Un itinerario di ricerca e di organizzazione della ricerca

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Un itinerario di ricerca e di organizzazione della ricerca
Mario Isnenghi
Un momento centrale nell’itinerario di ricerca di
Guido Quazza in questo mezzo secolo — oltre
che tema ricorrente anche di diversi fra i suoi cor­
si di insegnamento, sempre attenti a non sminui­
re le radici moderniste del contemporaneista e la
sua vocazione a muoversi entro spazi e tempi di­
latati — è costituito da Le riforme in Piemonte
nella prima metà del Settecento1.
Di quest’opera — per più versi strategica nel
percorso di Quazza — colpisce, e tanto più in
quanto potrebbe apparirvi un approccio collatera­
le rispetto alle questioni da affrontare, l’attenzio­
ne alla psicologia, anzi vorrei dire proprio alla
“soggettività”: alla soggettività dei regnanti e a
quella dei loro ministri e funzionari. Eppure essa
si presenta come uno studio sulle istituzioni e le
trasformazioni istituzionali. Il suo elemento ca­
ratterizzante sta proprio in questo doppio piano di
lettura in cui le istituzioni, e le soggettività che vi
si muovono dentro, si bilanciano e vincolano vi­
cendevolmente. Uso a ragion veduta il termine,
oggi storiograficamente in auge, “soggettività”,
poiché l’attenzione con cui lo studioso degli anni
cinquanta è portato a cercarle e riconoscerle —
anche in personaggi non di primo rango — va ol­
tre i tradizionali riscontri delle biografie e viene
precocemente incontro proprio a interessi per l’in­
dividualizzazione del dato politico sociale ai qua­
li solo successivamente la scienza storica si è re­
sa disponibile. C’era già, in quel settecentista, il
prossimo studioso della banda partigiana come mi­
crocosmo esistenziale, oltre che come gruppo po­
litico e militare; e un’attitudine che nel volume
biografico su Quintino Sella, uscito in anni vicini
a noi, trent’anni e più dopo l’opera sui governan­
ti sabaudi, si è ulteriormente spostata nel senso
dell’esistenziale, verso il “privato” dell’uomo po­
litico, in un programmatico intreccio fra sfera pub­
blica e sfera privata.
Ho parlato di istituzioni, si poteva anche dire go­
verno. L’opera del 1957 assume uno spazio-tempo
specifico per darsi delle risposte sugli uomini di
governo: e precisamente su chi diventa uomo di go­
verno in un periodo dato — in quel caso di studio,
nel corso di un processo di messa in movimento
della società e dello Stato innescato dall’iniziativa
dei principi; come e perché lo diventa; e come e
perché riesce a restare tale. Riunificando i passag­
gi: al centro dell’analisi stanno le forme e i conte­
nuti dell’esercizio del potere in una situazione da­
ta, ovverosia l’arte di governare gli uomini. Un te­
ma tipicamente quazziano — che tale si conferma
anche rispetto alle riflessioni di vita e alle dinami­
che della memoria che nutrono Resistenza e storia
d’Italia2 —-, rispetto al quale, infatti, lo storico si
può anche considerare l’interfaccia dell’uomo.
La presente nota riproduce l’intervento nella giornata in onore di Guido Quazza (“Guido Quazza. Il suo impegno civile sto­
riografico e didattico”), organizzata a Torino il 26 settembre 1995 dalla facoltà di Magistero e dal Cirda. Oltre a chi scrive,
erano relatori Claudio Pavone, Remo Fomaca e Fernanda Gregoli.
1 G. Quazza, Le riforme in Piemonte nella prima metà del Settecento, Modena, Società tip. ed. modenese, 1957 [2a ed. Tori­
no, Gribaudo, 1992],
2 G. Quazza, Resistenza e storia d’Italia. Problemi e ipotesi di ricerca, Milano, Feltrinelli, 1976.
Guido Quazza. Un protagonista della nostra storia
Con l’avvertenza — bisogna ripeterlo — che
nell’opera sul Settecento riformatore si manife­
sta altrettanta curiosità intellettuale per le moti­
vazioni e le scelte dei sovrani che per gli itinera­
ri umani dei loro potenziali ministri e lo spacca­
to d’epoca deborda largamente dagli apparati ver­
so la variegata stratificazione delle attese di ce­
to. L’interesse si amplia dalla dimensione stretta
della politica a quella ampia e sfrangiata dei per­
corsi che selezionano i destini individuali, alle
varie forme e congiunture della lotta per la vita e
per il successo sociale e anche agli intrecci fra
promozioni individuali e di classi. (La parola
‘classe’ non è di troppo, il lessico politico del no­
stro autore la contempla)
Questa dimostrata capacità di attenzione agli in­
dividui e alle dinamiche individuali, però dentro
i processi storici e le dinamiche istituzionali —
cioè agli attori sociali di processi in atto, in rap­
porto a contesti specifici, a compatibilità di fase
e a rotture e superamenti di situazioni date — tro­
va corrispondenza anche sul piano degli schieramenti e dei conflitti storiografici.
Questo passaggio analogico, dal piano della
pratica storiografica posta personalmente in atto
al piano dell’intervento critico nel dibattito sul
senso e le ricadute delle pratiche storiografiche,
proprie ed altrui, viene suggerito per esempio dal­
l’intervento di Quazza al convegno palermitano
del 1978, ripreso sulla “Rivista di storia contem­
poranea”, con l’impegnativo titolo Storia della
storiografia, storia del potere, storia sociale3.
C’è molto del nostro personaggio in questo ti­
tolo della rivista, che lo ha visto animatore dal­
l’anno di fondazione sino ad oggi, al termine dei
suoi ventitré anni di vita. La “Rivista di storia
contemporanea” nasce nel 1972, lo stesso anno
in cui egli raccoglie l’eredità di Ferruccio Parri
come presidente nazionale della già allora con­
sistente rete degli Istituti per la storia del movi­
mento di liberazione in Italia.
Se — nonostante le fondate polemiche sugli
ostracismi e i ritardi — la Resistenza è pur giun­
3 “Rivista di storia contemporanea”, 1979, n. 2.
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ta in questo dopoguerra a strutturarsi come ter­
reno di conservazione, ricerca e valorizzazione
scientifica e sociale della memoria storica — non
meno e, tutto sommato, prima di quanto sia a suo
tempo avvenuto per il Risorgimento •— molto lo
si deve proprio a un uomo come Quazza: il qua­
le si è battuto in prima fila per vincere le resi­
stenze accademiche e radicare via via in tutte le
facoltà universitarie dell ’area umanistica una ma­
teria nuova quale la storia contemporanea, in es­
senza pregna di politicità e caratterizzata dal­
l’assoluta particolarità delle fonti e per ciò stes­
so sospetta a gran parte di quello stesso mondo
degli storici medievalisti e modernisti, abituati a
più tranquille frequentazioni di consolidati san­
tuari archivistici, rispetto ai quali Quazza — pro­
prio perché lui pure medievalista e modernista —
può ricoprire preziose funzioni di patrono e ga­
rante dei buoni costumi di quell’ultima nata da
una costola della Storia canonica.
Nei primi decenni del nostro secolo era toc­
cato a storici del Medio Evo, quali Gaetano Sal­
vemini o Gioacchino Volpe, affrontare essi stes­
si studi di storia contemporanea, accademica­
mente dubbi o troppo esposti per altri, mentre in­
vano il povero Michele Rosi si affannava — col
suo isolatissimo corso libero all’Università di Ro­
ma — ad accumulare meriti e titoli per quella cat­
tedra di Storia del Risorgimento che non verrà
mai. Per la sua tarda legittimazione si dovranno
attendere infatti gli anni trenta e una generazio­
ne universitaria che è già quella dei maestri del­
lo stesso Quazza, come Walter Maturi. Ecco per­
ché va segnalato come invece, nei primi anni ses­
santa, a poco più di venticinque anni dai fatti, la
Resistenza entri come tema di studio all’Univer­
sità (più ancora che come tema di insegnamento
nella scuola). L’incardinamento e il sostegno del­
la storia contemporanea nell’ordinamento acca­
demico, la diffusione di una rete parallela di isti­
tuti di ricerca storica specificamente intestati al­
la “rottura e trasformazione” dell’antifascismo e
della Resistenza, la “Rivista di storia contempo­
ranea” si possono considerare i tre fronti di avan­
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Mario Isnenghi
zamento e i tre strumenti più incisivi dell’azione
propulsiva di Quazza.
Ora possiamo meglio cogliere il senso del già
citato intervento palermitano quando, nel 1978,
questa complessa macchina di documentazione ed
elaborazione critico-interpretativa della memoria
delle intenzioni e dei fatti lavora ormai da anni a
pieno regime, affidata a un numero rilevante di mi­
litanti-studiosi e di studiosi-militanti, extrauni­
versitari e universitari, esponenti in proprio della
generazione resistente o più giovani analisti delle
generazioni successive, che tutti riconoscono in
Quazza un leader capace di ricomporre territori,
linguaggi e pubblici solitamente separati.
Vi si può riconoscere il suo affermato ruolo di
guida, una operazione egemonica — al di là del­
le tematiche resistenziali — sugli orientamenti ge­
nerali di studio della contemporaneistica italiana,
affidata al tessuto argomentativo di un attacco —
si può dire, senza infingimenti — ai Galasso, ai
Valiani, ai rappresentanti in loco di una prassi sto­
riografica che, volendosi “liberale” o altro, e co­
munque pretendendosi a differenza delle altre “og­
gettiva”, affetta di autoescludersi dalla dialettica
e dal conflitto: in una presunta “indipendenza” e
millantata “serenità” esterna al conflitto sociale e
al conflitto per l’interpretazione e la rappresenta­
zione stessa del conflitto. Ecco una sfera di inte­
ressi e di atteggiamenti attraverso cui Quazza e i
collaboratori affini coinvolti finiscono per rende­
re la “Rivista di storia contemporanea” diversa non
solo dalle riviste istituzionali e moderate, ma an­
che diversa dalle altre riviste storiche riconduci­
bili all’area di una sinistra politica più “oggettivi­
sta” o non altrettanto disponibile a riconoscere che
il conflitto delle visioni orienti e trasformi anche
il primato e le gerarchie dei fatti. (Come è stato
notato da qualcuno dei componenti del Comitato
di direzione della rivista, di recente riunito per ri­
pensarne l’intera parabola e definirne l’identità,
uno storico del tipo di Ernesto Ragionieri — pro­
prio per queste inquietudini eterodosse, almeno
per un tratto ascrivibili a una sorta di “nuova sini­
stra” storiografica — non si sarebbe verosimil­
mente trovato del tutto a casa sua nella “Rivista di
storia contemporanea”.)
Continuiamo a cercare di legare i diversi am­
biti di azione, senza peraltro la possibilità e il com­
pito di riferire su tutti e neppure sull’intero arco
della sua opera d’autore4: rispetto alla quale le
competenze del contemporaneista di oggi — qua­
le chi scrive — sono diventate ristrette se para­
gonate con quelle dei contemporaneisti di prima
generazione, quale appunto un Guido Quazza, na­
ti e orgogliosamente rimasti — a pieno titolo —
anche modernisti. Vale la pena di ricordare che
l’intestazione ufficiale del dottorato di ricerca in
Storia contemporanea, che è nato e ha posto il suo
centro a Torino, suona assai affine e congruente
rispetto ai rilievi sopra condotti. Si è infatti autodefinito privilegiando come propria sfera d’azio­
ne non già la storia contemporanea in genere, ma
i periodi di “Crisi e trasformazione della società”.
Siamo in stile, come si vede. Più di un volume e
molti atteggiamenti di Quazza potrebbero essere
condensati in un’espressione come questa: per
esempio La lotta sociale nel Risorgimento5, op­
pure Resistenza e storia d’Italia; ma, al di là del­
l’uomo di libri, naturalmente, anche il partigiano,
o il “preside del Sessantotto”. Quest’ultima defi­
nizione, anzi, lungi dal ridursi a espressione di co­
lore, sembra risultare appropriata a un’attitudine
e a una propensione che non è solo precipua del­
lo studioso, ma appunto dell’uomo d’azione, per
gli stati di crisi e — nessuna “filosofia della cri­
si”! — di governo degli stati di crisi, traendo dal­
la crisi possibilità di trasformazione delle istitu­
zioni e di crescita complessiva.
Le interrelazioni che traspaiono fra i diversi pia­
ni dello studio e dell’azione possono suggerirci
l’interrogativo se non vi siano talvolta forme di
prossimità, se non di identificazione tendenzia­
le, fra l’autore e le situazioni e in cui si muovo­
4 Si rimanda per questo al volume Adriano Ballone, Patrizia Cirio (a cura di). Guido Quazza. Biografia di un impegno, Tori­
no, Omega, 1995.
5 G. Quazza, La lotta sociale nel Risorgimento. Classi e governi dalla Restaurazione all’Unità (1815-1861 ), Torino, tip. Coggiola, 1951.
Guido Quazza. Un protagonista della nostra storia
no i suoi personaggi. Lo si può supporre quando
per esempio in Le Riforme in Piemonte nella pri­
ma metà del Settecento parla della “scelta dei collaboratori [che] dà al re lo strumento umano per
la ‘grand’opera’”6. Si può esser tentati di rico­
noscere almeno un nesso fra questo tema di stu­
dio e l’oculata opera di selezione e valorizzazio­
ne di una rete fedele di collaboratori di cui si cir­
conda Quazza nelle sue molteplici attività di im­
prenditore di cultura.
Poiché si tratta di fare e far fare, e che ognuno
sia messo in grado di fare e valorizzato nel suo fa­
re. Se riferito al piano degli oggetti di studio e in
particolare a questo volume settecentista, un’e­
spressione che se ne può estrarre e che ha il suo­
no di una parola d’ordine, nella fattispecie, ade­
guata, è: “Far cose non nuove, ma serie”78.In quel
caso si tratta di prìncipi, il che definisce e dimen­
siona i caratteri del loro governo della realtà e an­
che il grado di adesione dell’autore all’universo
dei personaggi. L’adesione è destinata ad accen­
tuarsi e avvicinarsi sin quasi a un’immedesima­
zione davanti ad altri suoi personaggi, pure loro
razionali e consapevoli protagonisti del fare: allu­
do in particolare al suo amato Quintino Sella. (Può
essere significativo rilevare come— a parte la sag­
gistica relativa alla Resistenza — le scelte di ri­
cerca di Quazza abbiano generalmente privilegia­
to non i testimoni, ma gli attori; e non prevalente­
mente chi si oppone, ma prevalentemente chi ha
potere di comando e responsabilità di direzione su
uomini e cose, cioè fa perché è, o si mette in con­
dizione di, poter agire e realizzare, dirigendo protagonisticamente gli avvenimenti.)
Dopo l’opera di meditazione sul “far politica”
dall’interno delle strutture sociali e istituzionali
della monarchia assoluta in Piemonte, Quazza si
sceglie, coltiva per decenni, un altro personag­
gio-specchio, operoso e razionale protagonista
del fare: in un altro frangente storico, di crisi e
trasformazione dello Stato e della società, in cui
la soggettività del protagonista pesa, determina
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situazioni e le governa, indirizzando uomini ed
eventi. È appunto il Sella, studiato — dichiara­
tamente — sulla fonte privilegiata e particolaris­
sima dei suoi carteggi e simpateticamente segui­
to in tutti i piani e le sfaccettature della sua po­
liedrica e bene equilibrata figura di giovane stu­
dente borghese, di viaggiatore europeo, di inge­
gnere minerario, imprenditore tessile, ammini­
stratore, parlamentare, statista, studioso, orga­
nizzatore culturale.
L’attenzione alla soggettività si è acuita negli
oltre trent’anni che dividono Le riforme (1959)
dal Sella (1992). Nel contesto storiografico cir­
costante, una serie di fattori hanno fatto precipi­
tare la crisi della storia politica e innalzato inve­
ce i pregi del “privato” e delle ricerche che vi si
ispirano. Certo, Quazza, nel frattempo, tutto ha
fatto fuorché adulare il “privato” (come si sono
rassegnati invece a fare tanti dei reduci dal Ses­
santotto, invecchiati più e prima di lui) e le ra­
gioni per conquistare alla storia le neglette sfere
dell’interiorità e dell’extrapolitico non si riduco­
no a quelle d’ordine surrogatorio e involutivo ri­
spetto alle sconfitte sofferte da una o più genera­
zioni nella sfera pubblica; e infatti il nostro au­
tore è stato sempre molto attento a elaborare una
sua posizione e a interagire criticamente con le
metodologie e le tematiche innovatrici via via
emergenti. Lo prova una serie di interventi sulla
“Rivista di storia contemporanea”, che riposi­
ziona la rivista e lui stesso, in prima persona, ri­
spetto alle diverse fioriture, stagionali o più du­
revoli, dei rapporti fra la storia e le scienze so­
ciali, o della storia sociale, della storia orale, del­
la storia delle donne e di genere, ecc. L’opera
uscita nel 1992 — L’utopia di Quintino Sella1,—
è anche il frutto di questo: di una filologia dei
sentimenti che viene ad aggiungersi alla profes­
sione filologica dell’editore di testi, in particola­
re i testi di un epistolario, con la messa in forma,
i travestimenti e le sfumature delirio’, di tanti
‘io’ che si rapportano fra loro e si autorappre-
6 Cfr. G. Quazza, Le riforme in Piemonte , cit., 2a ed., p. 55.
7 Cfr. G. Quazza, Le riforme in Piemonte , cit., 2a ed., p. 163.
8 G. Quazza, L ’utopia di Quintino Sella e la politica della scienza (Comitato di Torino per la Storia del Risorgimento italia­
no),Torino, L’Artistica Savigliano, 1992.
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Mario Isnenghi
sentano agli altri e a se stessi. Dopo lunghi anni
di paziente ricognizione sulle lettere, che vedo­
no accanto a lui come coadiutrice nell’edizione
la moglie Marisa9, nel volume che se ne alimen­
ta Quazza dà spazio a Clotilde Sella, a un diari­
smo femminile e a una identità di consorte del­
l’uomo pubblico, in cui non si fatica a distingue­
re l’attenzione che l’autore ha maturato nei con­
fronti della storia delle donne (e forse anche qual­
che più risentita riflessione d’ordine personale).
Tutto questo — l’attenzione allargata alla sfe­
ra privata anche dell’uomo pubblico — ci porte­
rebbe fuori strada se non marcassimo, nel con­
tempo, che l’uomo e l’autore non la sostituisco­
no affatto alla sfera pubblica. Sella risulta con­
geniale a Quazza proprio in quanto intraprendente
intellettuale-politico, interprete eminente di una
classe politica di origini sociali distinte da quel­
le della tradizionale classe dirigente del Regno
sardo, e uno dei massimi uomini di governo nel­
l’Italia dell’epoca, a giudizio del suo estimatore.
Viene qui appropriato sottolineare la scelta con­
trocorrente di dedicare — in questi nostri anni di
polemiche e disincanto — un così ponderoso, lun­
gamente pensato e — potremmo dire — affettuo­
so volume a uno dei massimi artefici della costru­
zione dello stato italiano unitario: una triade con­
cettualmente desueta — quest’ultima— di cui cia­
scuno dei tre termini costitutivi appare attualmen­
te revocabile e revocato in dubbio in molto senso
comune. Al centro del suo interesse e di una stima
profonda, non esente da barlumi di nostalgia per
quest ’uomo della Destra storica così laicamente fat­
tivo, è un piemontese delle ore forti, impegnato a
volere e a fare l’Italia: a far sì che la “nuova Italia”
vada a Roma, anche a forza, e da Roma, da una Ter­
za Roma della Scienza — ecco L’utopia di Quinti­
no Sella —, acquisisca il diritto e la possibilità di
dire e di fare con voce nazionalmente significativa.
L’ingegner Sella — nell’Italia promossa dagli
uomini di lettere e che si avvia ad essere governa­
ta da avvocati e giornalisti — piace al professor
Quazza, certamente in quanto uomo di cose, cioè
appunto in quanto ingegnere, portatore di una cul­
tura tecnica, di un metodo scientifico e di una pre­
cisa professionalità, e però anche — contempora­
neamente — come ingegnere capace di coltivare e
portare a compimento miti e utopie. Il processo di
tendenziale identificazione fra autore e personag­
gio non poteva esigere di meno. Tutta l’esperien­
za umana e tutta l’operosità scientifica di Quazza
stanno, si può dire, in tensione fra pragmatismo e
utopia, così come fra istituzioni e società, condi­
zionamenti fattuali e salto di qualità impresso dal­
la risoluta attività volitiva del soggetto.
Con i temi della costruzione della nazione e del­
lo Stato, Guido Quazza si misurava da decenni:
nella reazione attiva allo choc da 8 Settembre, è
chiaro; e poi, appena uscito dalla esperienza del­
la Resistenza, sulle soglie del suo impegno pro­
fessionale, quando nel 1951 organizza in volume
una raccolta di saggi originariamente pubblici­
stici, pericolosamente sulfurea e poco accademi­
ca fin dal titolo, cui tengono poi fede angolature
e tematiche: La lotta sociale nel Risorgimento,
già passabilmente non conformista rispetto alle
tradizioni disciplinari e del contesto ambientale,
ma tale più ancora nel sottotitolo: Classi e go­
verni dalla Restaurazione all’Unità (1815-1861 ).
Al termine di una panoramica pluriregionale
informata, aperta alle varianti politiche in cam­
po e non pregiudizialmente chiusa a ipotesi di
uscite diverse dalla crisi evolutiva della peniso­
la, il volume approda a concetti quali il “piano
nazionale della borghesia subalpina”, il “terzo
partito di Cavour” e il Risorgimento come “rivo­
luzione conservatrice”.
Il volume sarà parso improntato a un’ottica po­
co normale e scritto con un linguaggio inquinato
da ansie politiche attualizzanti a una risorgimentistica prudente e aliena dalle sintesi come
quella italiana, appena uscita (e, per la verità, non
sempre uscita) dalle contiguità con la cultura nazional-fascista. Eppure, nonostante il giudizio
complessivo— il Risorgimento appunto come “ri­
9 Guido e Marisa Quazza (a cura di), Epistolario di Quintino Sella , 2 voi., Roma, Istituto per la storia del Risorgimento ita­
liano. 1980-1984.
Guido Quazza. Un protagonista della nostra storia
voluzione conservatrice” —, è il conte di Cavour
a uscire come il vero dominatore della realtà, da
queste pagine popolate di luoghi, bisogni e per­
sonaggi appartenenti al campo del radicalismo e
della democrazia. Una controprova dell’apprez­
zamento per la superiore regìa di parte moderata
si potrebbe anche riconoscere nella inequivocabi­
le marginalità in quest’opera, per contro, della fi­
gura di Garibaldi. Come ciò possa avvenire, con­
fessiamo di non sapercelo spiegare; ma si tratta
chiaramente di un’importante spia di una manie­
ra di rapportarsi alle problematiche sia politiche
sia storiografiche, che rimanda alle già segnalate
propensioni per i luoghi e le figure di governo del­
le situazioni; e, forse, alla fin fine, anche alla ri­
sentita e appassionata piemontesità di Quazza.
Chiudo con un riferimento a una delle non poche
riflessioni su una vita: profili umani e professio­
nali, che vanno oltre le incombenze dell’ufficia­
lità e manifestano, ancora una volta, in Quazza,
il puntiglioso ricorrere dell’interesse per i com­
portamenti reali come termine di misura del­
l’adesione ai princìpi. Ritratti come quello che
seguono non sono rari e si trasferiscono, non di
rado, dalle circostanze dell’oralità alla più lunga
durata della scrittura, spesso in forma di articoli
sulla rivista. Questo pezzo del 1983, che scelgo
ad esempio, ha per titolo Tra cultura e politica:
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un latinista nel 1945-1948, ma la persona di cui
si parla attiva riflessioni d’ordine generale su pun­
ti fissi dell’impegno di Quazza, che potrebbero
ripresentarsi come una costante. Il cuore della
questione è, infatti, quello stare in equilibrio tra
cultura e politica:
Come tanti resistenti (è un tema affascinante, tutto da
studiare!), riprende a camminare da solo, nel suo ter­
reno specifico, ma senza perdere di vista l ’insiem e10.
Parla del professor Vincenzo Ciaffi, docente di
latino e suo collega al Magistero di Torino; ed è
un pezzo intenso, amicalmente immedesimato e
compartecipe rispetto a quella figura di intellet­
tuale diffuso che — esaurita la stagione partigiana — dà una dimensione etico-politica alla sua
professione, agendo nel sociale, ma tenendosi ai
bordi delle organizzazioni di partito. L’esperien­
za personale di Quazza trova ambiti d’azione più
vasti e differenziati e non è riducibile a quella del
collega, per molte ragioni, anche d’ordine disci­
plinare — ponendosi Quazza in un’area accade­
micamente di frontiera ove tutto, attorno al 1960,
è ancora da conquistare e da affermare. Ma, è con
questo riferimento allusivo a quella che potrem­
mo chiamare una ritrattistica di famiglia che vo­
glio concludere.
Mario Isnenghi
10 Cfr. “Rivista di storia contemporanea”, 1983, n. 3, p. 439.
Dalla storia del Piemonte alla storia d’Italia
Umberto Levra
Con già alle spalle alcune pubblicazioni di storia
diplomatica del Settecento e dell’Ottocento so­
prattutto piemontese, Guido Quazza aveva ven­
titré anni quando si laureò in Storia del Risorgi­
mento nella facoltà di Lettere e Filosofia di To­
rino il 5 luglio 1945.
Gli fu relatore un professore che aveva poche
consonanze col giovane allievo, Francesco Lem­
mi, docente trasferitosi da poco sull’insegna­
mento di Storia moderna, storico della vecchia
scuola “sabaudista” torinese, non eccelso ma
informato e operoso, dignitosamente monarchi­
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