I poteri del Re. La Corona, lo Statuto e la contestazione cattolica

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CONVEGNO
DUE NAZIONI?
LEGITTIMAZIONE E DELEGITTIMAZIONE NELLA STORIA DELL'ITALIA CONTEMPORANEA
FONDAZIONE GIOVANNI AGNELLI - TORINO, 11 E 12 OTTOBRE 2001
I poteri del Re. La Corona, lo Statuto e la contestazione cattolica
(1878-1903) (Versione provvisoria)
Giorgio Rumi
Università Statale di Milano
La contestazione cattolica è ben nota alla storiografia ma il quadro in cui è stata inserita
risulta prevalentemente quello della protesta sociale contro gli equilibri proprietari
dell’Ottocento o la storia parallela di masse popolari altre, rispetto al movimento democratico
e socialista. Esiste tuttavia una diversa prospettiva di ricerca, che può mettere in risalto il
rapporto con le istituzioni dello Stato e le sue peculiari dinamiche, quali la Corona, la politica
estera e quella militare, cioè le prerogative più gelosamente custodite dall’art. 5 dello Statuto
Albertino, ed esercitare per cent’anni, fino a metà del Novecento. Simile punto di vista è
singolarmente fruttuoso, ancorché del tutto inusuale, perché rivela una continuità di
atteggiamenti, un insieme di categorie di giudizio ed un sistema di valori davvero alternativi
rispetto a quelli correnti, argomenti di una duratura separatezza, con esiti non ancora sopiti ma
ben vivi ed efficaci sull’intero sistema politico nostro, e semmai moltiplicati dalla diaspora
del “voto cattolico”, caratteristica di fine secolo.
All’Italia non si può applicare il modello delle “due nazioni” perché manca del tutto un
ceto dirigente, neppur vagamente comparabile a quello britannico. Non ci sono divisioni
etniche come in Irlanda, in Catalogna, nei Balcani, o nel paese basco. Non religiose, come in
Svizzera, o dinastiche, come in Germania. Non statuale nazionali, come in Norvegia o,
naturalmente, in Polonia. Ma una linea di frattura attraversa il paese, dividendo sia la
composita nobiltà, sia la borghesia, sia le masse popolari, e vano risulta l’argomento della
“vittoria” del partito risorgimentale. Sì, per dirla con Rosario Romeo, sussistono “i vinti e gli
esclusi” del processo di unificazione, ma i loro sentimenti e le loro speranze, lungi dal
comporsi col tempo in una pacificata coscienza nazional-statuale, persistono e infine si
affermano, sulle rovine del sogno liberale. La gran questione che rimane, al di là dei dati di
fatto, è quella della lunga durata delle ragioni e degli esiti della frattura risorgimentale come
anche dell’attitudine e dell’attrezzatura culturale che i vinti, fattisi vincitori, portano con sé
nella gestione di un paese che risulta non ultimo nella compagine europea.
La fonte principale di questa proposta interpretativa è il quotidiano lombardo
Osservatore Cattolico, noto ormai agli storici come primaria voce dell’intransigenza ma
anche (come si dimentica o si ignora) proprietà della Santa Sede, attraverso il prestanome di
una congregazione femminile, e posto sotto la lunghissima vigilanza di Paolo Ballerini, già
arcivescovo di Milano, impedito dal regio governo ma stanziato in Brianza a tener d’occhio
l’episcopato dell’Italia settentrionale. Il ruolo di Davide Albertario, prete rozzo ma giornalista
efficace, è riconosciuto e sancito, se non altro, dal tribunale militare straordinario di Milano,
riunito dopo i fatti di maggio 1898, che lo vuole il solo condannato per aver attentato all’unità
dello Stato, oltreché per i comuni reati di sovversione sociale, come Turati e gli altri.
1
Lo Stato, in Italia, è per una vasta opinione il “frutto dell’albero avvelenato”, se
vogliamo prendere a pretesto un’immagine popolare nella giurisprudenza americana che
rende inefficaci ed impresentabili le prove raccolte al di fuori di una corretta procedura.
Anche l’Italia unita lo è, o almeno lo sono le sue istituzioni, frutto di un’esperienza condotta –
da un certo momento almeno – fuori e contro gli interessi e la volontà della Chiesa, gli
insegnamenti della religione, la rivelazione stessa. La ferita, anzi la frattura inferta alla
compagine di un paese, altrimenti uno per lingua geografia e fede, non può essere suturata se
non per un atto di libera volontà del vicario di Cristo, il vero grande offeso dal processo
risorgimentale. In mancanza di simile ricomposizione, i frutti dell’unità ne risultano guasti ed
inservibili, e dunque la Corona, il sistema politico che si esprime nel Parlamento. E poi le
grandi strutture che dovrebbero dare alla vita unitaria vigore e ruolo nel mondo: l’esercito, la
marina, la politica estera. Il male oscuro che corrode queste realtà è la ribellione alla Chiesa, e
vana riesce la fatica del-l’organizzazione sociale di erigere qualcosa di duraturo ed efficace al
di fuori del magistero cattolico, espresso dalla gerarchia.
Questi credenti si sentono, e si propongono come i veri interpreti dell’italianità,
ingiustamente estromessi dalla direzione del paese dall’inganno e dalla forza. Essi non sono
legittimati dal sangue, come i dinasti, non dai trattati, non certo dai grotteschi plebisciti del
1859-61: è tutta la storia del paese che li accredita, apportatrice della consapevolezza della
passata grandezza, di gran lunga vincitrice su un presente misero e controverso. Il congresso
di Berlino, la prima assise generale delle potenze dopo il ’70 e la presa di Roma, è lì a
testimoniare l’insostenibile confronto tra il grande passato sotto l’egida della fede e la
presente umiliazione, figlia della rivolta contro l’ordine vero e definitivo: «Quando l’Italia era
Roma, tremava il mondo al suo nome. Quando l’Italia era Chiesa cattolica, si civilizzavano
tutti i popoli. Quando l’Italia era Firenze, si ingentiliva la terra. Quando l’Italia era Pisa, il
commercio si estendeva da uno all’altro lido dei mari. Quando l’Italia era Milano,
gl’imperatori di Germania fuggivano vinti innanzi ai suoi soldati, alla sua croce, al suo
vescovo. Quando l’Italia era Venezia, l’Oriente era tributario nostro e il mar Egeo, il mar
Nero risuonavano del ruggito del leone; lo stendardo di San Marco si spiegava al sole di
Trebisonda e si specchiava ricco e potente nella fatata laguna. Quando l’Italia era Genova, le
isole del Mediterraneo, le coste di Spagna e l’Africa erano corse dai figli arditi della Città di
Maria». L’Italia del povero conte Corti può essere ignorata e vilipesa non per insipienza
diplomatica, ma per la sua costitutiva fragilità: «ora che l’Italia è stata aggregata ad un ducato,
ha perduto la sua grandezza e considerata come un ducato»1. La nostalgia del passato si
corrobora dunque di una ben più profonda argomentazione. Non è questione di uomini, e
l’eventuale buona volontà del nuovo re, Umberto I, non può pretendere di rovesciare tutto un
sistema, che è morale e culturale prima ancora che politico. «Se buone intenzioni ha il Capo
dello Stato, i partiti non cessano dall’esercitare la loro influenza e dall’imporre la legge delle
loro passioni e dei loro interessi»2. Per il buon cittadino, «il governo potrebbe essere
monarchico, repubblicano, assoluto, rappresentativo: non fa grosse questioni speculative su
questo punto; la sua scelta è facile; vuole esso quel governo che meglio risponda al fine della
1
“Osservatore cattolico”, 11.7.1878: E l’Italia? Gli articoli dell’OC sono quasi sempre non firmati; per
un’ulteriore informazione sull’intransigenza cattolica mi permetto rinviare ai miei: Intransigentismo e
diplomazia delle grandi potenze: il caso dell’”Osservatore cattolico” 1878-1898, in Opinion publique et
politique exteriense, I, 1870-1915, Roma, Ecole Française de Rome, 1981; Dei Rolle des Papsttums in der
Geschichte des italienischen Einheitsstaates, in Quellen und Forschungen aus italienischen archiven und
bibliotheken, 78/1998, Rom; Austria e Santa Sede. Da Leone XIII a Benedetto XV nella crisi dell’Impero, in
Storia religiosa dell’Austria, Milano 1997.
2
OC, 15.1878: Il nuovo Re.
2
creazione e della redenzione, al volere di Dio, all’ordine della Chiesa, alle esigenze
imprescindibili della giustizia». Con il che, la chiave di volta dell’edificio unitario viene
relativizzata, e a differenza di tutti gli altri Stati europei, salvo la Francia, qualcosa viene
posto sopra la Corona, se è vero che «la Monarchia di Savoia sovrasta nel fatto all’Italia:
perché mai considereremmo come un diritto un simile fatto?»3. Semmai, la dinastia regna per
la tolleranza dei buoni e per il principio del male minore: «se i cattolici movessero alla
monarchia la guerra che le muovono gli anarchici [...] a quest’ora Umberto non si troverebbe
nel Quirinale a Roma»4.
L’imperativo è «distinguere fra il paese e il partito dominante», che sono poi «i padroni
liberali», e «chi non è vile, non savoino, non servo» non può ignorare la separazione5. Per
conto loro, i credenti sarebbero «per principio e per educazione, i migliori monarchici del
mondo»6. Esclusi dalla cosa pubblica, assistono all’irreparabile declino del paese, ben
consapevoli che «oggi stesso se l’Italia ha una storia, se compare in mezzo all’Europa e il suo
nome risuona rispettato e temuto, gli è che in Italia c’è un Papa. E’ scomparsa l’Italia, caduta
sotto lo scettro della rivoluzione: non vive che il Papa»7. Dopo la critica al ruolo
internazionale del Regno, che vede l’Italia “derisa” dalle potenze, ecco sotto accusa il
Parlamento, con la Camera ridotta a «cinquecento ciarlatani sorti dalle passioni compre e
volubili della piazza»8, e il Senato che Cairoli promette di riallineare con opportune infornate
di docili partigiani della Sinistra9. Veri patrioti, questi cattolici “papali”, come si confessano,
non vogliono aver nulla da spartire con «l’Italia della camorra, di Depretis, di Cairoli, di
Nicotera, di Crispi, di Sella, di Minghetti, di Borghi». Costoro si sono resi stranieri all’Italia
degli italiani «con le loro apostasie, coll’aver rinnegato il paese». Non per questo i cattolici
vanno confusi coi legittimisti, portatori di altre fedeltà e inclinati alla semplice esaltazione del
rispettivo piccolo mondo antico: «in Lombardia il patriottismo dei cattolici è purissimo, e non
può essere che purissimo, essendoché tra noi non esistono nemmeno le tradizioni politiche di
Toscana, di Roma, di Napoli»10. La perifrasi è trasparente: il futuro, e non il passato li
interessa, e certamente un futuro edificato sul presupposto di verità per loro natura
immutabili. Privo di questo orientamento, il paese si fa contraddizione e disordine: non c’è
unità territoriale, perché mancano Trento e Trieste, Nizza e San Marino, il Canton Ticino e
Malta. Non c’è unità civile perché «abbiamo l’Italia reale e l’Italia legale, cioè l’Italia che
regna e l’Italia che protesta, abbiamo l’Italia di Casa Savoia colla religione, abbiamo l’Italia
collo Statuto, l’Italia senza lo Statuto, abbiamo l’Italia di Depretis e l’Italia di Cairoli,
abbiamo l’Italia di Nicotera e l’Italia di Bertani, abbiamo l’Italia di Mazzini e l’Italia di
Garibaldi, abbiamo l’Italia di Mario e l’Italia di Passanante e cento altre Italie»11. Le
turbolenze ingovernabili dei partiti ed il gioco mutevole delle alleanze europee rischiano di far
dimenticare i veri, grandi interessi della patria: «conservarsi al proprio onore ed alla propria
3
OC, 24.6.1878: I Cattolici e la Monarchia di Savoia.
4
OC, 18.3.1878: I veri monarchici.
5
OC, 17.7.1878: L’Italia derisa all’estero per causa dei padroni liberali.
6
OC, 16.8.1878: A conti fatti.
7
OC, 3.3.1883: Il legittimismo e la sua forza.
8
OC, 26.11.1878: I governi e l’ordine sociale.
9
OC, 8.10.1878: Il discorso di Cairoli a Pavia.
10
OC, 19.2.1878: Cattolici e patrioti.
11
OC, 6.5.1879: L’unità nazionale.
3
fede»12. Il resto non conta, e si conferma: «no, il cattolico non è chambordista, né orleanista,
né carlista, né borbonico, né austriacante, né savoino, né monarchico, né repubblicano, né
socialista, né anarchico, né nichilista, né Giuseppino, né Leopoldino, né tannanuccio né
unitario né federalista»13.
Le critiche o, meglio, la radicale delegittimazione delle istituzioni nazionali si infittisce.
Ecco gli “abusi” della lista civile, con Crispi che si fa cortigiano14. Umberto, dopo qualche
speranza di correzione di rotta rispetto alle scelte paterne, appare «sorvegliato da ogni parte da
uomini che dalla morte di Vittorio Emanuele hanno ereditato la tenacità dello spirito di
partito», e gli si prevede una «corona di spine»15. Non c’è da stupire se «dopo aver trovato
noiose le campane che suonano a messa, si trovino ora noiosi anche i colpi di cannone per i
funerali del Re»: è il «progresso»16. La Corona è preda delle contraddizioni più aperte. Come
può «rinfrancare la Costituzione con un uomo (Cairoli) che vuol rompere lo Statuto e
condurre direttamente al suffragio universale ed alla repubblica»?17. Le manifestazioni di fede
della Casa Reale non possono trarre inganno, né è verosimile che il partito liberale produce un
risibile «governo in piviale», un «governo in cotta e stola»18. Sono esteriorità, meri residui di
altri tempi. Il Re siede comunque nel palazzo apostolico del Quirinale19, e dalla dinastia ci si
attende ben altro: «passi il sovrano per il Vaticano, si presenti l’accordo fatto col Papa e noi ci
adopereremo per renderlo acclamato in mezzo a quei cattolici che sapranno perdonare di
vedersi ora trattati come gente conquistata, proscritta, senza diritti»20. Accordo col Pontefice e
fine della “persecuzione”, riconoscimento dell’Italia come «un paese ove il popolo ha una
religione, la ama, la vuole praticata e rispettata»21. Che Umberto scelga e possa dire: «prima
mi circondava un partito, ora mi circonda un popolo»22. La dinastia che incarna l’unità può
salvarsi se perde il carattere di sopraffazione voluta da pochi per diventare autentico fatto
nazionale: «vi ha mai affetto in cuor d’italiano verso i reali di Savoia? Lasciamo in disparte
alcuni piemontesi, non è egli vero che la monarchia è sostenuta per bisogno di partiti politici?
Non sentite quale solitudine li circonda, quale freddezza?»23.
«Non promuoviamo inconsulte divisioni»24: tocca ai Reali dare l’esempio del rispetto
per la religione, il papa e la Chiesa, e da essi saranno salvati. Sono i liberali quelli che hanno
tranciato i rapporti tra popolo ed istituzioni; gli attentati, come quello di Passanante, sono solo
l’effetto di una voluta separatezza»25. Destra e sinistra, lavorando contro la realtà vera del
12
OC, 12.4.1878: La politica estera dell’Italia.
13
OC, 17.3.1892.
14
OC, 18.6.1880: Milano, 18 giugno.
15
OC, 24.1.1878: Come sono infelici i re.
16
OC, 17.1.1878: Cannonate repubblicane ed insinuazioni repubblicane.
17
OC, 13.3.1878: Benedetto Cairoli.
18
OC, 25.2.1878: L’ipocrisia.
19
OC, 8.5.1879: Fedeltà e fellonia.
20
OC: 26.1.1883: La Monarchia e la religione.
21
OC, 26.1.1878: Clemenza per tutti.
22
OC, 3.8.1878: A S.M. Re Umberto.
23
OC, 13.11.1878: Le vittime dorate.
24
OC. 16.11.1878: I vescovi italiani ed il viaggio di Umberto e Margherita.
25
OC, 18.11.1878: L’attentato contro il Re!
4
paese, sono i tarli occulti che minano l’assetto dell’Italia; i loro orientamenti internazionali
sono artificiosi, puntando su Francia o Germania in funzione dei loro interessi settari26. In
ogni caso «tra briganti e despoti di destra, e briganti e despoti di sinistra, qual differenza?».
La divisione corre tra loro e il paese, col risultato che «la monarchia impallidisce, la poesia di
Casa Savoia svanisce»27. Rumore e fumo sono i festeggiamenti in onore della dinastia. Le
nozze d’argento dei reali sono solo «baldorie di Roma»28, e peggio ancora «qui si ride, e là si
muore»: alle feste di corte si contrappone l’estrema miseria dei contadini, di cui la Sardegna è
solo un esempio29. Quando il Re «si congratulò col Carducci, il cantore di Satana, empio in
religione, repubblicano in politica”, l’Osservatore ne trae conferma del pericolosissimo gioco
tentato dalla dinastia risorgimentale, che si schiera ancora una volta con la parte violenta e
sopraffattrice cui deve la corona d’Italia30.
Non resta altro che seguire puntualmente errori e manchevolezze dei Savoia, con un
occhio severissimo, per nulla disposto al rispetto e all’accondiscendenza: sono le ragazzate
del principino Gennaro (come spregiativamente si chiama sempre il futuro Vittorio Emanuele
III)31, le sgradevoli fattezze del monumento al “padre della patria” suo avo32, l’avarizia
piccina della Casa Reale33. Di Vittorio Emanuele II il lascito migliore è l’esser rimasto a
Roma «cadavere in un palazzo papale»34. La separatezza dall’istituto monarchico porta con sé
il rigetto dello Statuto, che “lor signori”, i liberali, vorrebbero arca dell’alleanza tra le forme
del Regno e la sostanza della nazione. Nessun cuore, insiste l’Osservatore, batte per la legge
fondamentale dell’Italia unita, e le feste e le luminarie in suo onore ci sono solo «a spese dello
Stato, mentre gli altri palazzi e le case private tutte brillavano per la loro completa...
oscurità»35. La dinastia, architrave dell’Italia unita e liberale, è gravata da una triste profezia:
«Umberto I non può giurare che morrà sul trono». E al «piccolo principe Gennaro», il futuro
Vittorio Emanuele III si predice l’esilio, «in qualche canto d’Europa». E siamo nel gennaio
187836... La separatezza dalla monarchia, contro «i vili Corrieri (della Sera) e le cortigiane
Perseveranze», è una «splendida prova del senno delle nostre popolazioni, superstite a tutte le
propagande e le demolizioni liberali e cortigianesche»37.
Tutto l’edificio messo in piedi dal partito liberale rivoluzionario, contro la natura e
l’anima del paese, appare guasto ed insostenibile. Se la dinastia, lo Statuto, le frazioni del ceto
dominante restano altro, e di più nemiche della nazione, le forze armate che la conquista
hanno realizzato e presidiano tuttora l’equilibrio generale della vita comune sono sottoposte
ad una severissima contestazione.. Sulla marina, innanzitutto, gravano il tradimento
26
OC, 26.8.1881: Diario. L’argomento del giorno.
27
OC, 29.11.1879: Ridere?
28
OC, 24.4.1893: Le baldorie di Roma.
29
OC, 25.4.1893: Le nozze d’argento dei sovrani.
30
OC, 19.11.1878: Utili ammaestramenti.
31
OC, 9.6.1879: Il principe ereditario in arresto.
32
OC, 19.9.1878: Vittorio Emanuele II disgraziato ne’ suoi monumenti.
33
OC. 5.5.1879: Giorno per giorno. Garbugli.
34
OC, 11.1.1881: Una riga di storia; 10.1.1878: La morte di Vittorio Emanuele. A Roma siamo. A Roma
resteremo!
35
OC. 5.6.1878: Corriere di Roma.
36
OC, 10.1.1878: L’impressione nel pubblico; 26.11.1878: Giorno per giorno.
37
OC, 9.4.1878: La malattia di Vittorio Emanuele e il rispettabile pubblico.
5
dell’antica armata di mare borbonica verso il suo legittimo sovrano, Francesco II, eppoi le
prodezze di Lissa, capolavoro di insipienza. Così tutte le vicende di una moderna flotta in
ferro, a sua volta volano di uno sviluppo siderurgico e tecnologico, sono seguite con
puntiglio. Quando la regia nave Lepanto si arena al momento del varo, vien facile ironizzare
sulle glorie degli avi quando combattevano per la fede e l’impotenza dei contemporanei. E poi
a cosa servirebbe una nuova, costosissima marina? Conviene all’Italia «possedere navi
colossali, di enorme spostamento, superiori a quelle delle marinerie che del loro nome
segnarono le acque di Trafalgar»38? Se la marina dilapida le energie della nazione, l’esercito
fa di peggio: è il sintomo rivelatore della malattia inoculata dai liberali nelle istituzioni.
L’esercito, che dovrebbe essere «la nostra gloria, l’oggetto delle massime nostre cure» sta
sfuggendo al controllo della vecchia classe militare, «l’elemento piemontese», per diventare
«italiano», e cioè «progressista come il governo», indocile al suo stesso supremo comandante,
il Re, e quindi pronto per ulteriori avventure39. Si schiera dunque «contro i cittadini»40, e «noi
siamo troppo avvezzi da più che venti anni a vedere l’esito delle imprese di codesti uomini
che hanno fatto l’Italia»41. La grande flotta è «imposta dall’albagiosa politica italiana, voluta
dagli sparnazzatori del pubblico denaro, e probabilmente destinata a marcire ingloriosamente
negli ancoraggi dei nostri porti e a sciupare carbone nelle inutili gite di costiera»42. La
coscrizione obbligatoria prelude alla nazione armata, cioè alla militarizzazione dell’intera
società, e qui allo sperpero si aggiunge la depravazione di massa, provocata da un sistema di
valori e di comportamenti irreparabilmente altro da quello inculcato per secoli dal
cattolicesimo43.
Lo stato effettivo della compagine militare rivela la profondità dei mali che affliggono il
paese. C’è l’obbligatorietà del servizio, innanzitutto, e poi il vestiario, la salute dei militari, la
disciplina, l’addestramento, l’immoralità insita nella concentrazione di tanti giovani, privati
irragionevolmente del conforto e della direzione spirituale del clero, una volta soppressi i
cappellani44. I liberali al potere irritano le potenze estere, aumentano le tensioni e quindi gli
apprestamenti militari. Ma «l’esercito italiano è ancora sotto il peso delle ultime sconfitte [...]:
si noti il disgusto che il soldato porta dalla casa e dalla caserma contro un governo che non ha
ritegno, non economia, non rispetto alle credenze...»: l’esercito è davvero un «leone
nerboruto, forte, agile», ma la sua testa è quella di un asino45. S’accende allora un’acuta
nostalgia per il passato, tanto infondata sul piano storico quanto – alla breve – persuasiva e
trascinatrice: «dove sono gli antichi eserciti del Piemonte, dei granduchi, di Napoli, dello
Stato Pontificio, piccoli ma agguerriti, fiorenti, baldi e gloriosi, che formavano la meraviglia
d’Europa?». Oggi, dopo la rivoluzione, i nostri guerrieri hanno vergogna di comparire di
fronte al soldato delle altre nazioni, maceri in volto, con la divisa povera e grama, con l’arma
comprata tra i rifiuti e gli scarti dei magazzini»46. Gli esempi negativi martellano il lettore
38
OC, 28.12.1880: La questione delle navi.
39
OC, 9.10.1878: Il discorso Cairoli a Pavia.
40
OC, 25.11.1878: La prigionia del Papa e la prigionia di Umberto.
41
OC, 4.8.1881: La marina italiana.
42
OC, 30.12.1880: Il varo dell’Italia; 24.9.1880: Dilapidazione del Governo e l’armata navale.
43
OC, 6.11.1889: La nazione armata espressione del diritto militare.
44
OC, 16.9.1879: L’esercito.
45
OC, 16.10.1879: Lo stato militare.
46
OC, 20.6.1881: L’Italia povera ma forte del generale Mezzacapo.
6
sommando disprezzo ed alterità: inefficienza, rifiuto del giuramento, indisciplina, delitti e
suicidi si moltiplicano47. Poi ci sono i maltrattamenti inflitti da ufficiali e graduati incapaci e
violenti. Ecco «il marcio nell’esercito»48, e le povere reclute son trattate come bestie49.
La questione militare, che si aggrava col tempo, segna la profondità della frattura aperta
dal Risorgimento. «Il sistema liberale di governo ha ucciso tutte le libertà del bene, ha
introdotto tutte le licenze del male: ha messo insieme un’immensa quantità di uomini, li ha
armati, li dichiara e rende necessari alla pace e all’ordine, li usa a puntellare governi d’ogni
sorta e, alla fine, li rimanda alle famiglie spogli dell’antica virtù e sovente appestatori dei
paesi stessi ove l’immoralità era ignota»50. La responsabilità piena ed intera grava sul gruppo
dominante: «il governo stesso che ha gettato lo scredito sull’esercito; il paese può gridare:
‘Varo, rendimi le mie legioni!’. Rendete l’esercito alle sue tradizioni, non guastate i figli delle
madri cattoliche, e l’esercito sarà rispettato»51. Dell’istituzione principale del paese, dopo il
Parlamento, nulla si salva, se non il materiale umano proveniente dalle “buone” campagne, né
si profila un modello alternativo. Non l’esercito di leva, dunque, non la nazione armata della
tradizione democratica svizzera, ma neppure un piccolo esercito professionale di modello
americano o britannico, che sarebbe un’altra Arma dei Carabinieri, docile alla volontà del
sistema. La contestazione non esibisce alternative e tutto rimanda all’auspicato ribaltamento
politico-culturale, e quindi ai tempi lunghi della situazione italiana. Nelle more, la vigilanza
critica si fa occasione demolitiva: ecco gli ufficiali ex borbonici ai posti di comando,
esemplari di slealtà ed opportunismo52, poi la memoria onnipresente di Custoza e Lissa53,
l’arroganza incompetente degli ufficiali54, le prepotenze dei superiori con lo strascico di
violenze e suicidi55, la pratica del duello e la diffusione dei disvalori che esso sottende56. La
conclusione vede «queste milizie campo di perdizione per tanti figli del popolo»57.
Le imprese d’Africa esaltano ancora la separatezza di questi cattolici dalle istituzioni. E’
il trionfo del militarismo, con le pazzie di Crispi e le tragiche buffonate dei militari in campo,
come quel Da Bormida che alla vigilia di Abba Garima asseriva «con quattro granate la
finiamo»58 o il Baldissera che distribuiva schiave ai signori ufficiali59. Degradazione morale,
spese folli, vanità sommata alla prepotenza, inconsulto tributo di sangue: l’Africa mostra
definitivamente il volto autentico delle istituzioni nazionali. Altri sono gli eroi di questa
opposizione cattolica: il cardinal Lavigerie e il deputato tedesco Windthorst, fautori di una
mobilitazione antischiavista e di un rinnovato zelo missionario per la cristianizzazione
47
OC, 24.6.1884: La causa di tanti mali qual è?; 10.1.1889: I poveri soldati; 11.7.1889: Il giuramento dei soldati;
23.6.1884: Diario. Milano 23 giugno.
48
OC, 15.7.1884: Il marcio nell’esercito.
49
OC, 4.4.1894: Come si trattano i soldati.
50
OC, 20.8.1892: L’esercito e le proteste pubbliche.
51
OC, 16.6.1882: L’esercito.
52
OC, 29.7.1880: Milano, 29 luglio.
53
OC, 21.6.1884: i disordini nella milizia. Cause e rimedi.
54
OC, 31.10.1885: Dell’esercito.
55
OC, 24.2.1891: Gesta di militari; 1.5.1891: L’onore dell’esercito!
56
OC, 16.7.1889: Il duello e i Papi.
57
OC, 27.6.1884: Sempre l’esercito.
58
OC, 31.3.1896: Il soldato italiano in mano dei suicidi.
59
OC, 1.5.1891 cit.
7
dell’Africa60. Ma il riferimento all’arcivescovo di Algeri (famoso per il primo brindisi alla
Terza Repubblica) e al capo del Zentrum al parlamento di Berlino contiene almeno
un’allusione ad un diverso modo di porsi dei credenti rispetto alla politica ed alle istituzioni,
in linea col progetto del grande Segretario di Stato di Leone XIII, Mariano Rampolla:
l’appello al popolo (e quindi un certo uso appropriato della democrazia) per la riconquista
della società e dello Stato. La realtà, nella stagione della Rerum Novarum, è il conflitto con il
Regno liberale, aggressivo come nel ’59, ’60, ’61, e ’70, oggi fattosi imperialista. La guerra
d’Africa è “ingiusta”, costosissima, “infruttifera”, un vero «castigo di Dio»61. Tre peccati
capitali muovono l’aggressione italiana; «La sete dell’oro, la voluttà e l’orgoglio»62 e non c’è
transazione possibile.
Se l’art. 5 dello Statuto riserva la direzione della politica estera, con la stipula dei
trattati, la guerra e la pace, alla regia prerogativa, il cerchio si chiude. La dinastia, che
Umberto I non ha saputo o voluto condurre ad una conciliazione col papato, si perde tra
dissipazioni festaiole ed errori politico-strategici di cui le relazioni internazionali dell’Italia
unita sono conseguenza63. La forza delle cose spinge alla sottomissione ai grandi disegni del
principe di Bismarck64, e vani sono i sogni di un ruolo pacificatore per l’Italia: lo vieta la
condizione effettiva del paese, col «popolo oltraggiato nella sua fede, tiranneggiato dai
governi in veste liberale, dissanguati, soggetti alla leva militare, alla istruzione ateizzante,
schiacciati non più da un solo tiranno ma da otto o nove quanti sono i ministri [...], accentrati
politicamente ed economicamente, ridotti schiavi da un capitale che l’usa non come
intelligenza ma come forza bruta, ma come manovella e ingranaggio di una macchina»65. La
pace, in simile condizione di cose, è impensabile dentro agli Stati, e tanto meno nelle loro
relazioni. L’Italia non fa eccezione, e col suo agognare «a Malta, alla Corsica, al Canton
Ticino, a Nizza, a Savoia, a Trieste, a Trento, alla Dalmazia, alla Tripolitania»66, è causa ed
effetto della generale instabilità del vecchio continente. L’inettitudine del partito liberale,
peraltro, la fa sola in Europa: «l’Italia è spaventosamente isolata. E per l’Italia l’essere isolata
è il più grave dei pericoli»67. Il caso Oberdan evidenzia il nodo di contraddizione di una
politica che dovrebbe avere il suo centro nel Quirinale, ma è obbligata al compromesso con le
forze che hanno portato i Savoia sul trono d’Italia: bombe e pugnali hanno realizzato il
Risorgimento, e come smentire ora gli irredentisti? Come evitare peraltro il conflitto con
l’Austria? Come tenersi strette le conservatrici Corti del Nord?68. Sono spinte inconciliabili ed
incontrollabili per l’Osservatore Cattolico che pretende di non occuparsi di politica estera
(cosa non vera) «perché non si può parlare di una cosa che non esiste»69. Velleità di potenza e
pulsioni oscure non si compongono in un progetto coerente, e l’innaturale ribellione contro
l’anima vera del paese dà i suoi frutti. «Il nostro governo ha infatti i carabinieri per
60
OC, 19.12.1888: Contro la schiavitù.
61
OC, 3.2.1896: La guerra a fondo.
62
OC, 19.12.1888 cit.
63
OC, 22.4.1893: Le feste di Casa Savoia.
64
OC, 1.4.1878: Corriere di Roma.
65
OC, 17.5.1878: Per la pace.
66
OC, 4.5.1883: Il disarmo generale.
67
OC, 13.7.1878: Giorno per giorno. Il nostro fiasco.
68
OC, 7.8.1882: La bomba di Trieste.
69
OC, 28.4.1882: Diario. La politica estera italiana.
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combattere gli eserciti delle processioni e far da spia ai Parroci; ha un Parlamento per
bestemmiare il Papa, ha un Ministro per giocare a mosca cieca col Vaticano, ha un
giornalismo per incensare tutti questi valorosi»70.
La ribellione liberale alla fede e ai buoni costumi ha generato un sistema di relazioni
internazionali aggressivo e insostenibile: “su, spranghe, catenacci, trattati, alleanze, fortezze,
armi, armate, eserciti, navi, schioppi, cannoni, e tutti attorno armati sino ai denti questi fratelli
della fratellanza, della libertà, dell’eguaglianza, del progresso, della filantropia e dell’amore
universale, tutti armati e pronti a darsi addosso e a scannarsi a vicenda come milioni di
antropofagi»71. Il punto di saldatura tra l’interpretazione generale delle relazioni fra le potenze
e la specificità della politica italiana è rappresentato dalla Triplice Alleanza. In linea con il
giudizio di Rampolla, la valutazione dei cattolici “papali” (come si autolegittimavano) o
“intransigenti” (come li chiamano gli storici), il patto risulta il sigillo al Risorgimento: il
documento, ignorato fino all’ottobre 1917, sancisce la garanzia all’integrità territoriale dei
contraenti e riconferma il valore dell’istituto monarchico, seppellendo dunque il potere
temporale e cancellando ogni velleità cripto-repubblicana o comunque legittimista. La
reazione, sin dagli albori dell’alleanza, è inequivocanea. Le alleanze, in sé, sono già sintomo
di instabilità e reciproca sfiducia72. Al Kaiser in visita si rammenta che è ospite del «palazzo
pontificio del Quirinale»”, fatto sabaudo da un’ingiusta debellatio73; mentre l’Italia liberale si
rivela così debole da cercare appoggio persino... a San Marino, ancorché repubblica!74. Il
nodo che si sta stringendo con Austria e Germania, è anche artificioso, avverso alla «comunità
di stirpe, di interessi, di indole, di Religione che «ci lega naturalmente alla nazione
francese»75. In filigrana, prende qui corpo un mito duraturo, quello dell’alleanza latina e
cattolica, o mediterranea, con l’Austria basculante tra Roma e Berlino. Ma in concreto, il
viaggio del Re a Vienna mostra l’inclinazione della politica liberale, e resta solo lo scherno.
Ecco «i cari tedeschi!»76, ecco «gli austriacanti»77, un fondo sormontato dall’aquila bicipite
dei tempi andati, a svillaneggiare l’ipocrita disinvoltura del partito che occupa le istituzioni,
fattosi per interesse satellite degli Asburgo. Si recupera così un verso del Porta, che nei
disperati entusiasmi del 1815 era giunto a scrivere Viva, viva la cà de Lorena! La Triplice è
«un assurdo sognato dalla mente inferma di Mancini»78 (78), mentre «il motore di tutto è
Bismarck», e cioè il capo della massima potenza continentale, protestante, nemica della
Chiesa79.
Per tutta l’età di Leone XIII, che vede l’industrializzazione e la comparsa delle masse,
l’imperialismo e la prima crisi dello Stato liberale tra Adua e Monza, questi cattolici si vivono
separati dallo Stato, non diversamente dagli irlandesi dalla corona britannica o i polacchi dagli
Zar. A loro resta solo il Papa con la sua missione veritativa e pastorale, mentre il tentativo
70
OC, 27.2.1878: La pace di Costantinopoli.
71
OC, 16.8.1890: Chi è che mantiene la pace?
72
OC, 6.2.1889: Pace infida.
73
OC, 15.10.1888: La rivista militare a Centocelle.
74
OC, 28.8.1881: Le alleanze.
75
OC, 14.7.1881: Diario. Le alleanze.
76
OC, 25.10.1881: I cari tedeschi!
77
OC, 11.11.1881: Gli austriacanti.
78
OC, 20.7.1881: Diario. Le alleanze e il prestito.
79
OC, 28.10.1881: Diario. A Vienna sì, a Berlino no.
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giobertiano di dare senso e ruolo cristiano all’Italia è oramai inesistente. La famiglia, il
lavoro, il comune, sono l’orizzonte naturale, lo Stato resta esterno e nemico. Non c’è neppure
la forza della tradizione ad accreditarlo, perché il passato non esprime nulla che possa
animarlo, diversamente da Francia e Spagna. L’approdo è un inveramento temporale della
Rivelazione, custodito e trasmesso dalla Chiesa, uno Stato italiano, se pur conquistato e
battezzato, resterebbe sempre subalterno ai più alti disegni della Chiesa. L’autonomia del
temporale è di là da venire, ma quando il suo principio si diffonderà, lo Stato, e quello italiano
in particolare, sarà assediato dalla duplice pressione di una società fattasi irresistibile nelle sue
pulsioni e da una realtà planetaria oramai vincente. L’originaria divisione sarà concausa della
sua precoce decrepitezza, e anche della sua scomparsa si potrebbe dire che operai e contadini
lo portarono, nessun prete lo accompagnò.
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