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I
l grande Muscari, il più originale
dei giovani poeti toscani, entrò velocemente
nel suo ristorante preferito, che guardava
sul Mediterraneo, riceveva ombra da una tenda
ed era circondato da piccoli alberi di limone
e di arancio.
Camerieri in grembiule bianco stavano già
apparecchiando candidi tavoli per eleganti
pranzi di buon’ora, e ciò sembrava aumentare
in lui quella soddisfazione che già traspariva
al massimo grado.
Muscari aveva un naso aquilino dantesco
e capelli scuri svolazzanti così come il fazzoletto
attorno al collo; indossava un mantello nero
e avrebbe potuto portare anche una maschera
nera, tanto pareva avere in sé qualcosa
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del melodramma veneziano. Si comportava come
se un trovatore avesse ancora una funzione
sociale come un vescovo. Per quanto il suo
secolo glielo permetteva, girando per il mondo
agiva letteralmente da dongiovanni, con spadino
e chitarra. E infatti non viaggiava mai senza
la custodia delle spade con le quali aveva
sostenuto molti brillanti duelli, né senza
la corrispondente custodia del mandolino
col quale aveva fatto davvero una serenata
a miss Ethel Harrogate, la figlia tradizionalista
di un banchiere dello Yorkshire in vacanza.
In effetti Muscari non era né un ciarlatano
né un fanciullo, bensì un caldo e logico latino
che amava certe cose, e che era fatto così.
La sua poesia era immediata come nessuna prosa
altrui. Desiderava la fama e il vino e la bellezza
delle donne con calore diretto, inconcepibile
per i nebulosi ideali o per i nebulosi compromessi
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nordici. A razze più indeterminate, la sua
mentalità puzzava di pericolo o persino
di crimine. Come il fuoco o il mare, lui
era troppo semplice per ispirare fiducia.
Il banchiere e la sua bella figlia inglese
alloggiavano all’albergo accanto al ristorante
di Muscari; ecco perché era quello il suo
ristorante preferito. Però un’occhiata circolare
al locale gli rivelò subito che la compagnia
inglese non era ancora scesa.
Il ristorante era pieno di luce ma ancora
relativamente vuoto. Due preti stavano
conversando in un tavolo d’angolo, ma Muscari
(fervente cattolico) non dedicò loro più
attenzione che a un paio di corvi.
Da un tavolo ancora più lontano, parzialmente
nascosto da un albero nano di aranci, si alzò
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e venne verso il poeta una persona il cui abito
era, molto aggressivamente, l’opposto del suo.
Questa persona era vestita con leggera lana
scozzese a scacchi, cravatta rosa, colletto
a punte prominenti e stivaletti gialli; e mentre
quell’apparizione londinese si avvicinava,
Muscari fu stupito nell’osservare che la testa
era palesemente diversa dal corpo:
era una testa italiana di carnagione scura
e molto vivace, che sbucava improvvisamente
dal colletto rigido come cartone e dalla comica
cravatta rosa. In realtà era una testa
che conosceva. E la riconobbe, malgrado
l’orribile abbigliamento da festività inglese,
come quella di un vecchio e dimenticato amico
di nome Ezza.
Quel giovane era stato un prodigio
in collegio, con promesse di fama europea
quando aveva solo quindici anni.
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Ma allorché era entrato nel mondo aveva
fallito, prima pubblicamente come drammaturgo
e demagogo e poi privatamente come attore,
viaggiatore, commissario e giornalista.
Muscari lo aveva conosciuto alle luci della
ribalta e gli era parso anche troppo intonato
agli entusiasmi per quella professione;
c’era da credere che poi fosse rimasto
sopraffatto da qualche sventura morale.
«Ezza!» esclamò il poeta, alzandosi
a stringergli le mani con gioioso stupore.
«Bene, ti ho visto nei camerini in svariati
costumi, ma non mi sarei mai aspettato
di vederti vestito come un inglese».
«Questo non è il modo di vestirsi
di un inglese, ma di un italiano del futuro»
rispose seriamente Ezza.
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«In tal caso confesso di preferire l’italiano
del passato» osservò Muscari.
«È questo il tuo vecchio errore, Muscari,»
disse l’altro scuotendo il capo «è l’errore
dell’Italia. Nel
XVI
secolo noi toscani facevamo
moda: avevamo l’acciaio più moderno,
la scultura più moderna, la chimica più
moderna. Perché non dovremmo ora avere
le più moderne fabbriche, i più moderni motori,
le più moderne finanze e, quindi, i più moderni
abiti?»
«Perché non varrebbe loro la pena» rispose
Muscari. «Non si può vedere gli italiani come
realmente progressisti; sono troppo intelligenti.
Gli uomini che notano la scorciatoia verso
il buon vivere, non andranno mai
per le complicate strade nuove».
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«Bene, per me Marconi, non d’Annunzio, è
la stella d’Italia» disse Ezza. «Ed è la ragione
per la quale sono diventato futurista e guida».
«Guida!» esclamò Muscari ridendo.
«È questa l’ultima nell’elenco delle tue
professioni? E chi stai guidando?»
«Oh, un uomo di nome Harrogate e la sua
famiglia, penso».
«Non sarà il banchiere che è in albergo?»
chiese il poeta con qualche calore.
«Sì, proprio lui» rispose la guida.
«Ciò paga bene?» chiese innocentemente
il trovatore.
«Ciò pagherà me» disse Ezza con un sorriso
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molto enigmatico. «Ma io sono una specie
piuttosto strana di guida». Poi, come cambiando
argomento, disse bruscamente: «Lui ha una
figlia e un figlio».
«La figlia è divina» affermò Muscari.
«Il padre e il figlio sono, suppongo, normali
esseri umani. Ma, ammesse le sue innocenti
qualità, questo banchiere non ti appare come
splendido esempio dei miei argomenti?
Harrogate ha milioni nelle sue casseforti e io…
ho il vuoto nelle mie tasche. Però tu non osi
dire, non puoi dire che è più intelligente di me
o più coraggioso di me, o neppure che ha più
energie. Non è intelligente, ha occhi che
sembrano due bottoni blu, non ha energie, si
muove da una sedia all’altra come un paralitico;
è un coscienzioso vecchiotto sciocco, ma ha
fatto i soldi semplicemente perché li colleziona
come un ragazzo raccoglie francobolli.
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