BIOFISICA Di Mario Ageno Se vogliamo non tradire completamente

BIOFISICA
Di Mario Ageno
Se vogliamo non tradire completamente il significato etimologico della parola, il
carattere interdisciplinare della biofisica deve necessariamente accordarsi con
un complesso di problemi e domande che appartengono al campo proprio della
biologia. Biofisica non potrà dunque essere altro che un certo modo di
organizzare e di interpretare, o spiegare i fatti biologici, o almeno una parte di
essi.
Premesso questo punto fondamentale, resta naturalmente da chiarire in che cosa
la biofisica si differenzia dall’ordinaria biologia (e dalle singole scienze
biologiche particolari). La condizione necessaria per caratterizzare la biofisica,
sia come campo di ricerca sia come complesso di conoscenze scientificamente
organizzate, risulta evidentemente in rapporto diretto, a livello esplicativo, con la
fisica e i suoi principi fondamentali.
La biofisica assume come dati di partenza conosciuti i principi generali della
fisica (e tutte le note conseguenze che da essi derivano per via deduttiva) e si
propone di spiegare, in base ad essi, la possibilità dell'insorgere di sistemi quali
gli organismi, nonché l'intera complessa fenomenologia cui questi danno luogo.
Una teoria fisica ha sempre la forma di un sistema logico deduttivo che si
sviluppa a partire da pochi concetti fondamentali e da alcune leggi universali di
carattere estremamente generale, fino a formulare le leggi sperimentalmente
valide di tutti i fenomeni che la teoria riesce a spiegare. Se una tale teoria deve
essere in grado di inquadrare anche tutti i fenomeni biologici, può effettivamente
la biologia assumere la forma di un sistema logico-deduttivo? Questa è la
domanda fondamentale alla quale bisogna prima di tutto dare una risposta. Ma
dare una risposta fondata non è facile.
Come la fisica, anche la biologia è una scienza sperimentale, nel senso che anche
in essa l'esperimento ha un'importanza fondamentale e che solo attraverso esso
possiamo renderci conto di come gli organismi viventi sono strutturati e di come
funzionano. Tuttavia l'importanza che assume l'esperimento in biologia è assai
minore che in fisica. Gli organismi viventi sono dei sistemi estremamente
complessi ed estremamente improbabili, che nascono e muoiono. Le specie
evolvono, si modificano lentamente col succedersi delle generazioni. Il biologo
che si trova davanti una struttura tipica di una specie vivente, o un fatto
biologico generale in una certa categoria di organismi, non può senz'altro dire: "
sono in presenza di una legge che deve potersi inserire nel sistema logicodeduttivo della teoria fisica". Al contrario, egli sarà portato prima di tutto a
riflettere, sul come le soluzioni adottate dagli organismi odierni siano
condizionate dalle soluzioni precedentemente adottate da altre specie oggi
estinte. E quand'anche il biologo fosse riuscito a ricostruire tutta la strada
seguita dall'evoluzione, non ne saprà alla fine molte di più circa la possibilità di
inserire i fatti biologici nel sistema deduttivo della fisica.
Il fatto è che in questo campo l'esperimento ha possibilità limitate: non possiamo
fare l'esperienza dell'estinzione dei dinosauri. Così, mentre la fisica colleziona
classi di fatti ripetibili, la biologia, come la storia umana, resta costituita da una
successione, in tempo reale, di eventi singoli che non possiamo controllare o
ripetere. La biologia è, di fatto, essenzialmente una scienza storica.
L'analogia con la storia umana (e si tratta forse di qualche cosa di più di una
semplice analogia) mette chiaramente in luce quale sia il carattere del legame
che collega tra loro i successivi eventi mutazionali di cui è costituita la storia
evolutiva di una specie. Un'opera storica (Historia rerum gestarum) è costituita
dalla narrazione di una successione di eventi, ciascuno dei quali crea le
condizioni perché il successivo possa verificarsi : capire la storia, significa prima
di tutto riuscire a rendersi conto di questo legame, di come ciascun evento sia
appunto reso possibile dai precedenti. Ma ciò non significa che questi siano la
causa di quello, nel senso in cui la parola “causa” è generalmente usata in campo
scientifico. Più propriamente, possiamo dire che ciascun evento della
successione ha nel precedente (o nei precedenti) la sua “causa occasionale”,
mentre resta del tutto impregiudicata la questione dell’eventuale esistenza di
“cause efficienti”, la questione del determinismo o indeterminismo nelle azioni
umane. In modo perfettamente analogo, il legame che noi constatiamo alla base
della storia evolutiva di una specie è un legame di cause occasionali, non di cause
efficienti.
Molte considerazioni sul carattere deterministico dell'evoluzione biologica (v.
Rensch, 1960; v. Dobzhansky e Boesiger, 1968) sono in realtà fondate
sull'identificazione talora inavvertita e acritica, talora intenzionale ed esplicita,
di causa occasionale e causa efficiente. Certamente, noi possiamo, con Darwin,
affermare il carattere rigorosamente deterministico dell'evoluzione: ciò facendo,
ci ricolleghiamo alla cosmologia della fisica classica, concependo, con Newton e
Laplace, il mondo come costituito da particelle materiali in movimento regolate
da leggi universali e immutabili. Ma ciò non ha alcun fondamento nell'esperienza
e non inserisce il fatto evolutivo nel sistema deduttivo della fisica: ricollega
l'intera evoluzione non alle leggi universali, ma alle condizioni iniziali, a quei fatti
speciali che, come abbiamo già detto, non fanno propriamente parte della teoria
scientifica, ma semplicemente giustificano ciò che oggi in concreto osserviamo
nel mondo che ci circonda. E, inoltre, una tale concezione deterministica, se da
un lato riconduce il fatto dell'evoluzione biologica al normale operare delle leggi
universali del mondo fisico, dall'altro fa giustizia della stessa teoria darwiniana,
distruggendone le fondamenta: la selezione naturale non risulta più essere un
effettivo meccanismo, così chiaro e intuitivo, capace di giustificare l'evoluzione,
ma soltanto un nome dato alla nostra reale incapacità di analizzare il modo
d'agire estremamente complesso delle leggi naturali. Se poi rifiutiamo ogni
concezione deterministica per l'evoluzione biologica, allora la selezione naturale
riacquista tutto il suo significato di reale, efficace meccanismo di adattamento
della specie all'ambiente, ma contemporaneamente i fatti evolutivi divengono
fatti storici, cioè singoli, irripetibili e cade ogni possibilità di collegamento con le
condizioni iniziali del mondo.
La teoria fisica vera e propria si disinteressa di tutti gli aspetti contingenti,
storici, evolutivi dei sistemi che considera e quindi anche del mondo in cui
viviamo, lasciandoli alle altre scienze, in particolare la cosmologia, Una simile
operazione in biologia, prima ancora che priva di senso, sarebbe impossibile,
proprio perché la biologia non è basata esclusivamente sul risultato di
esperimenti. Non sembra possibile capire le strutture biologiche che oggi si
osservano e i processi che in esse si svolgono se non in una in una prospettiva
essenzialmente storica.
Così la biologia, come scienza storica, si inserirà piuttosto in una concezione
generale cosmologica, e la fisica, anziché fungere per essa da scienza di base
(com'è oggi per la chimica), non potrà che fornire a essa strumenti esplicativi
(così come li fornisce appunto alla cosmologia) utili per descrivere in modo
semplice e prevedere l'esito di complicati processi, operanti tuttavia sempre su
una realtà di fatto esterna alla teoria fisica stessa.
La teoria biologica è una rappresentazione sia pure parziale del mondo,
concepita in termini di spazio e di tempo reali, una teoria scientifica dell'uomo
nel mondo che lo circonda. Serve quindi una rappresentazione cosmologica in
cui leggi universali e fatti particolari sono fusi in un’unità descritta in termini di
spazio e tempi reali.
La teoria fisica valida nel campo dei fenomeni macroscopici si ha una
rappresentazione del mondo analoga a quella newtoniana, deterministica come
quella di Laplace. Il divenire del cosmo è concepito come una catena di eventi,
ciascuno dei quali è l'unica conseguenza dei precedenti, tutti quindi
implicitamente contenuti nelle condizioni iniziali dell'universo e in base a questi
in linea di principio calcolabili e prevedibili.
In tale quadro teoretico, gli aspetti fondamentali per una presentazione
cosmologica valida, sembrano essere:
a) il secondo principio della termodinamica, da cui discende che nessun
processo macroscopico può prodursi, se non è in qualche modo
disponibile dell'energia libera che possa, nel corso del processo stesso,
essere dissipata in forma di energia termica;
b) il principio d'indeterminazione, in conseguenza del quale non è possibile
prevedere un evento a livello atomico o molecolare in base alla
conoscenza degli eventi precedenti; per esempio, non è possibile
prevedere l'esito dell'urto tra due particelle, conoscendo tutto ciò che è
possibile conoscere sullo stato del sistema da esse costituito prima
dell'urto;
c) l'esistenza di sistemi amplificatori, capaci di portare a livello
macroscopico le conseguenze di un singolo evento elementare, quali per
esempio un contatore di Geiger capace di rivelare il passaggio di una
singola particella elementare attraverso il suo volume sensibile o una
lastra fotografica in cui un elettrone veloce rende sviluppabili i singoli
cristallini di bromuro d'argento che gli accada di attraversare.
La principale fonte di dubbio, in relazione a questa domanda, sta nel fatto che
non siamo attualmente in possesso di nessuna teoria fisica che si sia dimostrata
capace di inquadrare, almeno in linea di principio, tutti i fenomeni fisici
conosciuti. Tutte le nostre attuali teorie hanno una validità limitata e la fisica
delle particelle elementari (sia essa o no la presunta matrice dei postulati
fondamentali di ogni teoria scientifica dei fenomeni naturali) è ben lontana
dall'aver raggiunto una qualsiasi sistemazione logicamente coerente e
ragionevolmente completa. Dovremo dunque contentarci di vedere se, tra le
teorie approssimate, parziali, di cui disponiamo, non ve ne sia una che possa
fondatamente ritenersi idonea a descrivere approssimativamente anche i
fenomeni della biologia. Non potrà tuttavia trattarsi che di una soluzione
approssimata e provvisoria del problema. Le maggiori riserve in proposito non
vengono, come sarebbe naturale attendersi, da biologi, ma soprattutto da fisici.
Numerosi (e tra essi vi sono nomi di primissimo piano, come quello di E. P.
Wigner) hanno espresso in proposito opinioni che, facendo riferimento a una
antica disputa relativa alla natura dei fenomeni della vita, possono definirsi
neovitalistiche. Ciò che sembra soprattutto influenzare in modo determinante il
pensiero di questi fisici, orientandolo appunto verso concezioni neovitalistiche, è
da un lato il carattere evolutivo della vita (intesa qui come processo globale), che
procede dagli organismi più semplici verso organismi sempre più complessi, con
l'affermarsi di sempre nuove qualità e caratteristiche soggette a leggi
“emergenti” di nuovo tipo; e, d'altro lato, la convinzione che dei fenomeni della
vita fa parte anche l'umana consapevolezza di sè, la coscienza (v. Wigner, 1961),
di cui non si saprebbe come fare una teoria, nei termini dell'attuale apparato
concettuale della fisica. Questa corrente di pensiero in fisica può mettersi in
relazione, come vedremo, con un ampio movimento di idee che tende a rimettere
in discussione l'interpretazione probabilistica della meccanica quantistica (la
cosiddetta “interpretazione di Copenaghen”), partendo dal presupposto,
ovviamente di carattere metafisico, che solo una teoria fisica sanamente
deterministica possa essere intellettualmente soddisfacente.
Si tratta in ambedue i casi del ritorno, sia pure con argomenti e prospettive in
parte nuovi, a posizioni che si ritenevano ormai definitivamente superate (v.
CIBERNETICA).
D'altra parte non è che le posizioni neovitalistiche non offrano il fianco a critiche,
in realtà anche troppo facili. L'idea che l'evoluzione, sia pure attraverso
molteplici tentativi falliti, deviazioni e ritorni, finisca tuttavia sempre col portare
da organismi più semplici verso organismi più complessi, dotati di qualità e
capacità sempre nuove, è in effetti in linea di principio discutibile : vi è
certamente un limite alla complessità che un organismo può raggiungere con
vantaggio evolutivo, un optimum di carattere chimico-fisico oltre il quale ogni
possibile aumento di complessità rappresenterebbe uno svantaggio e una
perdita, sul piano evolutivo. La necessità di introdurre nuovi concetti, per la
descrizione di sistemi molto più complicati di quelli che si considerano
solitamente nella fisica del mondo inanimato, non rappresenta di per sé un
ostacolo all'impiego, per la comprensione dei fenomeni biologici, di una teoria
fisica.
Questa potrà benissimo richiedere di essere ampliata in proporzione alla
complessità dei sistemi a cui la si vuole applicare, senza che per questo il nucleo
dei concetti e dei postulati fondamentali, a partire dai quali il sistema deduttivo
si sviluppa, venga sostanzialmente alterato. Quanto poi all'idea che una
“fisicalizzazione” della teoria biologica comporti necessariamente una teoria
oggettiva, in termini di concetti fisici, della consapevolezza di sè, si tratta
soltanto di uno strano equivoco che dipende in sostanza dal confondere i modelli
mentali, a cui noi ricorriamo per ordinare i dati empirici e che ci aiutano a
pensare, a prevedere e a regolare le nostre azioni, con la stessa realtà. Mente e
mondo esterno, così come ordinariamente ce li raffiguriamo, non sono che
modelli parziali della realtà costruiti in modo da escludersi a vicenda: chiedere di
ritrovare e ridefinire nell'uno una parte della realtà che ne è stata esclusa
all'inizio per comprenderla nell'altro modello è una richiesta che comporta
contraddizione. Ma su questo punto ritorneremo nell'ultimo capitolo.
L'esistenza, empiricamente accertata di una base molecolare dei fenomeni
biologici porta evidentemente ad escludere che tali fenomeni possano essere
descritti facendo uso esclusivamente della meccanica classica che, pur valida a
livello macroscopico, Ë, come sappiamo, incapace di spiegare anche solo la
stabilità degli atomi e delle molecole. L'approssimazione classica è dunque
certamente non valida. E, d'altra parte non possediamo per il momento una
teoria completa, capace di inquadrare in modo soddisfacente almeno tutti i
fenomeni fisici conosciuti. Tuttavia, Ë anche vero che possediamo una teoria
approssimata applicabile ai fenomeni atomici e molecolari, che sono da essa
descritti in modo qualitativamente e quantitativamente di solito molto
soddisfacente: la meccanica quantistica classica.
La meccanica quantistica classica rappresenta, com’è ben noto, una teoria solo
approssimata perché non relativistica tale tuttavia da permettere la descrizione
dei fenomeni atomici con una precisione migliore di una parte su centomila.
Sappiamo inoltre che essa permette, almeno in linea di principio, di rendere
ragione quantitativamente della struttura e delle proprietà delle più piccole
molecole. Infine essa si riduce, come caso limite, alla meccanica classica quando
venga applicata a sistemi costituiti da un gran numero di particelle e possedenti
una energia totale sufficientemente elevata. Essa è perciò in grado di descrivere,
con tutta la precisione desiderabile, i fenomeni macroscopici alla temperatura
ambiente, che non coinvolgono velocità di corpi materiali paragonabili alla
velocità della luce. Possiamo, per esempio, con essa calcolare esattamente il
moto del pendolo di Foucault o progettare una macchina a vapore.
I fenomeni elementari della biologia non coinvolgono certamente velocità di
particelle dell'ordine della velocità della luce: sono tutti fenomeni che
appartengono, secondo il linguaggio dei fisici, al campo delle bassissime energie.
D'altro canto, tali fenomeni si svolgono tutti a temperatura ambiente. Per quanto
riguarda le dimensioni, poi, essi si collocano esattamente a metà strada
nell'intervallo compreso tra gli atomi e le piccole molecole da un lato, e corpi
macroscopici (delle dimensioni globali degli organismi, superiori) dall'altro.
In sostanza c’è da attendersi che le prime vere difficoltà per realizzare il
collegamento logico tra fatti della biologia e principi generali della fisica (cioè
della meccanica quantistica) non siano di difficoltà di principio, come spesso si
ritiene soprattutto dalla mancanza di idonei metodi di approssimazione e di
calcolo, validi nell'ambito delle dimensioni intermedie. Anche il solo calcolo
diretto di sistemi così complessi come le singole macromolecole di rilevanza
biologica (acidi nucleici e proteine) allo scopo di determinarne esattamente gli
elementi strutturali, i dati conformazionali e i livelli energetici, è già, molto
probabilmente, un'impresa senza speranza, a meno che le capacità dei più grandi
calcolatori elettronici disponibili non progrediscano in un prossimo futuro per
molti ordini di grandezza, il che non sembra per ora molto probabile.
D'altra parte, anche se tali calcoli venissero effettuati, sia pure con metodi
approssimati, i risultati si riferirebbero sempre a molecole isolate nel vuoto. Per
contro, in tutti i fenomeni biologici tali molecole intervengono in soluzione e
anche il più semplice di essi comporta sempre strette interazioni tra un numero
generalmente elevato di grosse molecole che vi contribuiscono in modo
essenziale.
Vero che in molti casi una macromolecola si comporta né più né meno che come
un oggetto macroscopico, una bacchetta o un granulo in sospensione nell'acqua :
in tal caso la fisica classica rappresenta un'approssimazione sufficiente per
descrivere ciò che avviene. Ma in tutti i processi biologicamente importanti,
queste bacchette o granuli danno luogo a una ristrutturazione di un sistema di
legami covalenti, a deformazioni della distribuzione della carica elettronica, al
passaggio di elettroni (o protoni) attraverso barriere di potenziale, ecc. e allora
la descrizione classica rivela i suoi limiti, mentre l'applicazione delle idee e dei
metodi della meccanica quantistica presenta il massimo delle difficoltà.
In realtà la situazione non è così disperata come può sembrare a prima vista.
Anche se il calcolo esatto di un qualunque sistema biologico è ora impossibile e
continuerà ad esserlo per molto tempo ancora, una via resta pur sempre aperta,
almeno in linea di principio, anche se certamente difficile da percorrere: cercare
la risoluzione dei problemi per via sintetica, facendo uso di modelli schematici.
Sembra che questa sia per il momento l'unica seria prospettiva che la biofisica ha
di risolvere effettivamente i suoi problemi.
Ciò che si può dire in generale di questo metodo non è certo molto. Si tratta di
sostituire il sistema biologico che effettivamente interessa con un modello assai
rozzo e semplificato, che del sistema effettivo conservi soltanto quelle
caratteristiche generali che sembrano essere di primaria importanza per
un'effettiva comprensione dei processi in esame. Tale modello deve poi anche
essere così elementarmente semplice da poter venire trattato in pratica con la
meccanica quantistica: questa trattazione si ridurrà il più delle volte a
un'applicazione formale delle leggi generali della teoria (senza neppure
un'effettiva specificazione delle funzioni d'onda), per far vedere che da esse e
dalle caratteristiche ipotizzate del modello discendono effettivamente le
proprietà previste. Tali rozzi procedimenti, ai quali si può dare quasi
esclusivamente un valore orientativo, potranno probabilmente, in un secondo
tempo, essere gradualmente raffinati e resi via via sempre meno insoddisfacenti.
Sembra dunque si possa concludere che non soltanto possediamo uno strumento
teorico apparentemente idoneo, almeno secondo ogni ragionevole previsione, ad
affrontare i problemi della “fisicalizzazione” della biologia, ma intravediamo
anche la possibilità di una tecnica, sia pure primitiva, per l'uso pratico di un tale
strumento.
E’ forse opportuno ricordare ancora una volta che di tale teoria fa parte, come
caso limite, la meccanica classica. Ne consegue che tutte quelle trattazioni
occasionali e parziali, mediante le quali la fisiologia ha spiegato processi e
fenomeni particolari facendo ricorso a concetti e principi della fisica, verranno
puntualmente “recuperate” quando la meccanica quantistica nella sua forma più
generale sarà riuscita a giustificare completamente l'insorgere delle strutture
biologiche fondamentali e l'avviarsi in esse dei relativi processi.
L'ultima questione che dobbiamo affrontare è ora quella dei contenuti della
biofisica. Ammesso che questa disponga, almeno in linea di principio, di uno
strumento concettuale idoneo a spiegare il fatto della vita e i fenomeni che vi
sono connessi su una base non diversa da quella impiegata per descrivere i
fenomeni del mondo inorganico, resta pur sempre il dubbio che essa sia oggi
ancora una disciplina “vuota” e che l'impiego di quello strumento non abbia
ancora dato alcun frutto.
Secondo la nostra definizione, l'analisi della realtà obiettiva condotta dal biologo
e l'analisi delle conseguenze logiche dei principi fondamentali della fisica devono
a un certo punto convergere verso lo stesso tipo di struttura. E’ dunque chiaro
quale sia il compito fondamentale che si trova davanti il biofisico: quello di
capire, in base ai principi generali della fisica, come si possano realizzare sistemi
retti esclusivamente da tali principi, in cui la materia inorganica acquista le
proprietà caratteristiche della materia vivente. In altre parole, come problema
centrale della biofisica ci si presenta quello dell'origine della vita dalla materia
inorganica.
Questa conclusione ci assicura che la biofisica non è affatto una scienza “vuota”:
le nostre conoscenze sull'origine della vita si sono rapidamente sviluppate nel
corso dell'ultimo trentennio, fino a costituire un insieme di dottrine solidamente
organizzato, in cui tutti i problemi particolari della “fisicalizzazione” della
biologia possono, come vedremo, trovare il loro posto naturale.
Non si può passare sotto silenzio il fatto che ancor oggi sono molto diffuse idee
sull'origine della vita che nulla hanno a che fare con la soluzione del problema
che la biofisica va delineando. Pur senza rifiutare le testimonianze e i risultati
sperimentali che la biofisica va raccogliendo e determinando, molti tendono a
negare a essi il valore di elementi determinanti: l'effettiva comparsa della vita, il
brusco passaggio dal non vivente al vivente sarebbe stato determinato in un
preciso momento dal verificarsi fortuito di un singolo evento estremamente
improbabile, che nel seguito non si sarebbe verificato mai più. Si tratta di
soluzioni strettamente imparentate con quelle antiche, proposte dai miti e dalle
religioni, anche se rivestite di una coloritura scientifica che chiama in causa non
più il miracolo, ma semplicemente il caso; soluzioni facili, intellettualmente assai
poco soddisfacenti ma che, a dire il vero, non si possono scartare a priori in
modo definitivo.
Da ciò che abbiamo detto fin qui sul problema dell'origine della vita dalla materia
inorganica, risulta chiaro ch'esso presenta in modo esemplare i caratteri tipici di
qualunque problema biologico: esso non può essere affrontato esclusivamente in
laboratorio, con metodo sperimentale. E’ necessario ricorrere anche al metodo
storico, consistente nella raccolta, nell'esame critico e nell'ordinamento
razionale delle testimonianze superstiti. E’ anzi solo il metodo storico che ci può
fornire i primi dati orientativi per incominciare a capire in qual modo, nel corso
di un'evoluzione cosmica che ha portato alla condensazione del sistema solare e
alla formazione, ad una conveniente distanza dal Sole, del pianeta Terra, abbia a
un certo punto preso l'avvio su tale pianeta un nuovo processo evolutivo, quello
biologico, e come esso abbia dato origine all'evoluzione socio-culturale della
specie umana.
Quella fase dell'evoluzione cosmica che termina con la formazione della crosta
terrestre costituisce anche la fase di partenza di un lungo processo che si
concluderà con l'apparizione delle prime forme di vita sulla terra. Cosmologia,
astronomia, astronomia permettono di farci un'idea abbastanza precisa delle
condizioni di ambiente iniziali, certamente non molto diverse da quelle di oggi.
Unica sostanziale differenza, rispetto ad oggi, la composizione chimica
dell'atmosfera. L'indagine astronomica ci assicura che gli elementi di gran lunga
più abbondanti nel cosmo sono idrogeno ed elio: di essi doveva essere costituita
sostanzialmente la nebula primitiva da cui il sistema solare è derivato. Dopo di
questi, tra gli elementi chimicamente reattivi, i più abbondanti sono ossigeno,
azoto e carbonio. Sappiamo dalla chimica di laboratorio che le forme
termodinamicamente più stabili di questi elementi in presenza di un eccesso di
idrogeno sono rispettivamente acqua, ammoniaca, metano. E’ dunque probabile
che questi ultimi siano stati i componenti più abbondanti dell'atmosfera
primitiva, oltre naturalmente a idrogeno ed elio destinati a disperdersi un po'
alla volta negli spazi interplanetari, non essendo la gravità terrestre sufficiente
per trattenerli: alla temperatura superficiale della Terra ammoniaca e metano
sono gassosi, mentre le acque superficiali allo stato liquido evaporano
continuamente per effetto della radiazione solare e i vapori ricondensano
continuamente dando luogo alle precipitazioni atmosferiche. Ben presto,
tuttavia, il carattere riducente dell'atmosfera si deve essere attenuato, sia per la
dispersione dell'idrogeno, sia per l'emissione dalla crosta terrestre di gas
vulcanici contenenti essenzialmente, oltre a vapori d'acqua diossido di carbonio
e azoto. Si deve con ciò essere formata un'atmosfera non ossidante costituita da
CO2, N2, vapori d'acqua e tracce di gas primitivi.
Due sono le domande che ci troviamo immediatamente di fronte: perché e
quando l'atmosfera terrestre ha cambiato la sua composizione? E poi: dal
momento che H, O, N, C non sono soltanto i componenti elementari
dell'atmosfera primitiva terrestre, ma sono anche gli elementi fondamentali di
cui è costituito, per oltre il 95%, ogni organismo vivente, come può essersi
generata, a partire da una situazione iniziale di quasi-equilibrio termodinamico,
l'immensa varietà di composti chimici, i più importanti dei quali instabili
all'idrolisi, che si trovano oggi negli organismi?
Al "quando" della prima domanda risponde ancora l'indagine storica. L'analisi
dei depositi sedimentari, formatisi attraverso le ere geologiche a seguito dei
processi di erosione da parte degli agenti atmosferici, di trasporto da parte delle
acque superficiali e di successiva rideposizione, mostra che essi sono di due tipi.
Un primo tipo, più antico, comprende nei granuli sedimentari anche sostanze,
come i solfuri che l'ossigeno atmosferico avrebbe inevitabilmente attaccato e
trasformato chimicamente. Il secondo tipo, più recente, è costituito
essenzialmente da ossidi, il tipico prodotto di un'erosione avvenuta in ambiente
ossidante. Si ha così la conferma geologica che la natura chimica dell'atmosfera è
veramente cambiata, passando da riducente a ossidante, e le datazioni
radioattive permettono anche di situare approssimativamente nel tempo tale
cambiamento di atmosfera, tra 2,0 e 1,5 miliardi di anni fa. Il biofisico deve così
andare a cercare l'origine della vita nell'intervallo di tempo compreso tra la
formazione della crosta terrestre e due miliardi di anni fa, poiché (d'accordo coi
risultati di laboratorio di Redi, Spallanzani e Pasteur) la vita non si può certo
generare in un'atmosfera ossidante, in cui il lento accumulo di molecole
organiche complesse, biologicamente significative sarebbe manifestamente
impossibile.
Alla seconda domanda la biofisica risponde innanzitutto con la formulazione di
un'ipotesi. Nella condizione iniziale di quasi-equilibrio termodinamico, in effetti,
agivano sull'atmosfera terrestre numerose sorgenti esterne di energia libera,
capaci quindi di provocare trasformazioni chimiche locali nell'atmosfera stessa,
con la formazione di piccole quantità di composti immagazzinanti parte
dell'energia libera della sorgente. Tale la porzione ultravioletta della radiazione
solare, le scariche elettriche che accompagnano i temporali, le radiazioni emesse
dalle sostanze radioattive presenti sulla superficie terrestre, le alte temperature
e pressioni che accompagnano i fenomeni vulcanici e il passaggio attraverso
l'atmosfera di meteoriti, ecc. Queste piccole quantità di composti chimici vari, col
loro contenuto di energia libera, non potevano certamente rimanere
nell'atmosfera (dove del resto non avrebbero potuto mai accumularsi, perché
sarebbero state distrutte via via dagli stessi agenti responsabili della loro
formazione), ma, dilavate dalle precipitazioni atmosferiche, debbono essersi
andate accumulando nell'oceano primitivo, trasformato in immenso recipiente di
reazione, una specie di “brodo” in cui deve aver avuto inizio una lenta evoluzione
chimica, attraverso reazioni tra i vari soluti, con la formazione di sempre nuovi
composti.
Questa ipotesi può, almeno in parte, essere sottoposta a verifica sperimentale. E’
ciò che ha fatto per la prima volta Miller (v., 1953) nella sua già citata esperienza
in cui, realizzato in laboratorio un modello dell'atmosfera primitiva, ha fatto
agire su tale atmosfera per un certo periodo di tempo una scarica elettrica e ha
raccolto le sostanze chimiche prodotte, mediante una continua circolazione di
vapor d'acqua in condensazione, nel liquido di un recipiente schematizzante
l'oceano primitivo. L'analisi chimica del “brodo” così ottenuto ha confermato
pienamente l'ipotesi biofisica. Si sono prodotte in esperienze di questo tipo,
ripetute da molti Autori nelle condizioni sperimentali più diverse, un gran
numero di sostanze biologicamente significative: tutti i più importanti
amminoacidi, che sono i mattoni costitutivi delle proteine, basi puriniche e
pirimidiniche, precursori degli acidi nucleici (in particolare l'adenina), zuccheri,
acidi grassi, porfirine, ecc. Si formano, tra l'altro, notevoli quantità di cianuro
d'idrogeno (acido cianidrico, HCN), la cui molecola sembra particolarmente
idonea, come ha messo in luce M. Calvin (v., 1969), a svolgere il ruolo di molecola
“ricca di energia” nella successiva fase di evoluzione chimica.
E’ chiaro che le esperienze alla Miller non possono mettere direttamente in luce
ciò che può essere avvenuto nell'oceano in tempi dell'ordine dei periodi
geologici: siamo di fronte a un esempio tipico dei limiti che incontra la
sperimentazione in campo biologico. Tuttavia, misure di laboratorio sui vari
composti e considerazioni termodinamiche possono sempre indicarci quali sono
le possibilità che si aprono all'evoluzione chimica; possiamo valutare così
l'efficacia e il ruolo che ciascuna sostanza può aver svolto come catalizzatore e
soprattutto renderci conto di come debba essere stata determinante, per
giungere all'apparizione dei primi organismi, la formazione nell'oceano primitivo
di compartimenti chiusi (protocellule) capaci di creare una discriminazione tra
piccole molecole organiche e inorganiche da un lato (precursori di vario tipo
liberi di muoversi in tutto l'oceano e di varcare le barriere limitanti i
compartimenti) e dall'altro lato le prime grosse molecole confinate all'interno
dei compartimenti stessi.
Molte ipotesi sono state proposte a proposito della spontanea formazione di
queste protocellule, o delle sacche o membrane capaci di delimitarle; dai
coacervati di A. I. Oparin, alle microsfere di S. Fox, alla formazione di strati
ordinati di molecole per adsorbimento su argille, secondo J. D. Bernal. Tutte
queste ipotesi sembrano tuttavia ormai superate dall'osservazione di Calvin (v.,
1969), secondo cui nell'oceano primitivo doveva essere presente, già all'inizio
dell'evoluzione chimica, un meccanismo capace di realizzare in ambiente
acquoso reazioni di condensazione con eliminazione di una molecola d'acqua
fornendo, all'occorrenza, l'energia libera necessaria a realizzare un legame
metastabile. Di questo genere sono infatti tutte le reazioni che permettono di
realizzare il “montaggio” delle macromolecole biologiche a partire dai relativi
precursori. Calvin ha dimostrato che tale funzione può essere stata assolta da
semplici derivati del cianuro d'idrogeno. Un tale meccanismo deve aver dato
luogo anche a un'abbondante produzione di fosfolipidi o di altre molecole
similmente costituite da un'estremità polare idrofila e da un'altra idrocarburica
idrofoba.
Molecole di questo genere tendono, come sappiamo dall'esperienza di
laboratorio, ad associarsi strettamente in mezzo acquoso formando delle
membrane a struttura lamellare o micellare, con disposizione tale da esporre
all'acqua le estremità polari e rivolgere invece verso l'interno dello strato
membranoso le estremità idrofobe. Diversi autori, tra i quali J. A. Lucy e W.
Stoeckenius, hanno realizzato, partendo da fosfolipidi in soluzione acquosa, delle
membrane artificiali indistinguibili al microscopio elettronico da quelle naturali
biologiche. Così anche l'ipotesi che la formazione di protocellule nell'oceano
primitivo sia avvenuta spontaneamente, partendo dalla sintesi di membrane di
questo tipo che per azione del vento o dell'impatto sulla superficie dell'oceano di
gocce di pioggia siano venute a formare sacche o vesciche chiuse, può essere
studiata e confermata in laboratorio.
All'interno di tali sacche o vesciche debbono aver cominciato a formarsi, a
partire dai loro precursori, sfruttando il solito meccanismo di condensazione con
eliminazione di una molecola d'acqua, i polimeri biologici che sarebbero rimasti
in esse prigionieri. All'interno di esse si è certamente anche avviato quel
processo di catalisi mutua per cui gli acidi nucleici hanno cominciato a dirigere la
sintesi di particolari tipi di proteine, e determinate proteine ad avviare,
controllandolo, il processo di riproduzione degli acidi nucleici. Come si sia
instaurato questo processo a catena, che dà alla vita quel carattere di processo
biochimico divergente che ben conosciamo, rappresenta ancora uno dei punti
più oscuri.
Tuttavia nei prossimi anni sarà certamente tradotto in idonee esperienze di
laboratorio che ci permetteranno di capire attraverso quali processi e
trasformazioni si sia innescato l'attuale ciclo riproduttivo. Da questo punto, tutti
i passi ulteriori ancora necessari per giungere alle forme organiche che
conosciamo, sono abbastanza limpidi.
E’ chiaro come numerose macromolecole possano aggregarsi tra loro, utilizzando
legami secondari, per costituire ben determinati aggregati molecolari: enzimi
complessi o addirittura organelli cellulari. Sappiamo oggi disgregare alcuni
oggetti biologici nelle loro componenti macromolecolari in laboratorio e poi
ricostituirli nuovamente senza che perdano alcuna loro proprietà. Possiamo
renderci conto del come le protocellule, divenute proto-organismi eterotrofi
anaerobi, abbiano incominciato un lungo processo di evoluzione biologica,
imparando a utilizzare direttamente la luce solare, del come questi nuovi
organismi fototrofi, disponendo di una sorgente di energia libera praticamente
ubiquitaria, si siano enormemente moltiplicati; e ancora del come l'ossigeno da
essi liberato nel corso dei processi fotosintetici abbia rapidamente prodotto quel
radicale cambiamento nella composizione dell'atmosfera terrestre di cui
rimangono ancor oggi le tracce e che si Ë svolto tra 2,0 e 1,5 miliardi di anni fa.
Resta solo da rispondere ad una domanda per completare il quadro entro cui si
situano e si organizzano tutti problemi della biofisica quando le protocellule si
sono trasformate in veri e propri organismi? Per rispondere, si deve ancora
ricorrere alle testimonianze residue di M. Calvin, che con una serie di brillanti
ricerche ha dimostrato che idrocarburi di composizione particolare che sembra
tipica di una loro origine biologica, si ritrovano nelle rocce più antiche, risalenti a
circa 3 miliardi di anni fa. E nelle stesse rocce E. S. Barghoorn e J. W. Shopf hanno
trovato impronte microscopiche interpretabili come quelle di microrganismi
primitivi. Anche se non pochi dubbi tuttora permangono: questa sembra essere
l'epoca approssimativa (circa un miliardo di anni dopo la formazione della crosta
terrestre e la comparsa sulla Terra dei primi veri e propri organismi.
Ecco dunque, nelle sue linee generali, la soluzione che la biofisica propone oggi
per il problema dell'origine della vita sulla Terra. Con ciò abbiamo anche
implicitamente fatto un elenco dei principali campi che si offrono alla ricerca
biofisica, dalla chimica del cianuro d'idrogeno e dei suoi derivati ai processi di
sintesi delle macromolecole, dalla struttura delle membrane biologiche alla
duplicazione del DNA e alla sintesi delle proteine, dalla struttura e azione degli
enzimi ai processi di utilizzazione della luce solare, dal montaggio e smontaggio
degli aggregati molecolari ai processi di sintesi dell'ATP e al metabolismo
ossidativo. Di molti questi processi sappiamo oggi descrivere almeno in parte
l'andamento quale manifesta, ma per ciò che riguarda il loro effettivo
collegamento coi principi generali della meccanica quantistica, quasi tutto resta
ancora da fare.
In un certo senso, assai più approfondita è la nostra conoscenza dei loro aspetti
globali macroscopici: in tale campo la termodinamica, e in modo particolare il
secondo principio, ci fornisce in ogni caso un orientamento sicuro. Tale elenco di
problemi, sia pure ordinato in un quadro generale quale quello offerto dal tema
dell'apparire e dell'affermarsi delle strutture viventi, non esaurisce tuttavia le
prospettive della biofisica per il prossimo futuro. Si può anzi dire che le
prospettive più affascinanti, più ricche di promesse, quanto a novità (e forse a
imprevedibilità) dei risultati, ancora derivino dal ripensamento di idee generali e
dalla rielaborazione ulteriore di problemi di metodo.
Riprendiamo, per esempio, la questione della base chimica della vita. Come
abbiamo visto, c'è una giustificazione storica (la composizione della nebula
primitiva da cui si è formato il sistema solare) del fatto che H, O, N, C, elementi
fondamentali di cui sono costituiti tutti gli organismi dei viventi. Tuttavia
un'analisi basata sulle strutture elettroniche dei vari di atomi mostra che nessun
altro gruppo di elementi può essere alla base di un’evoluzione che sfoci nella
comparsa di forme viventi, dovunque tale evoluzione possa riprodursi. I risultati
delle esperienze alla Miller, in cui si formano praticamente tutti i possibili
composti chimici più semplici di quegli elementi, suggeriscono la conclusione
che, molto probabilmente, ogni possibile forma di vita è ancora basata sul
sistema acidi nucleici-proteine. Il processo che porta dalla materia inorganica
agli organismi viventi segue dunque all'inizio una strada obbligata che non ha
alternative di sorta. La situazione tuttavia cambia quando passiamo a
considerare le fasi ulteriori di tale processo e in particolare il caratteristico tipo
di struttura del genoma e degli enzimi, che sono tutti polimeri lineari le cui
proprietà dipendono dall'ordine secondo cui si susseguono i vari tipi di
monomeri. La via obbligata iniziale si suddivide a questo punto in un numero
enormemente grande di vie alternative, tra le quali l'evoluzione biologica opera
la sua scelta. A questo punto si pone dunque il problema della natura di tale
scelta, la domanda se i successivi passi mutazionali siano obbligati oppure no: se
lo stato del sistema ad ogni istante determini in modo univoco il successivo
passo evolutivo o se tale stato sia solo l’"occasione” che lo rende possibile,
mentre solo il caso sceglie, imprevedibilmente, tra molte alternative che si
offrono. Si pone cioè la questione del carattere deterministico dell'evoluzione
biologica.
La soluzione indeterministica s’inquadra perfettamente con i principi generali
della meccanica quantistica, che vogliono il singolo passo mutazionale non
prevedibile in base alla conoscenza dello stato precedente del sistema.
s'inquadra inoltre perfettamente nella rappresentazione cosmologica come
sostitutiva della rappresentazione di Laplace quando alla teoria fisica classica si
sostituisca la più generale meccanica quantistica non relativistica. Ogni
organismo vivente svolge in tale rappresentazione il ruolo di un particolare
sistema amplificatore, che col suo sviluppo porta a livello macroscopico
(fenotipico) le conseguenze di un singolo evento molecolare, cioè di una
mutazione avvenuta nel corso di quei processi di duplicazione del genoma che
hanno immediatamente preceduto la generazione dello stesso organismo.
La soluzione alternativa, deterministica, incontra invece difficoltà concettuali
molto gravi in quanto presuppone il ripudio della meccanica quantistica e la sua
non validità a livello di eventi molecolari, in nulla dissimili da una da quantità dli
altri eventi per i quali la validità di tale teoria è stata sperimentalmente provata
in modo diretto.
E’ necessario dire a questo proposito che c'è oggi tra i fisici una corrente di
opinione abbastanza diffusa, che fa capo ad A. Einstein e alla quale appartengono
anche fisici teorici molto noti, che tende a considerare la meccanica quantistica
nella sua formulazione odierna una teoria incompleta, e che è quindi orientata a
riformularla trasformandola in una teoria completamente deterministica,
mediante l'introduzione di convenienti parametri latenti.
Questi tentativi di riformulazione coinvolgono questioni concettuali molto sottili
e difficili, e non ci si può certo azzardare a fare previsioni su quale sarà l'esito
delle ricerche e delle discussioni in corso. Non si può tuttavia escludere che
l'ampliamento degli orizzonti, che certamente seguirà dal fatto di aver incluso i
problemi della biologia tra quelli rilevanti per l'analisi dei fondamenti
concettuali della scienza, possa essere di aiuto per trovare la via verso una
sistemazione definitiva della teoria. I fatti biologici hanno sempre rappresentato
degli scogli difficilmente superabili per il determinismo. Non è escluso che la
“fisicalizzazione” della biologia possa contribuire alla chiarificazione e alla
sistemazione della teoria fisica stessa.
Ma alla biofisica sembrano anche aprirsi prospettive più lontane, d'altra natura,
che potrebbero orientare il pensiero scientifico in modo del tutto nuovo. Quanto
più dai livelli elementari di organizzazione verso livelli più complessi, tanto più
le difficoltà che incontrano le concezioni deterministiche sembrano aumentare:
ciò non sorprende poiché l'applicazione di leggi universali diventa più difficile
quanto più complicati sono i sistemi presi in esame.
Dall’Enciclopedia del Novecento, Treccani, p. 453