Un itinerario di ricerca e di organizzazione della ricerca Mario Isnenghi Un momento centrale nell’itinerario di ricerca di Guido Quazza in questo mezzo secolo — oltre che tema ricorrente anche di diversi fra i suoi cor­ si di insegnamento, sempre attenti a non sminui­ re le radici moderniste del contemporaneista e la sua vocazione a muoversi entro spazi e tempi di­ latati — è costituito da Le riforme in Piemonte nella prima metà del Settecento1. Di quest’opera — per più versi strategica nel percorso di Quazza — colpisce, e tanto più in quanto potrebbe apparirvi un approccio collatera­ le rispetto alle questioni da affrontare, l’attenzio­ ne alla psicologia, anzi vorrei dire proprio alla “soggettività”: alla soggettività dei regnanti e a quella dei loro ministri e funzionari. Eppure essa si presenta come uno studio sulle istituzioni e le trasformazioni istituzionali. Il suo elemento ca­ ratterizzante sta proprio in questo doppio piano di lettura in cui le istituzioni, e le soggettività che vi si muovono dentro, si bilanciano e vincolano vi­ cendevolmente. Uso a ragion veduta il termine, oggi storiograficamente in auge, “soggettività”, poiché l’attenzione con cui lo studioso degli anni cinquanta è portato a cercarle e riconoscerle — anche in personaggi non di primo rango — va ol­ tre i tradizionali riscontri delle biografie e viene precocemente incontro proprio a interessi per l’in­ dividualizzazione del dato politico sociale ai qua­ li solo successivamente la scienza storica si è re­ sa disponibile. C’era già, in quel settecentista, il prossimo studioso della banda partigiana come mi­ crocosmo esistenziale, oltre che come gruppo po­ litico e militare; e un’attitudine che nel volume biografico su Quintino Sella, uscito in anni vicini a noi, trent’anni e più dopo l’opera sui governan­ ti sabaudi, si è ulteriormente spostata nel senso dell’esistenziale, verso il “privato” dell’uomo po­ litico, in un programmatico intreccio fra sfera pub­ blica e sfera privata. Ho parlato di istituzioni, si poteva anche dire go­ verno. L’opera del 1957 assume uno spazio-tempo specifico per darsi delle risposte sugli uomini di governo: e precisamente su chi diventa uomo di go­ verno in un periodo dato — in quel caso di studio, nel corso di un processo di messa in movimento della società e dello Stato innescato dall’iniziativa dei principi; come e perché lo diventa; e come e perché riesce a restare tale. Riunificando i passag­ gi: al centro dell’analisi stanno le forme e i conte­ nuti dell’esercizio del potere in una situazione da­ ta, ovverosia l’arte di governare gli uomini. Un te­ ma tipicamente quazziano — che tale si conferma anche rispetto alle riflessioni di vita e alle dinami­ che della memoria che nutrono Resistenza e storia d’Italia2 —-, rispetto al quale, infatti, lo storico si può anche considerare l’interfaccia dell’uomo. La presente nota riproduce l’intervento nella giornata in onore di Guido Quazza (“Guido Quazza. Il suo impegno civile sto­ riografico e didattico”), organizzata a Torino il 26 settembre 1995 dalla facoltà di Magistero e dal Cirda. Oltre a chi scrive, erano relatori Claudio Pavone, Remo Fomaca e Fernanda Gregoli. 1 G. Quazza, Le riforme in Piemonte nella prima metà del Settecento, Modena, Società tip. ed. modenese, 1957 [2a ed. Tori­ no, Gribaudo, 1992], 2 G. Quazza, Resistenza e storia d’Italia. Problemi e ipotesi di ricerca, Milano, Feltrinelli, 1976. Guido Quazza. Un protagonista della nostra storia Con l’avvertenza — bisogna ripeterlo — che nell’opera sul Settecento riformatore si manife­ sta altrettanta curiosità intellettuale per le moti­ vazioni e le scelte dei sovrani che per gli itinera­ ri umani dei loro potenziali ministri e lo spacca­ to d’epoca deborda largamente dagli apparati ver­ so la variegata stratificazione delle attese di ce­ to. L’interesse si amplia dalla dimensione stretta della politica a quella ampia e sfrangiata dei per­ corsi che selezionano i destini individuali, alle varie forme e congiunture della lotta per la vita e per il successo sociale e anche agli intrecci fra promozioni individuali e di classi. (La parola ‘classe’ non è di troppo, il lessico politico del no­ stro autore la contempla) Questa dimostrata capacità di attenzione agli in­ dividui e alle dinamiche individuali, però dentro i processi storici e le dinamiche istituzionali — cioè agli attori sociali di processi in atto, in rap­ porto a contesti specifici, a compatibilità di fase e a rotture e superamenti di situazioni date — tro­ va corrispondenza anche sul piano degli schieramenti e dei conflitti storiografici. Questo passaggio analogico, dal piano della pratica storiografica posta personalmente in atto al piano dell’intervento critico nel dibattito sul senso e le ricadute delle pratiche storiografiche, proprie ed altrui, viene suggerito per esempio dal­ l’intervento di Quazza al convegno palermitano del 1978, ripreso sulla “Rivista di storia contem­ poranea”, con l’impegnativo titolo Storia della storiografia, storia del potere, storia sociale3. C’è molto del nostro personaggio in questo ti­ tolo della rivista, che lo ha visto animatore dal­ l’anno di fondazione sino ad oggi, al termine dei suoi ventitré anni di vita. La “Rivista di storia contemporanea” nasce nel 1972, lo stesso anno in cui egli raccoglie l’eredità di Ferruccio Parri come presidente nazionale della già allora con­ sistente rete degli Istituti per la storia del movi­ mento di liberazione in Italia. Se — nonostante le fondate polemiche sugli ostracismi e i ritardi — la Resistenza è pur giun­ 3 “Rivista di storia contemporanea”, 1979, n. 2. 523 ta in questo dopoguerra a strutturarsi come ter­ reno di conservazione, ricerca e valorizzazione scientifica e sociale della memoria storica — non meno e, tutto sommato, prima di quanto sia a suo tempo avvenuto per il Risorgimento •— molto lo si deve proprio a un uomo come Quazza: il qua­ le si è battuto in prima fila per vincere le resi­ stenze accademiche e radicare via via in tutte le facoltà universitarie dell ’area umanistica una ma­ teria nuova quale la storia contemporanea, in es­ senza pregna di politicità e caratterizzata dal­ l’assoluta particolarità delle fonti e per ciò stes­ so sospetta a gran parte di quello stesso mondo degli storici medievalisti e modernisti, abituati a più tranquille frequentazioni di consolidati san­ tuari archivistici, rispetto ai quali Quazza — pro­ prio perché lui pure medievalista e modernista — può ricoprire preziose funzioni di patrono e ga­ rante dei buoni costumi di quell’ultima nata da una costola della Storia canonica. Nei primi decenni del nostro secolo era toc­ cato a storici del Medio Evo, quali Gaetano Sal­ vemini o Gioacchino Volpe, affrontare essi stes­ si studi di storia contemporanea, accademica­ mente dubbi o troppo esposti per altri, mentre in­ vano il povero Michele Rosi si affannava — col suo isolatissimo corso libero all’Università di Ro­ ma — ad accumulare meriti e titoli per quella cat­ tedra di Storia del Risorgimento che non verrà mai. Per la sua tarda legittimazione si dovranno attendere infatti gli anni trenta e una generazio­ ne universitaria che è già quella dei maestri del­ lo stesso Quazza, come Walter Maturi. Ecco per­ ché va segnalato come invece, nei primi anni ses­ santa, a poco più di venticinque anni dai fatti, la Resistenza entri come tema di studio all’Univer­ sità (più ancora che come tema di insegnamento nella scuola). L’incardinamento e il sostegno del­ la storia contemporanea nell’ordinamento acca­ demico, la diffusione di una rete parallela di isti­ tuti di ricerca storica specificamente intestati al­ la “rottura e trasformazione” dell’antifascismo e della Resistenza, la “Rivista di storia contempo­ ranea” si possono considerare i tre fronti di avan­ 524 Mario Isnenghi zamento e i tre strumenti più incisivi dell’azione propulsiva di Quazza. Ora possiamo meglio cogliere il senso del già citato intervento palermitano quando, nel 1978, questa complessa macchina di documentazione ed elaborazione critico-interpretativa della memoria delle intenzioni e dei fatti lavora ormai da anni a pieno regime, affidata a un numero rilevante di mi­ litanti-studiosi e di studiosi-militanti, extrauni­ versitari e universitari, esponenti in proprio della generazione resistente o più giovani analisti delle generazioni successive, che tutti riconoscono in Quazza un leader capace di ricomporre territori, linguaggi e pubblici solitamente separati. Vi si può riconoscere il suo affermato ruolo di guida, una operazione egemonica — al di là del­ le tematiche resistenziali — sugli orientamenti ge­ nerali di studio della contemporaneistica italiana, affidata al tessuto argomentativo di un attacco — si può dire, senza infingimenti — ai Galasso, ai Valiani, ai rappresentanti in loco di una prassi sto­ riografica che, volendosi “liberale” o altro, e co­ munque pretendendosi a differenza delle altre “og­ gettiva”, affetta di autoescludersi dalla dialettica e dal conflitto: in una presunta “indipendenza” e millantata “serenità” esterna al conflitto sociale e al conflitto per l’interpretazione e la rappresenta­ zione stessa del conflitto. Ecco una sfera di inte­ ressi e di atteggiamenti attraverso cui Quazza e i collaboratori affini coinvolti finiscono per rende­ re la “Rivista di storia contemporanea” diversa non solo dalle riviste istituzionali e moderate, ma an­ che diversa dalle altre riviste storiche riconduci­ bili all’area di una sinistra politica più “oggettivi­ sta” o non altrettanto disponibile a riconoscere che il conflitto delle visioni orienti e trasformi anche il primato e le gerarchie dei fatti. (Come è stato notato da qualcuno dei componenti del Comitato di direzione della rivista, di recente riunito per ri­ pensarne l’intera parabola e definirne l’identità, uno storico del tipo di Ernesto Ragionieri — pro­ prio per queste inquietudini eterodosse, almeno per un tratto ascrivibili a una sorta di “nuova sini­ stra” storiografica — non si sarebbe verosimil­ mente trovato del tutto a casa sua nella “Rivista di storia contemporanea”.) Continuiamo a cercare di legare i diversi am­ biti di azione, senza peraltro la possibilità e il com­ pito di riferire su tutti e neppure sull’intero arco della sua opera d’autore4: rispetto alla quale le competenze del contemporaneista di oggi — qua­ le chi scrive — sono diventate ristrette se para­ gonate con quelle dei contemporaneisti di prima generazione, quale appunto un Guido Quazza, na­ ti e orgogliosamente rimasti — a pieno titolo — anche modernisti. Vale la pena di ricordare che l’intestazione ufficiale del dottorato di ricerca in Storia contemporanea, che è nato e ha posto il suo centro a Torino, suona assai affine e congruente rispetto ai rilievi sopra condotti. Si è infatti autodefinito privilegiando come propria sfera d’azio­ ne non già la storia contemporanea in genere, ma i periodi di “Crisi e trasformazione della società”. Siamo in stile, come si vede. Più di un volume e molti atteggiamenti di Quazza potrebbero essere condensati in un’espressione come questa: per esempio La lotta sociale nel Risorgimento5, op­ pure Resistenza e storia d’Italia; ma, al di là del­ l’uomo di libri, naturalmente, anche il partigiano, o il “preside del Sessantotto”. Quest’ultima defi­ nizione, anzi, lungi dal ridursi a espressione di co­ lore, sembra risultare appropriata a un’attitudine e a una propensione che non è solo precipua del­ lo studioso, ma appunto dell’uomo d’azione, per gli stati di crisi e — nessuna “filosofia della cri­ si”! — di governo degli stati di crisi, traendo dal­ la crisi possibilità di trasformazione delle istitu­ zioni e di crescita complessiva. Le interrelazioni che traspaiono fra i diversi pia­ ni dello studio e dell’azione possono suggerirci l’interrogativo se non vi siano talvolta forme di prossimità, se non di identificazione tendenzia­ le, fra l’autore e le situazioni e in cui si muovo­ 4 Si rimanda per questo al volume Adriano Ballone, Patrizia Cirio (a cura di). Guido Quazza. Biografia di un impegno, Tori­ no, Omega, 1995. 5 G. Quazza, La lotta sociale nel Risorgimento. Classi e governi dalla Restaurazione all’Unità (1815-1861 ), Torino, tip. Coggiola, 1951. Guido Quazza. Un protagonista della nostra storia no i suoi personaggi. Lo si può supporre quando per esempio in Le Riforme in Piemonte nella pri­ ma metà del Settecento parla della “scelta dei collaboratori [che] dà al re lo strumento umano per la ‘grand’opera’”6. Si può esser tentati di rico­ noscere almeno un nesso fra questo tema di stu­ dio e l’oculata opera di selezione e valorizzazio­ ne di una rete fedele di collaboratori di cui si cir­ conda Quazza nelle sue molteplici attività di im­ prenditore di cultura. Poiché si tratta di fare e far fare, e che ognuno sia messo in grado di fare e valorizzato nel suo fa­ re. Se riferito al piano degli oggetti di studio e in particolare a questo volume settecentista, un’e­ spressione che se ne può estrarre e che ha il suo­ no di una parola d’ordine, nella fattispecie, ade­ guata, è: “Far cose non nuove, ma serie”78.In quel caso si tratta di prìncipi, il che definisce e dimen­ siona i caratteri del loro governo della realtà e an­ che il grado di adesione dell’autore all’universo dei personaggi. L’adesione è destinata ad accen­ tuarsi e avvicinarsi sin quasi a un’immedesima­ zione davanti ad altri suoi personaggi, pure loro razionali e consapevoli protagonisti del fare: allu­ do in particolare al suo amato Quintino Sella. (Può essere significativo rilevare come— a parte la sag­ gistica relativa alla Resistenza — le scelte di ri­ cerca di Quazza abbiano generalmente privilegia­ to non i testimoni, ma gli attori; e non prevalente­ mente chi si oppone, ma prevalentemente chi ha potere di comando e responsabilità di direzione su uomini e cose, cioè fa perché è, o si mette in con­ dizione di, poter agire e realizzare, dirigendo protagonisticamente gli avvenimenti.) Dopo l’opera di meditazione sul “far politica” dall’interno delle strutture sociali e istituzionali della monarchia assoluta in Piemonte, Quazza si sceglie, coltiva per decenni, un altro personag­ gio-specchio, operoso e razionale protagonista del fare: in un altro frangente storico, di crisi e trasformazione dello Stato e della società, in cui la soggettività del protagonista pesa, determina 525 situazioni e le governa, indirizzando uomini ed eventi. È appunto il Sella, studiato — dichiara­ tamente — sulla fonte privilegiata e particolaris­ sima dei suoi carteggi e simpateticamente segui­ to in tutti i piani e le sfaccettature della sua po­ liedrica e bene equilibrata figura di giovane stu­ dente borghese, di viaggiatore europeo, di inge­ gnere minerario, imprenditore tessile, ammini­ stratore, parlamentare, statista, studioso, orga­ nizzatore culturale. L’attenzione alla soggettività si è acuita negli oltre trent’anni che dividono Le riforme (1959) dal Sella (1992). Nel contesto storiografico cir­ costante, una serie di fattori hanno fatto precipi­ tare la crisi della storia politica e innalzato inve­ ce i pregi del “privato” e delle ricerche che vi si ispirano. Certo, Quazza, nel frattempo, tutto ha fatto fuorché adulare il “privato” (come si sono rassegnati invece a fare tanti dei reduci dal Ses­ santotto, invecchiati più e prima di lui) e le ra­ gioni per conquistare alla storia le neglette sfere dell’interiorità e dell’extrapolitico non si riduco­ no a quelle d’ordine surrogatorio e involutivo ri­ spetto alle sconfitte sofferte da una o più genera­ zioni nella sfera pubblica; e infatti il nostro au­ tore è stato sempre molto attento a elaborare una sua posizione e a interagire criticamente con le metodologie e le tematiche innovatrici via via emergenti. Lo prova una serie di interventi sulla “Rivista di storia contemporanea”, che riposi­ ziona la rivista e lui stesso, in prima persona, ri­ spetto alle diverse fioriture, stagionali o più du­ revoli, dei rapporti fra la storia e le scienze so­ ciali, o della storia sociale, della storia orale, del­ la storia delle donne e di genere, ecc. L’opera uscita nel 1992 — L’utopia di Quintino Sella1,— è anche il frutto di questo: di una filologia dei sentimenti che viene ad aggiungersi alla profes­ sione filologica dell’editore di testi, in particola­ re i testi di un epistolario, con la messa in forma, i travestimenti e le sfumature delirio’, di tanti ‘io’ che si rapportano fra loro e si autorappre- 6 Cfr. G. Quazza, Le riforme in Piemonte , cit., 2a ed., p. 55. 7 Cfr. G. Quazza, Le riforme in Piemonte , cit., 2a ed., p. 163. 8 G. Quazza, L ’utopia di Quintino Sella e la politica della scienza (Comitato di Torino per la Storia del Risorgimento italia­ no),Torino, L’Artistica Savigliano, 1992. 526 Mario Isnenghi sentano agli altri e a se stessi. Dopo lunghi anni di paziente ricognizione sulle lettere, che vedo­ no accanto a lui come coadiutrice nell’edizione la moglie Marisa9, nel volume che se ne alimen­ ta Quazza dà spazio a Clotilde Sella, a un diari­ smo femminile e a una identità di consorte del­ l’uomo pubblico, in cui non si fatica a distingue­ re l’attenzione che l’autore ha maturato nei con­ fronti della storia delle donne (e forse anche qual­ che più risentita riflessione d’ordine personale). Tutto questo — l’attenzione allargata alla sfe­ ra privata anche dell’uomo pubblico — ci porte­ rebbe fuori strada se non marcassimo, nel con­ tempo, che l’uomo e l’autore non la sostituisco­ no affatto alla sfera pubblica. Sella risulta con­ geniale a Quazza proprio in quanto intraprendente intellettuale-politico, interprete eminente di una classe politica di origini sociali distinte da quel­ le della tradizionale classe dirigente del Regno sardo, e uno dei massimi uomini di governo nel­ l’Italia dell’epoca, a giudizio del suo estimatore. Viene qui appropriato sottolineare la scelta con­ trocorrente di dedicare — in questi nostri anni di polemiche e disincanto — un così ponderoso, lun­ gamente pensato e — potremmo dire — affettuo­ so volume a uno dei massimi artefici della costru­ zione dello stato italiano unitario: una triade con­ cettualmente desueta — quest’ultima— di cui cia­ scuno dei tre termini costitutivi appare attualmen­ te revocabile e revocato in dubbio in molto senso comune. Al centro del suo interesse e di una stima profonda, non esente da barlumi di nostalgia per quest ’uomo della Destra storica così laicamente fat­ tivo, è un piemontese delle ore forti, impegnato a volere e a fare l’Italia: a far sì che la “nuova Italia” vada a Roma, anche a forza, e da Roma, da una Ter­ za Roma della Scienza — ecco L’utopia di Quinti­ no Sella —, acquisisca il diritto e la possibilità di dire e di fare con voce nazionalmente significativa. L’ingegner Sella — nell’Italia promossa dagli uomini di lettere e che si avvia ad essere governa­ ta da avvocati e giornalisti — piace al professor Quazza, certamente in quanto uomo di cose, cioè appunto in quanto ingegnere, portatore di una cul­ tura tecnica, di un metodo scientifico e di una pre­ cisa professionalità, e però anche — contempora­ neamente — come ingegnere capace di coltivare e portare a compimento miti e utopie. Il processo di tendenziale identificazione fra autore e personag­ gio non poteva esigere di meno. Tutta l’esperien­ za umana e tutta l’operosità scientifica di Quazza stanno, si può dire, in tensione fra pragmatismo e utopia, così come fra istituzioni e società, condi­ zionamenti fattuali e salto di qualità impresso dal­ la risoluta attività volitiva del soggetto. Con i temi della costruzione della nazione e del­ lo Stato, Guido Quazza si misurava da decenni: nella reazione attiva allo choc da 8 Settembre, è chiaro; e poi, appena uscito dalla esperienza del­ la Resistenza, sulle soglie del suo impegno pro­ fessionale, quando nel 1951 organizza in volume una raccolta di saggi originariamente pubblici­ stici, pericolosamente sulfurea e poco accademi­ ca fin dal titolo, cui tengono poi fede angolature e tematiche: La lotta sociale nel Risorgimento, già passabilmente non conformista rispetto alle tradizioni disciplinari e del contesto ambientale, ma tale più ancora nel sottotitolo: Classi e go­ verni dalla Restaurazione all’Unità (1815-1861 ). Al termine di una panoramica pluriregionale informata, aperta alle varianti politiche in cam­ po e non pregiudizialmente chiusa a ipotesi di uscite diverse dalla crisi evolutiva della peniso­ la, il volume approda a concetti quali il “piano nazionale della borghesia subalpina”, il “terzo partito di Cavour” e il Risorgimento come “rivo­ luzione conservatrice”. Il volume sarà parso improntato a un’ottica po­ co normale e scritto con un linguaggio inquinato da ansie politiche attualizzanti a una risorgimentistica prudente e aliena dalle sintesi come quella italiana, appena uscita (e, per la verità, non sempre uscita) dalle contiguità con la cultura nazional-fascista. Eppure, nonostante il giudizio complessivo— il Risorgimento appunto come “ri­ 9 Guido e Marisa Quazza (a cura di), Epistolario di Quintino Sella , 2 voi., Roma, Istituto per la storia del Risorgimento ita­ liano. 1980-1984. Guido Quazza. Un protagonista della nostra storia voluzione conservatrice” —, è il conte di Cavour a uscire come il vero dominatore della realtà, da queste pagine popolate di luoghi, bisogni e per­ sonaggi appartenenti al campo del radicalismo e della democrazia. Una controprova dell’apprez­ zamento per la superiore regìa di parte moderata si potrebbe anche riconoscere nella inequivocabi­ le marginalità in quest’opera, per contro, della fi­ gura di Garibaldi. Come ciò possa avvenire, con­ fessiamo di non sapercelo spiegare; ma si tratta chiaramente di un’importante spia di una manie­ ra di rapportarsi alle problematiche sia politiche sia storiografiche, che rimanda alle già segnalate propensioni per i luoghi e le figure di governo del­ le situazioni; e, forse, alla fin fine, anche alla ri­ sentita e appassionata piemontesità di Quazza. Chiudo con un riferimento a una delle non poche riflessioni su una vita: profili umani e professio­ nali, che vanno oltre le incombenze dell’ufficia­ lità e manifestano, ancora una volta, in Quazza, il puntiglioso ricorrere dell’interesse per i com­ portamenti reali come termine di misura del­ l’adesione ai princìpi. Ritratti come quello che seguono non sono rari e si trasferiscono, non di rado, dalle circostanze dell’oralità alla più lunga durata della scrittura, spesso in forma di articoli sulla rivista. Questo pezzo del 1983, che scelgo ad esempio, ha per titolo Tra cultura e politica: 527 un latinista nel 1945-1948, ma la persona di cui si parla attiva riflessioni d’ordine generale su pun­ ti fissi dell’impegno di Quazza, che potrebbero ripresentarsi come una costante. Il cuore della questione è, infatti, quello stare in equilibrio tra cultura e politica: Come tanti resistenti (è un tema affascinante, tutto da studiare!), riprende a camminare da solo, nel suo ter­ reno specifico, ma senza perdere di vista l ’insiem e10. Parla del professor Vincenzo Ciaffi, docente di latino e suo collega al Magistero di Torino; ed è un pezzo intenso, amicalmente immedesimato e compartecipe rispetto a quella figura di intellet­ tuale diffuso che — esaurita la stagione partigiana — dà una dimensione etico-politica alla sua professione, agendo nel sociale, ma tenendosi ai bordi delle organizzazioni di partito. L’esperien­ za personale di Quazza trova ambiti d’azione più vasti e differenziati e non è riducibile a quella del collega, per molte ragioni, anche d’ordine disci­ plinare — ponendosi Quazza in un’area accade­ micamente di frontiera ove tutto, attorno al 1960, è ancora da conquistare e da affermare. Ma, è con questo riferimento allusivo a quella che potrem­ mo chiamare una ritrattistica di famiglia che vo­ glio concludere. Mario Isnenghi 10 Cfr. “Rivista di storia contemporanea”, 1983, n. 3, p. 439. Dalla storia del Piemonte alla storia d’Italia Umberto Levra Con già alle spalle alcune pubblicazioni di storia diplomatica del Settecento e dell’Ottocento so­ prattutto piemontese, Guido Quazza aveva ven­ titré anni quando si laureò in Storia del Risorgi­ mento nella facoltà di Lettere e Filosofia di To­ rino il 5 luglio 1945. Gli fu relatore un professore che aveva poche consonanze col giovane allievo, Francesco Lem­ mi, docente trasferitosi da poco sull’insegna­ mento di Storia moderna, storico della vecchia scuola “sabaudista” torinese, non eccelso ma informato e operoso, dignitosamente monarchi­