BIOFISICA Di Mario Ageno Se vogliamo non tradire completamente il significato etimologico della parola, il carattere interdisciplinare della biofisica deve necessariamente accordarsi con un complesso di problemi e domande che appartengono al campo proprio della biologia. Biofisica non potrà dunque essere altro che un certo modo di organizzare e di interpretare, o spiegare i fatti biologici, o almeno una parte di essi. Premesso questo punto fondamentale, resta naturalmente da chiarire in che cosa la biofisica si differenzia dall’ordinaria biologia (e dalle singole scienze biologiche particolari). La condizione necessaria per caratterizzare la biofisica, sia come campo di ricerca sia come complesso di conoscenze scientificamente organizzate, risulta evidentemente in rapporto diretto, a livello esplicativo, con la fisica e i suoi principi fondamentali. La biofisica assume come dati di partenza conosciuti i principi generali della fisica (e tutte le note conseguenze che da essi derivano per via deduttiva) e si propone di spiegare, in base ad essi, la possibilità dell'insorgere di sistemi quali gli organismi, nonché l'intera complessa fenomenologia cui questi danno luogo. Una teoria fisica ha sempre la forma di un sistema logico deduttivo che si sviluppa a partire da pochi concetti fondamentali e da alcune leggi universali di carattere estremamente generale, fino a formulare le leggi sperimentalmente valide di tutti i fenomeni che la teoria riesce a spiegare. Se una tale teoria deve essere in grado di inquadrare anche tutti i fenomeni biologici, può effettivamente la biologia assumere la forma di un sistema logico-deduttivo? Questa è la domanda fondamentale alla quale bisogna prima di tutto dare una risposta. Ma dare una risposta fondata non è facile. Come la fisica, anche la biologia è una scienza sperimentale, nel senso che anche in essa l'esperimento ha un'importanza fondamentale e che solo attraverso esso possiamo renderci conto di come gli organismi viventi sono strutturati e di come funzionano. Tuttavia l'importanza che assume l'esperimento in biologia è assai minore che in fisica. Gli organismi viventi sono dei sistemi estremamente complessi ed estremamente improbabili, che nascono e muoiono. Le specie evolvono, si modificano lentamente col succedersi delle generazioni. Il biologo che si trova davanti una struttura tipica di una specie vivente, o un fatto biologico generale in una certa categoria di organismi, non può senz'altro dire: " sono in presenza di una legge che deve potersi inserire nel sistema logicodeduttivo della teoria fisica". Al contrario, egli sarà portato prima di tutto a riflettere, sul come le soluzioni adottate dagli organismi odierni siano condizionate dalle soluzioni precedentemente adottate da altre specie oggi estinte. E quand'anche il biologo fosse riuscito a ricostruire tutta la strada seguita dall'evoluzione, non ne saprà alla fine molte di più circa la possibilità di inserire i fatti biologici nel sistema deduttivo della fisica. Il fatto è che in questo campo l'esperimento ha possibilità limitate: non possiamo fare l'esperienza dell'estinzione dei dinosauri. Così, mentre la fisica colleziona classi di fatti ripetibili, la biologia, come la storia umana, resta costituita da una successione, in tempo reale, di eventi singoli che non possiamo controllare o ripetere. La biologia è, di fatto, essenzialmente una scienza storica. L'analogia con la storia umana (e si tratta forse di qualche cosa di più di una semplice analogia) mette chiaramente in luce quale sia il carattere del legame che collega tra loro i successivi eventi mutazionali di cui è costituita la storia evolutiva di una specie. Un'opera storica (Historia rerum gestarum) è costituita dalla narrazione di una successione di eventi, ciascuno dei quali crea le condizioni perché il successivo possa verificarsi : capire la storia, significa prima di tutto riuscire a rendersi conto di questo legame, di come ciascun evento sia appunto reso possibile dai precedenti. Ma ciò non significa che questi siano la causa di quello, nel senso in cui la parola “causa” è generalmente usata in campo scientifico. Più propriamente, possiamo dire che ciascun evento della successione ha nel precedente (o nei precedenti) la sua “causa occasionale”, mentre resta del tutto impregiudicata la questione dell’eventuale esistenza di “cause efficienti”, la questione del determinismo o indeterminismo nelle azioni umane. In modo perfettamente analogo, il legame che noi constatiamo alla base della storia evolutiva di una specie è un legame di cause occasionali, non di cause efficienti. Molte considerazioni sul carattere deterministico dell'evoluzione biologica (v. Rensch, 1960; v. Dobzhansky e Boesiger, 1968) sono in realtà fondate sull'identificazione talora inavvertita e acritica, talora intenzionale ed esplicita, di causa occasionale e causa efficiente. Certamente, noi possiamo, con Darwin, affermare il carattere rigorosamente deterministico dell'evoluzione: ciò facendo, ci ricolleghiamo alla cosmologia della fisica classica, concependo, con Newton e Laplace, il mondo come costituito da particelle materiali in movimento regolate da leggi universali e immutabili. Ma ciò non ha alcun fondamento nell'esperienza e non inserisce il fatto evolutivo nel sistema deduttivo della fisica: ricollega l'intera evoluzione non alle leggi universali, ma alle condizioni iniziali, a quei fatti speciali che, come abbiamo già detto, non fanno propriamente parte della teoria scientifica, ma semplicemente giustificano ciò che oggi in concreto osserviamo nel mondo che ci circonda. E, inoltre, una tale concezione deterministica, se da un lato riconduce il fatto dell'evoluzione biologica al normale operare delle leggi universali del mondo fisico, dall'altro fa giustizia della stessa teoria darwiniana, distruggendone le fondamenta: la selezione naturale non risulta più essere un effettivo meccanismo, così chiaro e intuitivo, capace di giustificare l'evoluzione, ma soltanto un nome dato alla nostra reale incapacità di analizzare il modo d'agire estremamente complesso delle leggi naturali. Se poi rifiutiamo ogni concezione deterministica per l'evoluzione biologica, allora la selezione naturale riacquista tutto il suo significato di reale, efficace meccanismo di adattamento della specie all'ambiente, ma contemporaneamente i fatti evolutivi divengono fatti storici, cioè singoli, irripetibili e cade ogni possibilità di collegamento con le condizioni iniziali del mondo. La teoria fisica vera e propria si disinteressa di tutti gli aspetti contingenti, storici, evolutivi dei sistemi che considera e quindi anche del mondo in cui viviamo, lasciandoli alle altre scienze, in particolare la cosmologia, Una simile operazione in biologia, prima ancora che priva di senso, sarebbe impossibile, proprio perché la biologia non è basata esclusivamente sul risultato di esperimenti. Non sembra possibile capire le strutture biologiche che oggi si osservano e i processi che in esse si svolgono se non in una in una prospettiva essenzialmente storica. Così la biologia, come scienza storica, si inserirà piuttosto in una concezione generale cosmologica, e la fisica, anziché fungere per essa da scienza di base (com'è oggi per la chimica), non potrà che fornire a essa strumenti esplicativi (così come li fornisce appunto alla cosmologia) utili per descrivere in modo semplice e prevedere l'esito di complicati processi, operanti tuttavia sempre su una realtà di fatto esterna alla teoria fisica stessa. La teoria biologica è una rappresentazione sia pure parziale del mondo, concepita in termini di spazio e di tempo reali, una teoria scientifica dell'uomo nel mondo che lo circonda. Serve quindi una rappresentazione cosmologica in cui leggi universali e fatti particolari sono fusi in un’unità descritta in termini di spazio e tempi reali. La teoria fisica valida nel campo dei fenomeni macroscopici si ha una rappresentazione del mondo analoga a quella newtoniana, deterministica come quella di Laplace. Il divenire del cosmo è concepito come una catena di eventi, ciascuno dei quali è l'unica conseguenza dei precedenti, tutti quindi implicitamente contenuti nelle condizioni iniziali dell'universo e in base a questi in linea di principio calcolabili e prevedibili. In tale quadro teoretico, gli aspetti fondamentali per una presentazione cosmologica valida, sembrano essere: a) il secondo principio della termodinamica, da cui discende che nessun processo macroscopico può prodursi, se non è in qualche modo disponibile dell'energia libera che possa, nel corso del processo stesso, essere dissipata in forma di energia termica; b) il principio d'indeterminazione, in conseguenza del quale non è possibile prevedere un evento a livello atomico o molecolare in base alla conoscenza degli eventi precedenti; per esempio, non è possibile prevedere l'esito dell'urto tra due particelle, conoscendo tutto ciò che è possibile conoscere sullo stato del sistema da esse costituito prima dell'urto; c) l'esistenza di sistemi amplificatori, capaci di portare a livello macroscopico le conseguenze di un singolo evento elementare, quali per esempio un contatore di Geiger capace di rivelare il passaggio di una singola particella elementare attraverso il suo volume sensibile o una lastra fotografica in cui un elettrone veloce rende sviluppabili i singoli cristallini di bromuro d'argento che gli accada di attraversare. La principale fonte di dubbio, in relazione a questa domanda, sta nel fatto che non siamo attualmente in possesso di nessuna teoria fisica che si sia dimostrata capace di inquadrare, almeno in linea di principio, tutti i fenomeni fisici conosciuti. Tutte le nostre attuali teorie hanno una validità limitata e la fisica delle particelle elementari (sia essa o no la presunta matrice dei postulati fondamentali di ogni teoria scientifica dei fenomeni naturali) è ben lontana dall'aver raggiunto una qualsiasi sistemazione logicamente coerente e ragionevolmente completa. Dovremo dunque contentarci di vedere se, tra le teorie approssimate, parziali, di cui disponiamo, non ve ne sia una che possa fondatamente ritenersi idonea a descrivere approssimativamente anche i fenomeni della biologia. Non potrà tuttavia trattarsi che di una soluzione approssimata e provvisoria del problema. Le maggiori riserve in proposito non vengono, come sarebbe naturale attendersi, da biologi, ma soprattutto da fisici. Numerosi (e tra essi vi sono nomi di primissimo piano, come quello di E. P. Wigner) hanno espresso in proposito opinioni che, facendo riferimento a una antica disputa relativa alla natura dei fenomeni della vita, possono definirsi neovitalistiche. Ciò che sembra soprattutto influenzare in modo determinante il pensiero di questi fisici, orientandolo appunto verso concezioni neovitalistiche, è da un lato il carattere evolutivo della vita (intesa qui come processo globale), che procede dagli organismi più semplici verso organismi sempre più complessi, con l'affermarsi di sempre nuove qualità e caratteristiche soggette a leggi “emergenti” di nuovo tipo; e, d'altro lato, la convinzione che dei fenomeni della vita fa parte anche l'umana consapevolezza di sè, la coscienza (v. Wigner, 1961), di cui non si saprebbe come fare una teoria, nei termini dell'attuale apparato concettuale della fisica. Questa corrente di pensiero in fisica può mettersi in relazione, come vedremo, con un ampio movimento di idee che tende a rimettere in discussione l'interpretazione probabilistica della meccanica quantistica (la cosiddetta “interpretazione di Copenaghen”), partendo dal presupposto, ovviamente di carattere metafisico, che solo una teoria fisica sanamente deterministica possa essere intellettualmente soddisfacente. Si tratta in ambedue i casi del ritorno, sia pure con argomenti e prospettive in parte nuovi, a posizioni che si ritenevano ormai definitivamente superate (v. CIBERNETICA). D'altra parte non è che le posizioni neovitalistiche non offrano il fianco a critiche, in realtà anche troppo facili. L'idea che l'evoluzione, sia pure attraverso molteplici tentativi falliti, deviazioni e ritorni, finisca tuttavia sempre col portare da organismi più semplici verso organismi più complessi, dotati di qualità e capacità sempre nuove, è in effetti in linea di principio discutibile : vi è certamente un limite alla complessità che un organismo può raggiungere con vantaggio evolutivo, un optimum di carattere chimico-fisico oltre il quale ogni possibile aumento di complessità rappresenterebbe uno svantaggio e una perdita, sul piano evolutivo. La necessità di introdurre nuovi concetti, per la descrizione di sistemi molto più complicati di quelli che si considerano solitamente nella fisica del mondo inanimato, non rappresenta di per sé un ostacolo all'impiego, per la comprensione dei fenomeni biologici, di una teoria fisica. Questa potrà benissimo richiedere di essere ampliata in proporzione alla complessità dei sistemi a cui la si vuole applicare, senza che per questo il nucleo dei concetti e dei postulati fondamentali, a partire dai quali il sistema deduttivo si sviluppa, venga sostanzialmente alterato. Quanto poi all'idea che una “fisicalizzazione” della teoria biologica comporti necessariamente una teoria oggettiva, in termini di concetti fisici, della consapevolezza di sè, si tratta soltanto di uno strano equivoco che dipende in sostanza dal confondere i modelli mentali, a cui noi ricorriamo per ordinare i dati empirici e che ci aiutano a pensare, a prevedere e a regolare le nostre azioni, con la stessa realtà. Mente e mondo esterno, così come ordinariamente ce li raffiguriamo, non sono che modelli parziali della realtà costruiti in modo da escludersi a vicenda: chiedere di ritrovare e ridefinire nell'uno una parte della realtà che ne è stata esclusa all'inizio per comprenderla nell'altro modello è una richiesta che comporta contraddizione. Ma su questo punto ritorneremo nell'ultimo capitolo. L'esistenza, empiricamente accertata di una base molecolare dei fenomeni biologici porta evidentemente ad escludere che tali fenomeni possano essere descritti facendo uso esclusivamente della meccanica classica che, pur valida a livello macroscopico, Ë, come sappiamo, incapace di spiegare anche solo la stabilità degli atomi e delle molecole. L'approssimazione classica è dunque certamente non valida. E, d'altra parte non possediamo per il momento una teoria completa, capace di inquadrare in modo soddisfacente almeno tutti i fenomeni fisici conosciuti. Tuttavia, Ë anche vero che possediamo una teoria approssimata applicabile ai fenomeni atomici e molecolari, che sono da essa descritti in modo qualitativamente e quantitativamente di solito molto soddisfacente: la meccanica quantistica classica. La meccanica quantistica classica rappresenta, com’è ben noto, una teoria solo approssimata perché non relativistica tale tuttavia da permettere la descrizione dei fenomeni atomici con una precisione migliore di una parte su centomila. Sappiamo inoltre che essa permette, almeno in linea di principio, di rendere ragione quantitativamente della struttura e delle proprietà delle più piccole molecole. Infine essa si riduce, come caso limite, alla meccanica classica quando venga applicata a sistemi costituiti da un gran numero di particelle e possedenti una energia totale sufficientemente elevata. Essa è perciò in grado di descrivere, con tutta la precisione desiderabile, i fenomeni macroscopici alla temperatura ambiente, che non coinvolgono velocità di corpi materiali paragonabili alla velocità della luce. Possiamo, per esempio, con essa calcolare esattamente il moto del pendolo di Foucault o progettare una macchina a vapore. I fenomeni elementari della biologia non coinvolgono certamente velocità di particelle dell'ordine della velocità della luce: sono tutti fenomeni che appartengono, secondo il linguaggio dei fisici, al campo delle bassissime energie. D'altro canto, tali fenomeni si svolgono tutti a temperatura ambiente. Per quanto riguarda le dimensioni, poi, essi si collocano esattamente a metà strada nell'intervallo compreso tra gli atomi e le piccole molecole da un lato, e corpi macroscopici (delle dimensioni globali degli organismi, superiori) dall'altro. In sostanza c’è da attendersi che le prime vere difficoltà per realizzare il collegamento logico tra fatti della biologia e principi generali della fisica (cioè della meccanica quantistica) non siano di difficoltà di principio, come spesso si ritiene soprattutto dalla mancanza di idonei metodi di approssimazione e di calcolo, validi nell'ambito delle dimensioni intermedie. Anche il solo calcolo diretto di sistemi così complessi come le singole macromolecole di rilevanza biologica (acidi nucleici e proteine) allo scopo di determinarne esattamente gli elementi strutturali, i dati conformazionali e i livelli energetici, è già, molto probabilmente, un'impresa senza speranza, a meno che le capacità dei più grandi calcolatori elettronici disponibili non progrediscano in un prossimo futuro per molti ordini di grandezza, il che non sembra per ora molto probabile. D'altra parte, anche se tali calcoli venissero effettuati, sia pure con metodi approssimati, i risultati si riferirebbero sempre a molecole isolate nel vuoto. Per contro, in tutti i fenomeni biologici tali molecole intervengono in soluzione e anche il più semplice di essi comporta sempre strette interazioni tra un numero generalmente elevato di grosse molecole che vi contribuiscono in modo essenziale. Vero che in molti casi una macromolecola si comporta né più né meno che come un oggetto macroscopico, una bacchetta o un granulo in sospensione nell'acqua : in tal caso la fisica classica rappresenta un'approssimazione sufficiente per descrivere ciò che avviene. Ma in tutti i processi biologicamente importanti, queste bacchette o granuli danno luogo a una ristrutturazione di un sistema di legami covalenti, a deformazioni della distribuzione della carica elettronica, al passaggio di elettroni (o protoni) attraverso barriere di potenziale, ecc. e allora la descrizione classica rivela i suoi limiti, mentre l'applicazione delle idee e dei metodi della meccanica quantistica presenta il massimo delle difficoltà. In realtà la situazione non è così disperata come può sembrare a prima vista. Anche se il calcolo esatto di un qualunque sistema biologico è ora impossibile e continuerà ad esserlo per molto tempo ancora, una via resta pur sempre aperta, almeno in linea di principio, anche se certamente difficile da percorrere: cercare la risoluzione dei problemi per via sintetica, facendo uso di modelli schematici. Sembra che questa sia per il momento l'unica seria prospettiva che la biofisica ha di risolvere effettivamente i suoi problemi. Ciò che si può dire in generale di questo metodo non è certo molto. Si tratta di sostituire il sistema biologico che effettivamente interessa con un modello assai rozzo e semplificato, che del sistema effettivo conservi soltanto quelle caratteristiche generali che sembrano essere di primaria importanza per un'effettiva comprensione dei processi in esame. Tale modello deve poi anche essere così elementarmente semplice da poter venire trattato in pratica con la meccanica quantistica: questa trattazione si ridurrà il più delle volte a un'applicazione formale delle leggi generali della teoria (senza neppure un'effettiva specificazione delle funzioni d'onda), per far vedere che da esse e dalle caratteristiche ipotizzate del modello discendono effettivamente le proprietà previste. Tali rozzi procedimenti, ai quali si può dare quasi esclusivamente un valore orientativo, potranno probabilmente, in un secondo tempo, essere gradualmente raffinati e resi via via sempre meno insoddisfacenti. Sembra dunque si possa concludere che non soltanto possediamo uno strumento teorico apparentemente idoneo, almeno secondo ogni ragionevole previsione, ad affrontare i problemi della “fisicalizzazione” della biologia, ma intravediamo anche la possibilità di una tecnica, sia pure primitiva, per l'uso pratico di un tale strumento. E’ forse opportuno ricordare ancora una volta che di tale teoria fa parte, come caso limite, la meccanica classica. Ne consegue che tutte quelle trattazioni occasionali e parziali, mediante le quali la fisiologia ha spiegato processi e fenomeni particolari facendo ricorso a concetti e principi della fisica, verranno puntualmente “recuperate” quando la meccanica quantistica nella sua forma più generale sarà riuscita a giustificare completamente l'insorgere delle strutture biologiche fondamentali e l'avviarsi in esse dei relativi processi. L'ultima questione che dobbiamo affrontare è ora quella dei contenuti della biofisica. Ammesso che questa disponga, almeno in linea di principio, di uno strumento concettuale idoneo a spiegare il fatto della vita e i fenomeni che vi sono connessi su una base non diversa da quella impiegata per descrivere i fenomeni del mondo inorganico, resta pur sempre il dubbio che essa sia oggi ancora una disciplina “vuota” e che l'impiego di quello strumento non abbia ancora dato alcun frutto. Secondo la nostra definizione, l'analisi della realtà obiettiva condotta dal biologo e l'analisi delle conseguenze logiche dei principi fondamentali della fisica devono a un certo punto convergere verso lo stesso tipo di struttura. E’ dunque chiaro quale sia il compito fondamentale che si trova davanti il biofisico: quello di capire, in base ai principi generali della fisica, come si possano realizzare sistemi retti esclusivamente da tali principi, in cui la materia inorganica acquista le proprietà caratteristiche della materia vivente. In altre parole, come problema centrale della biofisica ci si presenta quello dell'origine della vita dalla materia inorganica. Questa conclusione ci assicura che la biofisica non è affatto una scienza “vuota”: le nostre conoscenze sull'origine della vita si sono rapidamente sviluppate nel corso dell'ultimo trentennio, fino a costituire un insieme di dottrine solidamente organizzato, in cui tutti i problemi particolari della “fisicalizzazione” della biologia possono, come vedremo, trovare il loro posto naturale. Non si può passare sotto silenzio il fatto che ancor oggi sono molto diffuse idee sull'origine della vita che nulla hanno a che fare con la soluzione del problema che la biofisica va delineando. Pur senza rifiutare le testimonianze e i risultati sperimentali che la biofisica va raccogliendo e determinando, molti tendono a negare a essi il valore di elementi determinanti: l'effettiva comparsa della vita, il brusco passaggio dal non vivente al vivente sarebbe stato determinato in un preciso momento dal verificarsi fortuito di un singolo evento estremamente improbabile, che nel seguito non si sarebbe verificato mai più. Si tratta di soluzioni strettamente imparentate con quelle antiche, proposte dai miti e dalle religioni, anche se rivestite di una coloritura scientifica che chiama in causa non più il miracolo, ma semplicemente il caso; soluzioni facili, intellettualmente assai poco soddisfacenti ma che, a dire il vero, non si possono scartare a priori in modo definitivo. Da ciò che abbiamo detto fin qui sul problema dell'origine della vita dalla materia inorganica, risulta chiaro ch'esso presenta in modo esemplare i caratteri tipici di qualunque problema biologico: esso non può essere affrontato esclusivamente in laboratorio, con metodo sperimentale. E’ necessario ricorrere anche al metodo storico, consistente nella raccolta, nell'esame critico e nell'ordinamento razionale delle testimonianze superstiti. E’ anzi solo il metodo storico che ci può fornire i primi dati orientativi per incominciare a capire in qual modo, nel corso di un'evoluzione cosmica che ha portato alla condensazione del sistema solare e alla formazione, ad una conveniente distanza dal Sole, del pianeta Terra, abbia a un certo punto preso l'avvio su tale pianeta un nuovo processo evolutivo, quello biologico, e come esso abbia dato origine all'evoluzione socio-culturale della specie umana. Quella fase dell'evoluzione cosmica che termina con la formazione della crosta terrestre costituisce anche la fase di partenza di un lungo processo che si concluderà con l'apparizione delle prime forme di vita sulla terra. Cosmologia, astronomia, astronomia permettono di farci un'idea abbastanza precisa delle condizioni di ambiente iniziali, certamente non molto diverse da quelle di oggi. Unica sostanziale differenza, rispetto ad oggi, la composizione chimica dell'atmosfera. L'indagine astronomica ci assicura che gli elementi di gran lunga più abbondanti nel cosmo sono idrogeno ed elio: di essi doveva essere costituita sostanzialmente la nebula primitiva da cui il sistema solare è derivato. Dopo di questi, tra gli elementi chimicamente reattivi, i più abbondanti sono ossigeno, azoto e carbonio. Sappiamo dalla chimica di laboratorio che le forme termodinamicamente più stabili di questi elementi in presenza di un eccesso di idrogeno sono rispettivamente acqua, ammoniaca, metano. E’ dunque probabile che questi ultimi siano stati i componenti più abbondanti dell'atmosfera primitiva, oltre naturalmente a idrogeno ed elio destinati a disperdersi un po' alla volta negli spazi interplanetari, non essendo la gravità terrestre sufficiente per trattenerli: alla temperatura superficiale della Terra ammoniaca e metano sono gassosi, mentre le acque superficiali allo stato liquido evaporano continuamente per effetto della radiazione solare e i vapori ricondensano continuamente dando luogo alle precipitazioni atmosferiche. Ben presto, tuttavia, il carattere riducente dell'atmosfera si deve essere attenuato, sia per la dispersione dell'idrogeno, sia per l'emissione dalla crosta terrestre di gas vulcanici contenenti essenzialmente, oltre a vapori d'acqua diossido di carbonio e azoto. Si deve con ciò essere formata un'atmosfera non ossidante costituita da CO2, N2, vapori d'acqua e tracce di gas primitivi. Due sono le domande che ci troviamo immediatamente di fronte: perché e quando l'atmosfera terrestre ha cambiato la sua composizione? E poi: dal momento che H, O, N, C non sono soltanto i componenti elementari dell'atmosfera primitiva terrestre, ma sono anche gli elementi fondamentali di cui è costituito, per oltre il 95%, ogni organismo vivente, come può essersi generata, a partire da una situazione iniziale di quasi-equilibrio termodinamico, l'immensa varietà di composti chimici, i più importanti dei quali instabili all'idrolisi, che si trovano oggi negli organismi? Al "quando" della prima domanda risponde ancora l'indagine storica. L'analisi dei depositi sedimentari, formatisi attraverso le ere geologiche a seguito dei processi di erosione da parte degli agenti atmosferici, di trasporto da parte delle acque superficiali e di successiva rideposizione, mostra che essi sono di due tipi. Un primo tipo, più antico, comprende nei granuli sedimentari anche sostanze, come i solfuri che l'ossigeno atmosferico avrebbe inevitabilmente attaccato e trasformato chimicamente. Il secondo tipo, più recente, è costituito essenzialmente da ossidi, il tipico prodotto di un'erosione avvenuta in ambiente ossidante. Si ha così la conferma geologica che la natura chimica dell'atmosfera è veramente cambiata, passando da riducente a ossidante, e le datazioni radioattive permettono anche di situare approssimativamente nel tempo tale cambiamento di atmosfera, tra 2,0 e 1,5 miliardi di anni fa. Il biofisico deve così andare a cercare l'origine della vita nell'intervallo di tempo compreso tra la formazione della crosta terrestre e due miliardi di anni fa, poiché (d'accordo coi risultati di laboratorio di Redi, Spallanzani e Pasteur) la vita non si può certo generare in un'atmosfera ossidante, in cui il lento accumulo di molecole organiche complesse, biologicamente significative sarebbe manifestamente impossibile. Alla seconda domanda la biofisica risponde innanzitutto con la formulazione di un'ipotesi. Nella condizione iniziale di quasi-equilibrio termodinamico, in effetti, agivano sull'atmosfera terrestre numerose sorgenti esterne di energia libera, capaci quindi di provocare trasformazioni chimiche locali nell'atmosfera stessa, con la formazione di piccole quantità di composti immagazzinanti parte dell'energia libera della sorgente. Tale la porzione ultravioletta della radiazione solare, le scariche elettriche che accompagnano i temporali, le radiazioni emesse dalle sostanze radioattive presenti sulla superficie terrestre, le alte temperature e pressioni che accompagnano i fenomeni vulcanici e il passaggio attraverso l'atmosfera di meteoriti, ecc. Queste piccole quantità di composti chimici vari, col loro contenuto di energia libera, non potevano certamente rimanere nell'atmosfera (dove del resto non avrebbero potuto mai accumularsi, perché sarebbero state distrutte via via dagli stessi agenti responsabili della loro formazione), ma, dilavate dalle precipitazioni atmosferiche, debbono essersi andate accumulando nell'oceano primitivo, trasformato in immenso recipiente di reazione, una specie di “brodo” in cui deve aver avuto inizio una lenta evoluzione chimica, attraverso reazioni tra i vari soluti, con la formazione di sempre nuovi composti. Questa ipotesi può, almeno in parte, essere sottoposta a verifica sperimentale. E’ ciò che ha fatto per la prima volta Miller (v., 1953) nella sua già citata esperienza in cui, realizzato in laboratorio un modello dell'atmosfera primitiva, ha fatto agire su tale atmosfera per un certo periodo di tempo una scarica elettrica e ha raccolto le sostanze chimiche prodotte, mediante una continua circolazione di vapor d'acqua in condensazione, nel liquido di un recipiente schematizzante l'oceano primitivo. L'analisi chimica del “brodo” così ottenuto ha confermato pienamente l'ipotesi biofisica. Si sono prodotte in esperienze di questo tipo, ripetute da molti Autori nelle condizioni sperimentali più diverse, un gran numero di sostanze biologicamente significative: tutti i più importanti amminoacidi, che sono i mattoni costitutivi delle proteine, basi puriniche e pirimidiniche, precursori degli acidi nucleici (in particolare l'adenina), zuccheri, acidi grassi, porfirine, ecc. Si formano, tra l'altro, notevoli quantità di cianuro d'idrogeno (acido cianidrico, HCN), la cui molecola sembra particolarmente idonea, come ha messo in luce M. Calvin (v., 1969), a svolgere il ruolo di molecola “ricca di energia” nella successiva fase di evoluzione chimica. E’ chiaro che le esperienze alla Miller non possono mettere direttamente in luce ciò che può essere avvenuto nell'oceano in tempi dell'ordine dei periodi geologici: siamo di fronte a un esempio tipico dei limiti che incontra la sperimentazione in campo biologico. Tuttavia, misure di laboratorio sui vari composti e considerazioni termodinamiche possono sempre indicarci quali sono le possibilità che si aprono all'evoluzione chimica; possiamo valutare così l'efficacia e il ruolo che ciascuna sostanza può aver svolto come catalizzatore e soprattutto renderci conto di come debba essere stata determinante, per giungere all'apparizione dei primi organismi, la formazione nell'oceano primitivo di compartimenti chiusi (protocellule) capaci di creare una discriminazione tra piccole molecole organiche e inorganiche da un lato (precursori di vario tipo liberi di muoversi in tutto l'oceano e di varcare le barriere limitanti i compartimenti) e dall'altro lato le prime grosse molecole confinate all'interno dei compartimenti stessi. Molte ipotesi sono state proposte a proposito della spontanea formazione di queste protocellule, o delle sacche o membrane capaci di delimitarle; dai coacervati di A. I. Oparin, alle microsfere di S. Fox, alla formazione di strati ordinati di molecole per adsorbimento su argille, secondo J. D. Bernal. Tutte queste ipotesi sembrano tuttavia ormai superate dall'osservazione di Calvin (v., 1969), secondo cui nell'oceano primitivo doveva essere presente, già all'inizio dell'evoluzione chimica, un meccanismo capace di realizzare in ambiente acquoso reazioni di condensazione con eliminazione di una molecola d'acqua fornendo, all'occorrenza, l'energia libera necessaria a realizzare un legame metastabile. Di questo genere sono infatti tutte le reazioni che permettono di realizzare il “montaggio” delle macromolecole biologiche a partire dai relativi precursori. Calvin ha dimostrato che tale funzione può essere stata assolta da semplici derivati del cianuro d'idrogeno. Un tale meccanismo deve aver dato luogo anche a un'abbondante produzione di fosfolipidi o di altre molecole similmente costituite da un'estremità polare idrofila e da un'altra idrocarburica idrofoba. Molecole di questo genere tendono, come sappiamo dall'esperienza di laboratorio, ad associarsi strettamente in mezzo acquoso formando delle membrane a struttura lamellare o micellare, con disposizione tale da esporre all'acqua le estremità polari e rivolgere invece verso l'interno dello strato membranoso le estremità idrofobe. Diversi autori, tra i quali J. A. Lucy e W. Stoeckenius, hanno realizzato, partendo da fosfolipidi in soluzione acquosa, delle membrane artificiali indistinguibili al microscopio elettronico da quelle naturali biologiche. Così anche l'ipotesi che la formazione di protocellule nell'oceano primitivo sia avvenuta spontaneamente, partendo dalla sintesi di membrane di questo tipo che per azione del vento o dell'impatto sulla superficie dell'oceano di gocce di pioggia siano venute a formare sacche o vesciche chiuse, può essere studiata e confermata in laboratorio. All'interno di tali sacche o vesciche debbono aver cominciato a formarsi, a partire dai loro precursori, sfruttando il solito meccanismo di condensazione con eliminazione di una molecola d'acqua, i polimeri biologici che sarebbero rimasti in esse prigionieri. All'interno di esse si è certamente anche avviato quel processo di catalisi mutua per cui gli acidi nucleici hanno cominciato a dirigere la sintesi di particolari tipi di proteine, e determinate proteine ad avviare, controllandolo, il processo di riproduzione degli acidi nucleici. Come si sia instaurato questo processo a catena, che dà alla vita quel carattere di processo biochimico divergente che ben conosciamo, rappresenta ancora uno dei punti più oscuri. Tuttavia nei prossimi anni sarà certamente tradotto in idonee esperienze di laboratorio che ci permetteranno di capire attraverso quali processi e trasformazioni si sia innescato l'attuale ciclo riproduttivo. Da questo punto, tutti i passi ulteriori ancora necessari per giungere alle forme organiche che conosciamo, sono abbastanza limpidi. E’ chiaro come numerose macromolecole possano aggregarsi tra loro, utilizzando legami secondari, per costituire ben determinati aggregati molecolari: enzimi complessi o addirittura organelli cellulari. Sappiamo oggi disgregare alcuni oggetti biologici nelle loro componenti macromolecolari in laboratorio e poi ricostituirli nuovamente senza che perdano alcuna loro proprietà. Possiamo renderci conto del come le protocellule, divenute proto-organismi eterotrofi anaerobi, abbiano incominciato un lungo processo di evoluzione biologica, imparando a utilizzare direttamente la luce solare, del come questi nuovi organismi fototrofi, disponendo di una sorgente di energia libera praticamente ubiquitaria, si siano enormemente moltiplicati; e ancora del come l'ossigeno da essi liberato nel corso dei processi fotosintetici abbia rapidamente prodotto quel radicale cambiamento nella composizione dell'atmosfera terrestre di cui rimangono ancor oggi le tracce e che si Ë svolto tra 2,0 e 1,5 miliardi di anni fa. Resta solo da rispondere ad una domanda per completare il quadro entro cui si situano e si organizzano tutti problemi della biofisica quando le protocellule si sono trasformate in veri e propri organismi? Per rispondere, si deve ancora ricorrere alle testimonianze residue di M. Calvin, che con una serie di brillanti ricerche ha dimostrato che idrocarburi di composizione particolare che sembra tipica di una loro origine biologica, si ritrovano nelle rocce più antiche, risalenti a circa 3 miliardi di anni fa. E nelle stesse rocce E. S. Barghoorn e J. W. Shopf hanno trovato impronte microscopiche interpretabili come quelle di microrganismi primitivi. Anche se non pochi dubbi tuttora permangono: questa sembra essere l'epoca approssimativa (circa un miliardo di anni dopo la formazione della crosta terrestre e la comparsa sulla Terra dei primi veri e propri organismi. Ecco dunque, nelle sue linee generali, la soluzione che la biofisica propone oggi per il problema dell'origine della vita sulla Terra. Con ciò abbiamo anche implicitamente fatto un elenco dei principali campi che si offrono alla ricerca biofisica, dalla chimica del cianuro d'idrogeno e dei suoi derivati ai processi di sintesi delle macromolecole, dalla struttura delle membrane biologiche alla duplicazione del DNA e alla sintesi delle proteine, dalla struttura e azione degli enzimi ai processi di utilizzazione della luce solare, dal montaggio e smontaggio degli aggregati molecolari ai processi di sintesi dell'ATP e al metabolismo ossidativo. Di molti questi processi sappiamo oggi descrivere almeno in parte l'andamento quale manifesta, ma per ciò che riguarda il loro effettivo collegamento coi principi generali della meccanica quantistica, quasi tutto resta ancora da fare. In un certo senso, assai più approfondita è la nostra conoscenza dei loro aspetti globali macroscopici: in tale campo la termodinamica, e in modo particolare il secondo principio, ci fornisce in ogni caso un orientamento sicuro. Tale elenco di problemi, sia pure ordinato in un quadro generale quale quello offerto dal tema dell'apparire e dell'affermarsi delle strutture viventi, non esaurisce tuttavia le prospettive della biofisica per il prossimo futuro. Si può anzi dire che le prospettive più affascinanti, più ricche di promesse, quanto a novità (e forse a imprevedibilità) dei risultati, ancora derivino dal ripensamento di idee generali e dalla rielaborazione ulteriore di problemi di metodo. Riprendiamo, per esempio, la questione della base chimica della vita. Come abbiamo visto, c'è una giustificazione storica (la composizione della nebula primitiva da cui si è formato il sistema solare) del fatto che H, O, N, C, elementi fondamentali di cui sono costituiti tutti gli organismi dei viventi. Tuttavia un'analisi basata sulle strutture elettroniche dei vari di atomi mostra che nessun altro gruppo di elementi può essere alla base di un’evoluzione che sfoci nella comparsa di forme viventi, dovunque tale evoluzione possa riprodursi. I risultati delle esperienze alla Miller, in cui si formano praticamente tutti i possibili composti chimici più semplici di quegli elementi, suggeriscono la conclusione che, molto probabilmente, ogni possibile forma di vita è ancora basata sul sistema acidi nucleici-proteine. Il processo che porta dalla materia inorganica agli organismi viventi segue dunque all'inizio una strada obbligata che non ha alternative di sorta. La situazione tuttavia cambia quando passiamo a considerare le fasi ulteriori di tale processo e in particolare il caratteristico tipo di struttura del genoma e degli enzimi, che sono tutti polimeri lineari le cui proprietà dipendono dall'ordine secondo cui si susseguono i vari tipi di monomeri. La via obbligata iniziale si suddivide a questo punto in un numero enormemente grande di vie alternative, tra le quali l'evoluzione biologica opera la sua scelta. A questo punto si pone dunque il problema della natura di tale scelta, la domanda se i successivi passi mutazionali siano obbligati oppure no: se lo stato del sistema ad ogni istante determini in modo univoco il successivo passo evolutivo o se tale stato sia solo l’"occasione” che lo rende possibile, mentre solo il caso sceglie, imprevedibilmente, tra molte alternative che si offrono. Si pone cioè la questione del carattere deterministico dell'evoluzione biologica. La soluzione indeterministica s’inquadra perfettamente con i principi generali della meccanica quantistica, che vogliono il singolo passo mutazionale non prevedibile in base alla conoscenza dello stato precedente del sistema. s'inquadra inoltre perfettamente nella rappresentazione cosmologica come sostitutiva della rappresentazione di Laplace quando alla teoria fisica classica si sostituisca la più generale meccanica quantistica non relativistica. Ogni organismo vivente svolge in tale rappresentazione il ruolo di un particolare sistema amplificatore, che col suo sviluppo porta a livello macroscopico (fenotipico) le conseguenze di un singolo evento molecolare, cioè di una mutazione avvenuta nel corso di quei processi di duplicazione del genoma che hanno immediatamente preceduto la generazione dello stesso organismo. La soluzione alternativa, deterministica, incontra invece difficoltà concettuali molto gravi in quanto presuppone il ripudio della meccanica quantistica e la sua non validità a livello di eventi molecolari, in nulla dissimili da una da quantità dli altri eventi per i quali la validità di tale teoria è stata sperimentalmente provata in modo diretto. E’ necessario dire a questo proposito che c'è oggi tra i fisici una corrente di opinione abbastanza diffusa, che fa capo ad A. Einstein e alla quale appartengono anche fisici teorici molto noti, che tende a considerare la meccanica quantistica nella sua formulazione odierna una teoria incompleta, e che è quindi orientata a riformularla trasformandola in una teoria completamente deterministica, mediante l'introduzione di convenienti parametri latenti. Questi tentativi di riformulazione coinvolgono questioni concettuali molto sottili e difficili, e non ci si può certo azzardare a fare previsioni su quale sarà l'esito delle ricerche e delle discussioni in corso. Non si può tuttavia escludere che l'ampliamento degli orizzonti, che certamente seguirà dal fatto di aver incluso i problemi della biologia tra quelli rilevanti per l'analisi dei fondamenti concettuali della scienza, possa essere di aiuto per trovare la via verso una sistemazione definitiva della teoria. I fatti biologici hanno sempre rappresentato degli scogli difficilmente superabili per il determinismo. Non è escluso che la “fisicalizzazione” della biologia possa contribuire alla chiarificazione e alla sistemazione della teoria fisica stessa. Ma alla biofisica sembrano anche aprirsi prospettive più lontane, d'altra natura, che potrebbero orientare il pensiero scientifico in modo del tutto nuovo. Quanto più dai livelli elementari di organizzazione verso livelli più complessi, tanto più le difficoltà che incontrano le concezioni deterministiche sembrano aumentare: ciò non sorprende poiché l'applicazione di leggi universali diventa più difficile quanto più complicati sono i sistemi presi in esame. Dall’Enciclopedia del Novecento, Treccani, p. 453