Storia di cinque particelle elementari arrivate come ospiti

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storia della fisica
Dentro la materia.
Tracce di particelle liberate dallo scontro di
ioni piombo e registrate da ALICE, uno dei
rivelatori di LHC al CERN di Ginevra. Con
queste collisioni si vuole osservare
un plasma di quark e gluoni, uno
stato della materia esistito
per pochi milionesimi
di secondo dopo
il big bang.
Un mosaico
di particelle
Storia di cinque particelle elementari arrivate come
ospiti inattesi a complicare la vita dei ricercatori
di Jeremy Bernstein
46 Le Scienze
gamma. Nuclei pesanti, come il plutonio, possono decadere producendo una particella alfa, identificata come un atomo di elio. Molti altri nuclei
decadono emettendo un raggio gamma, che è un
quanto elettromagnetico di alta energia. Alcuni
nuclei producono una particella beta, che è semplicemente un elettrone. In questi ultimi decadimenti si osservò l’anomalia di cui si è detto.
Lo scenario ovvio era che un nucleo atomico
decadesse in un nucleo «figlio» e un elettrone. Se
in questo decadimento energia e quantità di moto si conservano, l’elettrone che emerge da questo processo deve avere una determinata quantità
di energia. Il problema era che i risultati dell’esperimento mostravano elettroni con energie diverse,
molto diverse. Il rompicapo era tale che Niels Bohr
propose addirittura che energia e quantità di moto
non si conservassero nel decadimento. Pauli pensò che quest’idea fosse senza senso, e nella sua lettera fece una controproposta. Suggerì che insieme
con le altre due fosse emessa una terza particella invisibile, che portava con sé parte di energia e
quantità di moto. La particella, concludeva, era invisibile perché elettricamente neutra, e interagiva
molto debolmente con qualsiasi altra cosa. Usciva
dalla scena del decadimento senza rumore.
Non ho idea di come i «signori e signore radioattivi» abbiano accolto questa proposta, e non è
Cortesia CERN
N
el XX secolo, la fisica delle
particelle elementari è stata caratterizzata dall’osservazione di particelle la cui
esistenza era stata prevista
dai teorici, a volte anche
decenni prima. Ma sono
state osservate anche particelle che nessuno aveva
previsto, e che semplicemente apparvero dal nulla;
cinque di esse sono le protagoniste di queste pagine. In ordine di modernità crescente sono: il neutrino, il mesone p (o pione), l’antiprotone, i quark e
il bosone di Higgs. Iniziamo dal neutrino.
Il 4 dicembre 1930 Wolfgang Pauli spedì una
lettera a un gruppo di colleghi a una conferenza
di fisica a Tubinga. La lettera iniziava così: «Gentili Signore e Signori radioattivi…». Pauli si scusò di non aver potuto partecipare alla conferenza: eccellente ballerino con un debole per le belle
donne, spiegò di aver preferito partecipare a un
ballo a Zurigo. La lettera è uno dei documenti più
notevoli nella storia della fisica del XX secolo.
Pauli era preoccupato da un’anomalia verificatasi durante esperimenti sul fenomeno che veniva
chiamato «decadimento beta». Il grande fisico neozelandese Ernest Rutherford, che aveva studiato
a fondo la radioattività, aveva identificato tre tipi di decadimento, e li aveva chiamati alfa, beta e
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Le Scienze 47
Jeremy Bernstein è professore emerito di fisica allo Stevens Institute of Technology, nel New Jersey. Dal 1961
al 1995 ha scritto sul «New Yorker». Ha lavorato all’Institute for Advanced Studies a Princeton, al Brookhaven
National Laboratory, al CERN, all’Università di Oxford, all’Università di Islamabad e all’Ecole Polytechnique di
Parigi. Il suo ultimo libro è Quantum Leaps (Harvard University Press, Cambridge, 2009). La versione originale di
questo articolo è stata pubblicata su «American Scientist», Vol. 100, marzo-aprile 2011.
Il mesone p
Nel 1909 Ernest Rutherford, insieme a due giovani colleghi di
Manchester, scoprì il nucleo atomico, in cui si concentra gran parte della massa dell’atomo. Naturalmente questa scoperta portò a
chiedersi da che cosa fosse composto il nucleo e che cosa tenesse insieme le sue parti. Era chiaro che c’era carica positiva, perché
l’atomo, generalmente, è neutro. Gli elettroni, con carica negativa, erano distribuiti in qualche modo rispetto al materiale nucleare, e questa carica doveva essere bilanciata affinché l’atomo rimanesse neutro. Ma divenne chiaro che gli oggetti a carica positiva
(chiamati «protoni») non dicevano tutto. Per rendere conto della
massa nucleare ci volevano oggetti elettricamente neutri. Rutherford formulò la sensata ipotesi per cui questi oggetti dovessero essere elettroni e protoni legati insieme, ma nel 1930 Pauli e altri argomentarono che una composizione del genere non spiegava i dati
spettrali. La faccenda fu risolta nel 1932, quando Chadwick scoprì
il neutrone. Ma che cosa teneva insieme il nucleo?
Il nucleo è diverse decine di migliaia di volte più piccolo della sua distanza media dall’elettrone più vicino. Gli elettroni si occupano delle faccende chimiche dell’atomo, mentre il nucleo fa il
palo. Questa configurazione, tra l’altro, mostra che la forza di attrazione tra elettroni e protoni deve agire a lungo raggio. Ma i
protoni si respingono elettricamente. Se non ci fosse una forza
che contrasta la repulsione, i nuclei si disintegrerebbero. Questa
forza deve essere molto più potente di quella elettrica e deve agire solo a corto raggio, ecco il problema. E qui entra in scena Hideki Yukawa.
Yukawa nacque a Tokyo nel 1907; suo padre era un professore di geologia all’Imperial University di Kyoto, dove Yukawa era
studente. Finì il dottorato nel 1929 e divenne assistente (senza stipendio) di un professore di fisica teorica. Si teneva aggiornato sulla teoria quantistica, in fervente sviluppo, grazie alle riviste scientifiche. Nel 1923 Werner Heisenberg scrisse tre lavori sulle forze
nucleari. Come Chadwick, Heisenberg era convinto che il neutrone fosse costituito da un protone e un elettrone legati insieme, e
questo significava che ci sono elettroni nel nucleo. Yukawa credeva invece che i neutroni fossero particelle elementari e si basò su
quest’idea per creare la sua teoria delle forze nucleari.
La descrizione più comprensibile della sua teoria si ottiene con
i diagrammi inventati da Richard Feynman. Cominciamo dalla
forza che governa l’interazione tra elettroni. Nell’elettrodinamica
quantistica, questa forza è dovuta allo scambio di fotoni, in cui
due elettroni si scambiano un fotone «virtuale». È virtuale nel senso che non è direttamente osservabile in questo processo.
La matematica associata ai diagrammi di Feynman dimostra
che la forza tra i due elettroni è la stessa che nella teoria del fisico
francese Charles-Augustin de Coulomb agisce tra corpi elettricamente carichi. In questo caso l’intensità della forza è inversamente proporzionale al quadrato della distanza tra i due corpi. Questa
variazione è in relazione con il fatto che la particella trasferita (il
fotone) ha massa zero. Per molte ragioni questa forza non può tenere insieme il nucleo. È troppo debole, proprio il motivo per cui i
protoni si respingono. Yukawa sostituì gli elettroni con quello che
chiamò «quanto pesante», e questa soluzione permise di ipotizzare una forza di attrazione tra quanti pesanti, neutroni e protoni con
l’intensità necessaria a vincere la forza elettrica. Inoltre poteva scegliere la massa che preferiva. La meccanica quantistica ci dice che
più la massa di questo quanto è grande, più è piccolo il raggio d’azione della forza. La conoscenza della massa dei nuclei permise a
Yukawa di ipotizzare che la massa del quanto pesante dovesse essere circa 200 volte quella dell’elettrone. Nel 1934 scrisse un articolo, in un inglese eccellente, pubblicato l’anno dopo su un’importante rivista giapponese e ignorato dalla comunità scientifica.
La particella di Yukawa fu scoperta nei raggi cosmici nel 1947,
e divenne nota come mesone p, o pione. In natura si osserva in tre
varietà, con carica positiva, negativa o nulla, e ha una massa molto vicina a quella calcolata da Yukawa. Le varietà cariche decadono rapidamente in muoni (elettroni pesanti) e neutrini. Nel 1949
Yukawa divenne il primo giapponese a ricevere il premio Nobel.
In breve
Nata agli inizi del XX secolo, nel
corso del tempo la fisica delle
particelle ha dovuto fare i conti sia
con particelle previste dai teorici,
dunque relativamente poco
48 Le Scienze
problematiche, sia con particelle la
cui esistenza non era stata prevista
da alcuna teoria, e che quindi
complicavano la vita dei ricercatori.
L’autore racconta il percorso
intellettuale dei fisici per scoprire
cinque particelle particolarmente
enigmatiche, usando strumenti che
vanno dalla matematica agli
esperimenti di LHC.
Le particelle sono neutrino,
mesone p, antiprotone, quark e
bosone di Higgs, la cui scoperta, a
opera proprio di LHC, chiude un
capitolo della storia della fisica.
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Strumenti di una volta. Ernest Rutherford (a sinistra) con Hans Geiger nel 1912, e con gli strumenti da loro usati per contare le particelle
alfa. Rutherford inaugurò il campo della fisica delle particelle all’inizio del XX secolo con attrezzature sperimentali che stavano in un angolo del
suo laboratorio. Oggi gli strumenti necessari in questo campo sono grandi come il gigantesco Large Hadron Collider, lungo 27 chilometri.
Edward Teller, persona proverbialmente nota per il suo scarso senso dell’umorismo, riassunse il senso di sorpresa al momento della
scoperta in questo poemetto:
Prof. Peter Fowler/SPL/Contrasto
chiaro nemmeno quanto lo stesso Pauli prendesse sul serio la propria ipotesi. Non la pubblicò mai. Ma Enrico Fermi la prese seriamente, ed elaborò la prima teoria del decadimento beta. Pauli chiamò la particella «neutrone», ma nel 1932 James Chadwick
scoprì quello che ora chiamiamo neutrone: la componente del nucleo atomico elettricamente neutra. Fermi osservò che «neutrone»
suona come una cosa grande, e dato che la particella di Pauli, se
esisteva, doveva avere massa molto piccola, decise di chiamarla
«neutrino». Il nome ebbe fortuna.
Ne sentii parlare per la prima volta nei primi anni cinquanta. A
quell’epoca il neutrino aveva un ruolo strano nella fisica nucleare,
un po’ come lo zio matto in certe famiglie, che c’è e non c’è. Tutto questo cambiò grazie ai reattori nucleari creati da Fermi durante la guerra. I reattori producono quantità industriali di frammenti
di fissione che decadono secondo il decadimento beta e producono
un incredibile flusso di neutrini. Nel 1956 Clyde Cowan e Fred Reines, fisici del Los Alamos Laboratory, osservarono un flusso di più
di 10.000 miliardi di neutrini per centimetro quadrato al secondo
nel sito nucleare di Savannah River, in South Carolina. Pauli era
ancora vivo, e nessuno può immaginare che cosa abbia provato.
Ora gli esperimenti che rilevano neutrini sono comuni, sappiamo
che ne esistono di tre tipi e che tutti hanno massa.
Ci sono i pioni e ci sono i muoni
coi primi s’incollan tra loro i protoni.
Ci sono anche i tau - almeno pensiamo –
e mille mesoni che ancor non vediamo.
Ma proprio per nulla? Nemmeno un miraggio:
Han vita assai breve, cortissimo raggio.
Han masse minuscole o masse giganti
han carica «più», o hanno il «meno» davanti
Alcuni di loro non sono palesi
perché sono scarichi, pur se son pesi.
Già: carica nulla! O prossima a zero,
se quello che Blackett pronostica è vero.
L’antiprotone
Nel 1928 Paul Dirac scrisse un’equazione per l’elettrone che
univa la teoria quantistica con la relatività. Alcuni pensano sia l’equazione più bella di tutta la fisica; forse è un’esagerazione, ma è
veramente una bella equazione.
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Dirac riconobbe subito che c’erano problemi con le sue soluzioni. Per ogni valore della quantità di moto dell’elettrone c’erano
quattro soluzioni, ma solo due avevano senso. Le altre due comportavano l’esistenza di un elettrone con energia negativa, il che
era ritenuto impossibile. Per un paio d’anni tutto questo condusse
a quello che Pauli chiamò «fisica della disperazione». Se l’elettrone
ha carica negativa ed è rappresentato dalle due soluzioni a energia
positiva, allora le altre due soluzioni dovevano rappresentare una
particella identica all’elettrone, ma con carica opposta. Fu l’inizio
della fisica dell’antimateria, sebbene non si conoscessero gli antielettroni. La faccenda venne risolta nel 1933, quando Carl Anderson, fisico del California Institute of Technology, ne trovò uno nei
raggi cosmici. Divenne noto con il nome di «positrone».
Una volta trovato il positrone, l’antimateria fu presa sul serio:
ogni particella ha un’antiparticella. In pochi casi (fotone e pione
elettricamente neutro) la particella è identica alla sua antiparticella. I neutrini non hanno carica, ma la questione se siano uguali alle loro antiparticelle è ancora aperta. Se una particella ha carica e,
la sua antiparticella ha carica –e, se ha massa m, la sua antiparticella ha la stessa massa. In particolare, il protone ha massa pari a circa
2000 volte quella dell’elettrone e carica e. Quindi ci deve essere un
antiprotone con stessa massa e carica opposta, ma come trovarlo?
Le Scienze 49
I raggi cosmici non promettevano bene, perché l’antiprotone subisce annichilazione con la materia ordinaria e si vedono solo i detriti. Ci voleva un acceleratore abbastanza potente da produrre un
antiprotone. L’idea era generare nell’acceleratore un fascio di protoni ad alta energia che avrebbe colpito un bersaglio come l’idrogeno liquido, i cui nuclei sono formati da un protone. Nella collisione si sarebbe prodotto l’antiprotone. Ma quanta energia serviva?
C’era una complicazione: si inizia con due protoni, uno nel fascio e
uno nel bersaglio, che combinati hanno due unità di carica positiva; si vuole generare un antiprotone, che ha un’unità di carica negativa. Per bilanciare le cariche bisogna finire in uno stato che contiene tre protoni e un antiprotone. Se indichiamo l’antiprotone con
pc e il protone con p, la reazione è p+p  p+p+p+pc, non è possibile
una reazione più semplice. Ma qual è l’energia minima necessaria
al fascio di protoni? Con calcoli standard si vede che questa energia
deve essere sei volte la massa del protone, e a
quell’epoca non c’era un acceleratore con fasci così potenti.
Il progetto di un acceleratore di questo tipo
(il Bevatron) iniziò alla fine degli anni quaranta all’Università della California a Berkeley, dove lavorava Ernest Lawrence, l’inventore del ciclotrone. Fisico eccellente,
Lawrence era anche un genio nella raccolta
dei fondi necessari a costruire macchine tanto
ambiziose quanto costose. Nel 1955 il gruppo
di sperimentatori annunciò la scoperta di un
antiprotone con l’acceleratore; non credo fosse una sorpresa per nessuno, ma scatenò innumerevoli fantasie popolari sull’antimateria,
che si trovano elegantemente riassunte in una
poesia pubblicata nel 1956 sul «New Yorker»,
firmata dalle sole iniziali H.P.F. Io sapevo che
erano le iniziali di Harold Furth, un fisico mio ex compagno di
classe a Harvard, che da studente scriveva sulla rivista studentesca
«Lampoon». Ecco la poesia:
lometri di quota; i protoni ad alta energia restano intrappolati lì,
e producono antiprotoni con la stessa reazione del Bevatron, ma
non abbastanza da rappresentare un pericolo per i viaggi spaziali.
I pericoli della vita moderna
Il quark
Di fuori della fascia troposferica
C’è una nuda regione tra le stelle
dove esiste una striscia antimaterica
patria del dottor Edward Anti-Teller.
Ben lungi d’ogni fonte di fusione
colà viveva, ignaro e ignorato,
anti-curando la sua collezione
d’oggetti d’anti-arte e di quariato.
Un dì mentre scendeva dalle scale
vide atterrare strana una cometa;
era un vascello atomico, dal quale
sbucò un turista del nostro pianeta.
Si videro un alieno e un terrestre
in tutto identici come due cloni
corrersi incontro e stringersi le destre…
E poi furono solo radiazioni.
Three quarks for Muster Mark!
Sure he hasn’t got much of a bark.
And sure any he has it’s all beside the mark.
(James Joyce, Finnegan’s Wake)
50 Le Scienze
Nel marzo 1963 partecipai a un seminario di Murray Gell-Mann
alla Columbia University su un sistema da lui inventato per classificare le particelle elementari. Il sistema era scherzosamente chiamato «l’ottuplice via». Nell’insegnamento del Buddha, un ottuplice sentiero avrebbe condotto alla fine di ogni sofferenza. Il sentiero
includeva entità quali «retta parola», «retta intenzione», «retta concentrazione». La via di Gell-Mann fu l’adozione di un modello per
classificare le numerose particelle elementari che nessuno aveva
previsto, e nessuno riusciva a capire. L’otto aveva un ruolo fondamentale. Nonostante le apparenti differenze, le particelle sembravano classificabili in multipletti, sottoinsiemi con caratteristiche prevedibili. Uno dei primi multipletti identificati fu un ottetto
di mesoni con il pione e mesoni scoperti poco tempo prima.
Al seminario Robert Serber, fisico di grande esperienza, fece una
domanda. Serber aveva studiato il lavoro di Gell-Mann sull’ottuplice via e aveva notato che la rappresentazione più semplice che
risultava dalla teoria era un multipletto formato da tre particelle.
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Photomovie
L’uomo del mesone.
Il fisico giapponese Hideki Yukawa sviluppò
una teoria delle forze nucleari che ipotizzava
l’esistenza del mesone, particella che avrebbe
dovuto tenere insieme il nucleo. La sua teoria
fu confermata quando vennero osservati
mesoni nelle radiazioni cosmiche. Yukawa fu
il primo premio Nobel del Giappone.
Per gentile concessione di Shuki Zakai (francobollo commemorativo)
Non mi è chiaro dove sia la «fascia troposferica», ma so per certo che si trovano enormi quantità di antiprotoni nella fascia interna di van Allen. Le fasce di van Allen sono regioni sopra la Terra,
dove le particelle cariche sono intrappolate dal campo magnetico terrestre. La fascia interna si estende da circa 700 a 10.000 chi-
Tra immaginazione e realtà. Nel film Angeli e Demoni, del
2009, i buoni cercano di impedire ai cattivi di far esplodere una
bomba ad antimateria. Il concetto di antimateria solletica da tempo
l’immaginazione popolare. Nel 1930 Dirac aveva previsto l’esistenza
di un’antiparticella dell’elettrone. Circa vent’anni dopo i fisici
del Lawrence Radiation Laboratory scoprirono un antiprotone
con l’acceleratore Bevatron, dimostrando che Dirac aveva ragione.
Chiese se Gell-Mann avesse considerato questo fatto, e la risposta fu affermativa: ci aveva pensato, ma non era arrivato a niente.
Gell-Mann disse qualcosa a questo proposito e poi venne a pranzo
con alcuni di noi. Si scatenò una furiosa discussione.
Supponiamo di avere una tripletta del genere. La speranza sarebbe usare le tre particelle come mattoni per costruire tutte le particelle elementari. Ci si era già provato: Fermi, per esempio, ipotizzò
che i mesoni p fossero composti da neutroni, protoni e le loro antiparticelle. Il pione negativo sarebbe stato composto da un neutrone
e un antiprotone. Non appena iniziarono ad apparire le particelle
strane, però, fu chiaro che questo modello si doveva generalizzare.
Il fisico giapponese Soichi Sakata aveva introdotto un modello
in cui tutte le particelle erano formate da tre particelle ritenute in
qualche modo più elementari: neutrone, protone e una nuova strana particella chiamata Λ0. Sebbene fosse possibile costruire tutte le
particelle conosciute a partire da queste tre, lo schema era insoddisfacente: non era chiaro perché queste tre particelle avrebbero dovuto essere più elementari rispetto a ogni altra. Inoltre il modello
prevedeva nuove particelle che non si trovavano e non era compatibile con l’ottuplice via, che sembrava funzionare. Quindi GellMann dovette ricominciare da capo.
Non c’era ragione per cui la tripletta dell’ottuplice via dovesse
essere composta di particelle già note. In effetti, come mostrava il
modello di Sakata, era meglio di no. Quindi Gell-Mann introdusse
tre particelle ipotetiche chiamate «su», «giù» e «strana» (up, down e
strange, abbreviate in u, d e s). Ora possiamo costruire le particelle conosciute. Il protone per esempio sarà uud, mentre il neutrone è udd. Λ0 sarà uds. Salta agli occhi un problema evidente: che
carica elettrica dovrebbero avere queste particelle? Tutte le particelle elementari osservate hanno carica pari a un multiplo intero della carica dell’elettrone. Per il protone il multiplo è 1, per il
neutrone è 0. Se si prova a far tornare i conti della carica per i vari composti formati da questi mattoni fondamentali, non ci si riesce. Supponiamo per esempio che u abbia un’unità di carica positiva. Allora, dato che il protone uud ha carica +1, bisogna che d
abbia carica –1. Ma questo dà al neutrone udd la carica sbagliata.
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Non c’è modo di far tornare i conti usando multipli interi della carica dell’elettrone.
Gell-Mann tentò allora una strada folle, o almeno molto audace. Assegnò a queste particelle cariche frazionarie. Alla u fu associata una carica +2/3, a d –1/3, e a s –1/3. Il modello funzionava,
ma a prezzo di introdurre particelle che nessuno aveva mai osservato. Dov’erano? Poco dopo iniziò una ricerca a livello mondiale.
Nel frattempo Gell-Mann scelse un nome. Quando iniziò a lavorare con questi oggetti li indicò con un suono legato a un’altra sua passione, l’osservazione degli uccelli, ed era una cosa tipo
«quack». Aveva anche interesse per la linguistica e i giochi di parole che si trovano in Finnegan’s Wake, di James Joyce. Nel libro
aveva letto frase Three quarks for Muster Mark, e quindi «quack»
divenne quark: era nato il nuovo termine.
In breve tempo divenne chiaro che non si sarebbero trovati
quark liberi. Facendo di necessità virtù, i fisici inventarono una dinamica che avrebbe confinato i quark all’interno delle particelle. In
questo scenario i quark si scambiano particelle chiamate «gluoni» e
la dinamica dei gluoni ha una caratteristica molto speciale. Abbiamo già sottolineato che le forze che ci sono familiari (forza elettrica, interazione forte e addirittura la forza gravitazionale) diminuiscono di intensità all’aumentare della distanza tra gli oggetti su cui
agiscono. Ma la dinamica dei gluoni prevede una forza che ha esattamente la proprietà opposta. È un po’ come tirare un elastico: più
lo si allunga, più aumenta la forza che tende a farlo ritornare come
prima. Naturalmente si può tirare un elastico fino a romperlo. Ma
non nel caso dei quark: la forza diventa sempre maggiore. Non c’è
modo di sfuggire, i quark sono imprigionati per sempre.
Secondo alcuni, una tale caratteristica poneva una domanda seria: in che senso si può dire che i quark esistono? Quando sentii
questa discussione mi venne in mente il dibattito tra fine del XIX
secolo e inizio del XX sull’esistenza degli atomi. Anche gli atomi
non erano ancora stati osservati. Einstein, testimone di quelle diatribe, descrisse la questione egregiamente. «Ci sono due tipi di atomi: l’atomo dei fisici e l’atomo dei chimici». Quello dei chimici è un
simbolo, un aiuto visivo: si può disegnare un diagramma che rappresenta H2O senza sapere nulla della massa o della dimensione degli atomi di ossigeno e idrogeno. È una specie di strumento contabile. Ma i fisici volevano conoscere massa e dimensione degli atomi
in modo preciso. Un chimico poteva argomentare che gli atomi
«esistono», un fisico magari aveva riserve. Con i quark era peggio. Il
quark libero era impossibile da osservare, per principio.
Negli anni sessanta fu costruito un acceleratore, lo Stanford
Linear Collider. Al contrario del ciclotrone, in cui le particelle si
muovono lungo una circonferenza, nel nuovo apparecchio gli
elettroni erano accelerati su una traiettoria rettilinea lunga circa
tre chilometri per poi collidere con protoni. Per la maggior parte
dei fisici gli elettroni avrebbero dovuto attraversare i protoni senza
conseguenze, ma non andò così. I risultati mostrarono che gli elettroni avevano colpito oggetti solidi all’interno dei protoni, inoltre
questi oggetti avevano proprio la carica dei quark. Diventava difficile sostenere che i quark non esistono.
Le Scienze 51
Fin dall’inizio si era capito che l’ottuplice via era solo una simmetria approssimata. Questo è evidente se si considera la massa
delle particelle. I mesoni p si trovano in un ottetto con gli strani mesoni K. La massa dei mesoni K è più di tre volte quella dei
mesoni p. Se la simmetria fosse esatta, tutte le particelle nell’ottetto avrebbero la stessa massa, mentre in realtà, guardando alle loro
proprietà, sembra quasi che non abbiano nulla a che fare l’una con
l’altra. Per questo era difficile trovare la simmetria che le unisse.
La rottura della simmetria mostrata dall’ottuplice via è vecchia
quanto la teoria quantistica. Fu introdotta dal matematico Hermann Weyl e dal fisico Eugene Wigner, che la applicò agli spettri atomici. Gli elettroni sono localizzati su «orbitali» esterni al nucleo. La quantizzazione di questi orbitali fu il grande risultato di
Niels Bohr. Se l’atomo non è disturbato, gli elettroni si dispongono
naturalmente sugli orbitali di minore energia: gli «stati fondamentali». Ma se il calore, o una corrente elettrica, eccita gli atomi, gli
elettroni saltano su orbitali più alti. Una volta che la perturbazione
è finita tornano nello stato fondamentale, emettendo però radiazione che produce uno spettro atomico caratteristico.
Lo spettro atomico è l’impronta digitale che identifica gli elementi. È così che fu scoperto l’elio nell’atmosfera del Sole. Le righe dello spettro riflettono la simmetria della teoria che descrive
gli stati energetici. Mettere gli atomi in un campo magnetico può
compromettere la simmetria in un modo ben definito; la conseguenza è che un’unica riga spettrale diventa un multipletto, ovvero un insieme di righe molto vicine tra loro.
Numero e intensità di queste righe si possono prevedere: riflettono la simmetria che è stata rotta. È la rottura di simmetria di Wigner-Weyl che si trova nell’ottuplice via. Si provoca una perturbazione che rompe la simmetria in modo da separare le masse dei
multipletti; se lo si fa con il garbo giusto, le masse risultanti sono
correlate. Queste correlazioni si possono verificare empiricamente,
il che conferma la correttezza dello schema.
Venni a conoscenza delle rotture della simmetria di WignerWeyl alla fine degli anni cinquanta, mentre studiavo meccanica
quantistica. Ma nel 1961 Yoichiro Nambu e il suo studente italia-
52 Le Scienze
no Giovanni Jona-Lasinio pubblicarono due lavori rivoluzionari:
si trattava di un tipo diverso di rotture di simmetria. Nel 2008, durante il suo discorso per il premio Nobel, Nambu fece un esempio.
Supponiamo di avere una barra dritta ed elastica, e di appoggiarla in verticale. Da qualunque direzione orizzontale apparirà
identica, la simmetria è perfetta. Ma se la schiacciamo in verticale
si piegherà da qualche parte, e la simmetria è perduta. Un esempio
che mi piace molto è immaginare la stessa barra in equilibrio su un
punto. La meccanica quantistica ci dice che questo equilibrio non
sarà mai perfetto: c’è sempre un’incertezza sull’angolo d’inclinazione, e quindi cadrà, ma c’è la stessa probabilità che cada in ogni
direzione. Una volta caduta, la simmetria è perduta. Più astrattamente, le equazioni possono mostrare simmetrie, ma non è obbligatorio scegliere soluzioni che le rispettino. Questa rottura si dice
«spontanea», per distinguerla dal tipo di Wigner-Weyl, in cui si aggiunge alle equazioni un termine che rende conto dell’interruzione
della simmetria. Qui non si aggiunge niente.
Nambu ebbe grande influenza nella comunità dei fisici. Applicò le sue idee a magneti, cristalli, superconduttori e alla teoria delle particelle elementari. Mentre lavorava su quest’ultima arrivò un
ospite inatteso. Negli anni venti un fisico indiano, Satyendra Nath
Bose, introdusse un tipo di statistica che si applica a particelle come i mesoni p e K. Bose la applicò ai fotoni, e spedì il suo lavoro
a Einstein, che fece qualche correzione e lo pubblicò. Le particelle di questo tipo oggi si chiamano «bosoni». L’altra classe di particelle, che include elettrone, protone e neutrino, è quella dei «fermioni», in onore di Fermi. L’ospite inatteso nel modello di Nambu
era un bosone di massa nulla. A quell’epoca si sapeva che il fotone
ha massa nulla e si pensava lo stesso del neutrino (il che non è vero), ma non si aveva conoscenza di alcun bosone del tipo di Nambu. All’inizio si pensò che potesse essere un’anomalia nel modello,
ma nel 1961 il fisico Jeffrey Goldstone trovò un altro modello che
prevede particelle chiamate oggi «bosoni di Nambu-Goldstone». Si
aveva la sensazione che queste particelle fossero incidenti di percorso della rottura spontanea di simmetria, e quindi non fossero rilevanti nel mondo delle particelle elementari.
La svolta avvenne nel 1964, con Walter Gilbert, allora professore
associato di biofisica a Harvard e in seguito, nel 1980, premio Nobel per la chimica. I ragionamenti di Nambu e Goldstone erano cor-
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Uomo della massa. Negli anni sessanta Peter Higgs, teorico delle
particelle all’Università di Edimburgo, diede una spiegazione di come
le particelle elementari furono dotate di massa al momento del big
bang. In questo contesto ipotizzò anche l’esistenza della particella
nota con il nome di «bosone di Higgs».
p e r a p p r o f o n di r e
Cortesia Claudia Marcelloni/CERN
Il bosone di Higgs
ATLAS per l’Higgs.
Il Large Hadron Collider
del CERN è l’acceleratore
a più alta energia del
mondo e il più grande
strumento scientifico
mai costruito, primato
raggiunto anche grazie ai
suoi giganteschi rivelatori
come ATLAS, in questa
foto. Insieme a CMS, altro
rivelatore, ATLAS ha
probabilmente permesso,
almeno secondo le analisi
dei dati più recenti, di
scoprire il bosone di Higgs,
la particella ipotizzata
nel 1964 da Peter Higgs e
responsabile della massa di
tutte le altre particelle.
Cortesia CERN
Mi sembrerebbe una negligenza non raccontarvi qualche dettaglio di quello che è successo da allora. A oggi sono stati osservati sei diversi quark: up, down, strange, charm, bottom e top. Tutti hanno carica frazionaria e massa che varia tra una piccolissima
frazione della massa del protone fino a 200 volte tanto. Ma la situazione è più complessa. Dalla meccanica quantistica si sapeva
che non si possono trovare due quark identici nella stessa particella. È un’applicazione del principio di esclusione di Pauli. Il protone
è costituito dai quark uud, e va bene perché i due quark u possono
mettersi in stati diversi di momento angolare.
Ma nel 1964 al Brookhaven National Laboratory fu scoperta una
splendida particella, chiamata Ω–. Era stata prevista come completamento di un decupletto dell’ottuplice via, ma la sua composizione era sss, e non era permesso. I teorici inventarono allora un’altra
proprietà, chiamata «colore», per differenziare i diversi tipi di quark.
La parola «colore» è solo una metafora per una generica distinzione: di solito i colori scelti riflettono la nazionalità del fisico coinvolto. I fisici statuniotensi preferiscono bianco, rosso e blu. Dunque,
quando si dice che Ω– è formata da tre quark s, si suppone di averli scelti di colore diverso. Se pensate che sia complicato, date un’occhiata alla lista delle particelle elementari. Il fatto che siano tutte
costituite da un numero così piccolo di oggetti è davvero notevole.
Neutrino. Close F., Raffaello Cortina, Milano, 2012.
The Infinity Puzzle: Quantum Field Theory and the Hunt for an Orderly Universe.
Close F., Basic Books, New York, 2011.
The Quantum Story. A History in 40 Moments. Baggott J.E., Oxford University
Press, New York, 2011.
Antimateria. Close F., Einaudi, Torino, 2010.
The New Cosmic Onion: Quarks and the Nature of the Universe. Close F., Taylor &
Francis, New York, 2007.
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retti, ma non sufficientemente generali. Gilbert analizzò le ipotesi e
osservò che non si applicavano all’elettrodinamica; questa scoperta fu liberatoria e sfruttata in pieno per la prima volta nel caso delle
particelle elementari, almeno su carta, da Peter Higgs, fisico britannico. Higgs considerò una teoria che iniziava con un fotone di massa nulla e alcuni bosoni accoppiati tra loro e al fotone. Questa teoria mostra un’apparente simmetria che si rompe spontaneamente, e
accade allora qualcosa di straordinario. Il fotone acquisisce massa e
la teoria acquisisce un bosone di massa non nulla, oggi universalmente noto come «bosone di Higgs». Non ci si crede, bisogna seguire i passaggi matematici per crederci davvero.
Il primo a usare tutto questo fu Steve Weinberg, ma per spiegare
che cosa fece devo fare un passo indietro. In natura ci sono quattro
forze fondamentali. L’interazione forte tiene insieme i quark nelle particelle ed è mediata dai gluoni. Meno intensa è la forza elettromagnetica, mediata dai fotoni. Saltiamo l’interazione debole per
il momento, e passiamo alla forza più debole di tutte, la forza gravitazionale, mediata dai «gravitoni». Nessuno ha osservato i gravitoni come particelle libere e alcuni ricercatori sostengono che sia
impossibile. Può sembrare strano pensare alla gravità come la più
debole delle forze fondamentali, dato che la sperimentiamo tutti i
giorni. Questo perché la gravità agisce tra tutte le masse e si somma, quindi la Terra ci tiene attaccati al suolo, e meno male.
L’interazione debole è responsabile di reazioni come il decadimento beta. Fermi provò a modellarla sull’elettrodinamica con un
cambiamento sostanziale. Nella sua teoria l’interazione era mediata da una particella di massa infinita. La forza agiva solo a distanza
zero, il che significa che le particelle coinvolte dovevano stare l’una sull’altra. La teoria forniva spiegazioni eccellenti, ma sembrava fuori sintonia con le altre forze, mediate da particelle di massa
ragionevole. Quindi i fisici inventarono particelle che mediassero
questa interazione: dovevano essere molto pesanti, ma di massa finita. Erano tre: due, cariche, chiamate «mesoni W» (dove «W» sta
per weak, debole in inglese) e una terza chiamata «mesone Z» (per
ragioni che mi sono oscure). Si ipotizzarono le proprietà di questi mesoni, che furono osservati nel 1983, e avevano massa 90 volte quella del protone. I fisici ne avevano ipotizzato l’esistenza, e per
anni, basandosi su questi mesoni, avevano costruito teorie che però
avevano un problema. Producevano grandezze infinite, di cui non
ci si riusciva a liberare con le tecniche solite che avevano eliminato
gli infiniti dall’elettrodinamica quantistica (la cosiddetta rinormalizzazione). Questo generò nuovamente un bel po’ di fisica della disperazione. Poi arrivò Weinberg.
Nella teoria elettrodebole di Weinberg si comincia in una situazione simmetrica, in cui fotone e mesoni deboli non hanno massa
e interagiscono con i bosoni secondo il modello di Higgs. La simmetria si rompe spontaneamente, ed ecco lo stesso miracolo. I mesoni deboli acquisiscono massa, e il fotone no. Il bosone di Higgs
acquisisce massa. Funziona tutto. Inoltre, gli orribili infiniti spariscono. Era tutto meraviglioso, ma per lungo tempo ha lasciato una
domanda senza risposta: dov’è il bosone di Higgs?
Mai nella storia così tanti fisici hanno speso tanto tempo, denaro ed energie nella ricerca di qualcosa. Abbiamo fatto grandi passi avanti dai tempi di Rutherford, che scoprì il nucleo atomico in
un esperimento che si poteva realizzare su un tavolino. Nella ricerca del bosone di Higgs sono stati coinvolti tre acceleratori, due dei
quali, LEP e LHC, sono al CERN di Ginevra. Il terzo, il Tevatron, è
al Fermilab. Le analisi dei dati raccolti da LHC sembrano dimostrare che ormai abbiamo scovato il bosone di Higgs (si veda l’articolo
a p. 38), mettendo fine a un capitolo della storia della fisica.
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