Fase vascolare Edema con formazione di: Essudato (peso specifico >1.020 Kg/m3) Trasudato (peso specifico <1.012 Kg/m3) Fase cellulare Cellule dell’immunità innata con attività fagocitaria (neutrofili, monociti-macrofagi) ma anche linfociti, cellule NK e numerosi fattori solubili (citochine e chemochine). Le cellule (monociti-macrofagi, PMN, cell. dendritiche) presentano recettori per il riconoscimento di costituenti generici dei patogeni o dei tessuti danneggiati: Recettori solubili – includono numerose molecole note anche come proteine di fase acuta (Fattori del complemento (C3), collectine, pentrassine). Recettori di membrana – in grado di riconoscere diverse componenti presenti in differenti patogeni (C-type lectin receptors (CLR), Toll-like receptors (TLR), recettori spazzino (scavenger)). Recettori citoplasmatici - proteine presenti nel citoplasma dove sono in grado di riconoscere costituenti endogeni o esogeni espressione di danno cellulare (NOD-like e RIG-like receptors). Il meccanismo di risposta porta all’attivazione di fattori trascrizionali (es. NF-kB) che attivano geni che codificano per numerose citochine e chemochine e modificano l’attività cellulare (fagocitosi, presentazione antigene). Toll-like receptors (TLR) Conservati nel corso dell’evoluzione (inizialmente identificati in Drosophila). Proteine transmembrana (10 identificate nell’uomo) Regione extracellulare LRR (leucinrich region) che è in grado di riconoscere costituenti dei patogeni. Dominio intracellulare TIR (TollInterlelin-1 receptor) che attiva la cascata di trasduzione del segnale Sono localizzati alla membrana o associati a vescicole intracellulari (endosomi). Sono presenti come omo- o eterodimeri Migrazione leucocitaria I leucociti presenti nel sangue e coinvolti nella risposta infiammatoria passano attraverso la parete dei vasi (extravasazione, principalmente a livello delle venule post-capillari) e migrano nel tessuti raggiungendo la sede del danno (chemiotassi). Modificazioni a carico del flusso ematico e degli endoteliociti che costituiscono la parete dei vasi (attivazione dell’endotelio) regolano il processo. Marginazione Rotolamento (Rolling) Adesione Il processo è regolato da molecole di adesione espresse sulla superficie dell’endotelio e sui leucociti e da numerosi fattri solubili (citochine e chemochine). Selectine (L-, E- e P selectina) Immonoglobuline (ICAM-1, ICAM-2, PECAM-1) Integrine (eterodimeri formati da 11 catene a e 6 catene b differentemente combinate) L’espressione di questi segnali di superficie è up-regolata dall’azione di specifiche citochine (in particolare TNF e IL-1) e di fattori chemiotattici. Mediatori solubili dell’infiammazione (1) Molti fattori solubili regolano ed amplificano la risposta infiammatoria. Mediatori plasmatici – sist. del complemento, sist. delle chinine e fattori della coagulazione e fibrinolitici. Mediatori preformati – già sintetizzati ed accumulati in granuli (istamina). Mediatorila sintesi è attivata dallo stimolo infiammatorio; Mediatori neosintetizzati – la cui sintesi è attivata dallo stimolo infiammatorio (prodotti di derivazione lipidica, citochine e chemochine di natura proteica). Amine vasoattive L’istamina interviene solo inizialmente nella vasodilatazione. Essa è sintetizzata dai granulociti basofili del sangue e dai mastociti che la immagazzinano in granuli citoplasmatici da dove è liberata a seguito dello stimolo flogistico (degranulazione dei mastociti). Causa vasodilatazione delle arteriole ed aumenta la permeabilità delle venule E’ un importante mediatore nei fenomeni allergici. Mediatori solubili dell’infiammazione (2) Metaboliti dell’acido arachidonico L’ac. arachidonico è presente nei fosfolipidi delle membrane cellulari dei mammiferi. Esso è liberato dall’azione di una fosfolipasi e nel citoplasma è metabolizzato da due distinti sistemi enzimatici microsomiali: (COX) – da cui derivano le prostaglandine (PGI2, PGD2, PGE2, PGF2) ed il trombossano A2 (TXA2) Ciclossigenasi Lipossigenasi – da cui derivano i leucotrieni (LTB4, LCT4, LTD4, LTE4) Queste vie sono attive in molti tipi cellulari e nel contesto del processo infiammatorio interessano particolarmente macrofagi, mastociti, e piastrine. Mediatori solubili dell’infiammazione (3) Chemochine Le chemochine sono una classe di citochine rilasciate dalle cellule del focolaio flogistico che svolgono un’azione di richiamo di altre cellule nella sede dell’infiammazione (attività chemiotattica). Sono piccole proteine basiche caratterizzate dalla presenza, in più punti della molecola di 4 residui di cisteina che intervengono nella formazione di ponti disolfuro. Ne sono state identificate almeno una cinquantina. Citochine Le citochine sono mediatori solubili che trasferiscono segnali di attivazione o inibizione tra i diversi tipi cellulari coinvolti nei fenomeni di difesa e riparo. Interleuchina-1 (IL-1) - una delle più studiate per i molteplici effetti nella risposta immunitaria e infiammatoria . Fattore di necrosi tumorale (TNF) – uno dei principali mediatori dell’infiammazione acuta. Molte funzioni (recluta neutrofili e monocitimacrofagi nel sito d’infiammazione). Effetti dipendenti dalla concentrazione sierica. Cellule coinvolte nel processo infiammatorio (1) Le chemochine ed altri fattori chemiotattici richiamano nel focolaio infiammatorio diversi tipi cellulari. Le principali funzioni sono: produrre citochine la cui azione modula l’andamento del processo infiammatorio eliminare gli agenti flogogeni attraverso la fagocitosi porre il connessione risposta flogistica e risposta immunitaria Tali cellule sono di norma quiescenti dal punto di vista funzionale e sono attivate da costituenti microbici o da altre citochine. L’attivazione prevede la sintesi di: recettori per le chemochine, così da riconoscere i segnali chemiotattici recettori per molecole di adesione (marginazione dei neutrofili, interazione nel focolaio flogistico con cellule e molecole della matrice connettivale) enzimi inducibili (NOS e glicossigenasi) citochine ed altri mediatori recettori per le citochine proteine coinvolte nell’apoptosi (morte programmata della cellula) Cellule coinvolte nel processo infiammatorio (2) Mastociti Cellule di forma tondeggiante presenti nel connettivo di molti organi con citoplasma ricco di numerosi granuli. Sono attivati da specifici ligandi per i quali presentano recettori di superficie: anafilotossine (C3a, e C5b) Allergeni (che interagiscono con le IgE fissate a specifici recettori) L’attivazione comporta la degranulazione dei mastociti. Granulociti neutrofili Sono richiamati nel focolaio infiammatorio da fattori chemiotattici (inf. da microrganismi) e attivamente migrano dal sangue nei tessuti (diapedesi). Partecipano all’infiammazione con la produzione di mediatori chimici e la fagocitosi dei microrganismi, direttamente o dopo opsonizzazione. Cellule coinvolte nel processo infiammatorio (3) Monociti/Macrofagi Sono attivati da diverse citochine (in particolare IFN-g). Nel focolaio infiammatorio esplicano diverse funzioni: inglobano sostanze estranee e microrganismi (fagocitosi) presentano l’antigene a linfociti T CD4+ sintetizzano e secernono diverse citochine intervengono nella cronicizzazione del processo infiammatorio Cellule Natural Killer (NK) Intervengono direttamente uccidendo i microrganismi e le cellule infettate da virus. Piastrine Sono cellule prive di nucleo che si formano dai megacariociti. Sono presenti nel focolaio flogistico se sono presenti gravi lesioni della parete dei capillari ed intervengono producendo mediatori chimici come i derivati dell’ac. arachidonico. Cellule coinvolte nel processo infiammatorio (4) Linfociti Sono sempre presenti nel focolaio flogistico specie in presenza di un’infiammazione cronica. Intervengo più tardivamente ed il loro ruolo è connesso all’attivazione del sistema immune. Sono tra i principali produttori di citochine. Endoteliociti Formano la parete dei capillari e mediano gli interscambi tra sangue e focolaio infiammatorio. Presentano numerosi recettori per molteplici citochine alla cui azione rispondono attivamente (attivazione dell’endotelio) determinando: Aumento del diametro del vaso (iperemia) Aumento della permeabilità capillare Espressione di molecole di adesione (marginazione e diapedesi) Fibroblasti Fisiologicamente presenti nel connettivo hanno un ruolo principalmente nel processo riparativo che risolve l’infiammazione. Formazione dell’essudato La formazione dell’essudato (edema infiammatorio), cioè il passaggio della componente liquida del plasma dal compartimento vasale a quello interstiziale, dipende da: Aumentata permeabilità capillare Aumentata pressione idrostatica Aumentata concentrazione di proteine nel compartimento interstiziale Ridotto drenaggio del sistema linfatico Caratteristiche dell’essudato sono: pH acido (presenza di ac. lattico) proteine derivate dal plasma e sostanze liberate dalle cellule lesionate mucopolissaccaridi acidi del connettivo La componente cellulare varia a seconda del tipo di essudato con prevalenza di cellule della serie bianca del sangue quali i polimorfonucleati. Il ruolo dell’essudato è per lo più protettivo, in quanto favorisce il contatto di mediatori e cellule del sist. Immune con il patogeno. Fagocitosi (1) La fagocitosi ha sicuramente un ruolo molto importante nell’infiammazione. Le cellule munite di questa funzione si distinguono in: Professionali – cellule per le quali l’attività fagocitaria è funzione preminente (neutrofili, eosinofili, monociti-macrofagi). Fagociti Facoltativi – cellule per le quali la fagocitosi è funzione marginale (fibroblasti, mastociti, endoteliociti ecc.). Fagociti I fagociti professionali sono richiamati nel focolaio infiammatorio da chemochine e fattori chemiotattici. Qui vengono in contatto con il materiale estraneo (corpo estraneo, microrganismo, detriti cellulari), su cui agiscono secondo il seguente schema: ed internalizzazione mediante l’emissione di pseudopodi e formazione del fagosoma Fusione del fagosoma con il lisosomi e formazione del fagolisosoma Digestione del materiale fagocitato ad opera degli enz. lisosomiali Esocitosi dei residui del materiale digerito. Adesione Fagocitosi (2) Alcune specie microbiche ed agenti flogogeni possono resistere all’azione degli enzimi digestivi restando trattenuti nel citoplasma dei fagociti. Questa condizione nei macrofagi innesca la cronicizzazione dell’infiammazione. L’opsonizzazione facilita la fagocitosi (le cellule presentano recettori per il frammento Fc degli Ab e per C3b). E’ da ricordare inoltre il ruolo che i fagociti hanno come cellule APC (Antigen Presenting Cells). Enzimi lisosomiali Sono contenuti in forma inattiva nei lisosomi (granuli) delle cellule con attività fagocitaria (granulociti neutrofili, monociti/macrofagi) e possono essere liberati nel focolaio infiammatorio. I granulociti neutrofili contengono tre tipi di granuli: Primari (azzurrofili) – contengono idrolasi acide. Secondari o specifici – contengono collagenasi e proteine basiche (lisozima e lattoferrina). Terziari o particelle C – contengono catepsine e gelatinasi. Con la fagocitosi gli enzimi idrolitici dei granuli sono liberati nel fagolisosoma e concorrono alla digestione dei costituenti batterici e di altri materiali. Quando riversati all’esterno degradano un ampio spettro di substrati biologici , tra cui i componenti del tessuto connettivo, contribuendo all’evoluzione del processo infiammatorio. Ossido nitrico (NO) E’ prodotto da diversi citotipi a partire dall’aminoacido arginina e per azione dell’enzima nitrico sintasi (NOS) di cui si conoscono tre forme: Costitutiva (cNOS) Inducibile (iNOS) Cerebrale (nNOS) L’attività di NOS aumenta rapidamente dopo attivazione di specifici recettori sulla superficie degli endoteliociti da parte di mediatori della flogosi. Gli effetti del NO si manifestano in vicinanza del punto di rilascio (gas diffusibile), determinando: rilascio della muscolatura liscia della parete delle venule inibizione di alcune funzioni piastriniche (aggregazione e vasocostrizione) la lisi di alcuni microrganismi per azione delle cellule fagocitarie. Esito dell’infiammazione acuta L’infiammazione acuta dinamicamente evolve con tre possibili esiti: Necrosi – L’azione dei leucociti, con liberazione di enzimi lisosomiali distrugge non solo i microrganismi ma anche cellule circostanti i cui costituenti, liberati all’esterno, sono fagocitati. Se questo essudato purulento si raccoglie in cavità si forma l’ascesso. Se esso riesce ad aprirsi un varco verso l’esterno si forma una fistola. Cronicizzazione – quando la reazione flogistica non elimina del tutto l’agente flogogeno. Guarigione – L’essudato è riassorbito e si innescano processi riparativi del tutto identici a quelli descritti in precedenza. Riparazione del danno ai tessuti Il processo di riparazione del danno tissutale avviene sostanzialmente sempre con le stesse modalità, con differenze dipendenti dal tipo di tessuto e cellule coinvolte. Complicanze del processo riparativo Infezioni – La ferita crea una facile via di accesso per i microrganismi: cocchi, clostridi sotto forma di spore (tetano e gangrena gassosa). Deiescenza – Rottura delle ferite in corso di guarigione (particolarmente quelle addominali in soggetti debilitati o in condizioni di sforzo). Formazione del cheloide – formazione di una cicatrice esuberante per un eccesso di tessuto connettivo neoformato, probabilmente in relazione con una iperproduzione di fattori di crescita per i fibroblasti. Infiammazione cronica (istoflogosi) L’infiammazione cronica è un processo di lunga durata in cui i fenomeni di attiva infiammazione, distruzione tissutale, risposta immunitaria e riparo coesistono. La cronicizzazione può insorgere come evoluzione dell’infiammazione acuta (mancata eliminazione dell’agente flogogeno) o ex novo (infiammazione cronica primaria) come espressione di fenomeni infiammatori a lenta evoluzione. In essa si osserva: progressiva riduzione dei fenomeni vasculo-ematici. sostituzione dei polimorfonucleati con un infiltrato cellulare costituito prevalentemente da macrofagi, linfociti (B e T), plasmacellule e cellule NK. proliferazione dei fibroblasti con eccessiva produzione di tessuto connettivo (fibrosi o sclerosi). Le infiammazioni croniche si distinguono in non granulomatose e granulomatose entrambe caratterizzate da leucocitosi linfomonocitaria. Infiammazioni cronica di tipo granulomatoso (1) E’ un tipo particolare d’infiammazione cronica in cui l’agente lesivo non provoca un danno esteso ma localizzato. La formazione di un granuloma si osserva quando microrganismi, prodotti di questi, o materiali di varia natura (organica e inorganica) permangono indigeriti nei fagolisosomi dei macrofagi. L’infiltrato cellulare è caratterizzato dal prevalere dei macrofagi che formano strutture tondeggianti (granulomi). L’analisi istologica dei granuli evidenzia una struttura circolare con al centro: una cellula multinucleata formatasi dalla fusione dei macrofagi. Macrofagi periferici che assumono un aspetto epitelioide (cellule epitelioidi) strato più periferico di linfociti e/o fibroblasti Si possono osservare deviazioni da questo schema generale dipendenti dalla natura dell’agente flogogeno. L’assenza di vascolarizzazione del granuloma e la liberazione di sostanze tossiche da parte di microrganismi inglobati nel granuloma sono responsabili della necrosi verso cui evolvono la maggior parte dei granulomi. Infiammazioni cronica di tipo granulomatoso (2) E’ un tipo particolare d’infiammazione cronica in cui l’agente lesivo non provoca un danno esteso ma In base all’eziologia si distinguono: Granulomi non immunologici da corpo estraneo – il ricambio di cellule che partecipano alla formazione del granuloma è molto lento Granulomi di tipo immunologico o da ipersensibilità – provocati da agenti forniti di potere antigenico capaci di suscitare reazioni di ipersensibilità (sono a rapido ricambio cellulare). Manifestazioni sistemiche dell’infiammazione (1) L’infiammazione è un processo prevalentemente localizzato, tuttavia manifestazioni sistemiche sono connesse all’azione che alcune citochine, attraverso il sangue, possono avere su cellule di organi anche distanti dal focolaio infiammatorio. Manifestazioni sistemiche sono: La leucocitosi La febbre La risposta di fase acuta Leucocitosi Aumento del numero dei leucociti del sangue (4000-10000/mm3). Esso interessa diversi leucociti a seconda della natura dell’agente eziologico: Neutrofili nella maggior parte dei casi (neutrofilia) Eosinofili nelle flogosi allergiche o da parassiti Monociti e linfociti in alcune infezioni croniche ed in convalescenza (monocitosi e linfocitosi) In genere la leucocitosi neutrofila caratterizza l’infiammazione acuta e la leucocitosi linfomonocitaria l’infiammazione cronica. Manifestazioni sistemiche dell’infiammazione (2) La Febbre E’ una forma di ipertermia dovuta ad una alterazione funzionale temporanea dei neuroni dei centri termoregolatori ipotalamici dipendente dall’azione di alcune citochine sintetizzate e rilasciate in eccesso da numerose cellule dell’organismo. Si ha uno spostamento verso l’alto del punto di equilibrio tra processi di termogenesi e termodispersione (normalmente a 37°C). Numerose sono le sostanze ad effetto pirogeno. Si distinguono: Pirogeni esogeni – alcune endotossine e costituenti batterici Pirogeni endogeni – un gran numero di citochine. Patogenesi della Febbre Le citochine pirogene possono o attraversare la barriera emato-encefalica o stimolare le cellule endoteliali di questa a produrre citochine che non agiscono direttamente sui neuroni dei centri termoregolatori ipotalamici ma inducono altre cellule a produrre PGE2 che agisce sui neuroni ipotalamici. Recettori per il PGE2 inducono l’attivazione dell’adenilciclasi per la sintesi di cAMP che inibisce i neuroni ipotalamici, proporzionalmente alla quota di pirogeni circolanti. L’inibizione sposta verso l’alto il punto di equilibrio della termoregolazione. I farmaci antipiretici agiscono sulla glicossigenasi bloccando la sintesi di PGE2. La risposta di fase acuta L’infiammazione determina un cambiamento anche nel contenuto proteico (aumentato) del plasma. Questo cambiamento si manifesta molto precocemente e si parla quindi di proteine di fase acuta. La sintesi ha luogo negli epatociti del fegato che sono stimolati a produrre tali proteine da diverse citochine (IL-1, TNF-a, IL-6). Un aumento della VES è associato in questi casi all’aumentata quota di proteine plasmatiche. I Tumori I tumori (neoplasie) sono costituiti da un insieme di cellule somatiche originatesi solitamente da un’unica cellula in cui, l’accumulo sequenziale di alterazioni genomiche (mutazioni), ha determinato importanti cambiamenti: autonomia moltiplicativa – incapacità a sottostare ai meccanismi preposti al controllo della proliferazione cellulare; riduzione o perdita della capacità differenziativa; perdita della capacità di andare incontro a morte cellulare programmata (apoptosi). Tutti i citotipi possono andare incontro a trasformazione neoplastica sviluppando molti tipi diversi di tumori, che tuttavia rispondono a questo schema generale. Gli agenti eziologici dei tumori umani possono essere molteplici e di varia natura (chimica, fisica, biologica) e spesso più fattori concorrono a creare le condizioni per lo sviluppo di una neoplasia. Fattori esogeni possono talora aggiungersi a cause endogene (es. mutazioni trasmesse dai genitori) che creano una maggiore predisposizione allo sviluppo del tumore. I tumori vengono solitamente distinti in due grossi gruppi: Tumori Benigni Tumori Maligni Circa l’80% ha origine epiteliale, mentre il restante 20% ha origine mesenchimale. Tumori benigni Le cellule conservano un buon grado di differenziazione morfologica e funzionale, pur mostrando di non rispondere ai meccanismi di controllo della proliferazione cellulare. Essi hanno uno sviluppo che non prevede infiltrazione tra le cellule dei tessuti circostanti. La massa tumorale si espande ma risulta ben distinta e distinguibile rispetto ai tessuti circostanti. Talora una guaina fibrosa può delimitare il tumore. Il danno è spesso correlato alla compressione che la massa tumorale può esercitare su tessuti ed organi contigui. Nei tumori benigni di ghiandole endocrine (adenomi) il danno può risultare dalla iperproduzione incontrollata di ormoni. L’asportazione chirurgica è risolutiva e non recidivante. Tumori maligni Le cellule sono tipicamente morfologicamente e funzionalmente diverse dalle cellule del tessuto da cui il tumore origina. Il grado di indifferenziazione è tanto più elevato quanto più il tumore è in uno stadio avanzato. Le alterazioni morfologiche riguardano la forma, gli organuli cellulari e soprattutto il nucleo. Il tumore maligno tende ad infiltrare i tessuti limitrofi (invasività neoplastica). Le cellule tumorali possono raggiungere e penetrare la parete endoteliale dei vasi passando nel sangue. Trasportate dal sangue possono raggiungere altri tessuti ed organi dove attecchiscono e sviluppano il tumore (metastasi). La metastatizzazione rappresenta lo stadio più avanzato di evoluzione di un tumore maligno. La tendenza ad infiltrare i tessuti circostanti (invasività) comporta la comparsa di recidive dopo asportazione chirurgica del tumore che non garantisce la totale eliminazione delle cellule tumorali. Nomenclatura e classificazione dei tumori (1) Nella classificazione e nomenclatura dei tumori un parametro che viene valutato è l’analisi istologica che tende ad identificare il tessuto di origine della neoplasia. Nei tumori altamente indifferenziati può non essere possibile riconoscere i segni del tessuto d’origine del tumore (tumori anaplastici). Epiteli di rivestimento (cute e mucose) Tumori benigni - si presentano con l’aspetto di protuberanze che emergono dal tessuto (polipi e papillomi) Tumori maligni – irregolari e scarsamente limitati rispetto al tessuto circostante, spesso duri e con fenomeni emorragici e ulcerativi (epitelioma basocellulare o basalioma; epitelioma spinocellulare). Epitelio ghiandolare Tumori benigni – sono detti adenomi e ripropongono in maniera abbastanza fedele l’architettura della ghiandola da cui originano. Tumori maligni – adenocarcinomi se sufficientemente differenziati così da riprodurre la struttura ghiandolare e carcinomi nelle forme più indifferenziate. Tessuto connettivo Tumori benigni - indicati dal suffisso oma. Tumori maligni – indicati dal termine sarcoma. Nomenclatura e classificazione dei tumori (2) Tessuto emolinfopoietico I tumori che originano da cellule staminali emopoietiche del midollo osseo sono definiti leucemie mentre quelli che sviluppano da linfociti maturi sono detti linfomi. La classificazione è in continua evoluzione. Nelle leucemie si riscontrano due caratteristiche principali: abnorme proliferazione delle cellule staminali trasformate (neoplastiche) blocco maturativo – le cellule non sono capaci di differenziare e quindi si accumulano nel midollo o passano nel sangue come elementi immaturi incapaci di svolgere la loro funzione. Tessuto nervoso Classificazione complessa che si basa sul tipo di cellule coinvolte, con tumori sia benigni che maligni. Gradazione e Stadiazione La gradazione è la valutazione del grado di malignità del tumore in funzione dell’ analisi del grado di differenziazione delle cellule tumorali rilevabile dall’analisi anatomo-istopatologica del tessuto tumorale. Utile ai fini prognostici e terapeutici è anche la valutazione dello stadio di sviluppo della neoplasia (stadiazione) che viene oggi effettuata secondo precisi schemi di classificazione dettati dall’OMS. Il sistema di classificazione TNM tiene conto: delle dimensioni del tumore primario (Tn) dello stato dei linfonodi regionali (Nn) dell’assenza o presenza di metastasi (Mn) Quali sono i fattori responsabili dell’invasività delle cellule neoplastiche? Metastatizzazione (1) La metastasi è espressione di una capacità di autotrapianto acquisita dalle cellule neoplastiche. Esse sono cioè capaci di distaccarsi dal tumore primitivo e impiantarsi in una sede diversa, dove danno origine ad un tumore secondario. La metastatizzazione rappresenta un ulteriore evoluzione della malignità del tumore. Come per altre caratteristiche descritte, anche la capacità di dare metastasi è espressione dell’acquisizione di nuove caratteristiche fenotipiche da parte della cellula neoplastica come prodotto di un ulteriore riarrangiamento del suo genoma che si somma alle mutazioni preesistenti. Perché la metastasi si realizzi è necessario che alcune cellule neoplastiche acquisiscano il fenotipo metastatico, esse devono cioè essere in grado di: distaccarsi dal tumore primario Invadere tessuto connettivo, capillari sanguigni e linfatici Sopravvivere nel sangue e nella linfa Arrestarsi aderendo alle cellule endoteliali (espressione di specifiche molecole di adesione quali le integrine) Attraversare la parete endoteliale del vaso Moltiplicarsi e invadere il tessuto colonizzato (espressione di molecole di adesione specifiche di quel tessuto) Produrre fattori angiogenetici che consentano la vascolarizzazione e quindi l’accrescimento del tumore secondario. Metastatizzazione (2) L’espressione di specifiche molecole di adesione è responsabile dell’organotropismo delle metastasi, per cui un certo tipo di tumore metastatizza in particolari tessuti ed organi ma non in altri. Il trasporto delle cellule tumorali dalla sede di sviluppo del tumore primario alla localizzazione metastatica avviene attraverso diverse vie: Ematica – le cellule tumorali penetrano nel sangue attraverso la parete endoteliale dei vasi e vengono rivestite dalla fibrina e da aggregati piastrinici. Fenomeni coagulativi innescati dalle alterazioni dell’endotelio ne possono favorire l’adesione Linfatica – attraverso il sistema linfatico le cellule neoplastiche possono raggiungere il linfonodi regionali o il sangue. Transcelomatica – seguita dai tumori che si sviluppano in organi contenuti nelle cavità celomatiche Canalicolare – per i tumori di ghiandole dotate di dotti escretori per cui la metastatizzazione può avere luogo in organi e tessuti serviti da queste. Genetica dei Tumori Studi sulla relazione età – tumore hanno evidenziato che sarebbero necessarie una media di sei o sette mutazioni successive per convertire una cellula normale in un carcinoma invasivo. La probabilità che ciò accada è trascurabile, tuttavia esistono due meccanismi generali che possono favorire la progressione neoplastica. Alcune mutazioni aumentano la proliferazione cellulare, creando una popolazione espansa di cellule bersaglio per la mutazione successiva. Altre mutazioni intaccano la stabilità dell’intero genoma, facendo aumentare il tasso di mutazioni complessivo. I geni dei tumori Esistono tre gruppi di geni che risultano frequentemente mutati nelle neoplasie: Gli oncogeni - la cui azione promuove positivamente la proliferazione cellulare. Nella forma normale, non mutata sono indicati come protooncogeni. La forma mutata è attiva in modo improprio o eccessivo. Un singolo allele mutante può influenzare il fenotipo dell’intera cellula. I geni soppressori dei tumori (TS) - la cui funzione è quella di inibire la proliferazione cellulare. Nelle cellule tumorali, la forma mutata perde la sua funzione. Per cambiare il comportamento di una cellula devono essere inattivati entrambi gli alleli di un gene TS. I geni mutatori - responsabili del mantenimento dell’integrità del genoma e della fedeltà di trasferimento dell’informazione. La loro inattivazione aumenta la possibilità che la cellula possa commettere errori, e questi possono coinvolgere oncogeni o geni TS. Virus oncogeni Alcune forme di tumori negli animali (incluso l’uomo) possono essere causate da virus. I virus tumorali rientrano in tre ampie classi: I virus a DNA, che normalmente infettano la cellula con modalità litiche, possono causare tumori mediante anomale integrazioni del DNA virale in cellule ospiti non permissive. L’integrazione innesca segnali di attivazione della trascrizione o di replicazione virali nell’ospite attivando la proliferazione cellulare incontrollata. I retrovirus, che hanno il genoma a RNA, si replicano mediante un intermedio di DNA, prodotto da una trascrittasi inversa virale. Questi virus in genere non uccidono la cellula ospite e raramente la trasformano in cellula neoplastica. I retrovirus a trasformazione acuta, a differenza dei retrovirus normali, trasformano rapidamente e ad alta efficienza la cellula ospite in neoplastica. Il loro genoma contiene un gene aggiuntivo l’oncogene virale, che solitamente sostituisce alcuni geni essenziali del virus. Per potersi replicare, essi richiedono quindi la coinfezione di un virus helper che svolge le funzioni mancanti. Gli oncogeni Lo studio dei retrovirus e dei loro oncogeni ha rapidamente chiarito che le cellule normali contengono degli equivalenti di tutti gli oncogeni virali che in realtà sono geni cellulari trasdotti. Gli oncogeni virali differiscono dai loro equivalenti cellulari (proto-oncogeni) per sostituzioni e tagli aminocidici che attivano il proto-oncogene (lo trasformano cioè in oncogene). Lo studio dei retrovirus ha consentito di identificare più di 50 oncogeni, evidenziando come essi fossero coinvolti proprio in quelle funzioni cellulari che si era previsto fossero perturbate nei tumori. Possiamo distinguere cinque classi principali di oncogeni: Fattori di crescita secreti Recettori della superficie cellulare Componenti di sistemi intracellulari di trasduzione del segnale Proteine nucleari che si legano al DNA (fattori di trascrizione, ecc.) Componenti del circuito delle cicline, chinasi ciclina-dipendenti e inibitori delle chinasi (che governano la progressione del ciclo cellulare). Attivazione dei proto-oncogeni (1) L’attivazione dei proto-oncogeni può essere: Quantitativa - con un aumento cioè della produzione di un prodotto non modificato. Qualitativa - con produzione di un prodotto leggermente modificato in seguito ad una mutazione o alla formazione di un nuovo prodotto da un gene chimerico creato da un riarrangiamento cromosomico. Questi cambiamenti sono dominanti e normalmente interessano solo uno degli alleli di un gene. Negli oncogeni le mutazioni attivanti sono quasi invariabilmente mutazioni somatiche, in quanto mutazioni costituzionali sarebbero probabilmente letali. Attivazione a seguito di mutazioni puntiformi Un esempio è il gene HRAS, che appartiene alla famiglia dei geni ras, coinvolti nella trasduzione del segnale a partire da recettori accoppiati alla proteina G. Il segnale che perviene al recettore attiva il legame del GTP a RAS ed il complesso GTP-RAS trasmette il segnale ad altri fattori a valle di questo sistema. RAS ha attività GTPasica e rapidamente converte il complesso GTP-RAS in GDP-RAS funzionalmente inattivo. Mutazioni puntiformi che alterano la funzione GTPasica di RAS ne limitano l’inattivazione determinando una eccessiva risposta della cellula al segnale proveniente dal recettore. Attivazione dei proto-oncogeni (2) Traslocazioni cromosomiche che possono creare geni chimerici Tipicamente le cellule tumorali hanno cariotipi grossolanamente alterati. La maggior parte di questi cambiamenti sono casuali è riflettono una generica instabilità del genoma che è componente normale della carcinogenesi. Sono stati tuttavia caratterizzati riarrangiamenti tumore-specifici. Il più conosciuto produce il cromosoma Filadelfia (Ph1), un piccolissimo cromosoma acrocentrico presente nel 90% dei pazienti con leucemia mieloide cronica. Il cromosoma Filadelfia è il prodotto di una traslocazione bilanciata (9;22). Sul cromosoma 9 il punto di rottura è in un introne dell’oncogene ABL. La traslocazione lo unisce al gene BCR sul cromosoma 22 creando un gene chimerico il cui prodotto è una proteina di fusione, una tirosina chinasi correlata ad ABL ma con anomale proprietà trasformanti (non risponde più ai normali controlli). Si conoscono molti riarrangiamenti che producono geni chimerici o anche pongono oncogeni in un contesto cromatinico attivamente trascritto come ad esempio i geni per le immunoglobuline nei linfociti. Geni oncosoppressori Esperimenti di fusione in vitro tra cellule neoplastiche e cellule normali, ha evidenziato che, in alcuni casi, il fenotipo trasformante può essere corretto. Ciò ha fornito la prova che lo sviluppo dei tumori non dipende solo da oncogeni attivati dominanti, ma anche da mutazioni recessive che conducono alla perdita di funzione di altri geni. Questi sono appunto i geni soppressori dei tumori (tumor suppressor TS gene). Il meccanismo con cui i geni TS vengono inattivati è spiegato dall’ipotesi del doppio colpo di Knudson (1971), confermata da studi successivi che hanno interessato in particolare il retinoblastoma, un raro e aggressivo tumore infantile della retina. Per questo esiste un 60% di casi sporadici unilaterali e un 40% di casi ereditari. Nei casi familiari non sono infrequenti i tumori bilaterali.