bio07007 - Giuseppe Bonghi - Biografia di Luigi

bio07007 - Giuseppe Bonghi - Biografia di Luigi Pirandello - 06 - La coscienza dell'arte e l'espatrio - 06b - Berlino
Giuseppe Bonghi
Biografia di Luigi Pirandello
06
La coscienza dell'arte e l'espatrio
06-b) Berlino: espatrio parte prima
Chiusa l'esperienza della Compagnia d'Arte, Pirandello ha un momento di smarrimento e di
ripensamento su quanto è successo intorno a lui negli ultimi due anni nel mese di vacanza che trascorre
insieme a Marta Abba dal 16 agosto al 20 settembre. Con fatica e sofferenza matura la risoluzione di
abbandonare l'Italia, definita ormai un «letamaio», per cercare all'estero, magari per sempre, sia nel teatro
che nel cinema, di cui tanto si sente favoleggiare, quella fortuna e quei successi economici che avrebbero
permesso a lui e alla "sua" Marta di tornare in Italia da incontrastati vincitori e dominatori, in grado di
poter ridare vita in patria a quel teatro artistico che si sarebbe dovuto reggere senza sovvenzioni e aiuti di
nessun genere, indipendente dallo Stato e dalla "masnada". Già da qualche mese il pensiero gli frulla per
la testa, come scrive, per esempio, da Nettuno a Marta Abba l'8 luglio: Bisogna, bisogna andar via per
qualche tempo dall'Italia, e non ritornarci se non in condizioni di non aver più bisogno di nessuno, cioè
da padroni. Qui è un dilaniarsi continuo, in pubblico e in privato, perché nessuno arrivi a conseguire
qualche cosa a cui tutti spudoratamente aspirano. La politica entra da per tutto. La diffamazione, la
calunnia, l'intrigo sono le armi di cui tutti si servono. La vita in Italia s'è fatta irrespirabile. Fuori! fuori!
lontano! lontano!
Queste sono le principali motivazioni della decisione:
- il fallimento economico della Compagnia d'Arte, praticamente priva di quelle sovvenzioni
governative sulle quali aveva molto contato;
- la perdita di ogni speranza di poterla trasformare in un Teatro Drammatico di Stato, in quanto
vengono a mancare da parte di Mussolini quegli auspicati interventi autoritari ed effettivi che avrebbero
potuto risolvere dall'alto la creazione o formazione di un teatro artistico nazionale secondo un piano che
lui stesso aveva presentato alla Società degli Autori e che alcuni anni dopo presenterà e illustrerà di
persona allo stesso Mussolini;
- la delusione determinata dalla spartizione dei poteri che dominavano in Italia la gestione dei teatri
unitamente al problema della distribuzione alle varie Compagnie delle opere italiane e straniere da
rappresentare; in questo quadro si inserisce l'inefficienza del regime fascista nel risolvere la situazione
ma anche la precisa strategia tesa a non permettere a nessuno di raggiungere una posizione di preminenza
determinando una situazione di piattezza nella quale il potere doveva restare unico ed indivisibile;
- la coscienza che lo Stato e il Regime nulla facevano per contrastare i monopolizzatori (la
"masnada" dei trusts commerciali, la definisce) senza scrupoli, contro i quali, ma invano, Pirandello
aveva cercato di combattere anche per favorire l'ascesa della "sua" attrice.
Pirandello ha capito il modo politico d'agire del Regime e per capire meglio proprio questo punto
leggiamo la lettera che invia a Marta Abba il 22 settembre 1928, nella quale fa il punto della situazione e
conferma una decisione che sembra già essere stata presa:
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Mia cara Marta,
jersera è stato a cena da me Interlandi, che s'è trattenuto fin dopo mezzanotte. Mi ha parlato della
confusione che è in tutti gli animi per l'incertezza della situazione d'ognuno. Ormai s'è capita la tattica.
Appena qualcuno accenna a conquistarsi una posizione preminente in qualsiasi campo, per quanto sappia
guardarsi e difendersi, andar cauto, con l'occhio a tutto, pronto a parare insidie e a sventar trame, si fa in
modo che cominci lui stesso a sentirsi esposto e isolato e a provar disagio per ogni gesto che faccia, per
ogni passo che muova, e si obbliga così a rientrare, disajutato, tra le file; per qualche altro cominciano
subito le mormorazioni, le accuse vaghe o anche le polemiche aperte, suscitate a tempo, troncate a tempo e
poi riprese; e per un terzo che già si vanti d'esser sicuro del suo ascendente e d'un potere ammesso e
riconosciuto, ecco subito una smentita in pieno, uno scacco reciso che lo mette a terra nel più goffo
atteggiamento; e così via. Ciò che si vuole è che nessuno predomini, nessuno alzi la testa. Attorno a Lui, un
livello di teste che gli arrivino appena appena al ginocchio e non un dito più su. Tutto, così, resta in basso,
per forza, e confuso; e non c'è altro veramente che bassezza e confusione.
Abbiamo parlato del Bisi preposto all'Ente nazionale per la Cinematografia. Pareva ottimamente
disposto verso di me. Son venuto a sapere che Bisi, appena nominato, non è più sicuro del suo posto.
Sembra di fatti che sarà mandato via e non si sa ancora chi sarà messo in vece sua. È un continuo fare e
disfare, mettere e levare. E cresce in tutti un senso di precarietà che avvilisce e angoscia.
Dopo aver conversato tre ore, io mi son sentito cadere più che mai le braccia e venir meno il respiro.
Sì, sì cara Marta, bisogna andar fuori, fuori, a respirare, a lavorare, a riacquistare il senso della propria
personalità. Non mi par l'ora! [ ... ]
Pirandello si reca dunque in «volontario espatrio», partendo per Berlino probabilmente il 9 ottobre
da Milano, insieme con Marta accompagnata dalla sorella Cele; da metà dicembre vanno ad abitare,
sempre in camere contigue, al numero 9 di Hitzingstrasse fino a metà febbraio 1929, quando si
trasferiscono all'Hôtel Herkuleshaus in Friedrich-Wilhelmstrasse che diventerà la residenza abituale di
Pirandello.
A Berlino intreccia subito febbrili trattative con agenti tedeschi e americani per entrare nel mondo
del cinema, nel quale pensa di trovare i sognati favolosi guadagni; ma le parole sono molte e i fatti
nessuno, mentre i mesi passano senza che si approdi a qualche vero contratto. Nel frattempo frequenta
molto i teatri, conosce gente nuova, arricchisce le sue conoscenze di nuovi elementi, è interessato
fortemente agli spettacoli dei registi espressionisti come Max Reinhardt, Erwin Piscator e Jessner.
Rimane affascinato soprattutto da Reinhardt, regista che tra l'altro ha messo in scena, i Sei personaggi nel
'24, per la novità e l'originalità delle soluzioni tecniche adottate. Di questi registi non condivide, però,
l'autonomia spregiudicata dal testo scritto, una messa in scena che tende a ri-creare il testo al di là di una
pur legittima personale interpretazione.
Con l'affievolirsi del sogno di grandezza del Maestro, Marta si stanca di aspettare: ha voglia di
agire e la sua vita diventa inutile lontano dalle scene, e a Berlino, npn conoscendo il tedesco, oltretutto si
sente isolata. Il 13 marzo 1929, dopo cinque mesi di quasi convivenza, visto che non si approda a nulla e
temendo di restare tagliata fuori dal giro dei teatri italiani, spinta anche dalla sorella Cele e dai genitori
con lettere pressanti da Milano, Marta abbandona Pirandello a Berlino e fa ritorno in Italia, dove cerca
subito di reinserirsi nel mondo teatrale: ma le difficoltà sono tante, anche perché i sei mesi trascorsi
lontano l'hanno fatta praticamente dimenticare, oggetto anche lei di quel boicottaggio che da molte parti
viene da mesi effettuato nei confronti di Pirandello.
Con la partenza di Marta, Pirandello si sente letteralmente morire. Da cinque anni aveva
concentrato la vita nel sogno dell'amore per Marta. Nella desolazione di una natura incline al pessimismo
esistenziale accentuato da anni di intime sofferenze e di affetti non corrisposti, l'amore per Marta,
idealizzata e quasi divinizzata, era diventato per lui un rifugio: vi si era attaccato disperatamente senza
ammettere che i sentimenti dela donna potessero essere di natura diversa dai suoi, o che il tempo li
avesse mutati. In quel cieco abbandono le lettere che le scrive rispecchiano uno sconforto profondo e una
depressione che lo porta sull'orlo del suicidio, da cui lo salverà solo l'accorrere pietoso di lei.
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Ma il Regime non può permettersi il lusso di avere lontano dall'Italia uno dei suoi figli più celebri:
occorre un gesto che affermi non solo l'italianità, ma anche l'appartenenza dello scrittore all'Italia. Il 22
marzo, riceve dallo stesso Mussolini il telegramma col quale gli viene annunziata la nomina ad
Accademico d'Italia: "Sono lieto di parteciparle che Sua Maestà il Re su mia proposta ha nominato la
S.V. Accademico d'Italia per la classe delle lettere" (Lettera a Marta Abba del 22/3/1929). Pirandello
risponde: "Sopratutto orgoglioso Suo alto riconoscimento ringrazio Eccellenza Vostra grande onore e
torno a esprimerLe mia intera profonda devozione."
In quello stato d'animo angoscioso a sorreggerlo è innanzitutto il lavoro: in pochi mesi scrive O di
uno o di nessuno, lavora a Come tu mi vuoi, pensa alle scene in cui ambientare I giganti della montagna,
e matura le prime idee per Quando si è qualcuno.
Il 9 luglio 1929 viene rappresentato in prima assoluta il dramma Lazzaro al Royal Theater di
Huddersfield nella traduzione inglese di C.K. Scott Moncrieff e nello stesso anno in prima italiana a
Torino, al Teatro di Torino, dalla Compagnia Marta Abba il 7 dicembre, con Marta nella parte di Sara,
destando molte perplessità nella critica contemporanea. Nell'agosto del '28 Pirandello lo legge agli amici
a Viareggio, dove si trova per le ultime recite della sua Compagnia, e tutti, compresa Marta, ne sono
commossi; è un dramma scritto tenendo presente Marta (ho dato a ''Sara'' la parte più importante di tutto
il lavoro, l'ho posta in tutti e tre gli atti e al centro dell'azione, sulla scena più grande e più bella col
figlio, in preminenza sul figlio stesso) facendo in modo che sia una voce coraggiosa su la vita e la morte,
sul Dio dei vivi e il Dio dei morti (proprio il Fascismo e il Vaticano) intesi soprattutto come unità
politiche e umane radicate nella vita quotidiana.
Lazzaro, comunque, non avrà il successo sperato né a Torino, né al Teatro Olimpia di Milano con
la Melato nella parte di Sara, nonostante l'accorrere di Pirandello a collaborare alla nuova messa in scena:
l'insuccesso non è clamoroso ma sicuramente penoso e la critica sottolinea con forza gli aspetti più
negativi dell'opera rimanendo perplessa per il modo con cui l'ateo Pirandello tratta l'argomento.
Lazzaro - Atto primo - I personaggi principali sono Diego Spina e sua moglie Sara fra i quali insorge
un contrasto che col passare degli anni diventa insanabile perché ciascuno è radicato a un modello di vita
inconciliabile con l'altro: è una sorta di lotta di supremazia dell'uno sull'altro che avrà come conseguenza
immediata ed importante quella dell'educazione dei figli: è lo stesso Diego a riconoscerlo: Non potemmo
mai metterci d'accordo sul modo d'allevare prima, e poi d'educare i figliuoli. Diego vive, con la sua fede
religiosa ottusa e bigotta, un'esistenza priva di vitalità, dalla quale ogni gioia sembra bandita, coinvolgendo
anche i due figli, Lucio che va in seminario e Lia, rinchiusa in un collegio di suore già da bambina ed ora a
quindici anni trascorre perennemente le sue giornate su una sedia a rotelle.
Sara abbandona il marito e si unisce ad Arcadipane, il fattore del podere del marito, andando a vivere con
lui, fa due figli pieni di salute e fa rifiorire un terreno che fino a quel momento aveva dato poco o nulla: la
campagna ora è ricca di frutti come la vita è ricca di soddisfazioni, derivate da un lavoro duro e quotidiano
e dalla capacità di sfruttare in positivo gli elementi della natura, soprattutto dell'acqua vivificatrice, la vera
ricchezza: si è ricreato, insomma, il paradiso terrestre, nel quale Sara e Arcadipane, nomi assai significativi,
sono i nuovi Adamo ed Eva, mentre Diego con la sua fede tutta apparenze, sembra vivere fuori dal
paradiso.
Diego a un certo punto decide di utilizzare il suo podere per farne un ricovero per tutti i poveri della città e
portarvi Lia in modo che questa possa riprendersi vivendo all'aria pura e sana della campagna; ma questo
inevitabilmente porta alla cacciata di Sara ed Arcadipane dal suo terreno. È in questo frangente che
compare Sara per annunciargli che Lucio ha abbandonato il seminario per raggiungere la madre, per
rinascere un'altra volta. È il dramma: Diego si precipita fuori per andare dal figlio, ma viene investito da
un'automobile che lo uccide.
Atto secondo – Il dottor Gionni (che all'inizio della rappresentazione si vede con una coniglietta
bianca in mano anch'essa riportata in vita), con un'iniezione ha riportato in vita Diego dopo che era stato
perfino stilato l'atto di morte. Arcadipane e Sara hanno comunque deciso di lasciare il podere e stanno
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finendo di caricare le loro masserizie sul carretto per andar via, dopo aver ricevuto lo sfratto, quando arriva
il dottor Gionni, per parlare con Lucio e pregarlo di non rivelare, almeno per il momento, a suo padre della
sua morte e del suo ritorno in vita. Lucio capisce la situazione, ma si pone su un piano diverso riacquistando
la fede che sembrava perduta, tornando a sentire un credere in questo eterno presente della vita, ch'è Dio, e
basta. E al figlio ritornato dal seminario e ritrovato nella fede Sara si confessa e racconta la tragedia del suo
matrimonio finito in frantumi e della sua feroce volontà di divenire così, come forse nessuno più intende
che voglia dire: naturale, liberandosi di tutto il male che sentiva addosso determinato dal comportamento
del marito e dalle norme sociali che le davano irrimediabilmente torto. Alla fine della confessione Sara
presenta a Lucio Arcadipane e i due figli avuti da lui, Tonotto e Michele, e ridiventa per Lucio di nuovo la
mamma che guida, il conforto che solo lei può dare, la forza per intraprendere liberamente a vivere la sua
vita e a percorrere la sua strada, che solo da lei può venire. Mentre i due stanno per partire, sopraggiunge
Lia e subito dopo il dottor Gionni che rivela con un cenno del capo che Diego ha saputo tutto, e sa che dopo
la morte non c'è nulla e non si riceve nessun compenso per le rinunce fatte durante l'esistenza: tutta la sua
fede religiosa è crollata.
Atto terzo - Tornato al podere Diego si chiude in una stanza oppresso dalla cupa disperazione
determinata dalla fede perduta, mentre Lucio raggiante vuole rindossare i suoi panni di seminarista per la
fede ritrovata, perché in Dio non si muore. A questo punto si ode un colpo di fucile, che fa pensare a tutti al
suicidio di Diego, ma compare Arcadipane ferito di striscio alla testa: è stato Diego, che nelle sue nuove
condizioni esistenziali non può accettare, anche se sono trascorsi tanti anni, l'abbandono da parte della
moglie, ritenuto ormai un tradimento e l'affronto di essersi unita ad Arcadipane, da parte della moglie, che
prima era stata perdonata dall'alto di una fede fatta più di apparenza che di sostanza. Ora Diego, che sente
di essere ripiombato sulla terra, caduto da tutta quella menzogna lassù, non può più accettare Sara che è
rimasta con lui e si lancia su di lei, mentre dall'altra parte si lancia contro di lui Arcadipane, trattenuto a
stento da Lucio e Deodata: ma è Sara che risolve la situazione affrontando Diego da sola (Basto io!), che
cede, oppresso alla fine dalla certezza che di là non c'è nulla, che questa vita è tutta carcere, carcere senza
scampo, mentre di là, tanto, non si paga nulla, se tutto si paga qui. Diego ha trovato una nuova dimensione
dell'esistenza, come Lucio, che ha ritrovato la vera fede e sa che la sua vita può cambiare: tu – dice al padre
- avevi chiuso gli occhi alla vita, credendo di dover vedere l'altra di là. Questo è stato il tuo castigo. Dio
t'ha accecato per quella, e ti fa ora riaprire gli occhi per questa che è Sua, perché tu la viva - e la lasci
vivere agli altri - lavorando e soffrendo e godendo come tutti. Ed ora Lucio può dire al padre, come Gesù
disse a Lazzaro: Alzati e cammina, cammina nella vita, imponendogli di lasciare agli altri di vivere la loro,
a Sara di vivere con Arcadipane, a Lia di vivere con sua madre: è questo il vero miracolo, insieme a quello
di Lia che alzandosi dalla sedia a rotelle, accorre alla madre che la chiama, spinta da Lucio ormai avvolto
come in una luce divina.
A metà ottobre deve lasciare Berlino (parte il 17 fermandosi a Milano per vedere Marta Abba), e
rientrare a Roma per partecipare alla solenne inaugurazione dell'Accademia d'Italia, che, sotto l'insegna
del littorio (verrà denominata anche Accademia del Littorio), ebbe come prima sede il palazzo
cinquecentesco della Farnesina affrescato da Raffaello, e sostituiva l'antica e celebre Accademia dei
Lincei. L'inaugurazione avvenne in Campidoglio il 28 ottobre in un'assemblea generale alla quale
partecipò lo stesso Mussolini. Pirandello aveva deciso il suo momentaneo rientro anche per esplorare le
possibilità di affari nel mondo del cinema e per aiutare con la sua nuova influenza di Accademico d'Italia
l'impresa della nuova Compagnia che Marta stava allestendo.
Così descrive la prima assemblea dell'Accademia in una lettera alla stessa Marta Abba di quel
medesimo giorno: Questa mattina c'è stata l'inaugurazione dell'Accademia. Puoi immaginarti che
comparseria! Io parevo un ammiraglio: ero - a giudizio generale - il più elegante di tutti - nato con la
divisa. Entrando e vedendomi, Mussolini mi sorrise e mi salutò con la mano: fece questo atto
confidenziale a me solo; poi salì sulla predella, e cominciarono i discorsi: tre col suo: e le più belle
parole le disse lui. Alle dodici, tutto finito. Un po' di vanità non guasta mai. Ricordiamo che per
l'occasione Pirandello vestiva l'uniforme gallonata con gli alamari sul petto, la feluca e la spada
(conservate nella sua casa-museo di Roma) che ogni Accademico riceveva insieme a un decoroso
stipendio mensile di 3.000 lire. E quelle 36.000 lire annue al neo-Accademico Pirandello dovevano in
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quel momento veramente far comodo, viste le difficili condizioni economiche in cui versava da qualche
anno.
Finita la "comparseria" riparte per Berlino, dove arriva il 6 novembre passando per Milano
(incontrando Marta) e per Vienna (per assistere all'inaugurazione di una mostra del figlio Fausto). Verso
la metà del mese è costretto a rimettersi in viaggio alla volta dell'Italia per andare a Roma e risolvere tutti
i problemi legati alla vendita del villino di via Onofrio Panvinio, alla Provincia di Roma, per la somma
ragguardevole di 900.000 lire: aveva finalmente termine la lunga e dolorosa storia di un villino che, come
abbiamo visto, tante incomprensioni e tante liti era costato fino a determinare una rottura dell'unità
familiare. La vendita risolve i problemi economici, nel senso che Pirandello avrebbe potuto pagare
finalmente tutti i debiti (scrive a Marta Abba l'11-10-29: "Il villino è stato venduto per 900 mila lire; ma
a noi ne verranno 865, nette, che (detratte le 230 del mutuo sul Monte dei Paschi) si ridurranno a 625.
Dando l'assegno promesso ai figli, e pagando tutti i debiti, a me non verrà niente; ma avrò la liberazione
da tutto il mio passato: non dovrò più nulla a nessuno, grazie a Dio! Ed essendo già arrivato a questo, lo
considero come la mia più grande fortuna, da che son nato!"; (ricordiamo per inciso che la sola dote alla
figlia Lietta ammontava a 200.000 lire).
Messa a posto la situazione, da Roma si sposta a Torino per aiutare Marta nella preparazione della
messa in scena di Lazzaro e subito dopo si reca a Milano, anche perché Marta non lo vuol vedere
gironzolare sempre intorno a lei: sta maturando il secondo e più doloroso distacco, dopo quello del 13
marzo a Berlino. Cosa si dicono i due protagonisti e quali sono le basi su cui Marta, che comunque non
"ama" Pirandello per il quale prova un sentimento di venerazione, vorrebbe che si incanalasse il loro
rapporto, resta soltanto nel campo ipotesi; certamente, vista dall'esterno, la loro relazione appariva assai
più intima di quanto in realtà non fosse, e si prestava facilmente a commenti e pettegolezzi spesso di
cattivo gusto sia negli ambienti teatrali sia sulla stampa, specialmente umoristica (Ortolani).
Questo secondo distacco dalla "sua" Marta si rivela molto doloroso; Pirandello entra in una crisi
depressiva profonda, che in alcuni momenti raggiunge toni altissimi ed allarmanti: come possiamo capire
da quel che il 12 dicembre 1929 da Milano proprio a Marta, che recita a Torino, scrive del suo teatro,
quel teatro col quale in quegli anni aveva cercato di unirla a sè e che aveva creato in lui tante illusioni
spezzate in quel fatidico 13 marzo con la partenza di lei da Berlino; Pirandello parla del teatro, ma in
effetti è la sua anima al centro dei pensieri: Con Te, Marta, mi pareva ancora mio, più che mio: tuo e
mio; ora non mi pare più di nessuno..., come se non avesse più senso... Tu eri Fulvia, per me, Tu eri
Ersilia, Tu la signora Frola, Tu la Figliastra, Tu Silia Gala, Tu Evelina Morli ... - sono morte, tutte; e io
morto, con loro. Mi sento, Marta, Ti giuro che mi sento veramente morto. A Torino nella Tua stanza,
addossato al muro, l'ultima sera, nel licenziarmi da Te, ho avuta questa precisa sensazione della mia
morte; e me ne corre ancora il brivido per la schiena.
Il 18 febbraio 1930 la Compagnia Marta Abba rappresenta al Teatro dei Filodrammatici di Milano,
riscuotendo un grande successo, Come tu mi vuoi, scritto nei mesi di settembre e ottobre dell'anno
precedente.
Come tu mi vuoi - atto I - Siamo a Berlino, nel salotto della casa dello scrittore Carl Salter, che ha
una figlia, Greta, soprannominata Mop, nome ambiguo che significa sia "scopa" sia "con le frange", così
come ambiguo è il personaggio, oscillante fra la mascolinità e la femminilità, un'ambiguità che nel corso
del primo atto diventa più palpabile quando si scopre che padre e figlia sono gelosi l'uno dell'altra della
convivente, L'Ignota, cioè Elma, nome arabo che significa acqua, che mette in evidenza tutta l'inconsistenza
della vita, vedova da quattro anni, amata da Salter e insidiata da Greta. Sulla scena entrano prima Mop, poi
Salter, che all'improvviso sentono delle voci, e incerti sul da farsi aprono la porta d'ingresso: irrompono
quattro giovanotti sfaccendati che accompagnano L'Ignota, che Mop cerca subito di proteggere, insieme ad
un certo Boffi che da un po' di tempo la segue per strada chiamandola, o ri_chiamandodola di tanto in tanto,
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con tanti accenti diversi: "Signora Lucia", come a risvegliare in lei sopiti ricordi del passato. Si riesce a
cacciar via i quattro, che sembrano "marionette sbattute", ma resta il Boffi, italiano, il quale rivela che
L'Ignota si chiama in effetti Lucia Pieri, che lui conosce sin da bambina, e che il suo vero marito, Bruno
Pieri, si trova in quel momento a Berlino, alloggiato in un alberghetto poco lontano: L'Ignota è stanca di
quella vita fatta di niente e senza sbocchi: si potrebbe farla finita, con la rivoltella che ha il Salter e che
questi mette in bella mostra sul tavolino. È la signora Lucia Pieri, impazzita quando le truppe nemiche
penetrarono nella sua casa quasi alla fine della guerra e che vagando per mesi senza meta fu raccolta da
Carl Salter? L'atto vive tutto sullo svelamento del passato di Lucia Pieri, di quand'era bambina e delle
vicende belliche di dieci anni prima, della sua vita di ballerinetta che si ubriaca tutte le sere in un locale
notturno e si chiude col tentato suicidio di Carl Salter.
Atto II - Ambientato nella villa Pieri nelle vicinanze di Udine. L'Ignota viene presentata alla famiglia
che quella sera si riunisce tutta: L'Ignota è proprio identica al ritratto di Lucia Pieri che grandeggia nel
salone. Lo zio Salesio deve sottoscrivere un atto notarile per confermare la donazione delle terre che aveva
già fatto a nome dell'Ignota (la nipote Lucia Pieri) al momento in cui questa si era sposata e che negli ultimi
tempi era stato messo in discussione a causa della sua presunta morte favorendo l'altra nipote, Ines; il fatto
che il marito riottenga l'eredità col suo ritorno è sentito da Cia (Lucia-Elma-L'Ignota) come una cosa
sudicia perché dettato da uno sporco gioco d'interesse, che però tanto sporco non poteva essere, visto che il
"marito", Bruno col suo lavoro e le sue capacità, aveva reso quelle terre molto produttive e quindi una vera
ricchezza. L'Ignota avrebbe accettato di essere Cia, e quindi di donarsi totalmente al "marito", felice di aver
ritrovato la moglie: sarebbe venuta "come da una morte, solo per lui", pur sapendo quello che avrebbero
pensato di lei e della sua vita di ballerina e "di peggio" a Berlino. A complicare ancor di più la situazione
giunge da Vienna una lettera, che annuncia l'arrivo di Carl Salter, che afferma di aver trovato là, per mezzo
di un suo amico dottore, la vera Cia, demente in un manicomio, e che adesso la sta portando con sé. Lo
sforzo degli uomini che vogliono sollevarsi dalla realtà si scontra sempre e inesorabilmente coi fatti: "Con
l'anima ti puoi levare un momento, uscir fuori, su da tutto quello che di più orribile t'aveva potuto far
provare la sorte: sì, vola, ricrea in te una vita; quando te ne senti tutta piena - giù - devi scendere, devi
scendere, a riurtare nei fatti che te la sconciano, te la pestano, te la insudiciano, te la schiacciano". Ma un
"fatto" è stato anche il suo identificarsi con Cia, il suo farsi creare giorno dopo giorno dal marito, "fammi tu,
fammi tu, come tu mi vuoi!" perché "Essere? essere è niente! essere è farsi! E io mi sono fatta quella!"
Sente d'essere diventata lei la vera Cia, lei che aveva voluto riconquistarsi una vita pura con l'amore di lui.
Atto III - La famiglia è tutta riunita, dalla scena manca L'Ignota: tutti parlano di lei, del suo
coraggioso ritorno dopo l'orrore del passato. Finalmente arrivano gli ospiti: la Demente, che sin dal primo
momento prende a dire una sola parola, forse l'ultima che le si impresse nella mente prima di impazzire,
Le-na, spezzata nelle sue due sillabe, cioè il nome della zia, accompagnata da un dottore, da un'infermiera e
da Carl Salter. Composto il quadro della famiglia, compare anche L'Ignota, scesa in ritardo proprio per dare
a Carl Salter il tempo di fare il suo colpo senza essere disturbato. In tutti nasce il dubbio che la vera Cia
possa essere la povera Demente, un dubbio che L'Ignota stessa alimenta con le sue parole: "Qualunque
certezza può vacillare, appena il minimo dubbio sorge e non ci fa credere più come prima!". Sono i fatti
che si affermano; anzi, si vendicano dei pensieri umani, travolgendo credenze e certezze. Così come la
Demente chiama chissà da quale momento felice della sua vita cui è rimasta sospesa, mentre nessuno le può
più dar nulla, nemmeno un poco di pietà. Alla fine L'Ignota chiede a Salter di portarla via, abbandonando la
casa dove era naufragato il suo sogno di purezza, risolvendo molti dubbi sulla identità della Demente, che
ha persino un neo sul fianco sinistro come la signora Lucia, non più rosso ma nero, anche leggermente
spostato, ma sicuramente una ennesima prova della sua possibile identità.
Alla fine di febbraio del 1930, dunque, si rifugia di nuovo a Berlino, dove si trattiene fino a giugno,
quando pone fine al suo "volontario espatrio" berlinese per stabilirsi a Parigi, nauseato dal
comportamento di Berlino dove all'improvviso si sente come in Italia, tanto da mormorare sconsolato:
Forse è giusto così: che me ne vada dalla vita, così, cacciato dall'odio dei vili trionfanti,
dall'incomprensione degli stupidi che son la maggioranza.
Sono quattro mesi angosciosi per Pirandello che si sente disperato per il suo amore non corrisposto,
tanto che in certi momenti gli balena nella mente perfino l'idea del suicidio; i suoi giorni trascorrono in
uno stato di prostrazione psicologica sempre più grave grave, dovuta anche al silenzio di Marta, che gli
scrive poco, da un lato perché è presa dalle pressanti cure per la sua Compagnia, e dall'altro perché vuole
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porre un freno alle esternazioni del Maestro, arrivando perfino a definire come "parole inutili" le
esternazioni amorose e le espressioni della dolorosa sofferenza del suo stato d'animo e del suo amore
"totale", rivolto unicamente a lei escludendo ogni e qualsiasi altro affetto. Ma il cuore di Pirandello ha
bisogno proprio di quelle "parole inutili", nelle quali si trova veramente tutta la sua vita, come le scrive
l'8 maggio: E io avrei tanta sete di "parole inutili"! Ora che sono alla vigilia di una grande fortuna, ora
che forse la porta della ricchezza mi è aperta, vedo tutta la mia miseria. Non ho nulla! Sono in una
lontananza, in una solitudine, che fa spavento. E se grido quello che sento, tutto lo spavento di questa
lontananza e di questa solitudine, son "parole inutili! ". I-nu-ti-li: devo morire in questa lontananza e in
questa solitudine. La Gloria? la Ricchezza? Tu, primo che passi per la via, le vuoi? te le do, te le do per
nulla, te le do in cambio della ventura che a te, pover'uomo, può toccare, ritornando a casa, di sentirti
dire una "parola inutile"!
Su di un piano meno "privato", il 1930 è indubbiamente caratterizzato dalla messa in scena del
terzo «dramma da fare» Questa sera si recita a soggetto, nato dalle considerazioni sul rapporto tra opera
scritta e operazione teatrale, tra rispetto del testo e libertà di reinterpretazione sia sul piano della
recitazione che su quello della messa in scena. L'opera viene rappresentata per la prima volta, e con
grande successo, a Königsberg alla fine di febbraio; e il successo è tale che la recita tiene il palcoscenico
per parecchie settimane. Ma quando viene rappresentata a Berlino il successivo 31 maggio al Lessing
Theatre con la cattiva regia di Gustav Hartung, al terzo atto alcuni spettatori, sobillati dal nemico Feist e
da un gruppo di accesi nazionalisti, insorgono trasformando il teatro in una vera e propria bolgia.
Pirandello aveva riposto nel successo berlinese di questo lavoro tutte le sue speranze per una ripresa
delle rappresentazioni delle sue opere in Germania: si aspettava denaro in abbondanza e una stima e
un'accoglienza che lo avrebbero fatto sentire in una nuova patria. Aveva attentamente curato ogni
dettaglio per un'affermazione clamorosa: le anteprime di Königsberg, un regista di fama, la scelta del
teatro e degli attori, una certa aspettativa nella stampa (Ortolani, cit.).
Il fiasco lo coglie quasi di sorpresa, anche se qualche avvisaglia l'aveva avuta da gente pratica del
posto, e soprattutto dallo sceneggiatore della Tonfilm, Adolf Lantz, che aveva assunto come aiutante e
segretario personale a Berlino: Ho presentito la tempesta. Ho pensato anche al Feist; ero stato messo
sull'avviso che qualche cosa si preparava contro di me e contro il lavoro. Non ho voluto far nulla per
impedirlo, per non scendere al livello di quella sporca gente, scriverà a Marta Abba: ma erano accenni
cui non si dava molta importanza perché mai nessuno avrebbe potuto immaginare la spudoratezza e
l'odio con cui Hans Feist, traduttore delle opere di Pirandello in tedesco e ormai divenuto un acerrimo
nemico, da quando l'autore gli aveva intentato causa estromettendolo da tutto ciò che lo riguardava,
avrebbe agito, dicendo perfino alla stampa che la commedia era contro Reinhardt, grande attore e regista
di teatro, al quale, come ultimo affronto, lo stesso Pirandello aveva dedicato l'opera. In Italia arrivano
perfino notizie, pubblicate da un giornale di Brescia, che in quell'infausta sera Pirandello era stato
cacciato dal palcoscenico.
Il fallimento di Questa sera si recita a soggetto al Lessing Theater segna una svolta nella sua
posizione riguardo all'esilio volontario in terra tedesca: ritenendosi osteggiato nella sua patria, credeva di
aver trovato in Germania una seconda patria, ma si ritrova cocentemente deluso con un pugno di mosche
in mano.
Così ne scrive nella sua lettera a Marta Abba il giorno dopo la rappresentazione:
Marta mia,
dunque, come Ti telegrafai, serata tempestosa. M'è parso di ritornare alla "prima" dei "Sei personaggi"
a Roma. Ma la tempesta di quella serata memorabile fu scatenata da nobili passioni, fu l'urto violento dei
giovani contro i vecchi; iersera invece fu l'osceno livore d'una masnada d'invertiti che si scatenò aizzata dal
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Feist, dalla sua famigerata cugina, e da altri del gruppo Reinhardt e da altri avversarii dell'Hartung e del
Saltenburg. Questa oscena gente, ostensibilmente, nel foyer del teatro, prima che cominciasse lo spettacolo,
ha fatto la prova dei fischietti di cui s'era armata venendo a teatro. Parecchi son corsi in palcoscenico a
darne l'annunzio e il panico s'è diffuso tra gli attori. Più di tutti se ne spaventò l'Andersen che faceva la
parte di "Rico Verri". Eroica fu invece la Lennartz che difese e sostenne fino all'ultimo il lavoro,
trascinando tutta la sala ad una impetuosa e veemente reazione. Purtroppo il lavoro offriva il fianco ai
nemici per la sua pessima iscenatura. Te n'ho parlato jeri. Tutto lo spirito dell'opera era smarrito
nell'incomprensione assoluta dell'Hartung, tutto il brio perduto, ogni particolare slegato, guizzante di per sé
scompostamente, come un pezzo di serpe staccato. Chi conosceva la commedia per averla letta non sapeva
più riconoscerla alla rappresentazione. Ogni senso, ogni valore era scomparso. Tutto è sembrato arbitrario;
nessuno, anche per il panico degli attori, capiva più perché tutte quelle scene si susseguivano senza nesso,
pazzesche. Pareva un'orchestra in cui, cacciato via il direttore, ogni strumento si fosse messo a sonare per
conto suo. E i fischietti del pubblico sonavano dal canto loro, guazzanti in una gioja che non Ti dico. Io,
guardando dal palco, mi divertivo un mondo. Alla fine, la reazione della maggior parte del pubblico (più dei
tre quarti del teatro) prese il sopravvento, e allora scoppiò un delirio d'applausi, un uragano d'ovazioni; ma
solo per me, per me e per la Lennartz che, come Ti dicevo, fu eroica, perché fu l'unica a non smarrirsi, e di
questo il pubblico volle rimeritarla. Le chiamate non potei contarle; non finivano più! I malintenzionati,
fatto il guasto che volevano, se n'erano andati; e allora si vide com'erano pochi, perché il teatro rimase
pieno ed erano tutti in piedi a gridare evviva e a rompersi le mani applaudendo.
Come puoi figurarti, non ho provato alcun compiacimento per tutta questa dimostrazione. Il lavoro, per me,
era stato ucciso dall'Hartung. Mancandomi il palcoscenico, ero disarmato e sconfitto. Per me aveva vinto
chi aveva fischiato; avrei fischiato anch'io, in luogo d'inchinarmi a quegli applausi e a quelle ovazioni, che
volevano farmi piacere e m'urtavano.
Vedi, Marta mia, che avevo tutta la ragione di sentirmi agitato. Ho presentito la tempesta. Ho pensato anche
al Feist; ero stato messo sull'avviso che qualche cosa si preparava contro di me e contro il lavoro. Non ho
voluto far nulla per impedirlo, per non scendere al livello di quella sporca gente. Avrei voluto la sicurezza
del palcoscenico; e questa mi mancava, per difendermi e andare contro il pubblico, come sono sempre
andato. Non mi restava altra arma che la serenità della mia coscienza, e questa l'ho conservata intera, fino
all'ultimo, fino a respingere, nel mio intimo, sdegnosamente tutto quel trionfo finale, fatto alla mia persona
e non all'opera mia orribilmente ferita e mancata.
Questa è Berlino. M'è parso jer sera d'essere in Italia. Non so più ormai dove me ne debba andare. Gli odii
m'inseguono da per tutto. Forse è giusto così: che me ne vada dalla vita, così, cacciato dall'odio dei vili
trionfanti, dall'incomprensione degli stupidi che son la maggioranza; e in punizione di tanti miei peccati che
Tu, spirito veramente eletto, mi hai sempre rimproverati.
È indubbiamente un periodo particolare che per qualche momento sfugge alla possibilità di essere
razionalizzato; ma lo salva l'orgoglio. Anche nel suo rapporto con Marta c'è questo scatto d'orgoglio:
Berlino 2. VI. 1930: Di questo tanto livore contro me e l'arte mia la mia Marta non deve più soffrire.
Io Ti faccio, Marta mia, veramente male, non male alla Tua grandezza, ma male al riconoscimento della tua
grandezza. Io dovevo notare l'ingiustizia dell'appunto, ma io stesso ti dico (e già ebbi a dirtelo un'altra
volta) che - dato che io sono tanto odiato e inviso a tutti - non so perché - è bene, è bene sì che d'ora in poi
mi lasci da parte anche Tu. Per chi si ama come io Ti ama è una gioia anche morire.
Pirandello, e non crediamo che di questo si senta lucidamente conto, subisce per la prima volta
proprio uno dei dilemmi tanto cari alla sua arte: essere e vivere secondo la propria natura o essere e
vivere secondo le regole della massa e della società e le regole della massa e della società stanno per un
attimo avendo il sopravvento. Ma è solo un attimo: il suo amore per Marta Abba, per quella luce che
crede unica nella sua vita, dimenticando affetti e famiglia, lo ha umanamente accecato: tutto è visto in
funzione dell'attrice, per la quale è disposto a buttare a mare anche la sua arte, se questo potesse donare a
lei un po' di gioia o di serenità o di tranquillità. Da questo momento non vedrà che nemici che tramano
contro di lui e contro Marta, mentre sembrano scomparire Fausto e Stefano e soprattutto Lietta, che era
arrivata persino a tentare il suicidio per parare i colpi della follia della madre contro di lui.
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Il 13 giugno parte da Berlino; due giorni dopo è sulla banchina a Genova insieme al figlio Stefano
ad aspettare Lietta che colla motonave Virgilio arriva dal Cile; le aveva pagato il viaggio, come padre,
nella speranza di aiutarla a trovare una soluzione alle difficoltà che incontrava in famiglia col marito
Manuel. Lietta non si aspettava nulla (M.L. Aguirre), voleva solo stare accanto al padre, credendo di
poter rivivere e ricostituire ciò che aveva lasciato nel 1922 e che nel 1926 si era spezzato, forse per
sempre, in drammatiche discussioni e violenti litigi.
Ma l'incontro col padre è breve. E su quell'incontro Pirandello scrive a Marta Abba, nella sua lettera
del 23 luglio, poche e asciutte parole: Lasciai a Genova la Lietta con Stefano. Sono partiti per Positano
dopo di me. Niente di tragico. Prima della partenza marito e moglie si sono riconciliati. Il marito
venderà là a Santiago il villino, liquiderà la pensione di colonnello e verrà tra qualche mese a
raggiungere la moglie con l'altra figlia. Pare che abbiano intenzione di stabilirsi al sud della Francia,
sulla Costa Azzurra, presso Cannes. Tanto meglio così. Ci sentiamo un po' di freddezza; o per meglio
dire: tanta disattenzione, perché il suo animo ormai veleggiava verso spiagge lontane. Non c'è una vera
riconciliazione tra padre e figlia, il momento della chiarezza non è ancora giunto. E non giungerà forse
mai, nemmeno durante gli ultimi suoi giorni, quelli della malattia fatale.
Per andare incontro alla figlia, e soprattutto perché doveva comparire di persona a Roma in Corte
d'Appello nella causa, per una penale che la compagnia Compagnia di Francesco Prandi pretendeva da
Pirandello per lasciar libero dagli impegni sottoscritti l'attore Camillo Pilotto (scritturato nella
Compagnia del Teatro d'Arte nel 1926), lo scrittore lascia Berlino, che stava diventando ormai la sua
seconda patria, forse il 13 giugno, e questa volta l'addio alla capitale tedesca è definitivo: vi ritornerà
ancora qualche volta, ma solo per brevi momenti. In Italia resta fino al 22 luglio, trascorrendo la maggior
parte del tempo accanto a Marta, ma questa vicinanza gli fa toccar con mano che quel "sentimento di
prima" da parte di lei è davvero finito: i rapporti sono mutati e l'attrice arriva anche a dirgli chiaramente
che non lo vuole vicino per le vacanze estive che avrebbe trascorso a Caspoggio vicino Sondrio (come
leggiamo in una lettera a Marta).
Pirandello parte per Parigi per incontrare l'impresario americano Shubert, al quale vende ben
quattro suoi lavori che avranno un grande successo. Sono giorni intensi: si reca anche a Berlino e poi a
Londra, da dove ritorna direttamente in Italia. Ma sono anche giorni drammaticamente dolorosi, come ci
attestano le lettere che scrive a Marta: Non voglio affliggerti; ma d'altra parte, se non ho di vivo in me
altro che questa disperazione senza rimedio; e tutto il resto, le notizie che potrei darti, le cose che
m'avvengono, i casi che mi càpitano, non hanno più per me né senso né valore? La vita mi s'è come
spenta, dopo quanto m'hai detto e lasciato intendere chiaramente, e il vuoto più orrendo mi s'è fatto
dentro e intorno. Non so quanto potrò durare in questo stato. Sono come un morto che cammina che fa
atti tanto per farli, che dice parole tanto per dirle: senza vederne più né lo scopo né la ragione. Oggi o
domani mi stancherò di stare in piedi e stramazzerò a terra. Aspetto quest'estremo di stanchezza, se la
disperazione, prima, cogliendo qualche momento più atroce, non mi vincerà, armandomi la mano per
farla finita. È forse la più drammatica, carica inconsciamente di altri ricordi (Lietta?) che sembrano
buttati nel dimenticatoio e che invece riaffiorano.
Verso la metà d'agosto (venerdì 15 col treno "Pullmann") ritorna in Italia, si ferma due giorni a
Milano, quindi si reca a Positano, dove si trovano i suoi tre figli, per mettere in chiaro la situazione di
Lietta (Dovrò fare certamente una scappata di pochi giorni a Positano per stabilire qualche cosa circa
alla situazione di mia figlia in attesa del ritorno in Italia del marito. Mi toccherà consultare
Marchesano, scrive il 30 luglio.) I figli già da qualche settimana trascorrono le loro vacanze a Positano;
Lietta e Stefano vivono nella stessa casa, Fausto poco lontano, ricordano i tempi passati, discutono, si
chiarificano, si riappacificano dopo la tremenda serata del 1926, quella di un altro agosto, mese davvero
infausto per la famiglia; forse la vendita del villino di via Onofrio Panvinio ha fatto capire molte cose.
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Quando Pirandello arriva dai figli trova certamente umori e sentimenti contrastanti, e ben presto la
discussione passa dalla situazione di Lietta, che con una figlia si trova in Italia separata dal marito che ha
tenuto con sè l'altra figlia, alla situazione del rapporto tra il padre e i figli, alla presenza e all'influsso di
Marta nella vita di ciascuno e soprattutto nella vita di Luigi che ormai conduce una vita penosamente
raminga mentre avrebbe potuto convivere tranquillamente con uno dei figli e con Lietta in particolare.
Certamente si trascende, come racconta Maria Luisa Aguirre: Era un incontro atteso, attesissimo: fu un
incontro breve e burrascoso. Si levarono alte le loro voci nella notte, tanto che la piccola Lietta si
stringeva impaurita alla cuginetta Ninnì. Pirandello se ne fuggì presto da Positano.
Dell'episodio non abbiamo traccia nell'epistolario pirandelliano. Ritorna a Milano, cercando di
riacquistare un po' di quiete, gli animi si placano e la ragione prende il sopravvento, e in questo
sicuramente Marta l'aiuta. Trascorrono molto tempo insieme per preparare la tournée che Marta di lì a
poco avrebbe intrapreso con la sua nuova Compagnia che fa il suo debutto a Brescia il 23 settembre. A
fine settembre la famiglia di Marta si stabilisce nel nuovo appartamento al n. 26 di via Aurelio Saffi.
Il 9 ottobre Pirandello è di nuovo a Roma, ospite del figlio Stefano in via Piemonte 117, per
partecipare alla rituale riunione annuale dell'Accademia del Littorio, durante la quale tenta di far eleggere
Ojetti e Bontempelli: gli va bene per il primo e quasi per il secondo, ma i presenti devono assecondare il
desiderio del "Capo del Governo" (Mussolini) ed eleggere F.M. Martini, mutilato di guerra.
In quegli stessi giorni viene proiettato il film La canzone dell'amore, del regista Gennaro Righelli,
la cui sceneggiatura è liberamente tratta dalla novella di Pirandello In silenzio, pubblicata per la prima
volta nel 1905 in «Novissima», Albo d'arte e lettere: è il primo film sonoro prodotto in Italia col parlato
in italiano e riscuote un certo successo inserendosi anche nel mercato internazionale.
Lo stato di depressione diventa quasi una condizione naturale della sua esistenza e in lui subentra
lentamente uno stato di coscienza delle cose: sa e si rende conto della sua situazione, come uno
qualunque dei suoi personaggi. Conosce bene il passaggio dall'avvertimento del contrario al sentimento
del contrario attraverso la riflessione; la sua situazione sa bene che è anormale e inaccettabile per la
massa, ma riferita a se stesso diventa normale e fonte di sofferenza, perché sente che non può realizzare il
suo grande e unico desiderio, quello cioè di vivere accanto alla donna che vede come la sua sola fonte di
luce e felicità. La coscienza di questo stato è testimoniata in parte proprio da una lettera che scrive a
Marta da Roma il 16 ottobre mentre lei si trova a Venezia:
Ma è sempre al solito: le esigenze dell'arte e le ragioni dello spirito non son vedute, e son sacrificate
alle esteriori comodità della casa. Forse ha ragione chi vede soltanto queste, e noi siamo due poveri pazzi.
Io almeno, per conto mio, mi stimo tale: senza più casa, senza più nulla; ho dato a tutti tutto quello che
avevo; disposto a dare ancora e sempre tutto quello che ho, nessuno più [mi] vuole, tutti, dovunque vada, mi
fanno capire che sono di più, e che è bene che me ne vada e stia lontano. Me ne andrò. Devo morir solo:
voltare la faccia al muro e chiudere gli occhi per sempre, se non voglio più vedermi e sentirmi attorno
questa disperata solitudine e quest'orrendo abbandono. Ma dove andare? Ricevo, da Torre, il biglietto che
Ti accludo. Vado a Parigi perché, a restare in Italia, sarebbe veramente troppo questo strazio d'esser privato
dell'unica ragione di vita che ormai mi resta, quella di almeno vederti e sentirti, separato non dalla distanza,
ma da un'altra ben più grave ragione, che mi sta facendo morire: il Tuo cessato sentimento per me.
Perdonami, Marta mia, questo sfogo che mi è venuto, senza volerlo. Se sapessi com'è gonfio d'amarezza il
mio cuore, e in quali condizioni di spirito mi trovo! Non posso più lavorare; non so più che fare! Non ne fo
colpa a nessuno; meno che mai a Te! È giusto, è giusto che Tu mi voglia lontano, perché è giusto veramente
che io muoia. Troppo ho tardato. E la vita, che non mi doveva riprendere, è ormai tempo che si concluda
così.
Ecco la Teoria dell'umorismo, ecco il sentimento del contrario che va al fondo delle sensazioni e
delle emozioni senza staccarsi dalla realtà; ecco la riflessione usata dallo stesso Pirandello, quella
riflessione che lo porta alla coscienza di sè e tutto sommato ad andare oltre la depressione e oltre la
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sofferenza. E quando scrive nessuno più mi vuole pensiamo che si riferisca solo a Marta da un lato e
dall'altro ai suoi avversari nel mondo del teatro in Italia, non ai figli e nemmeno agli amici che tanto
avrebbero voluto e potuto fare per lui. Egli sa benissimo di essere oggetto di satira a volte anche feroce
su certe pubblicazioni, oggetto di critiche più o meno velate nell'ambiente teatrale, di critiche anche da
parte di Marta per il suo modo di starle troppo vicino, tanto da far pensare ai soliti maligni che il suo
successo d'attrice sia dovuto in gran parte alla vicinanza di Pirandello: ecco quindi le distanze che prende
dallo scrittore, che chiama affettuosamente, ma soltanto, Maestro, un atteggiamento condito con tutte le
caratteristiche di un carattere indocile e facile all'abbattimento e preda degli sbalzi d'umore, che erano
anche abbastanza frequenti.
Pirandello sa che ciò che per lui è normale (ed è normale ciò che segue le norme dello spirito come
della società), e la sua normalità è il desiderio di avere Marta tutta per sè come lui si sente tutto di Marta,
perché nella sua mente la sua unione con lei è diventato ormai come un organismo unico; ma è cosciente
anche che il suo atteggiamento è anormale (al di fuori delle norme) per la massa, perché le norme che
segue lui per realizzare i suoi più profondi bisogni sono diverse da quelle che uniformemente segue la
massa per realizzare i propri; e sempre ciò che è normale per la massa, è anormale per il personaggio. Ed
è proprio questo suo essere anormale per la massa che lo spinge ad andare lontano, ad "espatriare", a
conquistare quella ricchezza che gli permetta di tornare in patria da vincitore in grado di mettere tutti a
tacere e di avere tutti ai suoi piedi: è il suo modo profondo di essere decisionista, così simile a un altro
decisionista che in quel momento dominava l'Italia. Ed è forse proprio questo suo modo di essere che lo
fa diventare bersaglio degli strali della satira di costume, gli crea nemici intolleranti nel mondo del teatro,
gli aliena molte simpatie in coloro che quotidianamente si affannano per afferrare nelle mani una fetta di
potere, quel medesimo potere di cui lui non sa che farsene preso com'è dall'arte e da Marta.
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indice
Progetto Pirandello
© 2001 - by prof. Giuseppe Bonghi
E-mail: Giuseppe Bonghi - [email protected]
Ultimo aggiornamento: 10 settembre, 2001
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