ANCORA SULLA SCIA: SILENZIO E TUTELA DEL TERZO (ALLA

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ANCORA SULLA SCIA: SILENZIO E TUTELA DEL TERZO (ALLA LUCE DEL
COMMA 6-TER DELL'ART. 19 L. 241/90) Diritto Processuale Amministrativo, fasc.2, 2014, pag. 645
Guido Greco
Sommario: 1. La disciplina ante d.l. 138/2011. — 2. La sentenza dell'Adunanza
plenaria n. 15 del 2011 e le critiche di parte della dottrina. — 3. Il comma 6ter. — 4. Contenuto precettivo del comma 6-ter e suo ambito di operatività. —
5. Problemi applicativi e possibili obiezioni.
1. Dopo la sentenza dell'Adunanza plenaria n. 15 del 2011 e dopo l'ulteriore
intervento normativo (art. 6, d.l. 13 agosto 2011, n. 138, come modificato
dalla legge di conversione 14 settembre 2011), che ha introdotto il comma 6ter nel corpo dell'art. 19 della legge 241/90, sono risultate definitivamente
chiarite le posizioni soggettive coinvolte (del presentatore della SCIA e
sopratutto del terzo), ma è stato ulteriormente complicato il quadro
complessivo dell'istituto.
La sentenza dell'Adunanza plenaria aveva, come è noto, accolto la tesi —
suggerita da chi scrive (1) — che, decorso il termine (ordinario) per
intervenire sulla SCIA si formasse il silenzio-diniego (e non un silenzio
accoglimento o un silenzio inadempimento) sull'esercizio dei poteri inibitori e
ripristinatori, con tutte le ulteriori implicazioni in ordine alla forma ed ai termini
di impugnazione e al relativo giudizio. L'introduzione del comma 6-ter ha
mantenuto la struttura dell'istituto accolta dall'Adunanza plenaria (il
presentatore della SCIA è titolare di un interesse legittimo oppositivo e non
pretensivo, mentre quest'ultimo è predicabile alla posizione del terzo
eventualmente leso), ma ha configurato l'inerzia dell'Amministrazione come
mero silenzio inadempimento, che può ricevere tutela, azionando
“esclusivamente” il rito di cui all'art. 31 c.p.a. e previa apposita “sollecitazione”
del terzo interessato.
Tale innovazione normativa riapre la questione della razionalizzazione
dell'intera figura, perché innesta il rimedio del silenzio-inadempimento —
concepito essenzialmente per il mancato esercizio di poteri ampliativi — in una
fattispecie ove sono presenti poteri inibitori e ripristinatori, il principale dei
quali inoltre, come si ribadirà qui di seguito, si consuma entro un breve arco di
tempo. Così rendendo ancora più problematica la tutela del terzo.
Ma, prima di affrontare quest'ultimo aspetto, val la pena di operare ancora una
volta la ricognizione della disciplina sostanziale, rimasta immutata anche dopo
l'innovazione apportata dal comma 6-ter. Non si può, infatti, affrontare il tema
della tutela giurisdizionale (del terzo), senza tener presente il complesso dei
poteri spettanti all'Amministrazione, così come positivamente determinati ed
interpretati dalla giurisprudenza, anche dopo l'entrata in vigore del citato D.L.
138/2011.
A) esiste anzitutto un generale potere inibitorio e ripristinatorio, da
esercitare nel termine di 60 giorni (comma 3, prima parte), ovvero nel termine
di 30 giorni, se si tratta di SCIA in materia edilizia (comma 6-bis), che si basa
sull'accertata carenza (non sanabile) dei requisiti e dei presupposti previsti
dalla legge per esercitare l'attività oggetto della SCIA;
B) esiste poi un potere di autotutela ex art. 21-quinquies e 21-nonies della
legge 241/90 (comma 3, seconda parte); e si tratta di un potere di autotutela
in senso tecnico, da esercitare sulla base dell'avvio di apposito procedimento in
contraddittorio, nel rispetto del limite del “termine ragionevole” e sulla base “di
una valutazione comparativa, di natura discrezionale, degli interessi in rilievo” (2).
C) esiste, altresì, un potere inibitorio e ripristinatorio sine die, per il caso di
dichiarazioni false o rivelatesi errate (comma 3, terza parte), e correlato tra
l'altro ai poteri sanzionatori di cui al comma 6 e all'art. 21 c. 1 della medesima
legge 241/90;
D) rimane, ancora, il potere straordinario di intervento solo in caso di
pericolo per il patrimonio artistico e culturale, per l'ambiente, per la salute,
ecc. (comma 4).
Focalizzando l'attenzione sul potere generale di cui al punto A), si deve rilevare
che esso è “doveroso”, come precisa la giurisprudenza (3). Ma si consuma
decorso il termine “perentorio” di 60 (o di 30) giorni (4).
Il carattere “doveroso” dell'intervento dell'Amministrazione non riguarda certo
l'obbligo di pronunciarsi sulla SCIA presentata dal privato. L'art. 19 (comunque
lo si voglia interpretare) costituisce una evidente deroga al principio (art. 2 c. 1
L. 241/90) che il procedimento debba essere concluso “mediante l'adozione di
un provvedimento espresso”.
Il carattere “doveroso” riguarda, viceversa, l'obbligo di esercitare i poteri
inibitori e ripristinatori, ove per qualunque ragione l'attività oggetto di SCIA
risulti non consentita, in quanto in contrasto con la disciplina positiva (e
sempre che l'interessato non “provveda a conformare alla normativa vigente
detta attività”: sempre comma 3, prima parte). Questo obbligo non è venuto
meno con l'introduzione del comma 6-ter e non presuppone certo un
intervento
supplente
dei
terzi (5):
sicché
la
responsabilità
dell'Amministrazione (per omesso controllo) resta intatta, con buona pace di
chi ha tentato di escluderla o limitarla (il punto sarà ripreso).
Ma, come si diceva, detto potere si consuma in un breve arco temporale, con
conseguente “consolidamento” della posizione del presentatore della SCIA (6). Anche se non risulta sufficientemente chiarito quale sia l'effetto preclusivo,
che si verifica decorso il termine perentorio di 60 (o 30) giorni.
Tale aspetto, tuttavia, non è privo di rilevanza anche per la tutela
giurisdizionale del terzo, sicché può essere utile precisare che l'ambito del
potere inibitorio, che risulta “consumato”, scaturisce per sottrazione dai poteri
di intervento (correlati a presupposti specifici), che restano persistenti (poteri,
di cui ai punti B, C e D) (7). E riguarda essenzialmente casi di mancanza dei
requisiti per svolgere l'attività dichiarata con la SCIA, rilevabile sulla base della
semplice verifica documentale della stessa (la SCIA deve essere accompagnata
da autocertificazioni, atti di notorietà, attestazioni e asseverazioni dei tecnici
abilitati, a loro volta corredate da elaborati tecnici necessari per consentire le
verifiche di competenza dell'Amministrazione (art. 19, c. 1)).
Decorso detto termine l'Amministrazione non potrà opporre al presentatore
della SCIA eventuali carenze documentali, ovvero erronee qualificazioni della
fattispecie rispetto al dato normativo (o ad una particolare interpretazione del
dato normativo). Non potrà, in altri termini (e salvo il potere di autotutela),
opporre illiceità dell'attività rilevabili alla stregua della mera analisi
documentale (8).
Il che, tra l'altro, si concilia con il termine breve, nell'ambito del quale non è
possibile operare più penetranti verifiche sul “fatto” (ad esempio, sulla
correttezza fattuale della situazione rappresentata e, così, sulla veridicità delle
dichiarazioni e degli elaborati tecnici allegati). Per verifiche di tal fatta
l'Amministrazione ha sempre il potere di intervenire, senza che il decorso dei
60 giorni sia per essa preclusivo (supra punto C).
Ma proprio perché l'ambito del potere inibitorio si restringe (o muta
qualitativamente, come nel caso del potere di autotutela) decorso il termine di
60 o 30 giorni, si comprende da un lato perché la giurisprudenza riconosce che
la posizione del presentatore della SCIA “si consolida” decorso tale termine. E
si comprende, d'altro lato, perché il “terzo”, che invoca tutela, ha tutto
l'interesse a che la stessa sia accordata con riferimento a tutti i poteri, che
l'Amministrazione può esercitare nel primo periodo, e non certo con riferimento
solo a quelli che permangono dopo lo spirare di detto termine: solo nel primo
caso e non nel secondo potrà infatti far valere pienamente l'inesistenza dei
presupposti di legge per l'esercizio dell'attività oggetto della SCIA.
2. È in tal quadro che, prima dell'introduzione del comma 6-ter, avevo
prospettato la tesi del silenzio-diniego, poi accolta integralmente dall'Adunanza
plenaria (9). Poiché, peraltro, la relativa sentenza è stata oggetto di varie
critiche (soprattutto da parte di quella dottrina che, pur avendo dibattuto il
tema per un ventennio, ha visto disattese le tesi di volta in volta avanzate (10)), un cenno al riguardo pare doveroso.
Le critiche non hanno riguardato (se non marginalmente) l'idoneità della
soluzione accolta in termini di effettività della tutela giurisdizionale. Hanno
riguardato, viceversa, soprattutto la ricostruzione sostanziale del silenzio
serbato dall'Amministrazione in termini di silenzio significativo (archiviazione
tacita del procedimento inibitorio). Ed hanno visto nel nuovo comma 6-ter
un'aperta smentita da parte del legislatore alla soluzione accolta (11).
A prescindere da quest'ultimo aspetto, su cui si tornerà, l'equiparazione
dell'inerzia protrattasi oltre il termine di 60 giorni al silenzio diniego (recte al
provvedimento tacito di archiviazione) è stata censurata facendo leva sulla
mancanza di alcuna qualificazione normativa in tal senso. Ma non è detto che
non abbia influito al riguardo anche la consolidata opinione del passato,
secondo cui l'archiviazione, anche quando fosse espressamente dichiarata, non
costituirebbe un provvedimento amministrativo (ma un mero atto interno non
impugnabile (12)).
Opinione consolidata che si basava sul presupposto che in taluni procedimenti
restrittivi, ad iniziativa d'ufficio (ad esempio un qualunque procedimento
sanzionatorio), non vi potessero essere soggetti (giuridicamente) interessati ad
un epilogo sfavorevole rispetto all'unico soggetto, sicuramente “parte” del
procedimento: il possibile destinatario della sanzione.
Ma col passare del tempo l'ordinamento è cambiato e vi sono ora vari esempi
di soggetti che possono vantare un interesse giuridicamente qualificato a che il
provvedimento sanzionatorio (o comunque restrittivo della sfera giuridica
altrui) sia effettivamente emesso. Del resto l'art. 2, c. 1 della legge 241/1990
statuisce che l'Amministrazione ha il dovere di concludere il procedimento con
un provvedimento espresso, anche nel caso del procedimento avviato d'ufficio:
sicché l'interpretazione dell'archiviazione come mero atto interno non pare più
possibile.
E veniamo al punto più delicato (e anche più opinabile, come io stesso avevo
avvertito) e, cioè, a quello dell'equiparazione dell'inerzia a silenzio significativo
(di tipo negativo, rispetto all'esercizio del potere), pur in assenza di una
testuale qualificazione normativa in tal senso. Si tratta di una finzione
inaccettabile, oppure di una soluzione ammissibile in sede interpretativa?
Occorre considerare che la disciplina legislativa presentava e presenta una
evidente discrasia in proposito. Da un lato prevede un potere inibitorio e di
interdizione da esercitare nel termine perentorio di 60 (e in taluni casi di 30
giorni), con conseguente consumazione del potere amministrativo in caso di
inerzia (13). D'altro prevede un potere di autotutela, ex art. 21-quinquies e
nonies della legge 241/90: un potere, cioè, di secondo grado, di natura
discrezionale (14), che presuppone la sussistenza di un provvedimento da
revocare o da annullare.
E allora delle due l'una: o si può ricostruire l'esistenza di un provvedimento
tacito, superando l'ostacolo del silenzio della legge in proposito, ovvero si deve
ricostruire il potere di autotutela “in senso atecnico”, come potere
sanzionatorio pervaso della stessa discrezionalità propria degli atti di secondo
grado (interesse pubblico e bilanciamento degli ulteriori interessi di parte
presenti nella fattispecie).
Nonostante questa seconda soluzione sia molto diffusa in dottrina (15), a me
pareva molto meno sostenibile della prima. Essa operava, infatti, una aperta
manipolazione del dettato normativo, perché in assenza di una vera necessità
in tal senso (del tipo di quella ora scaturente dal c. 6-ter), interpretava
l'istituto contro la lettera della legge.
La quale non dice affatto che si tratta di un potere inibitorio, che può essere
esercitato “sussistendone le ragioni di interesse pubblico, entro un termine
ragionevole e tenendo conto degli interessi dei destinatari e dei
controinteressati” (argomento ex art 21-nonies). Dice che si tratta di potere
d'annullamento d'ufficio (o di revoca) diretto ad operare su atti preesistenti.
La soluzione dell'atto tacito d'archiviazione, viceversa, si muoveva secundum
legem o, al più, praeter legem. Infatti, nel tentativo di superare la discrasia
che presentano i primi due periodi del comma 3 dell'art. 19, si poteva avvalere
di quanto implicitamente disposto dalla legge medesima (se decorsi i 60 — o
30 — giorni si forma il silenzio e se tale vicenda consente l'esercizio di poteri di
autotutela su atti, ciò significa che il silenzio era — sia pure implicitamente, ma
del tutto chiaramente — equiparato ad un atto amministrativo espresso).
Ma quel che appariva ancor meno accettabile della tesi interpretativa
dell'autotutela “in senso atecnico” era la sua implicazione sul versante della
tutela giurisdizionale del terzo. Il quale non avrebbe potuto impugnare il
provvedimento tacito di archiviazione (ritenuto inesistente ed anzi una mera
finzione (16)), ma avrebbe dovuto stimolare solo il potere “atecnico” di
autotutela e poi eventualmente agire contro il silenzio serbato
dall'Amministrazione a questo proposito.
Tale costruzione non appariva accettabile per le ragioni già brevemente riferite
ed anche per elementari ragioni logiche. Perché l'archiviazione del
procedimento che si avvia con la SCIA può ben essere espressa (17), come
non di rado avviene (18): sicché non si può accordare una diversa tutela al
terzo, a seconda che l'Amministrazione operi in un senso (archiviazione
espressa) o lasci puramente e semplicemente scadere il termine per
provvedere.
E la stessa illogicità ricorre allorché la SCIA sia facoltativa (nel senso che
l'interessato può optare per tale strumento, ovvero per l'autorizzazione
espressa). Perché ancora una volta il terzo subirebbe (con una maggiore o
minor tutela giurisdizionale) le conseguenze di una scelta altrui (19).
Si consideri poi il caso della legge regionale della Lombardia sul governo del
territorio (l.r. 12/2005), che all'art. 42 c. 10 statuisce che il responsabile del
competente ufficio comunale, “qualora non debba provvedere” (con i poteri
inibitori “doverosi”, di cui si è detto), “attesta sulla denuncia di inizio di attività
la chiusura del procedimento”. In questo caso si dovrà parlare di
provvedimento espresso, ovvero, per mancanza di forma, di mero fatto? E in
questa seconda ipotesi si potrà parlare ancora di inerzia normativamente non
qualificata?
3. E veniamo alla disciplina introdotta dal comma 6-ter. Il quale, com'è noto,
dispone che “gli interessati possono sollecitare l'esercizio delle verifiche
spettanti all'Amministrazione e, in caso di inerzia, esperire esclusivamente
l'azione di cui all'art. 31, commi 1, 2 e 3 del D. Lgs. 2 luglio 2010, n. 104”.
Tale disposizione — che ha destato a sua volta commenti critici diffusi e certo
non ingiustificati (20) — è stata spesso considerata come un'aperta
confutazione, da parte del legislatore, delle conclusioni raggiunte dall'Adunanza
plenaria n. 11 del 2011. E poiché, come ho accennato, mi sento almeno in
parte responsabile di dette conclusioni, sento anche il dovere di difenderle da
simili valutazioni.
L'interpretazione della Plenaria non è stata affatto smentita (21), sia perché il
legislatore si è mosso seguendo la stessa impostazione logica (la SCIA o la
DIA, in quanto atti del privato, non costituiscono provvedimenti taciti, la
posizione del terzo è di interesse legittimo pretensivo all'esercizio dei poteri
inibitori e ripristinatori, dato che la fattispecie non contempla poteri
autorizzatori a vantaggio del presentatore della SCIA o della DIA), sia perché
comunque non si è trattato di un intervento legislativo di tipo interpretativo
della disciplina preesistente, sibbene di un intervento introduttivo di una nuova
strumentazione di tutela dei soggetti terzi e di nuovi adempimenti (le
“sollecitazioni”, che prima non esistevano). E che sia così è dimostrato dalla
circostanza che la giurisprudenza ha continuato ad applicare la figura del
silenzio diniego (con correlata azione di annullamento) alle fattispecie di SCIA
o DIA “consolidatesi prima della nuova disposizione” (22).
È solo per i casi di SCIA o di DIA, presentati dopo l'innovazione legislativa
dell'agosto 2011, che la giurisprudenza ha ritenuto applicabile “solo” (23) e
“in via esclusiva” (24) l'azione prevista dall'art. 31 c.p.a. sul silenzio
inadempimento della Pubblica Amministrazione (25). Si è trattato, dunque, di
un intervento innovativo, mosso, tra l'altro, da ragioni, che non si possono
definire di coerenza ricostruttiva.
Perché, è bene chiarirlo subito, l'intervento subitaneo del legislatore, che
utilizzando la decretazione d'urgenza ha inteso superare la costruzione accolta
dall'Adunanza plenaria, non è stato certo ispirato da esigenze di maggiore
effettività della tutela o da esigenze di carattere sistematico. Esso ha costituito
una reazione, imposta dagli apparati burocratici, che temevano che la figura
del silenzio diniego potesse far insorgere ipotesi di responsabilità
dell'Amministrazione, ove tale silenzio diniego fosse stato giudicato illegittimo
e annullato per mancato esercizio dei relativi poteri di controllo.
Il che ha avuto un qualche riscontro anche a livello di Corte costituzionale. Ove
è stato rilevato che “sarebbe irragionevole trascurare che, per quanto
efficacemente organizzata, non sempre la pubblica amministrazione può
disporre di mezzi tali da consentirle di controllare tempestivamente l'intreccio
delle numerose e varie iniziative private soggette a controllo” (Corte Cost., 16
luglio 2012, n. 188).
In tale contesto l'istituto del silenzio-inadempimento è parso più
tranquillizzante per l'Amministrazione. Perché esso evoca un potere di controllo
che non si esaurisce e che può sempre essere esercitato, ove emergessero
proteste e lagnanze dei terzi.
Ma a parte il rilievo che la persistenza di un potere di tipo inibitorio e
ripristinatorio non riguarda il c.d. controllo “doveroso” (di cui supra, lett. A),
dette esigenze avrebbero dovuto ricevere una risposta legislativa ben diversa,
senza scaricare le pur legittime preoccupazioni degli apparati burocratici sulla
tutela del terzo (e sulla stessa posizione del presentatore della SCIA),
compromettendo ancor più gravemente la coerenza intrinseca dell'intero
istituto. Il quale suscita perplessità anche per quel che concerne il suo ambito
precettivo, ponendo così all'interprete tutta una serie di problemi applicativi, di
cui si passa brevemente a parlare.
4. Una sentenza del T.A.R. Lombardia precisa che “il silenzio della P.A. che
consente l'azione ex art. 31 del codice del processo, presuppone, ai sensi
dell'art. 6-ter, la “sollecitazione” del terzo all'Amministrazione, affinché
quest'ultima eserciti i propri poteri di verifica” (26). Ma quale silenzio? E quali
poteri di verifica: quelli che l'amministrazione detiene sine die, o anche quelli
da esercitare nei primi trenta o sessanta giorni?
Tali problemi sono avvertiti dalla dottrina, che tuttavia per lo più omette di
dare risposte specifiche. Mentre in giurisprudenza si rinvengono soluzioni
incerte ed eterogenee.
Al riguardo è stato talvolta sottolineato — prendendo spunto da un'ulteriore
innovazione legislativa (27) — che è possibile agire nei confronti del silenzio
“ben prima della scadenza del termine finale assegnato all'Amministrazione per
l'esercizio del potere repressivo o modificativo, e sin da quando la scia o la dia
vengano presentate e il terzo venga a conoscenza della loro utilizzazione” (28). Con l'ulteriore precisazione che “in tal caso l'azione avrà ad oggetto, più
che il silenzio, direttamente l'accertamento dei presupposti di legge per
l'esercizio dell'attività, oggetto della segnalazione, con conseguenti effetti
conformativi in ordine ai provvedimenti spettanti all'autorità amministrativa” (29).
Ma l'ipotesi che le “sollecitazioni” siano effettuate prima della scadenza del
termine di 60 (o 30) giorni è più teorica che pratica. L'esperienza insegna che il
terzo per lo più si accorge dell'attività oggetto della SCIA (in ipotesi carente dei
presupposti di legge) ben oltre tale termine e talvolta a distanza di tempo (30).
Ebbene, quali verifiche può il terzo sollecitare una volta decorso il termine per
l'esercizio dei poteri generali inibitori e ripristinatori di carattere “doveroso”
(supra, lett. A)? E in caso di persistente inerzia può far valere il silenzio
formatosi in ordine a detti poteri, ovvero dovrà circoscrivere l'azione al
mancato esercizio dei poteri di autotutela (supra, lett. B) e degli altri specifici
ancora non “consumati” (lett. C o D)?
A quest'ultimo quesito la giurisprudenza pare optare prevalentemente per la
seconda delle suddette ipotesi, pur precisando che ciò “non riduce in maniera
significativa l'ambito di tutela del quale il terzo si può giovare”. Infatti
quest'ultimo, “pur trascorso il termine assegnato all'Amministrazione per
l'esercizio del potere inibitorio”, potrebbe sollecitare i poteri di autotutela e gli
altri ancora persistenti in capo all'Amministrazione e, in caso di silenzio,
esperire la relativa azione (31).
Ma tale soluzione non è condivisibile, per le stesse ragioni già esposte con
riferimento alla disciplina pregressa, che l'introduzione del comma 6-ter non ha
superato, ma semmai aggravato.
Essa concepisce una diversa tutela, a seconda della circostanza totalmente
estrinseca ed occasionale che le “sollecitazioni” avvengano prima o dopo il
fatidico termine di 30 o 60 giorni. Il che appare alquanto bizzarro.
Inoltre detta interpretazione presuppone che si attivino ben due (ancorché
collegati) procedimenti, perché il terzo possa agire a tutela della propria
posizione. L'uno, a seguito della presentazione della SCIA, l'altro su
“sollecitazione” del terzo (che aprirebbe su richiesta di parte — e non d'ufficio
— il procedimento di autotutela e che dovrebbe attendere lo spirare del
relativo termine, per poter proporre domanda giudiziale): il che appare a sua
volta singolare, soprattutto se si considera che l'intero istituto della SCIA è
stato concepito come strumento di semplificazione (e non di complicazione)
amministrativa.
A questo proposito è stato per la verità sostenuto che “nello schema normativo
del citato comma 6-ter, la presentazione di una DIA o di una SCIA non dà
luogo ad alcun procedimento amministrativo, per cui il decorso del termine di
legge di sessanta o trenta giorni per l'adozione di provvedimenti inibitori o
repressivi da parte della pubblica Amministrazione non configura alcuna
conclusione di procedimento amministrativo né alcuna adozione di un
provvedimento tacito o implicito” (32). Ma, a parte la questione del formarsi o
meno del provvedimento tacito (di cui si è già detto), non è possibile
condividere l'assunto della mancanza di alcun procedimento amministrativo.
Se così fosse, infatti, non si comprenderebbe a che titolo l'Amministrazione
potrebbe già nei primi 60 (o trenta) giorni inibire l'attività e ordinare il
ripristino. Un provvedimento di tal fatta non nasce dal nulla, ma presuppone
un procedimento già avviato, appunto, attraverso la presentazione della SCIA.
Del resto, si è visto che sussistono esempi di leggi regionali che fanno esplicito
riferimento a detto procedimento e alla sua chiusura. Né il meccanismo
introdotto dal comma 6-ter ha innovato sul punto.
Dunque, la presentazione della SCIA mette in moto un apposito procedimento (33), diretto all'eventuale esercizio di poteri inibitori “doverosi”. Giustapporre
necessariamente ad esso, anche nel caso di persistente inerzia, un ulteriore
procedimento di autotutela, per poter finalmente agire in sede giurisdizionale,
significa concepire una vera e propria superfetazione, gravemente lesiva del
diritto ad una tutela giurisdizionale satisfattoria (e, in quanto tale, rapida,
accessibile ed effettiva).
Ma, indipendentemente dagli ostacoli che precedono, quel che non pare
condivisibile è la preclusione di ogni tutela e sindacato giurisdizionale con
riferimento ai poteri generali inibitori dell'amministrazione (quelli che si
consumano nei primi 30 o 60 giorni). Con la conseguenza che la tutela del
terzo dovrebbe essere indirizzata a sindacare il mancato esercizio del potere di
autotutela, con tutte le ovvie difficoltà e con i limiti che si riscontrano sempre,
allorché si passi da un'attività vincolata ad un'attività di tipo schiettamente
discrezionale, come è il potere di autotutela (34) (anche nel quadro
complessivo della disciplina della SCIA, come si è visto).
È per tale ragione che, in un'ottica di effettività della tutela (35), appare
indubbiamente preferibile altro indirizzo giurisprudenziale, che pur si intravede
nel materiale giurisprudenziale degli ultimi tempi. Si tratta dell'indirizzo che,
pur senza spiegare le ragioni ricostruttive che lo consentano, pare giungere
alla conclusione che sussista un generale diritto del privato, asseritamente
leso, di agire in giudizio per l'accertamento della insussistenza “dei presupposti
di legge per l'esercizio dell'attività oggetto di segnalazione”, anche quando il
termine per l'esercizio doveroso dei poteri di inibizione sia ormai trascorso (36). E in realtà la lesione della posizione del terzo — ben inteso, purché sia
rigorosamente provata la sua legittimazione — non deriva (o può non derivare)
dal mancato esercizio dei poteri di autotutela (che, tenuto conto del
bilanciamento degli interessi, può essere del tutto legittimo). Né deriva dal
mancato esercizio dei poteri sub C) e D), tutte le volte che la mancanza dei
presupposti non sia ricollegata a dichiarazioni false o errate, né comporti
situazioni di pericolo per il patrimonio artistico, culturale, ecc.
La
lesione
deriva,
viceversa,
sempre
e
comunque
dall'inerzia
dell'Amministrazione rispetto all'esercizio “doveroso” dei suoi poteri inibitori
generali (supra, lett. A), che sono gli unici idonei a contrastare ogni forma di
illiceità dell'attività oggetto di SCIA, in quanto carente di uno qualunque dei
presupposti previsti dalla legge. Tale lesione, dunque, deve pur essere
giustiziabile, perché non si può concepire che la lesione del terzo rimanga
senza tutela a causa della scelta legislativa sullo strumento processuale da
attivare.
Né si potrebbe opporre che una interpretazione di tal fatta (oltre a dover
essere dimostrata) comporti una sorta di sovraesposizione della tutela del
terzo, che non potrebbe pretendere sul piano giurisdizionale più di quanto la
fattispecie sostanziale consente. La fattispecie sostanziale, infatti, prevede pur
sempre un (temporaneo) potere generale di carattere inibitorio e l'interesse del
terzo a che sia inibita un'attività illecita, perché priva dei requisiti e dei
presupposti di legge, deve pur essere tutelato, secondo i ben noti canoni
costituzionali.
Tale interesse del terzo, ove assuma — secondo i noti parametri — la
consistenza di interesse legittimo (pretensivo) correlato al potere generale
inibitorio (37), sorge, infatti, al momento della presentazione della SCIA ed è
ben altra cosa dall'interesse legittimo correlato all'eventuale esercizio dei poteri
di autotutela. Sicché, a meno che non si dica — in frontale contrasto con l'art.
24 della Costituzione — che detto (primo) interesse legittimo sia privo di tutela
giurisdizionale, la stessa deve essere garantita, pur all'interno del giudizio sul
silenzio inadempimento, imposto ora dal comma 6-ter.
In altri termini, la circostanza che il potere generale inibitorio risulti
“consumato” per l'Amministrazione — che può avvalersi, decorso il termine,
(pressoché) solo del potere di autotutela — non può costituire un limite alla
tutela del terzo. E un'interpretazione costituzionalmente orientata del comma
6-ter deve pur consentire di accertare “tout court” l'inesistenza dei presupposti
per l'esercizio dell'attività oggetto di segnalazione, “con i conseguenti effetti
conformativi in ordine ai provvedimenti spettanti all'Autorità amministrativa” (38).
Occorre, dunque, verificare se tale esigenza è compatibile con il tenore
letterale della nuova norma. E la risposta può essere affermativa, a patto che
si consideri l'“inerzia”, di cui al comma 6-ter, non riferita al silenzio sulle
sollecitazioni, sibbene all'unico procedimento aperto con la SCIA e che si
esaurisce allo spirare del termine di 30 o 60 giorni: solo in tal caso, infatti,
sarà consentito al terzo di portare alla cognizione del Giudice — attraverso il
rito speciale sul silenzio e sempre che sussistano le ulteriori condizioni previste
dall'art. 31 c. 2 c.p.a. — l'omesso esercizio di un intervento “doveroso”,
correlato alla mancanza di uno qualunque dei presupposti di legge per
l'esercizio dell'attività oggetto di SCIA.
È pur vero che il comma 6-ter sembra predicare l'inerzia alle “sollecitazioni” del
terzo, rimaste senza esito. Ma le “sollecitazioni” non sono istanze che aprono
altrettanti procedimenti (con termini tutti da immaginare), sibbene richiami
(appunto, sollecitatori) ai doveri d'ufficio, che l'Amministrazione detiene
indipendentemente da esse.
Tali sollecitazioni (che comunque soddisfano l'esigenza dell'Amministrazione ad
essere preavvertita) riguardano le “verifiche spettanti all'Amministrazione” e,
dunque, tutto il ventaglio dei poteri di controllo, previsti dall'art. 19, e che
l'Amministrazione detiene in relazione al tempo in cui le sollecitazioni stesse
sono avanzate. Ma esse non rimettono in termini l'Amministrazione,
prolungando il potere generale inibitorio oltre il termine perentorio dei 30 o 60
giorni (deresponsabilizzando così l'Amministrazione stessa): esse costituiscono
viceversa soltanto un presupposto dell'azione sul silenzio, che risulta così
preannunciata, assolvendo ad una funzione analoga al preavviso di ricorso, di
cui all'art. 243-bis del codice degli appalti.
Ma, come in quest'ultimo caso il mancato esercizio dei poteri di autotutela non
comporta che l'azione sia indirizzata avverso tale omissione (39), anche nel
caso della SCIA vi può essere una “dissociazione” tra l'oggetto delle
sollecitazioni e l'oggetto della tutela giurisdizionale. Infatti, una volta chiarito
che la lesione scaturisce dal mancato esercizio dei poteri “doverosi” e privi di
margini di discrezionalità, l'azione sul silenzio (inadempimento) non può che
essere indirizzata avverso l'inerzia prodottasi sul procedimento avviato con la
SCIA: se poi dovesse sopraggiungere un provvedimento esplicito, si
verificherebbero le consuete vicende, che potranno portare, a seconda dei casi,
alla cessazione della materia del contendere, ovvero ad un ulteriore ricorso per
motivi aggiunti ex art. 117 c. 5 c.p.a. (40).
5. L'ipotesi interpretativa testé avanzata (ancora una volta in linea di prima
approssimazione, perché il tema meriterebbe ben altro sviluppo
argomentativo), comporta rilevanti ripercussioni sul modello del giudizio sul
silenzio.
Una prima conseguenza riguarda la domanda che può essere proposta in tale
giudizio. Infatti nel riferito contesto il terzo non potrebbe richiedere l'emissione
di un semplice ordine di provvedere, nel senso di ordine di pronuncia espressa
(art. 31, c. 1, c.p.a.). E ciò per la saliente ragione che, come si è visto, l'art.
19 c.3, primo periodo, della legge 241 esclude che sussista un obbligo di tal
fatta in capo all'Amministrazione, che, in deroga al principio di cui all'art. 2, c.
1, della stessa legge, può puramente e semplicemente lasciar decorrere il
termine ivi previsto.
Il terzo, viceversa, potrà (e dovrà, se intende ottenere giustizia) chiedere
l'accertamento della fondatezza della pretesa (art. 31, c. 3 c.p.a.) alla
inibizione dell'attività altrui, in quanto priva dei requisiti di legge. E trattandosi
di attività vincolata e doverosa, il cui mancato esercizio non sia stato corretto
neppure successivamente (da qui la persistenza dell'inadempimento), non
sussistono ostacoli ad un accertamento di tal fatta (41).
Una seconda e forse più grave ripercussione riguarda il potere ordinatorio del
Giudice, ex art. 31 c. 3 c.p.a. Tenuto conto che il giudizio sul silenzio, ex art.
31 c.p.a., è sempre stato configurato come giudizio su poteri da esercitare — e
di cui l'Amministrazione sia persistente titolare — e non come giudizio sul
potere già esercitato o, comunque, non più nella sfera di disponibilità
dell'Amministrazione.
Tutto ciò è vero ed è stata una delle (principali) ragioni, che hanno condotto
alla ricostruzione del silenzio, come tacito provvedimento amministrativo di
archiviazione. Ma ora è intervenuto il legislatore, introducendo il comma 6-ter,
e tale intervento innovativo deve essere valutato in tutte le sue implicazioni,
con una interpretazione che ne garantisca l'effetto utile.
Ed una implicazione che mi pare necessaria è che in materia di SCIA il giudizio
sul silenzio abbia subito una vera e propria metamorfosi, passando
dall'accertamento su di un potere illegittimamente non esercitato, ma
persistente, all'accertamento su di un potere illegittimamente non esercitato e
ormai consumato. Sarà, dunque, l'ordine del Giudice a riattivare, ora per
allora, detto potere e ad imporne il relativo esercizio (42).
Né si pensi che si tratta di evenienza dommaticamente impossibile. Il processo
amministrativo
tedesco
presenta,
com'è
noto,
un'azione
(la
Verpflichtungsklage), che è stata il paradigma della nostra azione di
adempimento (anche applicata al silenzio, come nell'art. 31 c. 3 c.p.a.). E tale
azione (e relativa condanna) è ben esperibile non solo in caso di omissione, ma
anche in caso di illegittimo rifiuto espresso da parte dell'Amministrazione (art.
42, par. 1, e 113, par. 5 della legge tedesca sul procedimento amministrativo (43)): dunque è esperibile anche nei confronti del potere esercitato.
Nell'ordinamento tedesco — e a differenza di quello italiano — non è necessaria
l'impugnazione (e l'annullamento) del provvedimento esplicito di diniego di un
provvedimento richiesto o comunque preteso (44). La condanna all'emissione
di tale provvedimento, infatti, presuppone l'illegittimità del precedente diniego,
che risulta automaticamente travolto (con effetti costitutivi impliciti) dalla
pronuncia di condanna.
Nel nostro sistema non è così, dato che l'azione di adempimento non può
essere esercitata autonomamente, ma semmai contestualmente a quella di
annullamento. L'annullamento opera con effetti ex tunc, riapre il il circuito
dell'azione amministrativa e apre la strada alla condanna all'emissione del
provvedimento.
Nel caso del silenzio-inadempimento tutto ciò normalmente non è necessario,
poiché da un lato si tratta di mero fatto (inerzia prolungata oltre il termine
fissato per la conclusione del procedimento) e, d'altro lato, il circuito
dell'azione amministrativa rimane ancora aperto, dato che il potere (non
esercitato) permane in capo all'Amministrazione. Sicché l'ordine di pronuncia,
ovvero (nei casi del terzo comma dell'art. 31 c.p.a.) l'ordine di provvedere
conformemente alla pretesa, di cui sia stata accertata la fondatezza, non
incontrano ostacoli di sorta.
Nel caso del “silenzio” serbato nei confronti della SCIA — e con riferimento ai
poteri inibitori “doverosi”, di cui supra alla lettera A — la situazione è alquanto
diversa, dato che col decorso del termine si consuma (come si è visto) il
relativo potere. Dunque il Giudice, nel giudicare l'illiceità dell'attività oggetto
della SCIA e la fondatezza della pretesa del terzo all'emissione dei
provvedimenti inibitori e ripristinatori, opera un accertamento che si riferisce al
momento in cui il silenzio si è formato (45).
Un accertamento, dunque, ad effetti retroattivi, che, al pari di quanto avviene
a seguito dell'annullamento di un atto negativo, rimuove l'ostacolo del potere
già esercitato o, comunque, consumato. Ma ciò che è precluso
all'Amministrazione (salvo l'esercizio dei poteri di autotutela) non è certo
precluso ai poteri ordinatori e di condanna del Giudice (46): sicché l'ordine di
emettere il provvedimento, che l'Amministrazione avrebbe dovuto adottare nel
corso del procedimento di SCIA, riaprirà il circuito del potere amministrativo e
potrà riguardare proprio quel potere inibitorio e ripristinatorio “doveroso”
(supra, sub A), che è ormai al di fuori dei poteri d'ufficio dell'Amministrazione
medesima.
Un ulteriore problema applicativo val la pena di prendere in considerazione.
Esso riguarda il termine per proporre l'azione sul silenzio, che, come è noto, è
di un anno dalla scadenza del termine per la conclusione del procedimento di
riferimento.
Ma tale termine è certo e noto, se il procedimento è avviato su istanza di parte
e se il ricorrente è lo stesso titolare dell'interesse legittimo pretensivo, che lo
ha avviato.
Nel caso della SCIA non è così, sicché potrebbe verificarsi l'evenienza — non
inusuale, soprattutto in materia edilizia — che il terzo si renda conto della
lesione quando il termine dell'anno sia ormai trascorso. Ne deriva che tale
termine annuale non può decorrere, come di consueto, sempre e comunque
dal momento della conclusione del procedimento: per evitare una
inammissibile preclusione di tutela giurisdizionale occorrerà in tali casi
considerare l'anno come decorrente dalla “piena conoscenza” della lesione e,
così, del mancato intervento dell'Amministrazione nel termine perentorio
all'uopo assegnato dalla legge.
Del resto anche tale adattamento si può giustificare in base al comma 6-ter.
Se, infatti, l'azione sul silenzio presuppone una “sollecitazione”, presuppone
altresì che il terzo abbia acquisito adeguata consapevolezza del vulnus subito.
Tutto ciò implica, ovviamente, un sicuro peggioramento della posizione
“consolidata” del presentatore della SCIA, che sarà esposta alla reazione del
terzo per un periodo ben più lungo di quanto non fosse nel quadro ricostruttivo
del silenzio significativo, accolto dall'Adunanza plenaria. Ma tale implicazione
non pare evitabile alla luce del nuovo comma 6-ter. Se, infatti, si dovesse
interpretare il silenzio come correlato al mancato esercizio dei poteri di
autotutela, la relativa azione dovrebbe essere proposta sempre nell'arco
dell'anno, ma a far tempo dal formarsi dell'inerzia sulla c.d. “sollecitazione”: e
poiché quest'ultima non è un atto processuale, potrebbe essere avanzata in
qualunque momento e anche a grande distanza di tempo dalla conclusione del
procedimento di SCIA, senza che il relativo titolare possa eccepire altro, se non
la scadenza del termine ragionevole per l'esercizio del potere di autotutela,
interpretato peraltro dalla giurisprudenza con l'elasticità che tutti conosciamo.
I problemi applicativi probabilmente non si esauriscono qui. Ma non è il caso di
sondarli tutti, perché appare più utile, per concludere, farsi carico almeno di
una possibile obbiezione.
Si potrebbe, infatti, obbiettare che tutte le riferite necessità di adattamento
manifestano le difficoltà che incontra la costruzione proposta (47). E che se
ne dovrebbe preferire altre (ad esempio, quella del silenzio correlato ai poteri
di autotutela), che forse meglio si conciliano col rito del silenzio
inadempimento, di cui agli artt. 31 e 117 c.p.a.
Ma proprio perché sussiste ora la necessità (comma 6-ter) di utilizzare sempre
e comunque il giudizio sul silenzio inadempimento, l'individuazione del relativo
oggetto (conformemente alle esigenze anche di ordine costituzionale)
costituisce un prius rispetto alla disciplina processuale vera e propria. Con la
conseguenza che, in mancanza di perfetta armonia, sarà quest'ultima e non il
primo a dover subire gli adattamenti del caso.
I quali del resto appaiono inevitabili, tenuto conto di quanto si è già avvertito
e, cioè, che il giudizio sul silenzio è stato concepito come relativo ad un silenzio
su istanza di atto ampliativo, mentre il comma 6-ter lo ha esteso — comunque
lo si voglia interpretare — ad un silenzio in ordine all'adozione di un atto
restrittivo per la sfera giuridica altrui. Sicché la modifica del modello
sostanziale non può non comportare — come è pressoché fisiologico che
avvenga — talune ripercussioni anche in sede processuale.
Le note non le vogliono più giustificate <div style="text-align: justify; margin:
10px 10px;">
Note:
(*) Saggio destinato agli scritti in onore di Ernesto Sticchi Damiani.
(1) La SCIA e la tutela dei terzi al vaglio dell'Adunanza Plenaria: ma perché
dopo il silenzio assenso e il silenzio inadempimento non si può prendere in
considerazione anche il silenzio diniego?, in questa Rivista, 2011, 359 ss.
(2) Cons. Stato, Sez. VI, 14 novembre 2012, n. 5751, che sottolinea che la
valutazione comparativa deve essere “idonea a giustificare la frustrazione
dell'affidamento incolpevole del denunciante a seguito del decorso del tempo e
della conseguente conservazione del potere inibitorio”.Cfr. anche Tar
Campania, Napoli, Sez. II, 27 febbraio 2013, n. 1165; Tar Lombardia, Brescia,
Sez. II, 3 settembre 2012, n. 1495.
(3) Cons. Stato, Sez. VI, 14 novembre 2012, n. 5751.
(4) Cons. Stato, Sez. VI, n. 5751/2012 cit..; TarVenezia, Sez. II, 11 aprile
2013, n. 535.
(5) Sull'importanza del ruolo dei terzi come “strumento di effettività delle
norme pubblicistiche...” e come “principali controllori del rispetto della
disciplina normativa” M. Ramajoli, La S.C.I.A. e la tutela del terzo in questa
Rivista 2012, 329 ss., 352.
(6) In proposito è stato giudicato che “la mancata notifica dell'atto inibitorio
nel prescritto termine di 30 giorni, di cui all'art. 23 D.P.R. n. 380/2001,
comporta il consolidamento dell'attività denunciata, la cui eventuale non
conformità a legge può essere fatta valere dall'Amministrazione comunale nei
limiti dell'esercizio del potere di autotutela” (Tar Campania, Napoli, Sez. II, 27
febbraio 2013, n. 1165). Il tutto sul presupposto che “il termine per l'esercizio
del potere inibitorio doveroso... è perentorio” (Cons. Stato, Sez. VI, 14
novembre 2012, n. 5751; Tar Venezia, Sez. II, 11 aprile 2013, n. 535). E tale
impostazione e relativa conclusione è da condividere, anche dopo l'introduzione
dell'istituto del comma 6 ter, su cui si tornerà. Infatti, è tuttora vigente quanto
disposto dal comma 4 dello stesso articolo, secondo cui “decorso il termine per
l'adozione dei provvedimenti di cui al primo periodo del comma 3 [e, dunque,
del generale potere inibitorio, di cui stiamo parlando, n.d.r.]...è consentito
intervenire solo in presenza del pericolo di un danno per il patrimonio artistico
e culturale”.
(7) Persistono, per la verità, anche i poteri sanzionatori dell'art. 21 c. 2 della
stessa legge 241/90. Ma detti i poteri riguardano solo taluni settori (ad
esempio, quello edilizio) e non possono pertanto partecipare alla ricostruzione
generale dell'istituto.
(8) Sul particolare problema di presentazione di una DIA per attività diverse da
quelle consentite dalla legge, cfr. A. Sandulli, Denuncia di inizio attività, in Riv.
giur. ed. 2004, 121 ss., 133.
(9) Il che apriva la strada a tutti i ben noti strumenti di tutela giurisdizionale,
che un provvedimento di tal fatta consente di attivare.Si trattava, come è
ovvio, del ricorso di impugnazione, da esercitare nel consueto termine di
decadenza. Ma si trattava altresì dell'azione di adempimento, particolarmente
efficace nelle fattispecie, come quelle oggetto di SCIA, in cui è assente ogni
profilo di discrezionalità dell'Amministrazione. E infatti l'eventuale
annullamento dell'atto tacito di archiviazione riapre ex tunc l'esercizio del
potere inibitorio doveroso: l'azione di adempimento impone tale esercizio,
prescrivendo con precisione le misure amministrative da adottare.In
conclusione la proposta ricostruttiva accolta dal Consiglio di Stato ha tenuto
conto delle esigenze di effettività della tutela del terzo e delle esigenze di
rapido “consolidamento” della posizione del presentatore della SCIA, correlata
al carattere doveroso dei controlli che l'Amministrazione deve operare nei primi
60 giorni. A tale strumentazione di tutela il Consiglio di Stato ha aggiunto
anche un'azione di accertamento, esercitabile anche prima della formazione del
silenzio, per garantire in sede cautelare ogni più rapida tutela possibile (su
quest'ultimo punto M.A. Sandulli, Brevi considerazioni a prima lettura della
Adunanza Plenaria n. 15 del 2011, in www.Giustamm.it.).
(10) Anche se non sono mancati contributi significativi e di grande respiro
(cfr., ad esempio, R. Ferrara, La segnalazione di inizio attività e la tutela del
terzo: il punto di vista del Giudice amministrativo, in questa Rivista 2012, 215
ss.).
(11) Cfr. E. Scotti, Tra tipicità e atipicità dell'azione nel processo amministrativi
(a proposito di Ad. Plen. 15/11), in Dir. amm. 2011, 765 ss.
(12) Cfr. V. Cerulli Irelli, Lineamenti del diritto amministrativo, Torino, 2012,
366.Con specifico riferimento alla DIA, cfr. W. Giulietti,Attività privata e potere
amministrativo. Il modello della dichiarazione di inizio attività, Torino, 2008,
180 ss.Non dubita viceversa dell'impugnabilità dell'atto di archiviazione il
Giudice comunitario (cfr. Trib. I grado, Sez. IV, 17 febbraio 2000, in causa T241/97; Corte Giust., 16 giugno 1994, in causa C-39/93, punto 28).
(13) Cons. Stato, Sez. VI, 14 novembre 2012, n. 5751; Tar Venezia, Sez. II,
11 aprile 2013, n. 535.
(14) Ancor di recente è stato giudicato che “tale potere, con cui
l'amministrazione è chiamata a porre rimedio al mancato esercizio del
doveroso potere inibitorio, condivide i principi regolatori sanciti, in materia di
autotutela dalle norme citate, con particolare riguardo alla necessità dell'avvio
dell'apposito procedimento in contraddittorio, al rispetto del limite del termine
ragionevole e, soprattutto, alla necessità di una valutazione comparativa, di
natura discrezionale, degli interessi in rilievo, idonea a giustificare la
frustrazione dell'affidamento incolpevole maturato in capo al denunciante a
seguito del decorso del tempo e della conseguente consumazione del potere
inibitorio” (Cons. Stato, Sez. VI, n. 5751/2012 cit.; cfr. anche Tar Campania,
Napoli, Sez. II, n. 1165/2013 cit.).
(15) Cfr. A. Travi,La tutela del terzo nei confronti della D.I.A. (o della
S.C.I.A.): il codice del processo amministrativo è la quadratura del cerchio, in
Foro it., III, 517 ss.; L. Bertonazzi, Natura giuridica della S.C.I.A. e tecnica di
tutela del terzo nella sentenza dell'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato n.
15/2011 e nell'art. 19, comma 6 ter della legge n. 241/90, in questa Rivista,
2012, 215 ss.
(16) Così F. Merusi, Creatività giurisprudenziale e funzione. La tutela del terzo
nel processo amministrativo nell'ipotesi di attività liberalizzate, in Giur. it.,
2012, 2, che però non abbraccia affatto la tesi, che la tutela del terzo debba
passare attraverso l'esercizione dell'autotutela, sia pure intesa in senso
atecnico.
(17) Cfr. per un caso di impugnazione di un esplicito provvedimento di
archiviazione in un procedimento di D.I.A., Tar Lombardia, Sez. IV, 8 maggio
2007, n. 2552.
(18) Si rinvengono con una certa frequenza, infatti, attestazioni espresse
dall'Amministrazione di avvenuta verifica della regolarità formale e della
completezza della documentazione presentata, con conseguente “chiusura” del
procedimento di DIA e di SCIA. Auspica la generalizzazione di tali prassi E.
Zampetti, D.I.A. e S.C.I.A. dopo l'Adunanza Plenaria n. 15/2011: la difficile
composizione del modello sostanziale con il modello processuale, in Dir. amm.,
2011, 811 ss.
(19) Cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 2 febbraio 2009, n. 717.
(20) Cfr., ad esempio, E. Boscolo, La dialettica tra la Plenaria e il legislatore
sulla natura liberalizzante della DIA e sullo schema di tutela del terzo: principi
destinati ad una vita effimera, in Giur. it., 2012, 4 e F. Martines, La
segnalazione certificata di inizio attività, Milano, 2011, 206.
(21) Così nel complesso C.E. Gallo, L'art. 6 della manovra economica d'estate
e l'adunanza plenaria n. 15 del 2011: un contrasto soltanto apparente, in
www.Giustamm.it.
(22) Cfr. Tar Lazio, Roma, Sez. II bis, 23 aprile 2013, n. 4117; Tar Lazio, Sez.
II, 10 aprile 2013, n. 3642; Tar Campania, Napoli, Sez. IV, 6 marzo 2013, n.
1247; Tar Veneto, Venezia, Sez. II, 5 marzo 2012, n. 299; Tar Umbria,
Perugia, Sez. I, 22 dicembre 2011, n. 400; Tar Basilicata, Sez. I, 8 febbraio
2012, n. 48.
(23) Si legge, in particolare, che “il legislatore, pur recependo l'orientamento
del Consiglio di Stato sulla natura giuridica della D.I.A. (oggi S.C.I.A.), come
atto del privato non immediatamente impugnabile, si discosta da tale decisione
quanto ai rimedi esperibili dal terzo controinteressato, il quale ha ora a
disposizione solo l'azione prevista dall'art. 31 c.p.a. per i casi di silenzio della
P.A., senza che possano residuare ulteriori strumenti di tutela” (Tar Lecce, Sez.
III, 18 settembre 2013, n. 1937).
(24) Si legge, altresì, nella seconda delle sentenze citate che “detta ultima
disciplina legislativa ha, pertanto, previsto che la tutela della posizione
giuridica soggettiva del terzo, a seguito del deposito di una DIA (ora SCIA)
ritenuta lesiva, debba comportare l'esperimento “in via esclusiva”, dell'azione
in materia di silenzio e di cui all'art. 31, commi 1, 2 e 3, D.lgs. 2 luglio 2010,
n. 104, determinando il venir meno del dibattito giurisprudenziale e dottrinario
diretto a rilevare se, a seguito del decorso del termine per l'esercizio del potere
inibitorio si produceva un atto tacito o, al contrario, se risultava in essere un
titolo idoneo a legittimare l'esercizio di un'attività privata” (Tar Veneto, 11
aprile 2013, n. 535).
(25) È stato giudicato che “l'art. 19, comma 6-ter, consente al terzo che si
reputa leso dalla presentazione della DIA/SCIA una sola modalità di tutela (il
comma 6-ter, secondo periodo, contiene a tale proposito la parola
« esclusivamente », introdotta in sede di conversione del decreto legge), vale
a dire la sollecitazione all'esercizio delle verifiche spettanti all'Amministrazione
e, in caso di inerzia di quest'ultima, la proposizione dell'azione prevista dall'art.
31 del D.Lgs. 104/2010, cioè l'azione contro il silenzio della Pubblica
Amministrazione” (Tar Lombardia, Milano, Sez. II, 12 aprile 2012, n. 1075 e
cfr. anche Tar Firenze, Sez. III, 1 agosto 2013, n. 1202).
(26) Tar Lombardia, Sez. II, n. 1075/2012 cit.
(27) Art. 1, comma 1, lett. g), d.lgs. 15 novembre 2011, n. 195, che ha
aggiunto all'art. 31 c. 1 c.p.a., accanto all'ipotesi (ordinaria) di “conclusione del
procedimento amministrativo”, un generico riferimento agli “altri casi previsti
dalla legge”.
(28) Cfr. Tar Veneto, Sez. II, 11 aprile 2013, n. 535; Tar Veneto, Sez. II, 8
marzo 2012, n. 298.Nello stesso senso, Tar Lecce, Sez. III, 18 settembre
2013, n. 1937.
(29) Cfr. Tar Veneto, Sez. II, n. 298/2012 cit.
(30) Anche perché non sempre il presentatore della SCIA inizia subito l'attività,
che è l'unico elemento rilevatore per il terzo, in mancanza di una
comunicazione di avvio del procedimento, che pur sarebbe auspicabile
(ovviamente indirizzata verso il terzo e non nei confronti del presentatore della
SCIA).
(31) Cfr. Tar Veneto, sez. II, n. 298/2012 cit., ove si legge che il terzo “pur
trascorso il termine assegnato all'amministrazione per l'esercizio del potere
inibitorio, potrà sollecitare tramite diffida, oltre l'esercizio del potere di
autotutela, anche l'esercizio dei poteri sanzionatori e repressivi sempre
spettanti all'amministrazione in materia edilizia e, fintantoché l'inerzia perduri
e comunque non oltre un anno dalla scadenza del termine per l'adempimento,
potrà esperire l'azione di cui all'art. 31 c.p.a., richiamata dal comma 6-ter
dell'art. 19 l. 241/1990”.
(32) Tar Lombardia, Milano, Sez. II, n. 1075/2012 cit.
(33) L'argomento è ampiamente trattato da W. Giulietti, Attività privata e
potere amministrativo, cit., 159 ss.
(34) Tale potere — qualificato di volta in volta come atecnico, ibrido, ecc. —
dovrebbe essere anche vincolato nell'“an”, in guisa tale da poter radicare sul
terzo un vero e proprio interesse legittimo e non solo un interesse di mero
fatto, anche nel caso in cui l'Amministrazione si sia astenuta totalmente
dall'esercitarlo. Il che appare un'ulteriore forzatura, sulla quale non è il caso di
indugiare, perché ben altre sono le ragioni (indicate nel testo), per le quali non
può essere seguita la tesi dell'impugnazione del silenzio correlato
all'autotutela.
(35) Non può non condividersi la “premessa di fondo che scaturisce dal
principio costituzionale dell'effettività della tutela giurisdizionale: quella
secondo cui la sostituzione del provvedimento espresso con la DIA non può
avere l'effetto di diminuire le possibilità di tutela giurisdizionale offerte al terzo
controinteressato” (Cons. Stato, Sez. VI, 2 febbraio 2009, n. 717, cit., con
nota di S. Valaguzza, La DIA, l'inversione della natura degli interessi legittimi e
l'azione di accertamento come strumento di tutela del terzo, in questa Rivista
2009, 1260 ss.).
(36) Cfr. Tar Lecce, Sez. III, 18 settembre 2013, n. 1937, che pare riferirsi a
tutte le ipotesi di tutela del terzo.Analogamente, sempre con affermazioni
generalizzanti, Cons. Stato, Sez. IV, 6 dicembre 2013, n. 5822.
(37) Che sussista tale interesse legittimo, correlato al potere inibitorio, è
unanimamente riconosciuto, anche perché lo stesso consente al terzo di
attivarsi anche prima della scadenza del termini di 30-60 giorni, come si è
visto. Talvolta tuttavia è qualificato come di tipo “oppositivo”, in quanto il terzo
mirerebbe alla conservazione dello status quo ante (L. Bertonazzi, Natura
giuridica della SCIA, cit., 237).Il che non può essere condiviso, anche se se ne
comprendono le ragioni. Indubbiamente la posizione del terzo non è quella
consueta dell'interesse legittimo pretensivo, che tende — attraverso l'esercizio
di poteri ampliativi — a modificare la situazione preesistente. Qui la pretesa è
all'esercizio di poteri restrittivi per il dichiarante e, dunque, sostanzialmente a
conservare la situazione originaria.Tuttavia la situazione originaria risulta
(anche giuridicamente) modificata con la presentazione della SCIA, dato che la
relativa attività è ex lege consentita, salve le verifiche e i conseguenti
interventi repressivi dell'Amministrazione. Sicché il terzo non richiede il
mantenimento di tale situazione, sibbene il ripristino di quella
originaria.Inoltre, la distinzione tra interessi legittimi pretensivi ed oppositivi
non va incentrata sul bene della vita, sibbene sull'esercizio o non esercizio dei
poteri amministrativi. Tant'è che le implicazioni in sede di regime scaturiscono
da quest'ultima circostanza (nella specie il legislatore ha potuto imporre il
giudizio sul silenzio, proprio perché si tratta comunque di interessi legittimi
pretensivi, ancorché correlati a poteri inibitori e ripristinatori, con le
complicazioni che si vedranno).
(38) Cfr. ancora Tar Lecce, Sez. III, n. 1937/2013 cit.
(39) Cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 13 febbraio 2013, n. 896, che ha giudicato che
“le previsioni di cui ai commi 3 e 4 del richiamato art. 243-bis devono essere
intese nel senso che non risulti necessaria una specifica impugnativa avverso il
comportamento inerte serbato dall'amministrazione a fronte dell'istanza di
autotutela”. Nello stesso senso Cons. Stato, Sez. III, 29 dicembre 2012, n.
6712; Sez. III, 6 maggio 2013, n. 2449; Sez. III, 2 settembre 2013, n. 4356,
che ha giudicato che “il testo lascia intendere che il legislatore non abbia voluto
dar vita ad un procedimento contenzioso o paracontenzioso a tutela di una
posizione giuridica soggettiva, ma solo offrire all'Amministrazione l'opportunità
di un riesame in via di autotutela, precisando non a caso che l'atto introduttivo
non viene denominato “ricorso” ovvero “reclamo” o “opposizione”, ma
semplicemente “informativa dell'intento di proporre ricorso
giurisdizionale”.Sull'intera problematica si può leggere E. Grillo, L'informativa
di ricorso ex art. 243-bis Codice dei contratti pubblici: note critiche a margine
della sentenza del Consiglio di Stato, sez. III, 29 dicembre 2012, n. 6712, in
questa Rivista, 2013, 1205 ss.
(40) Cfr., per le analoghe vicende in caso di inerzia sull'informativa di ricorso,
Cons. Stato, Sez. III, 29 dicembre 2012, n. 6712.
(41) Si tratta di implicazione, che è l'esatto opposto rispetto a quella che
scaturisce dalla costruzione del silenzio relativo al procedimento di autotutela.
In questo caso — e a meno di non snaturare il relativo potere, fino a
considerarlo vincolato non solo nell'an, ma anche nel quid, nel quomodo e nel
quando — l'unica domanda giudiziale ammissibile sarebbe quella relativa
all'ordine di pronuncia, lasciando impregiudicato l'ambito della discrezionalità
amministrativa: il cui successivo esercizio potrebbe produrre la necessità di un
nuovo ricorso giurisdizionale, differendo ulteriormente nel tempo la
realizzazione di una tutela effettiva.
(42) Così mi pare anche C.E. Gallo, L'art. 6, cit., che sottolinea che l'azione sul
silenzio, così congegnata, non riduce la tutela del terzo, rispetto alla soluzione
accolta dall'Adunanza plenaria.In giurisprudenza si ricorda che già il Cons.
Stato, Sez. VI, 15 aprile 2010, n. 2139 aveva giudicato che “la sentenza che
accerta l'inesistenza dei presupposti della d.i.a. ha effetti conformativi nei
confronti dell'Amministrazione, in quanto le impone di porre rimedio alla
situazione nel frattempo venutasi a creare sulla base della d.i.a.,
segnatamente di ordinare l'interruzione dell'attività e l'eventuale riduzione in
pristino di quanto nel frattempo realizzato. Tale potere in quanto volto a dare
esecuzione al comando implicitamente contenuto nella sentenza di
accertamento, deve essere esercitato a prescindere sia dalla scadenza del
termine perentorio previsto dall'art. 19 l. 241/1990 per l'adozione dei
provvedimenti inibitori-repressivi, sia dalla sussistenza dei presupposti
dell'autotutela decisoria richiamati sempre dall'art. 19. Non si tratta, infatti, né
di un potere di autotutela propriamente inteso (e, quindi, non richiede alcuna
valutazione sull'esistenza di un interesse pubblico attuale e concreto
prevalente sull'interesse del privato), né del potere inibitorio tipizzato dall'art.
19 l. n. 241/1990 (per il quale è previsto il termine perentorio). Si tratta, al
contrario, di un potere che ha diversa natura e che trova il suo fondamento
nell'effetto conformativo del giudicato amministrativo, da cui discende,
appunto, il dovere per l'Amministrazione di determinarsi tenendo conto delle
prescrizioni impartite dal giudice nella motivazione della sentenza”.Ma il
Giudice amministrativo non può ordinare l'esercizio di un potere
normativamente non previsto, per l'ovvio ostacolo che deriva dal principio di
legalità. Dunque, l'ordine di interruzione dell'attività e di eventuale riduzione in
pristino non può che essere ricollegato all'unico potere inibitorio generale
previsto dalla legge e, così, al potere doveroso e vincolato di cui al primo
periodo dell'art. 19 c. 3 L. 241/90.
(43) Statuisce l'art. 41, par. 1, che “attraverso un'azione può essere richiesto
l'annullamento di un atto amministrativo (azione di annullamento) come pure
la condanna alla emanazione di un atto amministrativo rifiutato o omesso
(azione di condanna)”.A sua volta statuisce l'art. 113, par. 5, che “se il rifiuto o
l'omissione dell'atto amministrativo è illegittimo e l'attore viene da questo leso
nei suoi diritti, il tribunale pronuncia l'obbliga per l'autorità amministrativa di
eseguire l'attività amministrativa richiesta, quando la causa è matura per la
decisione. In caso diverso, esso pronuncia l'obbligo di provvedere nei confronti
dell'attore, secondo il punto di vista giuridico del tribunale”.
(44) Sul tema si rinvia a A. Carbone, L'azione di adempimento nel processo
amministrativo, Torino, 2012, 89 ss.
(45) Il che ha implicazioni anche in caso di jus superveniens. Perché, ad
esempio, l'attività oggetto di SCIA non potrà essere considerata illecita, ove sia
sopraggiunta una disciplina che la vieti.Né potrà essere considerata lecita, ove
sopraggiunga una disciplina che la consenta. Ma in questo secondo caso è
difficile concepire l'interesse del terzo, dato che la SCIA potrebbe essere
riproposta, con effetti sostanzialmente sananti.
(46) E ciò tanto più sarà palese, se si reputa — come credo sia doveroso — che
all'azione sul silenzio ex art. 31 c. 3 c.p.c. possa aggiungersi “l'azione di
condanna al rilascio di un provvedimento richiesto” (art. 34, c. 1, lett. c,
c.p.a.).Vero è che il comma 6-ter individua l'azione sul silenzio come
“esclusiva” forma di tutela. Ma all'epoca in cui il comma 6-ter è stato introdotto
mancava ancora un esplicito riconoscimento legislativo di una generale azione
di adempimento (ex art. 34, comma 1, lett. c), che può essere esercitata
“contestualmente ... all'azione avverso il silenzio”: dunque
quell'“esclusivamente”, che troviamo nel comma 6-ter, varrà ad escludere
l'azione di impugnazione, ma non l'azione di condanna al rilascio del
provvedimento richiesto, che, come tale, può riguardare anche un
provvedimento che avrebbe dovuto essere emesso nel passato.
(47) E si tratterebbe di obbiezione da prendere nella massima considerazione:
tant'è che nell'assetto precedente dell'art. 19 avevo proposto ben altra
soluzione, come ho ricordato, proprio per evitare tali difficoltà.
FORME E LIMITI DELLA TUTELA GIURISDIZIONALE CONTRO IL
SILENZIO INADEMPIMENTO Diritto Processuale Amministrativo, fasc.3, 2014, pag. 709
Margherita Ramajoli
Classificazioni: PROCEDIMENTO AMMINISTRATIVO - In genere
Sommario: 1. Ineffettività della tutela sostanziale di tipo sostituitivo e della
tutela processuale di tipo compensativo. — 2. La tutela in forma specifica:
mancato adeguamento della struttura del processo alla sua specifica funzione.
— 3. L'originaria relazione tra procedimento e processo. — 4. L'attuale
latitudine del potere giudiziale. — 5. Il depotenziamento del giudizio attravero
l'utilizzo del rito processuale. — 6. Il ruolo del commissario ad acta nell'irrisolta
dialettica tra potere amministrativo e potere giudiziale.
1. Le recenti novità normative apportate alla disciplina del silenzio non
significativo dalle leggi n. 35/2012, n. 190/2012 e n. 98/2013, nonché dal
d.lgs. n. 160/2012 (secondo correttivo al c.p.a.) conducono nuovamente a
domandarsi se il relativo processo sia idoneo a configurare una tutela
giurisdizionale satisfattiva della pretesa fatta valere. Le novelle confermano
ancora una volta che la disciplina del silenzio non tipizzato fa emergere tutte le
problematicità e le ambiguità insite nella dialettica tra pubblica
amministrazione e giudice amministrativo e, ancor prima, tra diritto sostanziale
e diritto processuale.
Il silenzio della pubblica amministrazione ex art. 2 della legge n. 241/90 è
doppiamente censurabile, in quanto è mancata tutela sia dell'interesse
pubblico sia dell'interesse privato (1).
Il silenzio è contrario anzitutto all'interesse pubblico, in quanto impedisce
l'azione diretta alla sua realizzazione e costituisce quindi una rinuncia
all'individuazione in concreto dell'interesse pubblico e della modalità migliore
per portarlo a soddisfazione. Se si preferisce adottare una prospettiva in parte
differente e con essa anche un linguaggio diverso, il non provvedere entro un
termine prestabilito si pone in contrasto sia con i principi pubblicistici di
doverosità, efficienza e responsabilità dell'amministrazione, sia con il principio,
parimenti pubblicistico, della certezza delle relazioni giuridiche.
Al tempo stesso il silenzio è contrario all'interesse del privato e ciò in un
duplice senso. Anzitutto perché viola l'obbligo di provvedere entro un
determinato termine che grava sulla pubblica amministrazione, il quale
fronteggia una situazione sostanziale del privato che ha una indubbia
consistenza giuridica, indipendentemente dal fatto che la si voglia chiamare
diritto soggettivo o interesse legittimo, anche se l'espressa, ma forse non
sufficientemente vigilata, previsione di un'ipotesi di giurisdizione esclusiva in
materia (art. 133, co. 1, lett. a), n. 3, c.p.a.) rafforza la tesi che si tratti di un
vero e proprio diritto soggettivo. In particolare il silenzio impedisce la
soddisfazione della pretesa del privato all'emanazione di un provvedimento
amministrativo espresso entro un termine prestabilito e quindi non consente al
singolo di conoscere la regola concreta del rapporto giuridico che lo lega
all'amministrazione nel caso concreto (2).
In secondo luogo il silenzio impedisce al privato di ottenere quanto gli spetta
nell'ipotesi in cui egli vanti un interesse qualificato all'emanazione del
provvedimento positivo richiesto. La situazione giuridica del privato nel
momento in cui formula alla pubblica amministrazione una domanda di
provvedimento ampliativo presenta notevoli affinità con quella che il medesimo
ha allorché propone un'azione davanti al giudice. Se l'azione giurisdizionale è
intesa in senso concreto e non astratto, essa è un diritto della parte a una
sentenza favorevole e non solo un diritto a una sentenza di merito che si
presenta favorevole unicamente nell'aspirazione di chi propone l'azione stessa.
Non diversamente il privato che rivolge un'istanza alla pubblica
amministrazione richiede non l'emanazione di un qualsivoglia provvedimento
finale, bensì proprio quell'utilità finale conseguibile all'esito positivo del
procedimento (3).
Dal momento che il silenzio costituisce una grave patologia amministrativa,
che vulnera al tempo stesso interesse pubblico e interesse privato,
l'ordinamento giuridico deve anzitutto creare le condizioni per prevenire la
realizzazione dell'inerzia. Qualora, nonostante ciò, l'inerzia si verifichi
ugualmente, l'ordinamento giuridico deve configurare una o più tutele idonee a
rimediare a questa disfuzione particolarmente critica, fermo restando altresì
che anche ogni reazione svolge sempre una funzione preventiva pro-futuro.
Nel corso del tempo al problema dell'inazione amministrativa sono state date
diverse risposte, provenienti anzitutto dalla giurisprudenza — supportata da
una parte della dottrina — e solo successivamente dal legislatore. Esse sono di
vario tipo e se la tutela del cittadino era originariamente affidata in via
esclusiva a uno specifico strumento processuale ora convivono con tale
strumento soluzioni operanti sul versante di diritto sostanziale, specie ma non
solo sul piano organizzativo, e soluzioni di tipo compensativo.
Il quadro è mutevole e non sempre all'insegna del rafforzamento della tutela
del privato nei confronti del silenzio. L'evoluzione in materia rivela come le
reazioni alla patologia dell'inazione amministrativa siano oggi maggiormente
concentrate su strumenti di tipo sostitutivo, oppure sanzionatorio-disciplinare
in senso lato, o, ancora, risarcitorio-indennitario.
In particolare le riforme attuate nel 2009, 2012 e 2013 hanno stabilito che la
mancata o tardiva emanazione del provvedimento è elemento di valutazione
della performance individuale e di responsabilità disciplinare e amministrativocontabile del dirigente e del funzionario inadempiente (art. 2, co. 9, della l.
241/90), che in caso di inerzia subentra il potere sostitutivo del “responsabile”
individuato, nell'ambito delle figure apicali dell'amministrazione, dall'“organo di
governo” (art. 2, co. 9bis), il quale dovrà entro un termine dimezzato rispetto
a quello originariamente previsto concludere il procedimento “attraverso le
strutture competenti o con la nomina di un commissario” (art. 2, co. 9ter), che
l'inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento fa
sorgere un obbligo di risarcimento del danno ingiusto cagionato (art. 2bis, co.
1) e che in caso di inosservanza del termine di conclusione del procedimento
ad istanza di parte il soggetto ha diritto di ottenere “un indennizzo per il mero
ritardo” (art. 2bis, co. 1bis).
Tuttavia le misure compensative risentono della mentalità del giudice
amministrativo non facilmente propensa a elargire la tutela risarcitoria, la
quale consiste comunque in una tutela non in forma specifica, bensì per
equivalente, o, se si preferisce, una tutela di tipo secondario (4).
I rimedi indennitari presentano poi rispetto ai rimedi risarcitori un ancora più
pronunciato carattere di succedaneità rispetto alla tutela in forma specifica,
con l'aggravante che essi sono oltrettutto concepiti dal legislatore in maniera
più programmatica che reale (5).
Inoltre, anche se l'azione risarcitoria è proponibile in via autonoma ai sensi
dell'art. 30 c.p.a., tuttavia, come è noto, in generale si tende a condizionare il
risarcimento del danno alla previa esperibilità dell'azione avverso il silenzio, la
quale in questa maniera si conferma come centrale ai fini della tutela del
privato (6).
Per quanto attiene poi alle misure sostitutive, esse non sono una novità nel
nostro ordinamento, che da tempo ha previsto nelle relazioni sia
intersoggettive sia interorganiche la nomina di un commissario nell'ipotesi di
gravi inerzie nel provvedere. Tali misure, pur essendo essenzialmente rimedi di
tipo interno all'amministrazione inadempiente, presentano assonanze con il
meccanismo esecutivo surrogatorio attuato tramite nomina del commissario ad
acta da parte del giudice amministrativo, sul quale ci si intratterrà in seguito,
nonché con lo spostamento di competenza tipico del regime dei ricorsi
gerarchici amministrativi, anche se qui non rileva tanto il profilo della
supremazia quanto piuttosto quello della vicinanza nella relazione
organizzativa rispetto al soggetto sostituito (7).
Le attualmente generalizzate misure sostitutive non sono però delineate in
modo sufficientemente preciso dai frammentari e continui interventi normativi
e non risultano ben armonizzate con la disciplina pregressa. La previsione di
una sorta di commissario interno realizza un'inefficace concorrenza di
competenze tra soggetti in seno alla medesima pubblica amministrazione, in
quanto l'infelice formulazione del co. 9 ter dell'art. 2 della legge 241/90
impedisce di comprendere se, decorso il termine per la conclusione del
procedimento, il soggetto originario mantenga il potere di provvedere, in base
al principio dell'inesauribilità del potere amministrativo in capo al soggetto
originariamente procedente, oppure tale potere sia da intendersi come
trasferito in via esclusiva al titolare del potere sostitutivo, secondo i principi
generali in materia di sostituzione amministrativa.
Inoltre il rimedio sostitutorio rischia di creare un ulteriore onere, di tipo
procedimentale, in capo al privato desideroso di tutela, dal momento che è
presumibile che la giurisprudenza verrà a concepire la facoltà di sollecitare il
potere amministrativo sostitutivo quale “ordinaria diligenza” richiesta ex art.
30 c.p.a. al fine di ottenimento del risarcimento del danno da ritardo; del
resto, il legislatore già richiede che per ottenere l'indennizzo da ritardo
“l'istante (sia) tenuto ad azionare il potere sostitutivo” (art. 28, co. 2, d.l.
69/2013) (8).
Ma, al di là di queste specifiche considerazioni critiche, la presenza della
menzionata congerie di rimedi di vario genere avverso il silenzio contribuisce a
svuotare di senso e di contenuto la tutela di tipo giurisdizionale in forma
specifica, come se il processo amministrativo non fosse in grado di assolvere la
sua funzione di garanzia della situazione giuridica soggettiva violata.
2. Se si ha riguardo alla specifica tutela giurisdizionale avverso il silenzio si
avverte la mancanza di una sufficiente riflessione processualistica per
controbilanciare la condizionante forma impugnatoria troppo rigida del
processo amministrativo. In particolare ha fatto difetto un approfondimento nel
momento fondativo chiave della moderna giustizia amministrativa ovvero nel
passaggio da un giudizio oggettivo a un giudizio soggettivo, perché ci si è
accontentati di postulare che la funzione del processo fosse la tutela di
situazioni giuridiche soggettive e non tanto l'oggettiva verifica dell'illegittimità
del provvedimento amministrativo, senza capire che contemporaneamente si
sarebbe dovuto adeguare la struttura del processo alla sua funzione (9).
In questa maniera la struttura del processo amministrativo ha continuato a
restare quella propria di un giudizio oggettivo finendo per frustrare la capacità
del processo di soddisfare i differenti bisogni di tutela giurisdizionale, ovvero di
adempiere alla sua precipua funzione. Questo è particolarmente evidente in
materia di silenzio inadempimento, dove l'adeguamento del processo al
bisogno di tutela giurisdizionale si trova comunque a fare i conti con un dato
irrisolto e irrisolvibile, ossia la circostanza che la situazione fatta valere sul
piano processuale non ha avuto alcuna definizione sul piano del diritto
sostanziale. Questa mancata definizione sul piano sostanziale della relazione
intercorrente tra le parti è una dis-funzione imputabile unicamente
all'amministrazione parte resistente, ma al tempo stesso è in grado di mettere
in crisi il tradizionale postulato della strumentalità del processo rispetto al
diritto sostanziale qualora al primo si intenda assegnare una funzione non
meramente formale (10).
Dal momento che ancora oggi la tutela giurisdizionale è modellata
essenzialmente mediante la predisposizione di un sindacato di legittimità
sull'attività compiuta, la tutela del privato cui è impedito il raggiungimento del
bene finale della vita cui aspira è pienamente garantita solo e unicamente nel
caso di attività provvedimentale espressa: mentre il sindacato nei confronti del
provvedimento negativo da tempo (anche prima delle recenti modifiche
processuali introduttive di un'azione di adempimento, su cui ci si intratterrà
oltre) è consentito dal filtro dato dai vizi di legittimità nei riguardi di tale
provvedimento (11), il silenzio invece è un fatto inespressivo inidoneo a
essere valutato come legittimo o illegittimo, strutturalmente incapace di aprire
la strada a una reale tutela giurisdizionale che non si limiti ad accertare un già
di per sé chiaro inadempimento.
La critica alla struttura del processo va qui intesa in senso ampio, come tale
comprensiva del rito processuale. Infatti nel giudizio avverso il silenzio anche
l'introduzione di un rito speciale è divenuta strumento di diminuzione della
tutela giurisdizionale: la specialità del rito è stato invocata per giustificare una
cognizione limitata del giudice, con un cortocircuito tra accertamento della
fondatezza della pretesa e carattere accelerato e semplificato del rito
processuale.
La previsione di riti speciali nel processo amministrativo trae alimento da due
distinte istanze: la celerità, che conduce alla creazione di una mera procedura
speciale di svolgimento del giudizio, e l'effettività della tutela, che spinge il
legislatore a introdurre strumenti speciali di tutela, caratterizzati non soltanto
da una forma specifica, ma anche da particolari poteri di cognizione e di
decisione del giudice. Nel caso di rito in materia di silenzio, come si avrà modo
di verificare, la specialità porta semplicemente a un'accelerazione dei tempi del
giudizio e, di contro, impedisce un adeguamento dello strumento processuale
allo specifico bisogno di tutela, anzi diminuisce l'effettività della tutela stessa.
Questo deficit di tutela giurisdizionale avverso il silenzio della pubblica
amministrazione non è però solo dovuto a un mancato adeguamento della
struttura e del rito processuale alla sua specifica funzione di tutela, ma nasce
anzitutto da precise opzioni di diritto sostanziale. Il nostro legislatore ha
evitato di intervenire sull'unico profilo di diritto sostanziale che avrebbe
assicurato al privato un'adeguata tutela avverso il silenzio, non introducendo
termini procedimentali perentori per l'amministrazione. Nel silenzio normativo
tutta la giurisprudenza, anche quella costituzionale, ha sempre avversato
un'interpretazione dei termini nel senso della perentorietà, “perché la
cessazione della potestà, derivante dal protrarsi del procedimento, potrebbe
nuocere all'interesse pubblico alla cui cura quest'ultimo è preordinato, con
evidente pregiudizio della collettività” (12).
Ritenere che l'inutile decorso del tempo non determini mai la decadenza dal
potere in ragione dell'esistenza di un pubblico interesse porta a dimenticare
che anche la certezza dei rapporti giuridici, attraverso la delimitazione nel
tempo della possibilità di produrre una modificazione giuridica, è parimenti un
interesse pubblico da tutelare. Attraverso previsioni di decadenza il legislatore
“fissa il punto oltre il quale l'interesse del titolare del potere a procedere
all'esercizio di questo nel tempo preferito cede all'interesse pubblico di non
lasciare illimitata nel tempo la possibilità di attuare la modificazione giuridica
corrispondente” (13).
La rilevanza della certezza dei rapporti giuridici assume particolare pregnanza
nel caso dei procedimenti a istanza di parte. Infatti la consapevolezza che in
essi l'amministrazione mira a verificare la compatibilità dell'interesse di cui è
portatore il privato con l'interesse pubblico, che in questo contesto funge solo
da limite all'attività privata, ha portato il legislatore a circoscrivere il paradigma
fondato sulla centralità del provvedimento amministrativo, mettendo in crisi la
raffigurazione del potere amministrativo come necessario e inesauribile, specie
in virtù dell'istituto della segnalazione certificata d'inizio attività. Ma la
riflessione in materia di silenzio pare slegata rispetto a questa più generale
trasformazione del potere amministrativo, portandosi dietro alcune vischiosità
della precedente versione autoritativa nella relazione tra amministrazione e
privato.
L'interpretazione del termine di conclusione del procedimento amministrativo
come termine meramente acceleratorio od ordinatorio determina la
conseguenza per cui il provvedimento tardivamente emanato non può essere
considerato di per sé illegittimo. Il ritardo non è “un vizio in sé dell'atto”
sopravvenuto, ma è solo un presupposto che può determinare, in concorso con
altre condizioni, alcune forme di tutela, prima tra tutte la già evidenziata tutela
risarcitoria (14).
In questa maniera tutta la complessiva disciplina è all'insegna di una mancata
chiara cesura tra procedimento amministrativo e processo amministrativo, in
quanto il primo non si esaurisce mai ed è in grado di sovrapporsi al secondo,
doppiandolo e rendendolo inutile (15).
Abbracciata questa logica sfugge il senso ultimo del processo il quale si adatta
all'amministrazione e non alla richiesta di tutela giurisdizionale nel caso in cui
l'amministrazione decida nel corso del giudizio di esercitare il suo potere
perenne emanando un provvedimento tardivo: anche nel caso di silenzio il
processo deve essere necessariamente e paradossalmente successivo rispetto
a un provvedimento amministrativo.
Ma, come si avrà cura di dimostrare, nel corso del tempo (e dello spazio, se si
ha riguardo alla disciplina oltre i confini nazionali) la relazione tra procedimento
e processo non ha assunto sempre questi contorni così penalizzanti per
l'effettività della tutela processuale.
3. Come è noto, la problematica del silenzio è emersa in seno alla giustizia
amministrativa ed è merito della giurisprudenza avere creato ex novo
un'azione avverso l'inerzia. Tutte le soluzioni di carattere processuale hanno
tratto alimento da esigenze di giustizia sostanziale. Infatti sia la costruzione del
silenzio come provvedimento negativo (tacitamente manifestato o presunto),
sia la configurazione del silenzio come mero fatto nascono a fini processuali,
allo scopo di consentire a colui che è leso dall'inerzia l'accesso alla via
giurisdizionale, essenzialmente incentrata su una tutela di tipo impugnatorio.
Tuttavia
la
tutela
giurisdizionale
configurata
in
origine,
fondata
sull'interpretazione del silenzio come atto tacito o presunto, risultava
maggiormente piena ed effettiva di quella attuale, la quale s'inserisce di contro
e in maniera paradossale in un contesto più moderno e paritario quanto ai
rapporti, sostanziali e processuali, tra amministrazione e privati.
L'attuale contesto è in generale qualificato da una disciplina processuale
improntata
alla
tutela
del
bene
della
vita
esposto
all'azione
dell'amministrazione, piuttosto che al sindacato degli atti che promanano da
quest'ultima e, più nello specifico, per quanto qui rileva, è caratterizzato dal
fatto vuoi che il tempo del decidere non è più una componente della
discrezionalità amministrativa stante il riconoscimento normativo del dovere di
provvedere con un conseguente tramonto dell'antica discrezionalità nel
quando, vuoi che vari istituti di carattere generale, come il silenzio assenso e
la s.c.i.a., si fondano sulla sottoposizione a decadenza del potere
amministrativo conformativo dell'esercizio di diritti soggettivi dei privati.
Nonostante questa evoluzione di fondo nella dinamica tra privatoamministrazione-giudice, la tutela giurisdizionale offerta in passato al soggetto
leso dal silenzio della pubblica amministrazione è idonea a configurarsi come
maggiormente sattisfattiva rispetto all'attuale.
Originariamente il non esercizio del potere di decisione era considerato esso
stesso come un modo di esercizio e quindi di consumazione del potere.
Notevoli le assonanze che tale ricostruzione del silenzio non tipizzato presenta
sia con una certa interpretazione della disciplina dei ricorsi gerarchici, sia con
la disciplina vigente nell'ordinamento francese, che prevede tramite una norma
generale che il silenzio mantenuto dall'amministrazione su un'istanza del
privato equivalga a una decisione di rigetto, tranne espresse eccezioni in cui il
silenzio serbato su una domanda del privato equivale ad assenso, sia con la
disciplina austriaca, in cui la violazione dell'obbligo di provvedere comporta
come sanzione la perdita del potere di decidere (16).
La giurisprudenza, finché concepiva il silenzio come esternazione e presunzione
di provvedimento (negativo), finiva con il ritenere, da un lato, che il silenzio
dell'amministrazione potesse costituire l'esito finale del procedimento e fosse
idoneo ad estinguere l'obbligo di provvedere, dall'altro, che l'oggetto del
giudizio sul silenzio non fosse solo e tanto l'obbligo di provvedere, bensì la
legittimità del provvedimento negativo, con la conseguenza che il giudicato
“veniva a coprire il modo del provvedere (oltre che l'obbligo di farlo)” (17).
In tal modo il controllo giurisdizionale si estendeva normalmente al merito
della controversia, il processo era caratterizzato da un'istruttoria vera e
propria, l'amministrazione resistente nel corso del giudizio era tenuta a far
valere i motivi sostanziali a giustificazione del proprio diniego tacito, e, infine,
in taluni casi il giudice giungeva a formulare la regola giuridica vincolante per il
caso concreto (18).
Nell'ipotesi in cui l'amministrazione avesse emanato un diniego tardivo esplicito
il ricorrente poteva proporre contro di esso motivi aggiunti, con la conseguenza
che il giudizio avverso il silenzio “assorbiva” il giudizio contro il diniego
espresso sopravvenuto.
È la stessa giurisprudenza a parlare di “assorbimento del ricorso”, esprimendo
la consapevolezza che nell'azione avverso il silenzio è fatto valere lo stesso
bisogno di tutela giurisdizionale che si manifesta nell'impugnazione del diniego
esplicito: “la posizione del ricorrente, quanto all'interesse, permane identica,
persistendo la sua pretesa di ottenere ciò che l'amministrazione gli ha negato,
prima implicitamente poi esplicitamente”. In questa maniera si valorizzava
l'esigenza di connessione, ossia l'esigenza di concentrare i poteri di cognizione
del giudice intorno a un'unitaria vicenda giuridica (19).
Tuttavia la ricostruzione del silenzio sottostante a questo complessivo quadro è
stata criticata e il rilievo principale ha riguardato il fatto che l'interpretazione
del silenzio come elemento in grado di chiudere la vicenda procedimentale mal
si concilierebbe con la cd. riserva di amministrazione e con il conseguente
divieto di sostituzione del giudice alla pubblica amministrazione nelle ipotesi in
cui si faccia questione dell'esercizio di poteri da parte dell'autorità.
Come si legge nella relazione di accompagnamento al primo tentativo, poi
fallito, di disciplina normativa del silenzio, pur riconoscendosi la “opportunità”
di “concedere ricorso alla giurisdizione amministrativa anche nel merito”, era
preferibile “non poter sottoporre l'amministrazione attiva ad una così grave
limitazione nello svolgimento della sua attività, limitazione che avrebbe avuto
come conseguenza la sostituzione frequente del giudice amministrativo nella
stessa determinazione del contenuto dell'atto” (20). Altrettanto chiara la
giurisprudenza, che con la decisione dell'Adunanza plenaria n. 8 del 1960,
precisa che il giudice “può accertare l'illegittimità dell'omissione, ma non può
sostituirsi all'amministrazione nel determinare il contenuto dell'atto”,
trattandosi di “valutazioni riservate all'autorità amministrativa”, e che
comunque “la pretesa, dedotta in sede giurisdizionale dal ricorrente, è rivolta
ad ottenere l'emanazione d'un atto che definisca per la prima volta il
rapporto” (21).
In realtà, come sopra osservato, alla base dell'interpretazione del silenzio
come provvedimento tacito o presunto vi era l'idea, fortemente garantista per
il privato, secondo cui il silenzio potesse costituire l'esito finale del
procedimento e quindi estinguesse il potere di intervento dell'amministrazione,
che non era affatto perenne. Quindi accedendo a tale interpretazione nessun
problema di sostituzione tra poteri, amministrativo e giurisdizionale, si poneva,
dal momento che il potere amministrativo si era già esaurito.
Il successivo accoglimento della concezione del silenzio come mero fatto o
come comportamento e quindi come presupposto processuale per la
proposizione del ricorso ha determinato l'abbandono dell'idea della perdita per
l'amministrazione del potere di decidere come sanzione avverso silenzio e di
conseguenza ha portato con sé anche una diversa configurazione delle forme e
dei modi della tutela giurisdizionale. In realtà non è possibile ricostruire un
quadro processuale unitario, specie a causa di continui interventi normativi e
successivi provvedimenti giurisprudenziali modificativi-correttivi dei primi (22).
Tale quadro ha oscillato tra una tendenza, minoritaria, propensa come in
passato ad ammettere in generale l'accertamento autonomo da parte del
giudice dei fatti che stanno alla base della pretesa del ricorrente, una tendenza
invece volta a estendere l'oggetto del giudizio alla valutazione della fondatezza
della pretesa sostanziale del ricorrente nel solo caso di attività vincolata
dell'amministrazione e infine una tendenza favorevole a configurare l'azione
sempre come dichiarativa e il giudizio avverso il silenzio come mero
accertamento dell'obbligo di provvedere.
4. Attualmente la latitudine del potere giudiziale è tracciata nel c.p.a. dagli
artt. 31 e 117. Le disposizioni prevedono due distinte azioni avverso il silenzio,
o meglio, due distinti possibili esiti del giudizio nei confronti del silenzio, con
una tecnica normativa che difetta di quella simmetria, di quella compattezza e
di quella linealità che sarebbero state invece opportune in sede di
codificazione; questa carenza è dovuta sia ai noti rimaneggiamenti che ha
conosciuto la tematica delle azioni nel sistema codicistico, sia alla
stratificazione normativa dei diversi modelli processuali in materia di silenzio a
far data dall'art. 21bis della legge Tar.
Il codice, stabilendo che “chi vi ha interesse può chiedere l'accertamento
dell'obbligo dell'amministrazione di provvedere”, contempla un'azione
dichiarativa promovibile dal privato sempre e in ogni caso. Ma siffatto “ordine
all'amministrazione di provvedere” entro un dato termine può assumere un
contenuto più specifico, essendo altresì configurata una sentenza di condanna
all'adozione dell'atto amministrativo richiesto pronunciabile dal giudice al
ricorrere di determinati presupposti (“il giudice può pronunciare sulla
fondatezza della pretesa dedotta in giudizio solo quando si tratta di attività
vincolata o quando risulta che non residuano ulteriori margini di esercizio della
discrezionalità e non sono necessari adempimenti istruttori che debbano essere
compiuti dall'amministrazione”); con l'ulteriore precisazione, dovuta al nuovo
testo dell'art. 34, lett. c, risultante dal secondo correttivo al c.p.a., per cui la
suddetta azione di adempimento è esercitata, al ricorrere dei citati
presupposti, sempre contestualmente all'azione avverso il silenzio (23).
L'esito ultimo del combinato disposto codicistico è una disciplina ambivalente,
non chiara sui caratteri e sui presupposti dei rimedi da adottare contro il
silenzio dell'amministrazione, nonché sul rapporto intercorrente tra i medesimi,
che hanno alla base modelli alternativi di tutela, frutto di sovrapposizioni
successive.
L'alternativa, quanto a sattisfatività e pienezza della tutela, tra azione di mero
accertamento e azione di condanna al rilascio del provvedimento richiesto era
già stata tracciata con efficacia da Cannada Bartoli, che aveva posto il quesito
se il giudice dovesse decidere i ricorsi in materia “soltanto controllando il
calendario, per dichiarare che, scaduti i termini, bisognava e bisognerà
provvedere” oppure valutando “la fondatezza (o infondatezza) della
domanda” (24).
Vero è che nulla vieta che il privato proponga l'azione avverso il silenzio al solo
fine di ottenere una pronuncia dichiarativa dell'obbligo di provvedere e non la
cognizione dell'esatta regolazione della sostanza del rapporto. Ciò corrisponde
alla duplicità insita nella situazione giuridica soggettiva fatta valere in giudizio,
che si articola al suo interno nella pretesa all'adozione di un espresso atto
amministrativo entro un dato termine e nella pretesa all'adozione dell'atto
positivo richiesto. Infatti al fine di conoscere la fondatezza nel merito della
pretesa del ricorrente occorre sempre un'esplicita domanda di parte, in
applicazione dei principi processuali generali e ora ai sensi del combinato
disposto dell'art. 112 c.p.c. e dell'art. 39 c.p.a., per cui i poteri cognitori del
giudice sono delimitati dal ricorso.
Ma l'evenienza più frequente è quella per cui attraverso l'azione avverso il
silenzio si chiede la valutazione della fondatezza della pretesa. Solitamente
infatti il ricorso contro il silenzio esprime, da un lato, il “diritto a conoscere”,
ossia il diritto a una risposta negativa controllabile (petitum immediato),
dall'altro, l'interesse al bene della vita non conseguibile se non in virtù di
positive determinazioni del titolare del potere pubblico (petitum mediato),
configurandosi una sorta di cumulo tra domande secondo un rapporto di
continenza (25).
Nel caso in cui al privato interessi l'accertamento della sua pretesa sostanziale
il principio della domanda si scontra anzitutto con le condizioni richieste dal
codice al fine di ottenere “misure idonee a tutelare la situazione giuridica
soggettiva dedotta in giudizio”, per utilizzare l'espressione impiegata dall'art.
34, co. 1, lett. c, nel trattacciare i possibili contenuti delle sentenze di merito.
Infatti, come sopra osservato, ai sensi dell'art. 31, co. 3, l'azione di
adempimento è esperibile unicamente nel caso di richiesta di provvedimenti a
presupposto vincolato oppure semivincolato. Ma il concreto campo di
applicazione dell'azione così configurata è quasi inesistente.
Si consideri dapprima l'attività vincolata. Anzitutto, va rammentato che nel
caso di procedimenti non discrezionali o a basso tasso di discrezionalità, che
richiedono all'amministrazione la mera verifica del possesso di determinati
requisiti in capo al richiedente, il legislatore è solito optare per il meccanismo
del silenzio assenso o della s.c.i.a., anziché per l'adozione di un provvedimento
espresso. Di conseguenza, è presumibile ritenere che le ipotesi in cui vale il
silenzio
inadempimento
siano
quelle
maggiormente
connotate
da
discrezionalità amministrativa. Ma se rari sono i casi in cui si richiede
all'amministrazione un provvedimento espresso il cui rilascio è meramente
condizionato dalla sussistenza di presupposti rigidi, altrettanto raramente il
giudice sarà titolare del potere di valutare l'esistenza di siffatti presupposti (26).
Inoltre, se il provvedimento richiesto comporta l'esercizio di attività
amministrativa vincolata, in cui ogni apprezzamento d'interesse è precluso
all'amministrazione, il privato richiedente è titolare di un diritto soggettivo,
come nel caso di una delle pochissime pronunce successive alla disciplina
codicistica in cui è stata riconosciuta la fondatezza della pretesa fatta valere in
giudizio (27).
A questo punto però lo spazio concretamente riservato all'azione di
adempimento avverso il silenzio diviene quasi inesistente, perché, salvo le
eccezionali ipotesi di cognizione esclusiva del giudice amministrativo, i diritti
soggettivi sono sempre devoluti alla giurisdizione ordinaria, ove, tra l'altro, è
del tutto pacifico che il giudice “può decidere direttamente la questione,
avvalendosi dei poteri istruttori che gli competono” (28).
Ma l'accertamento della fondatezza della pretesa non è limitato dal legislatore
alla sola ipotesi d'attività amministrativa vincolata, potendo alternativamente
venire in rilievo l'ipotesi d'attività amministrativa in relazione alla quale siano
esauriti margini d'esercizio della discrezionalità e non siano necessari
adempimenti istruttori riservati all'amministrazione.
Nell'ordinamento processuale tedesco, che con i suoi §§ 42 e 113, co. 5, VwGO
ha costituito l'indubbio termine di riferimento per il nostro legislatore, si
adopera l'espressione “questione matura per la decisione” quale condizione per
l'insorgere del potere giudiziale all'adozione del provvedimento richiesto (29).
Tuttavia dalla scarna lettera della legge non risulta con chiarezza se la maturità
della questione ai fini della decisione e quindi l'esaurimento dei margini di
discrezionalità (presumibilmente tecnica) della pubblica amministrazione possa
verificarsi solo in sede procedimentale oppure anche in sede processuale per
effetto del giudizio in corso.
Gioca qui la tradizionale ritrosia del giudice amministrativo a compiere un
autonomo accertamento dei fatti, a nominare un consulente tecnico d'ufficio, a
invitare l'amministrazione ad esporre le eventuali non esplicitate ragioni
ostative al rilascio del provvedimento richiesto dal ricorrente, a riesaminare il
comportamento dell'amministrazione sotto il profilo dei motivi che hanno
determinato
il
silenzio
palesati
dalla
documentazione
fornita
dall'amministrazione stessa (30).
Sullo sfondo della problematica domina il limite del divieto di sostituzione
all'amministrazione da parte del giudice, interpretato in maniera rigida dalla
giurisprudenza stessa, al punto che anche nel caso di risultanze istruttorie già
integralmente acquisite al procedimento amministrativo e preludio di un
provvedimento favorevole l'esito della sentenza avverso il silenzio tende a
risolversi nell'ordine all'amministrazione di provvedere sull'istanza richiesta,
senza giungere a prefigurare oppure a ordinare il rilascio del provvedimento
stesso (31).
Ma il confine invalicabile della riserva non deve essere preso a pretesto per
rimuovere il fatto che esistono “segmenti di conoscenza” che non invadono la
sfera riservata di attribuzioni dell'amministrazione, quali l'individuazione e
l'interpretazione delle norme giuridiche applicabili alla pretesa sostanziale del
ricorrente oppure l'identificazione dello stato in cui il procedimento
amministrativo è giunto, o, ancora, la verifica degli elementi fattuali della
fattispecie (32).
5. In questo contesto problematico anche il rito speciale (o, meglio,
l'interpretazione data al rito speciale) contribuisce a ostacolare l'adeguamento
della struttura del processo alla sua funzione e quindi la soddisfazione del
diritto del ricorrente a un reale rimedio.
Fin dal suo primo comparire, (art. 21bis della legge Tar, come introdotto dalla
l. n. 205/2000) il rito speciale avverso il silenzio si configura come rito
semplificato e accelerato il cui obiettivo è fornire una rapida pronuncia
immediatamente esecutiva che, in caso di accoglimento del ricorso, obblighi
l'amministrazione a provvedere sulla domanda originariamente proposta dal
privato con possibilità di nomina di un commissario ad acta solo in caso di
perdurante inadempienza. Quindi l'originario intento del legislatore era solo
quello di indurre l'amministrazione a esprimersi sollecitamente sull'istanza del
privato.
Ma tale rito elementare, inizialmente concepito in via esclusiva per un giudizio
di mero accertamento dell'obbligo di provvedere, non è cambiato una volta
che, a far data dalla novella del 2005 (art. 2, co. 5, della l. n. 241/90, come
introdotto dal d.l. n. 35/2005, conv. in l. n. 80/2005), è stato espressamente
riconosciuto anche il potere giudiziale di pronunciarsi sulla fondatezza della
pretesa avanzata dal privato.
A questo punto è dato registrare un anomalo fenomeno di ribaltamento tra
causa ed effetto, per cui mentre si è soliti affermare che il rito processuale è
forgiato in base al bisogno di tutela richiesta (33), qui in realtà il rito
processuale diviene in grado di condizionare la misura della tutela
giurisdizionale, che si esaurisce esclusivamente in una sentenza dichiarativa
dell'obbligo di provvedere che nulla dice o impone in ordine al contenuto del
provvedimento da adottare.
Nelle argomentazioni giurisprudenziali l'esistenza di un rito speciale assurge a
ragione giustificatrice del mancato sindacato sul merito della domanda, in virtù
dell'equazione semplicità del rito/limitatezza della cognizione.
La giurisprudenza sostiene che un rito speciale camerale, connotato da
particolare celerità e da concludersi con una sentenza in forma semplificata,
impedisca di per sé un'istruttoria processuale. Il potere del giudice di
pronunciarsi sulla fondatezza della pretesa fatta valere è ritenuto
espressamente “in contrasto ... con la natura semplificata del giudizio sul
silenzio e della decisione che deve definirlo, e che deve essere succitamente
motivata” (34). Si afferma che “rimane il fatto che il giudizio sul silenzio ha
pur sempre carattere semplificato, sicché, ove siano necessari complessi
accertamenti istruttori, il Giudice non può che limitarsi a verificare l'esistenza
di un obbligo di provvedere” (35), non essendo le valutazioni tecniche
surrogabili in sede giurisdizionale, “siccome corrispondenti ad attività
procedimentali (ad es., acquisizione di pareri o nulla osta da parte di organi
all'uopo preposti ovvero instaurazione del contraddittorio con l'interessato) mai
svolte dall'amministrazione” (36).
La dottrina più avvertita ha criticato questo monolitico orientamento,
evidenziando che l'unica differenza sostanziale tra il rito speciale avverso il
silenzio e il rito ordinario sta nella pubblicità e nella scansione temporale e non
certo nell'ampiezza della cognizione. Nessun ostacolo deriverebbe dal rito
all'accertamento completo della fondatezza della pretesa (37).
Nella bozza originale del c.p.a. è possibile cogliere un tentativo di porre freno
al depotenziamento del giudizio attraverso l'utilizzo del rito, o, se si preferisce,
è possibile cogliere la presa d'atto normativa che le resistenze pretorie
all'accertamento completo della fondatezza della pretesa si appuntavano
sull'esistenza di un rito speciale, che pertanto andava abbandonato. Infatti
l'originario articolato codicistico prevedeva che nell'ipotesi in cui fosse stato
chiesto l'accertamento della fondatezza della pretesa, il giudice aveva il potere
di “disporre, anche su istanza di parte, la conversione del rito camerale in rito
ordinario”; in tal caso egli avrebbe dovuto fissare l'udienza pubblica per la
discussione del ricorso. Si precisava poi la conversione del rito era facoltativa
ed era rimessa alla valutazione del giudice; infatti, ove la fondatezza della
pretesa fosse stata insussistente, sarebbe stato superfluo convertire il rito.
Ma la versione definitiva del codice non contempla più questa ipotesi di
conversione facoltativa in rito ordinario che avrebbe eliminato un'ostacolo alla
soddisfazione della pretesa fatta valere in giudizio, avendo così perso
l'occasione di adeguare alla sostanza del processo la forma del medesimo,
come risultante dalla restrittiva interpretazione giurisprudenziale.
In più il codice, nel regolamentare il rito speciale avverso il silenzio, risulta
meno analitico rispetto al suo precedente e cioè all'art. 21bis della legge Tar.
Dal combinato disposto dell'art. 87, che regola in generale i procedimenti in
camera di consiglio, e dell'art. 117, emerge una disciplina eccessivamente
concisa, che si limita solamente a prevedere il dimezzamento dei termini
processuali, tranne di quelli per la notificazione del ricorso introduttivo, del
ricorso incidentale e dei motivi aggiunti; la fissazione d'ufficio della camera di
consiglio alla prima udienza utile successiva al trentesimo giorno decorrente
dalla scadenza del termine di costituzione delle parti intimate, con la possibilità
di sentire i difensori che ne fanno richiesta; la decisione con sentenza in forma
semplificata. L'omissione più vistosa riguarda il profilo probatorio,
espressamente previsto dalla pregressa disciplina, la quale contemplava
l'ipotesi che il collegio avesse disposto un'istruttoria, con la conseguenza che il
ricorso fosse deciso in camera di consiglio entro trenta giorni dalla data fissata
per gli adempimenti istruttori (art. 21bis, co. 1, legge Tar).
Attualmente invece manca nel rito contro il silenzio la previsione di
un'istruttoria di approfondimento probatorio, necessaria laddove la pronuncia
non si voglia ridurre al mero accertamento dell'inadempimento all'obbligo di
provvedere. Se ne ricava l'impressione che il rito speciale venga sempre più
scarnificato dal legislatore, allo scopo di garantire sì una tutela immediata, ma
non piena della pretesa fatta valere.
L'idea che l'accertamento della pretesa mal si concili con un rito speciale
emerge altresì dalla disciplina del cumulo dell'azione avverso il silenzio con
l'azione di risarcimento, cumulo ora ammesso in via normativa, venendosi così
a superare le preesistenti resistenze giurisprudenziali. Ai sensi dell'art. 117, co.
6, c.p.a., nel caso in cui l'azione di risarcimento del danno da ritardo sia
proposta congiuntamente a quella avverso il silenzio il giudice ha il potere di
definire con il rito speciale quest'ultima e fissare l'udienza pubblica per la
trattazione con rito ordinario dell'azione risarcitoria. Questo perché, per usare
le parole della giurisprudenza, il rito speciale sul silenzio è concepito come
“tendenzialmente incompatibile” con le controversie che hanno un oggetto
diverso rispetto alla statuizione in merito all'accertamento dell'inadempimento
dell'amministrazione (38).
Oltrettutto questa tendenziale incompatibilità risulta per il ricorrente
penalizzante anche sotto il profilo della tutela risarcitoria. Come è noto, la
giurisprudenza maggioritaria è restia a riconoscere il danno da mero ritardo nel
provvedere e limita il risarcimento alle ipotesi in cui, oltre all'elemento
soggettivo del dolo o della colpa e alla prova del pregiudizio subito,
l'interessato dimostri la fondatezza della pretesa sostanziale (39). Siffatto
orientamento unito alla non obbligatorietà della trattazione della questione
risarcitoria nelle forme ordinarie conduce la giurisprudenza a negare il
risarcimento proprio in ragione del rito speciale, inteso come impeditivo di una
cognizione completa della fattispcie: “osta all'accoglimento della domanda
risarcitoria il fatto che occorre ancora esperire una fase istruttoria più o meno
complessa demandata ad un accertamento autonomo e distinto della p.a.,
senza potersi escludere in toto l'emersione di elementi suscettibili di
apprezzamento discrezionale” (40).
Sicuramente più garantista per il privato è l'attuale disciplina codicistica di un
diverso tipo di cumulo, quello tra azione avverso il silenzio e azione
d'annullamento del provvedimento sopravvenuto. In passato, nel silenzio del
legislatore, la giurisprudenza maggioritaria sosteneva che l'atto amministrativo
emanato in pendenza del giudizio avverso il silenzio determinasse la
cessazione della materia del contendere, mentre proprio in ragione della
specialità del rito processuale non era reputato utilizzabile l'istituto dei motivi
aggiunti, dovendo così il privato intraprendere un nuovo distinto giudizio al fine
di domandare l'annullamento dell'atto sopravvenuto.
In questa visione dominava ancora l'idea della tutela giurisdizionale garantita
solo e unicamente nel caso di attività provvedimentale, nonché l'idea della
specialità del rito intesa come limite alla tutela elargita. Emblematiche a tal
proposito, da un lato, l'affermazione contenuta in una pronuncia che, nel
ritenere inammissibile l'impugnativa tramite motivi aggiunti di un
provvedimento di cui era stata acquisita la conoscenza in pendenza del ricorso
avverso il silenzio, precisava che nel giudizio contro il silenzio, “mancando il
provvedimento, non si è ancora prodotta una vera lesione di posizioni
soggettive” (41); dall'altro, la frequente invocazione del rito speciale,
nettamente differenziato dal rito ordinario, come tale inconciliabile con una
definizione di merito della controversia (42).
Ora invece l'art. 117, co. 5, c.p.a., stabilisce che se nel corso del giudizio
sopravviene il provvedimento espresso, oppure un atto connesso con l'oggetto
della controversia, esso è impugnabile anche con i motivi aggiunti, nei termini
e con il rito previsto per il provvedimento espresso e l'intero giudizio prosegue
con tale rito. Con la conversione obbligatoria del rito speciale in rito ordinario
nel caso di atto tardivo si vengono a valorizzare le esigenze alla base del
simultanues processus e una corretta concezione dei rapporti tra procedimento
e processo.
Tuttavia, nel caso in cui il provvedimento sopravvenuto sia ritenuto illegittimo
per motivi diversi dalla sua tardività si ritiene che il privato debba comunque
proporre contro di esso una nuova impugnazione, come, ad esempio,
nell'ipotesi in cui sia stata contestata la decisione dell'amministrazione, a
fronte dello smarrimento della pratica, di rinnovare il procedimento (43).
Si ripropone, ancora una volta, una relazione falsata tra processo e
procedimento, con il primo reso inutile dal fatto che il secondo non si esaurisce
mai.
6. La dialettica irrisolta tra potere amministrativo e potere giurisdizionale
affiora nuovamente con riferimento alla figura del commissario ad acta,
venendosi così a chiudere il cerchio della prevalenza del potere amministrativo
rispetto al potere giudiziale di soddisfazione della pretesa sostanziale.
L'art. 117, co. 3, c.p.a. si limita a stabilire che il giudice nomina, ove occorra,
un commissario ad acta “con la sentenza con cui definisce il giudizio o
successivamente su istanza della parte interessata”. Consentendo la nomina
del commissario ad acta in via contestuale all'ordine di provvedere e venendo
così a configurare la fase esecutiva come un momento interno dell'unitario
giudizio avverso il silenzio, si supera la precedente normativa (art. 21bis, co.
2, legge Tar) e si recepisce l'indirizzo giurisprudenziale favorevole a rimuovere
la distinzione tra giudizio di cognizione e giudizio di ottemperanza (44); del
resto, è quest'ultima una distinzione abbandonata anche in via generale, dal
momento che il c.p.a. ha previsto per tutti i giudizi di cognizione la possibilità
di una nomina immediata di un commissario ad acta, con effetto dalla
scadenza di un termine assegnato per l'ottemperanza (art. 34, co. 1, lett. e).
Tuttavia questa garanzia temporale per il privato si ridimensiona leggendo la
giurisprudenza in materia: spesso il commissario è nominato nella sentenza
dichiarativa dell'obbligo di pronunciarsi, ma il suo intervento è previsto solo
nell'ipotesi di ulteriore inadempienza dell'amministrazione all'obbligo di
provvedere entro il nuovo termine fissato dalla sentenza stessa (45); oppure
il giudice si limita a dichiarare l'illegittimità del silenzio serbato
dall'amministrazione e a ordinare alla stessa di provvedere entro un dato
termine e solo successivamente, stante il perdurante silenzio amministrativo,
provvede ad accogliere la domanda di nomina di un commissario che adotti
l'atto e che, preliminarmente all'emanazione del medesimo, dovrà accertare se
anteriormente alla data dell'insediamento l'amministrazione abbia nel
frattempo provveduto, astenendosi in tal caso dall'adozione di ogni
provvedimento (46); altre volte ancora si ha una prima pronuncia dichiarativa
dell'illegittimità del silenzio tenuto dall'amministrazione, una mancata
esecuzione da parte dell'amministrazione dell'ordine di provvedere contenuto
nella sentenza passata in giudicato, una successiva sentenza “esecutiva del
silenzio accertato giudizialmente”, la quale però si limita a dichiarare
nuovamente l'obbligo di provvedere e a statuire che, solo decorso inutilmente
il termine ivi prescritto per l'adempimento, sarà il commissario nominato con la
sentenza medesima a provvedere (47); talvolta poi il commissario resta a sua
volta inerte, “data l'impossibilità di provvedere a causa del mancato apporto
collaborativo dell'amministrazione” (48).
Inoltre nel codice il rapporto tra potere giudiziale e potere commissariale non è
tracciato in maniera chiara. Dalla lettera dell'art. 117 (che è del tutto
scollegata dall'art. 31, contemplante le tipologie di azioni esperibili) non è dato
comprendere se la possibilità di nomina del commissario si innesti nel solo
giudizio che ordina all'amministrazione di provvedere oppure anche nel giudizio
di condanna all'emanazione del provvedimento; in questo secondo caso il
risultato tipico ottenibile dalla sentenza sarebbe sempre la sostituzione di
un'amministrazione rimasta inadempiente con altra amministrazione, sia pure
sui generis, mentre il giudice pronuncerebbe unicamente una sentenza
dichiarativa, anche nel caso di decisione sulla pretesa sostanziale, affidata
unicamente al commissario.
A questo quesito la dottrina ha risposto che “nel caso del silenzio il giudice non
può sostituirsi all'amministrazione, ma deve sempre procedere alla nomina del
commissario” e pertanto questa nomina non è in alternativa a un intervento
diretto del giudice, che mai potrebbe ingerirsi nell'attività amministrativa (49).
In questa logica una pronuncia direttamente del giudice sulla fondatezza della
pretesa dovrebbe aversi in casi del tutto limitati, ossia nelle sole ipotesi di
domanda del privato manifestamente infondata, perché in questo caso sarebbe
diseconomico obbligare l'amministrazione a provvedere se l'atto espresso è
necessariamente di rigetto (50). Tuttavia anche quest'esito processuale
necessitato mal si concilia con le innovazioni sostanziali introdotte dalla legge
n. 190/2012, la quale ha previsto che nel caso di manifesta irricevibilità,
inammissibilità, improcedibilità o infondatezza della domanda le pubbliche
amministrazioni concludano il procedimento con un provvedimento espresso
redatto in forma semplificata (nuova versione dell'art. 2, co. 1, legge n.
241/90); in tal maniera la pronuncia giudiziale di fondatezza della pretesa
diviene un guscio pressoché vuoto.
A svuotare di contenuto la tutela giurisdizionale vi è poi un ulteriore self
restraint pretorio, eccentrico rispetto a quanto ormai tradizionalmente avviene
nell'ordinario processo impugnatorio, il cui giudicato è caratterizzato da un
ampio effetto conformativo a garanzia del privato. In quanto la sentenza
avverso il silenzio si limita ad accertare il semplice fatto del mancato
adempimento dell'obbligo di provvedere, il commissario si trova nella
condizione di dovere emettere il provvedimento richiesto senza alcuna
indicazione, senza alcuna direttiva, senza alcun paletto emergente dalla
sentenza, dovendo dunque egli stesso valutare il merito della questione e
venendo a disporre di piena autonomia decisoria.
Ben diverso è ciò che accade nell'ordinamento tedesco, in cui il giudice, quando
considera la questione non matura per la decisione, venendo in rilievo profili di
discrezionalità in senso lato, indica sempre i principi cui dovrà conformarsi
l'amministrazione inadempiente, per cui i motivi della decisione integrano in
misura rafforzata il suo dispositivo, con una portata conformativa potenziata (51).
L'assenza di qualsivoglia contenuto conformativo della sentenza avverso il
silenzio genera gravi problemi di rallentamento nella tutela offerta e ancora
una volta un ruolo non secondario è svolto dalla stratificazione di modelli
processuali avverso il silenzio. Infatti la prima norma che espressamente
prevedeva un commissario ad acta nel giudizio contro il silenzio consentiva al
giudice solo di emettere un generico ordine di provvedere (art. 21bis della
legge Tar) e anche adesso, presumibilmente per un fenomeno di vischiosità,
rafforzato dal potente condizionamento esercitato dalla sentenza n. 1/2002
dell'Adunanza plenaria, la sentenza non viene caricata di quell'effetto
conformativo necessario per vincolare la successiva attività di esercizio del
potere.
In questa maniera, però, non è affatto garantita la funzione del processo di
assicurare la soddisfazione dell'interesse fatto valere dal ricorrente, perché
specialmente nel giudizio avverso il silenzio dovrebbe essere valorizzato quel
carattere che contraddistigue tutti i giudizi di cognizione davanti al giudice
amministrativo, ossia, come è stato efficacemente detto, il fatto che il processo
amministrativo guarda non solo al passato ma anche al futuro (52).
Ma se l'effetto conformativo della sentenza avverso il silenzio è pressoché
nullo, limitandosi alla mera necessità di provvedere, l'attività richiesta al
commissario risulta di tipo sostitutivo pieno, in un ambito di piena
discrezionalità, non collegata alla decisione giudiziale se non per quanto attiene
all'accertamento dell'obbligo di provvedere. Ne consegue che il commissario
andrebbe assimilato non già all'ausiliario del giudice nominato per dare
esecuzione a una sentenza, come avviene in sede di ottemperanza, quanto
semmai a un organo straordinario dell'amministrazione rimasta inerte (53).
La logica è quella propria della sostituzione in via amministrativa più che quella
del giudizio di ottemperanza. Anche in sede processuale si opta per il modello,
ora generalizzato dalle sopra viste modifiche alla legge n. 241/90, del
commissario nominato a rimedio dell'inerzia dell'amministrazione, chiamato a
non tanto a dare esecuzione a un precedente dictum, quanto piuttosto a
provvedere del tutto autonomamente, con l'unica differenza che nel caso di
specie la nomina è di tipo giudiziale (54).
Il codice tace poi su un altro punto nevralgico, per quanto esso sia necessario
per disciplinare la successione cronologica di poteri tra amministrazione inerte
e commissario. Mentre infatti l'art. 21bis, co. 3, della legge Tar, disponeva che
il commissario, preliminarmente all'emanazione del provvedimento da adottare
in via sostitutiva, doveva accertare se anteriormente alla data del suo
insediamento l'amministrazione avesse provveduto, ancorché in data
successiva al termine assegnato alla medesima dal giudice amministrativo, il
c.p.a. non riprende questa disposizione pregressa, con la conseguenza che
sono state espresse posizioni antitetiche sul punto.
Tuttavia, sia che si acceda all'interpretazione favorevole a mantenere il potere
in capo all'amministrazione inadempiente anche a seguito dell'insediamento del
commissario (55), sia che si preferisca ritenere che l'amministrazione
ordinaria decada dal potere almeno a partire dall'insediamento del
commissario (56), vi è comunque un momento temporale in cui la tutela
attivata tramite ricorso avverso il silenzio perde qualsiasi significato. Infatti se
l'amministrazione provvede dopo la nomina del commissario ma prima del suo
insediamento, il privato si trova nelle condizioni di instaurare un nuovo
giudizio, questa volta d'impugnazione del provvedimento intervenuto, quasi
che la tutela giurisdizionale offerta a privato si risolva beffardamente in una
sorta di costante proroga giurisdizionale del termine di conclusione del
procedimento amministrativo, o altrimenti, come incisivamente detto, come
una indebita rimessione in termini per la parte resistente (57).
Infine, costretto a instaurare un nuovo giudizio si trova altresì il privato che, a
seguito dell'emanazione ad opera del commissario del provvedimento richiesto,
subisca la mancata doverosa esecuzione materiale del medesimo, come nel
caso di un ordine di demolizione di un abuso edilizio e della demolizione
coattiva dello stesso. La giurisprudenza ha giustamente affermato che per
verificare se l'esecuzione dell'atto commissariale rientri nella competenza del
medesimo commissario straordinario ovvero in quella degli organi ordinari, è
decisivo l'esame della decisione del giudice amministrativo di nomina del
commissario, che ne determina i relativi poteri.
Ma dal momento che il giudice del silenzio si limita sempre unicamente ad
accertare l'inadempienza amministrativa, ne discende che il commissario
esaurisce i propri compiti con l'emanazione del provvedimento, non rientrando
anche l'attività di esecuzione dell'atto nell'ambito dei poteri del commissario, e
la successiva sua mancata esecuzione è riferibile unicamente agli organi
ordinari dell'amministrazione, per cui “la relativa inerzia è riferibile al mancato
esercizio della funzione amministrativa (di esecuzione del provvedimento
autoritativo già emesso) e può essere contestata, a sua volta, con un ulteriore
giudizio” (58).
In conclusione il quadro tracciato mostra l'estrema difficoltà di concepire
un'adeguata e soddisfacente tutela giurisdizionale contro il silenzio. L'attuale
giudizio ha per oggetto il mero accertamento dell'obbligo di provvedere in capo
all'amministrazione e solo in ipotesi di scuola anche l'esame della fondatezza
della pretesa sostanziale del ricorrente, segue un rito all'insegna della celerità,
ma non della pienezza della tutela, non assolve affatto la sua funzione di
garanzia della situazione giuridica soggettiva violata, bensì tende a ottenere
una determinazione espressa dell'amministrazione a prescindere dal suo
contenuto, risultando così ancora asservito a una logica di supremazia
dell'amministrazione, che ha una sua sicura ragion d'essere sul piano
sostanziale, ma che è priva di giustificazione alcuna sul piano processuale. La
tutela nei confronti del silenzio è quindi la manifestazione più vistosa della
drammaticità della dialettica tra amministrazione e giudice, nonché della
difficolta di configurare una struttura del processo congeniale alla funzione del
medesimo, almeno fino a che anche nel processo dominerà l'ottica del potere
amministrativo non altrimenti surrogabile e non invece la soddisfazione
dell'interesse fatto valere dal ricorrente.
Abstract: Lo scritto esamina l'attuale configurazione della tutela giurisdizionale
contro il silenzio inadempimento, che riflette tutte le ambiguità insite nella
dialettica tra pubblica amministrazione e giudice amministrativo e, ancor
prima, tra diritto sostanziale e diritto processuale. La complessiva disciplina è
all'insegna di una mancata chiara cesura tra procedimento e processo
amministrativo, in quanto il primo non s'esaurisce mai ed in grado di
sovrapporsi al secondo, doppiandolo e rendendolo inutile. La critica alla
struttura del processo avverso il silenzio è intesa in maniera ampia, come tale
comprensiva del rito speciale introdotto. Infatti il rito processuale e
l'interpretazione del medesimo fatta dalla giurisprudenza arrivano a
condizionare la misura della tutela giurisdizionale, assurgendo a ragione
giustificatrice del mancato sindacato sul merito della domanda.
Le note non le vogliono più giustificate <div style="text-align: justify; margin:
10px 10px;">
Note:
(*) Saggio destinato agli scritti in onore di Ernesto Sticchi Damiani.
(1) In questo senso cfr. già F.G. Scoca, Il silenzio della pubblica
amministrazione, Milano, 1971, 32 ss., 89 ss., e, ancor prima, S. Cassese,
Inerzia e silenzio della pubblica amministrazione, in Foro amm., 1963, 30 ss.;
sul dibattito in ordine alla sussistenza in capo all'amministrazione pubblica di
un “obbligo” o di un “dovere” di provvedere si rinvia, da ultimo, ad A. Cioffi,
Dovere di provvedere e pubblica amministrazione, Milano, 2005; F.
Goggiamani, La doversità della pubblica amministrazione, Torino, 2005; A.
Police, Doverosità dell'azione amministrativa, tempo e garanzie giurisdizionali,
in L. R. Perfetti (a cura di), Le riforme della L. 7 agosto 1990, n. 241 tra
garanzia della legalità ed amministrazione di risultato, Padova, 2008, 15 ss.;
M. Monteduro, Sul processo come schema di interpretazione del procedimento,
in Dir. amm., 2010, 103 ss., 126 ss. e all'ampia bibliografia ivi citata.
(2) Sulla pluralità di situazioni soggettive in capo al soggetto che presenta
un'istanza all'amministrazione cfr. A. Romano Tassone, voce Situazioni
giuridiche soggettive (diritto amministrativo), in Enc. dir., Agg., Milano, 1998,
984 ss., secondo cui “il diritto ... di vedere concluso il procedimento
tempestivamente e senza aggravamenti” costituisce “non già (o meglio non
soltanto) situazione strumentale alla soddisfazione di un interesse materiale
che viene quindi protetto sub specie di interesse legittimo, ma appunto diritto
in sé e per sé”; F.G. Scoca, Il silenzio della pubblica amministrazione alla luce
del suo nuovo trattamento processuale, in questa Rivista, 2002, 239 ss.; M.
Renna e F. Figorilli, Art. 2, in A. Bartolini, S. Fantini, G. Ferrari (a cura di),
Codice dell'azione amministrativa e delle responsabilità, Roma, 2010, 107 ss.,
spec. 125 ss.; sicuramente, come osserva M. Renna, Art. 2 bis, in A. Bartolini,
S. Fantini, G. Ferrari (a cura di), Codice, cit., 135 ss., 136, è soprattutto la
previsione normativa di un risarcimento del danno da ritardo dell'azione
amministrativa a consolidare la configurabilità della pretesa all'osservanza del
termine del procedimento quale vero e proprio diritto soggettivo. Sulle pretese
procedimentali come diritti fondamentali cfr., da ultimo, L.R. Perfetti, Pretese
procedimentali come diritti fondamentali. Oltre la contrapposizione tra diritto
soggettivo e interesse legittimo, in questa Rivista, 2012, 850 ss.
(3) Sui termini del vivace dibattito tra azione in senso astratto e in senso
concreto, che ha interessato essenzialmente gli studiosi del processo civile, dal
momento che il processo amministrativo sconta la difficoltà d'inquadramento
della situazione giuridica soggettiva fatta valere in giudizio, B. Tonoletti, Le
situazioni soggettive nel diritto amministrativo, in Associazione per gli studi e
le ricerche parlamentari, Quaderno n. 20, 2009, 121 ss., spec. 123 ss., e, se si
vuole, M. Ramajoli, Le tipologie delle sentenze del giudice amministrativo, in Il
nuovo processo amministrativo, a cura di R. Caranta, Bologna, 2011, 575-576.
(4) Sul carattere secondario della tutela per equivalente cfr., se si vuole, M.
Ramajoli, Il processo in materia di appalti pubblici da rito speciale a giudizio
speciale, in Il sistema della giustizia amministrativa negli appalti pubblici in
Europa, a cura di G. Greco, Milano, 2010, 121 ss.; circa la consistenza
dell'onere probatorio che incombe sulla parte che propone domanda di
risarcimento del danno da ritardo, nonché in ordine alla natura giuridica e agli
elementi costitutivi della responsabilità dell'amministrazione cfr., da ultimo, per
particolare chiarezza, Cons. Stato, Sez. V, 21 giugno 2013, n. 3405, nonché
TAR Lombardia, Milano, Sez. II, 20 novembre 2013, n. 2560.
(5) Sul punto cfr. M.A. Sandulli, Le novità in tema di silenzio, in Il libro
dell'anno del diritto 2013, Roma, 2013, 4 ss.
(6) Cfr., per tutti, E. Sticchi Damiani, Danno da ritardo e pregiudiziale
amministrativa, in Foro amm.-Tar, 2007, 3329 ss.
(7) Sull'intervento sostituitivo tra organi dello stesso ente o tra organi di enti
differenti in ragione dell'inosservanza dei termini procedimentali cfr. M.
Bombardelli (a cura di), La sostituzione amministrativa, Padova, 2004, 6 ss.;
G. Avanzini, Il commissario straordinario, Torino, 2013, 23 ss., 74 ss.; in
particolare, nel caso dell'amministrazione statale il potere sostituitivo era stato
previsto in capo al direttore generale dell'unità responsabile del procedimento
oppure del Ministro competente qualora il provvedimento da emanare fosse
stato di competenza del direttore generale (art. 3ter, d.l. 12 maggio 1995, n.
163, conv. in l. 11 luglio 1995, n. 273). Tuttavia, a seguito del nuovo assetto
dei rapporti tra organi politici e organi dirigenziali, è stato escluso il potere
sostitutivo ministeriale, per cui ora, ai sensi del nuovo testo dell'art. 14, co. 3,
del d.lgs. 2001, n. 165, in caso di inerzia il Ministro “può nominare, salvi i casi
di urgenza previa contestazione, un commissario ad acta”. Come osserva M.
Clarich, La certezza del termine del procedimento amministrativo: un
traguardo in vista o una chimera?, in Giorn. dir. amm., 2012, 691 ss., la nuova
versione dell'art. 2 della legge n. 241 (così come risultante dall'art. 1, co. 1,
del d.l. n. 5/2012, come modificato dalla l. n. 35/2012, nonché dall'art. 13, co.
1, del d.l. n. 83/2012, nel testo integrato dalla l. n. 134/2012), nell'obbligare
le amministrazioni a individuare il soggetto al quale attribuire il potere
sostitutivo in caso di inerzia, è in realtà una specificazione del potere che
spetta comunque ai dirigenti generali ex art. 16, co. 1, lett. e, del d.l. n.
165/2001, che attribuisce loro il potere di dirigere, coordinare e controllare
l'attività dei dirigenti e dei responsabili dei procedimenti “anche con potere
sostitutivo in caso di inerzia”, nonché del principio di cui al già menzionato art.
3ter del medesimo decreto legge. Non costituisce una novità neppure la
considerazione del silenzio ai fini della responsabilità dirigenziale (cfr. art. 20
d.lgs. n. 29/1993, come modificato dall'art. 6 d.lgs. n. 470/1993; art. 3ter, d.l.
n. 163/1995, conv.in l. n. 273/1995; sul punto cfr. A. Travi, Commento all'art.
2 della legge n. 241/1990, in Le nuove leggi civili commentate, 1995, 9 ss.),
anche se va dato atto che queste complessive “misure per il miglioramento
dell'efficienza delle pubbliche amministrazioni” non hanno finora raggiunto i
risultati agognati. Sugli interventi sostitutivi da parte di soggetti diversi da
quello procedente e sulle “variegate reazioni di carattere sanzionatorio” si veda
anche M. Lipari, I tempi del procedimento amministrativo, certezza dei
rapporti, interesse pubblico e tutela dei cittadini, in Dir. amm., 2003, 291 ss.,
spec. 334 ss.
(8) Sui tanti profili problematici che la suddetta disciplina pone cfr., oltre al già
menzionato M. Clarich, La certezza, cit., 691 ss., S. Tarullo, Il meccanismo di
sostituzione interna per la conclusione dei procedimenti amministrativi
introdotto dal D.L. semplificazione n. 5/2012. Notazioni a prima lettura, in
www.giustizia-amministrativa.it; A. Colavecchio, L'obbligo di provvedere
tempestivamente, 2013, 207 ss.; L. Bertonazzi, Il giudizio sul silenzio, in B.
Sassani e R. Villata (a cura di), Il codice del processo amministrativo, Torino,
2012, 905 ss., 930, nt. 70, che evidenzia come non sia pacifico cosa accada
qualora il privato ricorra avverso il silenzio e, in pendenza del relativo giudizio,
si rivolga al titolare del potere sostitutivo, oppure immediatamente si rivolga al
titolare del potere sostituitivo e poi, in pendenza del termine che costui ha a
disposizione per provvedere, proponga ricorso al Tar, essendo scaduto invano
l'originario termine per provvedere.
(9) Sul fatto che il passaggio della giurisdizione amministrativa da giurisdizione
oggettiva sulla legalità a giurisdizione veramente soggettiva non si sia mai
realmente compiuto cfr., per tutti, G. Falcon, Il giudice amministrativo tra
giurisdizione di legittimità e giurisdizione di spettanza, in questa Rivista, 2001,
287 ss., spec. 295 ss.
(10) Sul “fatto costitutivo” dell'interesse legittimo e sulle conseguenze in
termini di oggetto del processo si rinvia a L. Ferrara, Domanda giudiziale e
potere amministrativo. L'azione di condanna al facere, in questa Rivista, 2013,
617 ss., spec. 641 ss., e all'ampia bibliografia ivi riportata.
(11) Cfr. il sempre attuale F. Ledda, Il rifiuto di provvedimento amministrativo,
Torino, 1964, 167 ss., 322 ss.
(12) Così Cons. Stato, Sez. V, 3 giugno 1996, n. 621, in Foro amm., 1996,
1869 ss., seguita da una giurisprudenza costante, anche di rango
costituzionale (Corte cost., 17 luglio 2002, n. 355). Critici sul punto, sia pure
con accenti diversi, M. Clarich, Termine del procedimento e potere
amministrativo, Torino, 1995, 19 ss.; B. Tonoletti, voce Silenzio della pubblica
amministrazione, in Dig. disc. pubbl., XIV, 1999, 156 ss., spec. 167 ss.; L.
Ferrara, Prime riflessioni sulla disciplina del silenzio-inadempimento con
attenzione alla Saumnisbeschwerde austriaca, in La tutela dell'interesse al
provvedimento, a cura di G. Falcon, Trento, 2001, 73 ss.; F. Goisis, La
violazione dei termini previsti dall'art. 2 L. n. 241 del 1990: conseguenze sul
provvedimento tardivo e funzione del giudizio ex art. 21-bis L. Tar, in questa
Rivista, 2004, 571 ss.; A. Colavecchio, L'obbligo, cit., 222 ss.
(13) A. Romano, Note in tema di decadenza, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1964,
171 ss., 190-191, 227. Ad aggravare il quadro vi è il fatto che, mentre il
termine fissato per provvedere è considerato meramente ordinatorio,
l'esercizio dell'azione avverso il silenzio dell'amministrazione soggiace a un
termine annuale (art. 31, co. 2, c.p.a.), per cui la giurisprudenza considera
irricevibile il ricorso proposto oltre il termine e ritiene che tale conclusione in
rito non possa essere evitata dalla proposizione di una diffida a provvedere.
« Consentire, infatti, che detto termine possa essere procrastinato
indefinitamente con la presentazione di diffide sarebbe contrario sia al dato
letterale della disposizione, sia alla sua ratio che è quella di fissare un termine
ultimo per la proposizione del ricorso in applicazione del principio della certezza
del diritto »; così TAR Campania, Sez. VI, 2 gennaio 2013, n. 18; 14 dicembre
2011, n. 5801; 13 luglio 2011, n. 3770; 19 gennaio 2011, n. 361; TAR Lazio,
Roma, Sez. II, 23 novembre 2009, n. 11563. Cfr. altresì C.g.a.r.S., 12 agosto
2010, n. 1099, secondo cui deve essere riconosciuta natura decadenziale al
termine annuale, “non suscettibile di interruzioni, per effetto di successive
diffide o atti integrativi di provenienza dell'interessato”. Scaduto il termine
annuale, il privato può unicamente sollecitare di nuovo l'esercizio del potere
amministrativo, con una nuova istanza e, in caso di prolungata inerzia,
ricorrere avverso il silenzio (art. 31, co. 2, c.p.a.); in tema cfr. M. Occhiena e
F. Fracchia, Art. 31, in Codice del processo amministrativo, a cura di R.
Garofoli e G. Ferrari, Roma, 2010, I, 519 ss., 525.
(14) Cfr., da ultimo, Cons. Stato, Sez. V, 11 ottobre 2013, n. 4980, per cui
l'obbligo di rispettare i termini di conclusione del procedimento rileva “sul piano
dei comportamenti, fonte di responsabilità nel caso di violazione, ma giammai
(è) requisito di validità degli atti”.
(15) Per evitare che il procedimento amministrativo tardivamente svolto
continui a paralizzare e a interferire con il processo è stato sostenuto che, una
volta instaurato il giudizio contro il silenzio, la situazione potestativa
dell'amministrazione debba essere “formalmente esercitata non più nel
procedimento amministrativo, ma nel processo giurisdizionale”, in modo che
“l'accertamento dei fatti rilevanti per la produzione degli effetti giuridici, pur
nei limiti del giudizio di legittimità, avvenga nel processo di cognizione, in
contraddittorio fra le parti, secondo le regole del principio dispositivo” (B.
Tonoletti, voce Silenzio, cit., 171-172). La supremazia della pubblica
amministrazione come parte processuale e l'opacità tra procedimento e
processo si colgono altresì in una vicenda sotto certi profili similare a quella del
silenzio e cioè nella motivazione postuma del provvedimento amministrativo
impugnato, che ha alla base la medesima idea di inesauribilità del
procedimento amministrativo. Sul punto cfr. L. Ferrara, Motivazione e
impugnabilità degli atti amministrativi, in Foro amm.-Tar, 2008, 1193 ss.
(16) Per quanto riguarda la tematica dei ricorsi gerarchici cfr., per tutti, M.
Nigro, La decisione silenziosa di rigetto del ricorso gerarchico nel sistema dei
ricorsi amministrativi, in Foro it., 1963, 49 ss.; sulla disciplina francese si
rinvia a B. Veronelli, La nuova disciplina del silenzio in Francia, in Giorn. dir.
amm., 2002, 554 ss., mentre su quella austriaca a L. Ferrara, Prime riflessioni,
72-82, ss.; C. Fraenkel-Haeberle, Il silenzio dell'amministrazione: echi
d'oltralpe, in questa Rivista, 2010, 1046 ss., 1049 ss.
(17) Così, efficacemente, F.G. Scoca, Il silenzio, cit., 293-294; cfr. in tal senso,
per chiarezza, Cons. Stato, Sez. V, 2 marzo 1957, n. 87, in Cons. Stato, 1957,
359. La costruzione del silenzio dell'amministrazione a seguito di una istanza
come atto tacito negativo si fondava sulla lettura come “principio generale di
diritto amministrativo” dell'art. 5 della legge com. prov. del 1934, in base al
quale il silenzio mantenuto per un certo tempo dall'autorità investita della
disciplina del ricorso gerarchico equivaleva a rigetto del ricorso; sul punto A.
Amorth, Il silenzio dell'autorità amministrativa di fronte alla richiesta di
un'autorizzazione, in Foro it., 1949, I, 147, ora anche in Scritti giuridici,
Milano, 1999, III, 1257 ss., spec. 1262 ss.; a sua volta la tesi favorevole a
configurare nell'ambito dei ricorsi gerarchici come atto negativo di rifiuto il
silenzio nasce, prima che in via normativa, in via giurisprudenziale con la nota
pronuncia del Cons. Stato, Sez. IV, 22 agosto 1902, n. 429, in Giur. it., 1902,
III, 343.
(18) Sul punto, ampiamente, B. Tonoletti, voce Silenzio, cit., spec. 160 ss.;
nonché in tema le acute considerazioni di E. Sticchi Damiani, Il giudice del
silenzio come giudice del provvedimento virtuale, in questa Rivista, 2010, 1
ss., spec. 9-22. Sempre a fini di effettività della tutela giurisdizionale ha
suggerito la tesi che, decorso il termine ordinatorio per intervenire sulla
s.c.i.a., si formasse il silenzio-diniego (e non il silenzio inadempimento così
come modernamente interpretato) sull'esercizio dei poteri inibitori e
ripristinatori, con le ulteriori consueguenze in ordine al relativo giudizio, G.
Greco, La SCIA e la tutela dei terzi al vaglio dell'Adunanza plenaria: ma perché
dopo il silenzio assenso e il silenzio inadempimento non si può prendere in
considerazione anche il silenzio diniego?, ivi, 2011, 359 ss.
(19) Cons. Stato, Sez. VI, 10 dicembre 1958, n. 921, in Cons. Stato, 1958, I,
1527.
(20) Così la relazione di accompagnamento dello schema di legge generale
sulla pubblica amministrazione predisposto dalla Commissione per la riforma
dell'amministrazione della Presidenza del Consiglio dei Ministri, la c.d.
Commissione Forti (1948), in La procedura amministrativa, a cura di G.
Pastori, Vicenza, 1964, 574-575.
(21) Su questa decisione (Cons. Stato, Ad. plen., 3 maggio 1960, n. 8, in Giur.
it., 1960, III, 257 ss., con nota di E. Guicciardi, Silenzio e pronuncia sullo
stesso ricorso gerarchico, che però si riferiva alla diversa ipotesi del silenzio
rigetto in sede di ricorso gerarchico) e sulla giurisprudenza successiva cfr. B.
Tonoletti, voce Silenzio, cit., 162.
(22) Secondo una traiettoria che parte da Cons. Stato, Ad. plen., n. 8/1960,
cit., passa attraverso Cons. Stato, Ad. plen., 10 marzo 1978, n. 10, in Cons.
Stato, 1978, I, 335 ss., giunge all'art. 2 della legge n. 241/90, all'art. 2 della
legge n. 205 del 2000, che inserì l'art. 21bis nel corpo della legge Tar, continua
con Cons. Stato, Ad. plen., 9 gennaio 2002, n. 1, in questa Rivista, 2002, 932
ss., con nota di F. Giglioni, Il ricorso avverso il silenzio tra tutela oggettiva e
tutela soggettiva, ivi, 2002, 936 ss., con le modifiche apportate all'art. 2 della
legge n. 241/90 dal d.l. 14 marzo 2005, n. 35, per arrivare agli artt. 31 e 117
c.p.a., anche alla luce delle modifiche operate dal secondo correttivo al codice.
(23) Oppure contestualmente all'azione di annullamento del provvedimento di
diniego. Il secondo correttivo al codice viene così a eliminare l'evidente e
criticabile assimetria tra l'azione di annullamento del diniego espresso e
l'azione avverso il silenzio, per cui solo la seconda poteva assumere le
sembianze di un'azione di adempimento, consentendo di conseguire un
risultato maggiore rispetto a quello ottenibile in un ordinario giudizio di
legittimità. Sul punto cfr. R. Chieppa, Il codice del processo amministrativo,
Milano, 2010, 227-228. Attualmente quindi l'azione di condanna al rilascio del
provvedimento richiesto, e cioè l'azione di adempimento, è esperibile dal
privato indipendentemente dal fatto che questi sia stato leso dall'inerzia
dell'amministrazione o da un provvedimento di diniego e in quest'ultima ipotesi
la controversia verterà non tanto sull'illegittimità dell'atto di diniego quanto,
come nel caso del silenzio, sul rifiuto dell'atto richiesto. Sull'originaria
previsione e sulla successiva eliminazione dell'azione di adempimento nel testo
definitivo del c.p.a. cfr., per tutti, F. Merusi, In viaggio con Laband, in
www.giustamm.it; sulle modifiche apportate dal secondo correttivo al codice
cfr. A. Carbone, L'azione di adempimento è nel Codice. Alcune riflessioni sul
D.Lgs. 14 settembre 2012, n. 160 (c.d. Secondo Correttivo), ivi.
(24) E. Cannada Bartoli, Ricorso avverso il silenzio-rifiuto e mutamento della
domanda, in Foro amm., 1993, 310; sulla necessità non di una pronuncia
qualsiasi, bensì di una pronuncia di contenuto positivo, relativa a un
provvedimento satisfattivo della pretesa fatta valere in giudizio, cfr. anche G.
Greco, L'accertamento autonomo del rapporto nel giudizio amministrativo,
1981, Milano, 23 ss.; Id., Per un giudizio di accertamento compatibile con la
mentalità del giudice amministrativo, in questa Rivista, 1992, 481 ss.; M.
Clarich, Tipicità delle azioni e azione di adempimento nel processo
amministrativo, ivi, 2005, 557 ss.
(25) B. Sassani, Silenzio ed esecuzione della sentenza nella riforma del
processo amministrativo, in Riv. dir. proc., 2001, 415.
(26) Così E. Sticchi Damiani, Il giudice del silenzio, cit., spec. 6 ss., ma cfr.
altresì, sempre del medesimo Autore, L'accertamento della fondatezza
dell'istanza nel giudizio sul silenzio, in Foro amm.-Tar, 2005, 3365 ss.
(27) TAR Roma, Sez. I, 4 dicembre 2013, n. 10462, che ha ammesso in
sovrannumero il ricorrente a un corso di formazione specialistica in medicina.
Sul binomio attività vincolata-diritto soggettivo cfr., per tutti, A. Travi, Lezioni
di giustizia amministrativa, Torino, 2014, 62 ss.
(28) Così, riconoscendo fondato il motivo d'appello di difetto di giurisdizione
del giudice amministrativo, Cons. Stato, Sez. V, 25 febbraio 2009, n. 1116, in
materia di rapporto di lavoro privatizzato.
(29) M. Clarich, L'azione di adempimento nel sistema di giustizia
amministrativa in Germania: linee ricostruttive e orientamenti
giurisprudenziali, in questa Rivista, 1985, 66 ss.; Id., Tipicità delle azioni e
azione di adempimento nel processo amministrativo, ivi, 2005, 557 ss.; C.
Fraenkel-Haeberle, Il silenzio, cit., 1054 ss.
(30) Del resto, lo stesso legislatore non si preoccupa affatto di precisare quali
siano gli adempimenti istruttori riservati all'amministrazione e quali siano
invece le circostanze di fatto verificabili direttamente dal giudice. Mentre il
testo del codice elaborato dalla Commissione di tecnici disponeva
espressamente che nel caso di richiesta di condanna dell'amministrazione
all'emanazione del provvedimento “le parti allegano in giudizio tutti gli
elementi utili ai fini dell'accertamento della fondatezza della pretesa” (art. 42
della bozza originaria), il testo finale tace del tutto, non precisando quali siano
i poteri istruttori che competono al giudice al fine di decidere direttamente la
questione.
(31) Rappresentativa del self restraint giudiziale è TAR Lazio, Roma, Sez. I-ter,
12 maggio 2010, n. 10900, in materia di rilascio di licenza di porto di fucile per
uso di caccia, avendosi già ottenuto esito positivo quanto ad accertamenti
medico tossicologici ed emissione di un giudizio di idoneità medico-legale.
(32) In tal senso F.G. Scoca, Il silenzio, cit., spec. nt. 41; B. Tonoletti, voce
Silenzio, cit., spec. 171 ss.; A. Carbone, L'azione di adempimento nel processo
amministrativo, Torino, 2012, 242 ss.; sottolineano che l'art. 31 c.p.a., se
letteralmente interpretato, finisce con “il rendere impossibile” il potere
giudiziario di apprezzamento della fondatezza della pretesa M. Occhiena e F.
Fracchia, Art. 31, cit., 527-528. Risponde alla medesima logica restrittiva la
giurisprudenza che non consente di adire il giudice per censurare l'inerzia
regolamentare, su cui cfr. M. Sica, La tutela giurisdizionale contro l'inerzia
regolamentare della p.a., in Studi in onore di Albero Romano, Napoli, 2011,
III, 1583 ss.
(33) Cfr., per tutti, A. Proto Pisani, Sulla tutela giurisdizionale differenziata, in
Riv. dir. proc., 1979, 538 ss.; S. Menchini, Processo amministrativo e tutele
giurisdizionali differenziate, in questa Rivista, 1999, 921 ss.
(34) Cons. Stato, Sez. VI, 26 novembre 2008, n. 5843. Capostipite
dell'orientamento giurisprudenziale per cui la configurazione di un modello
processuale caratterizzato dalla brevità dei termini e dalla snellezza delle
formalità è congrua se il giudizio si incentra sul silenzio, non anche se il giudice
dovesse estendere la propria cognizione ad altri profili è Cons. Stato, Ad. plen.,
n. 1/2002, cit.
(35) TAR Lazio, Roma, Sez. III-quater, 1 aprile 2008, n. 2727.
(36) TAR Napoli, Sez. VIII, 11 giugno 2009, n. 3207.
(37) Cfr. G. Greco, L'articolo 2 della legge 21 luglio 2000, n. 205, in questa
Rivista, 2002, 1 ss., 8 ss.; F. Giglioni, Il ricorso avverso il silenzio tra tutela
oggettiva e tutela soggettiva, cit., 968, e, più in generale, A. Proto Pisani, Sulla
tutela giurisdizionale differenziata, cit., 538; L.R. Perfetti, Art. 26 legge Tar, in
A. Romano e R. Villata (a cura di), Commentario breve alle leggi sulla giustizia
amministrativa, Padova, 2009, III ed., 844 ss., 886-895. In effetti “un rito
accelerato e semplificato, con minori garanzie di contraddittorio si giustifica
proprio per il fatto che non si decideva sulla fondatezza della pretesa; nel
momento in cui si riconosce al giudice il potere di decidere anche su
quest'ultima, occorre coerentemente modificare anche il rito di rito” (M.A.
Sandulli, Riforma della legge 241/1990 e processo amministrativo:
introduzione al tema, in www.giustamm.it); sull'istituto della sentenza in forma
semplificata cfr., per tutti, E. Sticchi Damiani, La sentenza in forma
semplificata, in Foro amm.-C.d.S., 2008, 2857 ss.
(38) Cons. Stato, Sez. V, 2 luglio 2012, n. 3847. Sull'opportunità che il giudice,
“all'atto di convertire il rito, fissi immediatamente l'udienza pubblica di
trattazione, da celebrarsi entro un termine prestabilito”, al fine di evitare
lungaggini nel giudizio N. Paolantonio, I riti speciali, in Giustizia
amministrativa, a cura di F.G. Scoca, Torino, 2013, 516. Sulle pregresse
resistenze giurisprudenziali ad ammettere l'azione risarcitoria nell'ambito del
giudizio nei confronti del silenzio rifiuto cfr., per chiarezza, TAR Napoli, Sez.
VII, 9 febbraio 2010, n. 806.
(39) Da ultimo cfr. M.A. Sandulli, Le novità in tema di silenzio, cit., 4 ss.
(40) Così TAR Campania, Salerno, Sez. II, 18 novembre 2013, n. 2277. Sul
pronunciamento della domanda di risarcimento dei danni secondo il rito della
camera di consiglio cfr. Cons. Stato, Sez. V, 21 marzo 2011, n. 1739; TAR
Calabria, Catanzaro, Sez. I, 27 luglio 2011, n. 1083; TAR Sicilia, Catania, Sez.
II, 12 marzo 2012, n. 638.
(41) TAR Emilia Romagna, Parma, Sez. II, 16 ottobre 2007, n. 2004. Cfr.,
altresì, per tutte, Cons. Stato, Sez. V, 11 gennaio 2002, n. 144.
(42) Sul punto, cfr., se si vuole, M. Ramajoli, Sulla pluralità di riti processuali,
in Forme e strumenti di tutela nei confronti dei provvedimenti amministrativi
nel diritto italiano, comunitario e comparato, a cura di G. Falcon, Padova,
2010, 317 ss.
(43) TAR Campania, Salerno, Sez. II, 18 gennaio 2012, n. 45. Ma da ultimo
cfr. altresì Cons. Stato, Sez. V, 28 aprile 2014, n. 21845, per cui
l'improcedibilità del ricorso a seguito del sopravvenuto difetto d'interesse in
ragione di un tardivo diniego non fa venire meno l'interesse a una decisione di
accertamento della violazione dell'obbligo di provvedimento nella prospettiva
della futura proponibilità di una domanda di risarcimento.
(44) “Non si riesce ad intravvedere per quale motivo occorrerebbe costringere
il privato alle fatiche di un'ulteriore azione giurisdizionale al solo fine di
promuovere la nomina del commissario”; così Cons. Stato, Sez. V, 16 gennaio
2002, n. 230, capostipite dell'indirizzo poi recepito dal codice.
(45) TAR Campania, Napoli, Sez. VIII, 26 aprile 2013, n. 2190.
(46) Emblematica a tal riguardo la complessiva vicenda ricostruibile tramite
TAR Sicilia, Catania, Sez. I, 6 ottobre 2009, n. 1628 e 28 febbraio 2011, n.
491.
(47) TAR Campania, Salerno, Sez. II, 18 novembre 2013, n. 2277.
(48) Cons. Stato, Sez. IV, 17 settembre 2013, n. 4615.
(49) A. Travi, Lezioni, cit., 350 e, con riferimento alla disciplina preesistente, F.
Fracchia, Riti speciali a rilevanza endoprocedimentale, Torino, 2003, 88-89; nel
senso invece che la nomina del commissario sia alternativa a un intervento
diretto del giudice cfr. L. Bertonazzi, Il giudizio, cit., 985, facendo
essenzialmente leva sull'art. 21 c.p.a., ai sensi del quale, in via generale, il
giudice amministrativo, se deve sostituirsi all'amministrazione, “può nominare”
come proprio ausiliario un commissario ad acta. Nessun dubbio sussiste invece
nell'ordinamento austriaco, ove la Corte ha il potere di emanare con sentenza
l'atto in via sostitutiva e di individuare l'autorità amministrativa o giudiziaria
cui affidare l'esecuzione della propria decisione, che rappresenta titolo
esecutivo; sul punto cfr. C. Fraenkel-Haeberle, Il silenzio, cit., 1052 ss.
(50) In tal senso, chiaramente, Cons. Stato, Sez. IV, 10 ottobre 2007, n.
5311.
(51) Cfr. C. Fraenkel-Haeberle, Il silenzio dell'amministrazione, cit., 1055 ss., e
dottrina ivi citata.
(52) Per tutti M. Nigro, Giustizia amministrativa, Bologna, 1983, 386 ss.
(53) Cfr., sia pure con riferimento alla disciplina pregressa, A. Travi, Giudizio
sul silenzio e nuovo processo amministrativo, in Foro it., 2002, III, 227 ss.,
233; con la conseguenza ulteriore che, “trattandosi oggettivamente
dell'esercizio della medesima funzione, l'Amministrazione sostituita si troverà
rispetto all'attività del Commissario ... nella condizione di doverne accettare le
decisioni come a sé imputabili e, quindi modificabili solo in sede di autotutela”
(TAR Campania, Napoli, Sez. I, 10 marzo 2009, n. 1363). Configura invece il
commissario ad acta come ausiliario del giudice A. Carbone, L'azione di
adempimento, cit., 190 ss.
(54) Sulle diverse tipologie di commissari ad acta si rinva a V. Caputi
Jambrenghi, voce Commissario ad acta, in Enc. dir., Agg., VI, Milano, 2002,
284 ss.; N. Saitta, Sistema di giustizia amministrativa, Milano, 2011, 491 ss.,
nonché, in giurisprudenza, Cons. Stato, Sez. VI, 25 giugno 2007, n. 3602.
Osserva R. Villata, Riflessioni in tema di giudizio di ottemperanza ed attività
successiva alla sentenza di annullamento, in questa Rivista, 1989, 369 ss.,
396, sia pure con riferimento al giudizio esecutivo, ma con un'impostazione
che ben si adatta al tema oggetto di analisi, che “la tesi del commissario
organo ausiliario del giudice dell'esecuzione, in astratto forse più coerente, è
nel concreto abbandonata dalla giurisprudenza nello stesso momento in cui gli
si attribuisce un potere di provvedere nella specifica vicenda al di là dei limiti
segnati dal precedente giudicato (vicenda esemplare: di decidere sulla
domanda di concessione edilizia dopo una sentenza che ha accertato
l'immotivato silenzio del Sindaco)”.
(55) L. Bertonazzi, Il giudizio, cit., 991, nt. 256.
(56) E. Quadri, Art. 117, in Codice del processo amministrativo, a cura di R.
Garofoli e G. Ferrari, III, cit., 1612 ss., 1617. Cfr. inoltre la giurisprudenza
precodicistica sull'evenienza in cui l'amministrazione inadempiente abbia fatto
conoscere l'esistenza di un iter avanzato per la definizione dell'istanza dopo
che il commissario si era insediato; cfr., per tutte, TAR Sicilia, Palermo, Sez. I,
8 aprile 2008, n. 454.
(57) Di proroga giurisdizionale del termine di conclusione del procedimento,
nonché di una sorta di rimessione in termini parla E. Sticchi Damiani, Il
giudice, cit., 8-9.
(58) Cfr., anche se antecendente al codice, in quanto espressiva di un principio
di carattere generale, Cons. Stato, Sez. IV, 29 febbraio 2008, n. 793. Quanto
agli atti commissariali, l'art. 117, co. 4, c.p.a. attribuisce al giudice la
competenza a conoscere “di tutte le questioni relative all'esatta adozione del
provvedimento richiesto, ivi comprese quelle inerenti agli atti del
commissario”. La disposizione non è di immediata comprensione, non essendo
precisato se gli atti del commissario siano impugnabili in base alle regole
ordinarie, oppure contestabili davanti al giudice che ha provveduto alla nomina
del commissario stesso. In tema
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