sfortunate campagne elettorali, sacrificato in improbabili collegi senatoriali. Ma agguerrito soprattutto nel maneggiare quell'ordigno – il liberalsocialismo – l'ircocervo, appunto, brandendo il quale Calogero ha fatto irruzione e poi tenuto la scena, davanti a un pubblico recalcitrante. Temo che, un simile studioso, se mai esistesse, difficilmente si accollerebbe un tale impegno. E comunque, preliminarmente, dovrebbe venire a capo della suggestione per la quale Calogero fosse un tipo bizzarro. Si sa, è il modo più spiccio per allontanare da sé l'onere della comprensione e del coinvolgimento quello di circonfondere di un'aura, di fissare la diversità. In effetti, bizzarria era il titolo sotto cui veniva catalogato, rubricato dai suoi contemporanei. Bizzarro fu il suo pacifismo, e bizzarra fu la sua frequentazione con Capitini con il quale elaborò il Liberalsocialismo. Capitini era infatti il segretario della Scuola Normale di Pisa, gandhiano e vegetariano, poi cacciato per aver rifiutato il giuramento al Fascismo, assertore della non violenza e, addirittura, della non menzogna. Figuriamoci, in un Paese che si divide, preliminarmente, tra seguaci della simulazione e quelli della dissimulazione. Bizzarra, ritenuta irenica, la sua filosofia del dialogo. Figuriamoci, c'era la guerra fredda. Bizzarro il suo liberalsocialismo Bizzarro il suo azionismo in primis. Senza contare che molti azionisti consideravano velleitario il liberalsocialismo. Non era un giacobino, Calogero. Alessandro Galante Garrone si definiva "il mite giacobino". A Calogero non piacevano le forzature della politica, amava la cogenza del pensiero, la forza dei principii. Di più, il suo ideale non era la République, ma semmai la costituzione statunitense. Da questo punto di vista, non era giacobino, e nemmeno mite. Sempre pronto alla discussione. Anche animata – considerava lecito il dissenso, non l'oltraggio, come sostiene in un suo articolo. Questa circostanza lo ha reso ancora più estraneo alla politica e alla cultura italiana. E a spalleggiarsi nel sottolineare questa differenza era quel certo generone politico-culturale, che controllava la scena. Ora si può parlar male di loro quanto si vuole, li si può vituperare senza tema di essere contraddetti, sono fuggiti, hanno fatto perdere le loro tracce, hanno cambiato nome, ma allora – tra i Cinquanta e i Settanta – costituivano il senso comune. I sorrisetti erano soprattutto per il Partito d'Azione. Un sarcasmo che si è perpetuato per cinquant'anni se ancora qualche mese fa Massimo D'Alema se la prendeva con «la cultura azionista [che] non ha mai fatto bene al paese.» Devo confessare che il fastidio per l'ironica supponenza nei confronti degli azionisti mi viene da lontano. Sono cresciuto nel mito famigliare di mio zio che è stato il primo capo militare di Giustizia e Libertà. Morì fucilato, Paolo Braccini. Crescevo e avvertivo l'irrisione, ma crescendo scoprivo che il Partito d'Azione non esisteva più dal 1947. Tuttavia ancora ne avvertono il fastidio, duole come un arto mancante. È patologico, tutto ciò. Anzi, sintomatico. Ma contro ogni evidenza, se si tiene conto quanto gli azionisti, ormai dispersi, abbiano accompagnato la ricostruzione del Paese, dato spessore alla programmazione economica e comunque abbiano continuato a servire la politica, sostenendo la politica delle riforme, il gradualismo... E comunque quella stagione ha rilasciato nella legislazione qualcosa di duraturo – Statuto dei lavoratori, per es. – mentre molti azionisti hanno continuato a servire le istituzioni rimanendo con le mani nette. Basterebbe questo. Non posso qui soffermarmi, anche per un deficit di conoscenza, sul rapporto tra il Socialismo liberale dei fratelli Rosselli e il Movimento liberalsocialista di Calogero e Capitini. E anche questo fardello dovrà accollarsi il nostro biografo. Dovrà cioè dar conto di socialisti che vogliono liberaleggiare e di liberali che vogliono socializzare. Insieme all'elaborazione politica, Calogero si muove anche sul versante filosofico, sempre in quel torno di tempo, con un'elaborazione che culminerà nelle Lezioni di filosofia e in Logo e dialogo. Non voglio fare paragoni, ma mi viene da ricordare solo un altro che, per rifondare la politica, non esita a buttare all'aria il proprio impianto filosofico. E il bravo biografo proprio su questo nesso dovrà lavorare, in modo da offrire ai lettori posteri i modi e i termini con i quali critica della filosofia e critica della politica si siano vicendevolmente influenzate in Guido Calogero. Non dimenticando di accennare al fatto che, mentre il suo magistero relativo al pensiero antico ha avuto più di un continuatore, la filosofia del dialogo è rimasta abbandonata, lettera morta. Erano tempi in cui irrompeva la psicoanalisi, e qualche suo allievo vi si cimentava, così che Guido Calogero veniva spesso costretto a confrontarsi con l'inconscio, e a spiegare come questa neo categoria inficiasse o meno la sua filosofia del dialogo. Ma di quelle discussioni non è rimasta soverchia traccia. La sua filosofia del dialogo è un convergere, una stipulazione faticosa sui significati e sull'uso delle parole, categorie, concetti; la filosofia del dialogo è incontro e conflitto, e comunque non riducibile – come la manualistica propende – ad una sua pretesa base etica, ma tale da prefigurare una sorta di costruttivismo. Non è un caso quindi che proprio la Scuola Operativa italiana l'abbia apprezzato, e che Calogero abbia intrattenuto rapporti con Ceccato, Somenzi e Vaccarino. «Come sempre, la lotta non è tra la prassi e la teoria, ma tra una prassi e una prassi» scriveva nel 1938 nella Prefazione a La conclusione della filosofia del conoscere. Quel libro – che voglio avventurosamente riassumere con questa breve citazione – rappresenta, in unica soluzione, il suo distacco dalla filosofia italiana e da Giovanni Gentile, la critica di ogni gnoseologia, di ogni filosofia della conoscenza. Il fondamento rimanendo la responsabilità individuale. Come ho appena ricordato, un riscontro significativo ma irrilevante venne dalla Scuola Operativa – Ceccato, Somenzi, Vaccarino – della quale sono stato tiepido scolaro. Non bizzarro, ma stupefacente fu quel distacco, maturato proprio nel momento di maggior consenso per il fascismo. Calogero nel 1938 con La conclusione della filosofia del conoscere, rompe con l'autarchia della cultura italiana del periodo fascista, senza prestiti, senza sudditanze o riferimenti esterni e, direi, senza compilazioni eclettiche. Estraneo alla lezione vichiana, e comunque senza esplicite aperture a Croce. Come si sa, mentre Gentile continuò ad apprezzarlo e a valorizzarlo, Croce lo tenne a distanza, sia perché avvertiva che quella di Calogero era una forma più radicale di attualismo – e si sa che per Croce l'attualismo “non era nemmeno filosofia, ma passione politica” – sia perché non voleva concorrenti nel rappresentare l'istanza liberale. Nel 1940 comincia a circolare Il manifesto del liberalsocialismo, elaborato con Aldo Capitini. Calogero sta tutto nel processo che lega queste due opere. Il più politico tra i filosofi e il più filosofo tra i politici finirà per essere guardato con sospetto sia dagli uni che dagli altri. Mi tengo il giudizio di Eugenio Garin, rilasciato subito dopo la sua morte «Sul primato del momento teoretico nei confronti di quello storico ha sempre battuto con insistenza, e proprio in riferimento alla sua attività storiografica. La storia della filosofia – e in particolare la storia della filosofia antica – ha il compito preciso di dare lumi per vedere più a fondo, e più correttamente, nella problematica contemporanea, mettendo a nudo antichi fraintendimenti ed errori, dissipando pseudo-problemi e mettendo a fuoco i problemi autentici.» “Scuola e citta” 1987 Ma un simile giudizio, in sé esaltante e liberatorio, in questo paese, con questa tradizione, può suonare come una condanna. E allora, quel biografo dovrà dar conto non di una bizzarria ma di una tragica rappresentazione collettiva durante una guerra civile e con la Guerra fredda incombente e poi dispiegata. Le idee liberalsocialiste, si fa presto a considerarle frutto d'astrattezza dottrinaria. L'istanza liberalsocialista va apprezzata dopo averla ricondotta al periodo in cui l'elaborazione politica era assente, che riprendeva ab ovo con interrogativi di tipo filosofico. Non era poco, e comunque era necessario. Che Marx c'entrasse qualcosa con il liberalsocialismo sono portato ad escluderlo e d'altra parte sono note le critiche senza appello che Marx fece non solo al socialista Proudhon ma anche a Saint Simon che è il capostipite di ogni futura idea di collaborazione tra i ceti produttivi, borghesia in primis. Senza contare che lo stesso Calogero, nel Manifesto del liberalsocialismo, invita perentoriamente a lasciar perdere il Marx teorico. E su questo punto mi sono sempre permesso di controbatterlo animatamente. Ricordandogli che era bizzarro, quello sì, privilegiare il Marx del Manifesto del partito comunista ignorando, e facendo sì che s'ignorasse, che quel pamphlet risulta essere la più irridente e radicale critica di ogni socialismo presente e futuro. E allora, il nostro biografo dovrà dar conto di una figura invertibile: un filosofo prestato alla politica, o un politico infiltrato nella filosofia? Dovrà dar conto del fatto che il suo rifiuto di distinguere tra logica, etica e politica decretò la sua messa al margine sia da parte dei filosofi, sia da parte dei politici. In ogni caso, se si crede che il liberalsocialismo sia uno strumento dell'agire politico, ci si ritrova impigliati nel più classico dei problemi filosofici. O anche, che Calogero per dare soluzione al più classico dei problemi filosofici, si è trovato impigliato in un problema politico di cui finora non si è trovata soluzione. Il liberalsocialismo è il nodo, così complicato che si avrebbe voglia di tagliarlo. Dicevo che Calogero non era un giacobino, e che più che la Francia aveva in testa gli Stati Uniti d'America, quella costituzione, quell'ordinamento, quella società, quelle regole. Fuori di ogni realismo politico – il brutale realismo – ma anche fuori di ogni realismo filosofico. Solo contro tutti. Ma io continuo a vederci il filosofo, non algidamente tollerante ma sinceramente curioso. Però, io sono troppo coinvolto, incline a vedere il personaggio. Mentre il bravo biografo dovrà, nel restituire il personaggio, ricostruire la scena, e mostrare quanto il personaggio, con le sue forzature teoriche e con le sue difficoltà pratiche abbia realmente rappresentato quel laboratorio tribolato. Non sono così accecato dalla passione per Calogero da non sapere quali sono i punti critici, problematici e aporetici del suo pensiero: il rapporto con l'attualismo, la sua sintesi politico-giuridica, la risoluzione della storia, la riduzione della dialettica a dialeghestai, la preponderanza dell'istanza etica, una certa fissità delle forme, una sorta di atemporalità per cui egli può collegare il mondo greco, la polis e l'agorà con gli Stati uniti senza dar conto dei due millenni trascorsi e delle forme che nel frattempo si sono succedute, non casualmente, direi. Pur avendone tradotto le Lezioni di filosofia della storia non si può dire che Calogero avesse penetrato Hegel, che tentare di superare le angustie dello storicismo lo avesse addestrato a padroneggiare le forme della storia. E poi – ma questo lo aveva in comune con quasi tutti gli altri azionisti – era rimasto segnato dalla Scissione del Teatro Italia, della primavera (o era febbraio) del 1947. Questo evento lo segnò e lo condizionò, più che il mancato apprezzamento di Croce. Ma ripartire da lui, dalle sue opere, potrebbe essere una formidabile occasione per tornare alla filosofia, senza lo storicismo ma con tutta la storia che sta dentro, con la sapienza filologica, sempre a rischio sotto gli assalti della passione. E ripartire dal suo tragico impatto con la Politica potrebbe gettare una luce impietosa sui suoi interlocutori e addirittura far rimarcare quanto siano peggiorati. Scusate, ma più non potevo. E non è questione del tempo a disposizione. Non potevo cioè, nella stessa comunicazione, assumere la parte del difensore e del critico. Ho preferito l'espediente di evocare un biografo, il biografo che non ho potuto essere. Claudio del Bello Da “IL GIORNO” Da “IL GIORNO” Notizie * Felice Accame, Mario Valentino Bramè, La strana copia, Carteggio fra due avversari su natura e funzione della filosofia con documentazione a sostegno di entrambi Felice Accame, Mario Valentino Bramè, La strana copia, Carteggio fra due avversari su natura e funzione della filosofia con documentazione a sostegno di entrambi, 2010, pp. 172, Mimesis Edizioni, (in copertina due incisioni di Gaetano Neri) Isbn 9788857502281, Euro 16,00 Un carteggio a tema. Unico. Natura e funzione della filosofia. Uno, il metodologo, che ne dice tutto il male che gli è possibile. L’altro, il filosofo, che ovviamente ne dice tutto il bene che gli è possibile. Un carteggio dove, come nelle migliori tradizioni delle dispute, ciascuno rimane del suo parere. Con una sorpresa finale, tuttavia. Quando tra i contendenti urge l’invito reciproco a sostenere le proprie affermazioni con esempi tratti dalla storia della filosofia - da Hume a Berkeley, da Husserl a Schopenhauer, da Heidegger a Ceccato - si scopre che le stesse prove vanno bene a entrambi, che Accusa e Difesa si basano sugli stessi argomenti. O, almeno, così potrebbe sembrare. E' in funzione il sito Internet della Società di Cultura Metodologico-Operativa all'indirizzo: http://www.methodologia.it