Un tesoro di Montegridolfo: la cassa dotale di Isotta degli Atti

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Chiaretti: "Un tesoro di
Montegridolfo:
la
cassa
dotale di Isotta degli Atti"
- Angelo Chiaretti è uno tra i massimi storici di fatti
locali. L’ultimo suo lavoro è un’associazione di idee ardita
quanto appassionata. Ha avanzato delle ipotesi sugli autori
della cosiddetta cassa dotale di Isotta degli Atti.
Introduzione storica di Alessandro Agnoletti, si intitola: “Un
tesoro di Montegridolfo: la cassa dotale di Isotta degli
Atti”.
I fatti. Nel 1918 Gerola trova presso il parroco di
Montegridolfo una cassa di raffinata fattura. Venne acquistata
dal Museo Nazionale di Ravenna. Nel 1924, grazie
all’interessamento di Corrado Ricci, viene depositata al Museo
Comunale di Rimini. L’esperto Gregori la data attorno alla
metà del XV secolo e come scuola veneta.
Ma come mai il contenitore si trovava a Montegridolfo. A
parere di Chiaretti perché Filippo de’ Gridolfi, signore di
Montegridolfo (da qui il nome del paese) è consigliere a
Rimini di Sigismondo Pandolfo Malatesta. Questi muore e
Filippo riesce ad ottenere il “compromettente” mobile.
Compiuta questa associazione, Chiaretti ne fa un’altra. Le
figure (cerbiatto, cane mastino, pellicani, cerbiatto) della
preziosa cassa potrebbero essere state scolpite da Matteo de’
Pasti o da Agostino di Duccio. Il primo è un veneto di Verona;
il secondo un fiorentino che ebbe alle dipendenze artigianiartisti veneti e friulani. Entrambi hanno lavorato a Rimini al
Tempio Malatestiano e appartengono alla schiera dei grandi
della storia dell’arte. Il mobile di Montegridolfo sembra che
sia simile a quello che nella chiesa di Saludecio conteneva le
spoglie del beato Amato (oggi non ci sono che i resti, delle
tavole).
Scrive il professor Chiaretti: “A questo punto, che si tratti
di Matteo de’ Pasti o di Agostino di Duccio, una cosa è certa:
attraverso la cassa di Montegridolfo essi si arricchiscono di
un’ulteriore paternità e contemporaneamente forniscono al
mondo, malatestiano e non, risposte a domande che da oltre
cinque secoli le attendevano!”.
Saludecio, il sindaco sarà
Margherita?
- Giochi quasi fatti a Saludecio nel centrosinistra per le
prossime amministrative. Sembra scontato che il candidato a
sindaco infatti sarà un uomo della Margherita, anche se
all’interno di quel partito non sembra ci sia unanimità di
opinioni.
Il nome più probabile è quello di Giuseppe (Pino) Sanchini,
già assessore nella giunta di Polidori dal ’99 al 2001, quando
si dimise per l’elezione a consigliere provinciale, dove prese
il posto nell’allora quadrifoglio di Stefano Giannini.
Un nome forte e apprezzato in città che potrebbe dare al
centrosinistra sogni tranquilli. In netto calo le quotazioni
di Massimo Foschi, assessore provinciale ai Servizi sociali e
all’Agricoltura, che non è visto troppo radicato in paese,
anche se è originario.
Nella Margherita si fa anche il nome di Marcello Mainardi
(anche lui, come Sanchini, dell’area dei popolari), assessore
nel 2001 proprio al posto di Sanchini.
I Ds non sembrano avere disponibilità di candidati, quindi
aspettano che sia la Margherita a proporre il nome. Non è però
scontata la presenza nella coalizione di Rifondazione
Comunista, che potrebbe in parte dare qualche speranza al
centrodestra, che per ora a corto di candidati, punterebbe
ancora su Massimo Pierpaolini (che alcuni davano anche in
trattative con i Ds), un ex repubblicano eletto in Forza
Italia in Consiglio provinciale e già sconfitto da Polidori
nelle scorse elezioni comunali.
L’impresa del centrodestra si presenta comunque abbastanza
difficile, in un comune da sempre amministrato dalla sinistra,
tranne nel decennio ’64-’75, quando sindaco fu il
democristiano Luigi Calesini. (L.S.)
"Mondaino,
politica"
quanta
passione
- Che bello scoprire che la passione politica a Mondaino ferve
al di là della quieta apparenza! Ormai non mi stupisco più
quando arrivando dal giornalaio (e preziosissimo ufficio
stampa) mi sento dire: “Maria sei sul giornale oggi”. Superata
la delusione di non essere sulla copertina di “Times” come
donna dell’anno, consegno a Zizi ben 1,05 euro per scoprire
chi ho attaccato (pur senza conoscerlo…) o su quale argomento
ho rilasciato interviste o dichiarazioni.
Per fortuna c’è la Piazza a permettermi di uscire dal mio
grigio anonimato! E non ho neppure bisogno di ingraziarmi il
direttore o smuovere personaggi altolocati per avere spazio su
questo nostro insostituibile mezzo d’informazione! Non sono un
granché come segretaria di sezione; ho poca conoscenza delle
persone e delle storie, è verissimo! Ho anche avuto il
sospetto di ritrovarmi in questo ruolo proprio per questa mia
particolare condizione…
Chissà, potrebbe essere anche un vantaggio non avere legami
parentali o trascorsi scolastici con alcuno ma sicuramente non
mi facilita la comunicazione. Pensate, se non ci fosse stata
la Piazza neppure sapreste della mia esistenza in politica
invece, senza neppure saperlo, un mese sì e uno no questo
giornale colmando un mio colpevole vuoto agisce politicamente
in mio nome, purtroppo devo confessarlo, non per mio conto.
Ma torniamo ad oggi: dopo aver divorato velocemente le pur
tante righe dell’intervista(?) o articolo di fondo (?)
riflessione al buio (?) intercettazione telefonico/ambientale
(?) verbali sottratti ai servizi (?) avvertimento mafioso (?)
bisbigli origliati in un confessionale (?) tra chi e chi non è
dato sapere, ho deciso di uscire dal mio anonimato sperando
che il mio esempio sia seguito dall’autore dell’elzeviro della
Piazza.
Una verità in quelle righe c’è di sicuro: a quanto mi risulta
“i Ds è l’unico partito del paese ad avere almeno un assetto
organico di segreteria” e degli iscritti; questo è vero ma di
ciò non mi compiaccio. Sarebbe tutto più facile, comprensibile
e soprattutto trasparente se si conoscessero i propri
interlocutori per nome cognome e opinione, potrei andare a
bussare alla porta dei segretari di sezione/circolo degli
altri partiti e chiedergli di incontraci per parlare dei
progetti sul futuro di questo nostro, bellissimo, paese e,
magari invitare anche gli anonimi giornalisti della Piazza ad
un dibattito reale tra persone vere con autentiche facce, nomi
cognomi ed opinioni. Ma a quanto pare siamo in pochi a non
temere d’essere identificati. L’invito è valido, vuoi vedere
che tante volte… Sempre a disposizione in carne ed ossa mi
firmo con nome cognome e opinione.
Marina Morgese,
segretario
dei Ds di Mondaino
Falcinelli non molla
- Occupa la scena politica sanclementese dal ’93, entrando da
“politico” consumato nelle sale del potere ed insediandovicisi
con caparbia volontà. Inizia così per Falcinelli una
permanenza mai tranquilla. Ma le osservazioni negative e le
polemiche di questi anni sono scivolate sempre sulla dura
scorza del Pierino senza lasciare tracce apparenti. Se ne sono
andate sia quando era un giovane assessore, sembrava studiasse
da sindaco, sia nella fase in cui il suo declino politico
sembrava non essere visibile che a se stesso.
Prima del ’93 Falcinelli non aveva mai fatto politica
amministrativa. Ma al suo ingresso nella compagine della sua
musa tutelare, la eclissata ex sindaco di San Clemente,
Liviana Cannini, seppe mostrare subito le sue “capacità
politiche” restando fuori in tutte le polemiche che seguirono
l’affondamento del sindaco Antonio Semprini deciso
perpetuato all’interno degli ambienti Pci-Pds.
e
E mentre attorno cambiavano le facce, i personaggi e perdeva
qualche amico, trovandone altri meno veri, Pierino novello
Andreotti della Valconca, assumeva nuovi incarichi e nuove
funzioni diventando un personaggio. Le sue posizioni e i suoi
atteggiamenti non sempre sono stati apprezzati negli ambienti
politici locali; un suo latente campanilismo è stato spesso
mal digerito da colleghi e politici, anche del suo partito.
La più grande qualità di Pierino è stata, ed è, la caparbietà
nel perseguire gli obbiettivi. Oggi Pierino vive la sua
funzione di consigliere comunale con diligente operosità
garantendo il suo impegno fino alla fine del mandato e
proponendosi anche per il futuro “io sono qui e siccome amo il
mio paese metto la mia esperienza al servizio di chiunque me
lo chieda”, dice.
Fra tre o quattro mesi finirà la sua esperienza da consigliere
ed alla domanda su che cosa gli lasci quello che sembra un
tramonto, risponde: “Tante cose fatte e tanti progetti
realizzati nei lavori pubblici e nello sport. E poi il segno
indelebile di un rapporto con i cittadini, con i quali
naturalmente ci sono stati spesso anche scontri e
incomprensioni dovute a opinioni diverse sulle cose che si
stavano realizzando. In fondo è stata una esperienza positiva
e quella di amministratore è un’esperienza che auguro a tutti
i cittadini”.
Ora in fase di bilancio ed analizzando questa esperienza che
cosa cambierebbe delle cose fatte.
“Forse posso rimproverarmi – continua – una certa mancanza di
accettazione del compromesso ed una assenza totale di ricerca
del rapporto del partito a cui appartenevo con la base. Questo
è un ingrediente della politica che va recuperato”.
La politica ha perso i partiti ed ha messo le persone al
centro della gestione della cosa pubblica, scavalcando di
fatto le organizzazioni politiche da molte decisioni, cosa ne
pensa Falcinelli? “Questa situazione ha portato certamente ad
una maggiore stabilità delle amministrazioni ed a una maggiore
responsabilizzazione di sindaci e giunte comunali; di negativo
ha portato sicuramente un accentramento eccessivo del potere
ed a una relativa disaffezione della gente alla
partecipazione,
territorio”.
alle
scelte
anche
importanti
per
il
Questa è sicuramente una realtà che San Clemente ha vissuto
recentemente e la memoria va filata alla nascente zona
industriale, la causa ormai certa del declino politico di
Falcinelli.
“L’ area industriale è solo l’ultimo di una serie di episodi
che mi hanno messo in contrasto con i miei ex colleghi. Quella
che la riguardava è stata una variante al Prg (Piano
regolatore generale) troppo grande e non è normale farla
passare nel silenzio senza mettere al corrente i cittadini. E’
stato fatta passare nel silenzio assoluto anche l’ultimo atto
di questa vicenda. La sua approvazione venne discussa nel
periodo natalizio ed anche in questo caso si è nascosto il mio
contributo nel formulare osservazioni alle scelte iniziali per
l’area industriale”.
Falcinelli continua la sua analisi senza fare nomi, senza
entrare in maniera diretta negli argomenti, continuando nel
suo stile soft che probabilmente nel suo volere tende a
lasciare qualche porta aperta per un suo rientro in quella
politica che lo ha isolato ma che lui ama e non riesce ad
abbandonare.
“Quando mi sono dimesso dai miei incarichi in tanti, avversari
e colleghi di partito, mi hanno manifestato pubblicamente e
privatamente la propria solidarietà e questa cosa mi ha fatto
capire che io non sono poi così lontano né da loro, né dalla
politica”.
di Claudio Casadei
Montefiore teatri, stagione
dialettale
- Come vuole la tradizione, toccherà anche quest’anno alla
Filodrammatica Montefiorese concludere Rumagna Marzulèna, la
rassegna di commedie dialettali che ormai da nove anni ha
luogo a Montefiore. Il 27 e 28 marzo, andrà infatti in scena
“Mingòn u n’è un quaiòn!”, l’ultima creazione di Gianni
Martelli, che è anche il curatore della rassegna medesima.
Rumagna Marzulèna, aperta il 28 febbraio dalla Compagnia I
Giovne Amarcord, con “Ogni pgnata la vo’ e su querc” di
Roberto Semprini, prosegue poi: sabato 6 marzo con “E pataca”,
di Massimo Renzi, Compagnia “Noi ci proviamo”; sabato 13
marzo, con “Cafè la Valeria”, di Pier Paolo Gabrielli,
Compagnia La Carovana; sabato 20 marzo, con” La fni al nuse ma
Bacoch” di Giannino Betti, Compagnia Quei dal Funtanele; per
concludersi, come già detto, sabato 27 e domenica 28, con
“Mingòn u n’è un quaiòn!”, tre atti di Gianni Martelli portati
in scena, per la regia di Lidia Barbieri, da nove attori
(nella foto) della Filodrammatica Montefiorese.
Con quest’ultimo lavoro, Martelli ha così portato la sua vena
creativa a quota dieci: tante sono infatti le commedie da lui
scritte e fatte debuttare a Montefiore, sempre a cura della
“antica” Filodrammatica Montefiorese, che lui stesso, più di
vent’anni fa, ha “rimesso in moto” dopo un lungo periodo di
inattività.
Ancora una volta Martelli ci regala una commedia briosa e
divertente, ma al tempo stesso non priva di spunti di
riflessione sulla realtà di oggi. Insomma, una degna
conclusione di Rumagna Marzulèna che – c’è da esserne certi –
anche quest’anno porterà il tutto esaurito al delizioso Teatro
Malatesta di Montefiore.
Una commedia dialettale per
vivere meglio...
- Finalmente la bella sala del centro polivalente di
Sant’Andrea in Casale ha avuto il suo battesimo come teatro.
Una serata speciale quella del 15 febbraio in cui gli attori
non erano solo sul palco ma anche tra gli organizzatori, tra
chi era intervenuto e nella figura sorridente della
rappresentante dell’Associazione Italiana Sclerosi Multipla,
alla quale è stato devoluto l’incasso della serata.
Un successo totale dal punto di vista organizzativo. La gente
del posto ha risposto in maniera massiccia riempiendo la
saletta con quasi duecento presenze, tanto che gli
organizzatori hanno dovuto aumentare le sedie nella sala.
Un successo sul palco, dove si sono esibiti “I Volontari di
Turno”, una compagnia giunta dalla vicina Morciano che ha
messo in scena “Maza maza agli è totie dla stesa raza”.
Autore: Fiorenzo Sanchi.
Trama: le gioie del matrimonio. Una vicenda che racconta con
ironia le cose belle e le peripezie della storia matrimoniale
di due giovani che passano dalla preparazione del proprio nido
d’amore, la propria casa, fino all’età più matura, con un
cammino costellato dalle gioie loro regalate dalla
madre/suocera, dagli amici, e dulcis in fundo dalla figlia e
dal futuro improbabile genero.
Un’opera frizzante e leggera da vedere sicuramente, se se ne
ha l’occasione, il cui svolgimento e le battute (soprattutto
dell’ “intruso” marchigiano) sono state accompagnate da
applausi e risate.
Consistente fra il pubblico la presenza di giovanissimi che in
questa maniera hanno avuto l’opportunità di venire a contatto
con il dialetto.
Una successo che avrà fatto piacere agli attori, grazie alla
cospicua affluenza e lo hanno poi misurato negli applausi e
nelle risate. Un successo che ha gratificato gli organizzatori
del Centro Sociale Autogestito Valconca che temevano un flop.
Un successo suggellato dal saluto e dal ringraziamento della
presidentessa dell’Associazione Italiana Sclerosi Multipla di
Riccione, Laura Ciavatta, che ha sottolineato la durezza di
questa malattia ma che ha evidenziato come grande anche per
chi ne è colpito resti la voglia di vivere e la necessità di
sentirsi parte attiva della comunità.
Per chi fosse interessato segnaliamo che la commedia verrà
replicata il 18 marzo presso il teatro Africa di Riccione. Nel
teatro del centro polivalente intanto sabato 13 marzo la
compagnia “Quei dal Funtanele” metterà in scena “L’ha fni al
nuse ma Bacuch”, rappresentazione da non perdere.
di Claudio Casadei
Rosaspina,
Montescudo
teatro
a
- Cartellone intenso al teatro Rosaspina di Montescudo
organizzato dal Comune in collaborazione con la Pro Loco.
8 marzo – Premio alla produzione artistica al femminile –
Concerto dei festeggiamenti – Il gruppo i “Furiosi”
interpretano le musiche di Domenico Scarlatti, Franco Donatoni
ed Aldo Vianello
La ricca rassegna dialettale del Rosaspina prosegue il 6 marzo
con “”Se u jè da garavlè e vegn anche mè” della compagnia Gad
Città di Lugo. E si chiude il 13 marzo con due farse
dialettali: “Stati interessanti” e “Chi viglièch di bajoch”
rappresentate dai “dè Bosch”.
Concerti e rappresentazioni iniziano alle 21.
Elezioni, Ds alla resa dei
conti
- Ds: un partito spaccato sul nome del candidato a sindaco. I
corianesi, che in questi giorni stanno cercando una soluzione
unitaria che possa accontentare un partito diviso e che ha già
visto alcuni suoi importanti uomini organizzare una lista
civica che il centrodestra sosterrà alternativa all’Ulivo.
I mali dei Ds corianesi hanno radici antiche, già dalle scorse
elezioni comunali qualcosa si ruppe, divisioni che poi il
congresso di novembre del 2001 ha allargato tra la componente
berlingueriana e quella fassiniana, vincitrice in modo
schiacciante anche grazie all’appoggio di Luigi Vallorani, uno
degli ideatori della lista civica e uno degli oppositori più
feroci del sindaco Ivonne Crescentini. All’epoca, nonostante
si fosse schierato per la mozione minoritaria, quella
morandiana, fece confluire il suo pacchetto di voti alla
mozione Fassino.
Ora le divisioni sono ritornate prepotentemente a galla, con
la candidatura da parte della sinistra del partito di Alfio
Gambuti (già sconfitto dalla Crescentini nella corsa interna
alla carica di sindaco), mentre i fassiniani sono divisi tra
due proposte, quella di Luigina Matricardi, assessore a
Bilancio e Pubblica istruzione e braccio destro del sindaco
Crescentini, e Eugenio Fiorini, ex sindaco di Montecolombo e
capogruppo comunale nello stesso comune.
Nella maggioranza dei Ds si sta lavorando per arrivare ad una
candidatura unica per non rischiare di andare divisi alla
conta dei voti, ed è probabile che sarà la Matricardi a
spuntarla vista la minore notorietà di Fiorini a Coriano.
Contro di lei chi vuole un segnale di rinnovamento rispetto
alla gestione Crescentini. L’indecisione dei Ds fa il gioco
sia della lista civica di Vallorani e Pulcinelli che ancora
non ha ottenuto l’appoggio della Lega Nord, ed anche della
Margherita, che ha in Stefano Orsi l’uomo forte da proporre e
che in Provincia rivendica numerosi sindaci in nome della pari
dignità ed in virtù di avere i voti che servono ai Ds per
vincere.
(L.S.)
Magnanelli,
verità
per
dovere
di
- L’iniziativa delle seguenti precisazioni parte dalla
pubblicazione di un articolo apparso sulla Piazza del febbraio
corrente intitolato “Montescudo, ’46: sfiducia al sindaco”,
dal quale sembrerebbe che il sindaco Magnanelli Giuseppe,
eletto a tale carica nell’imminente dopoguerra, fosse un
“dittatore e podestà fascista” e per tale motivo sfiduciato e
rimosso dal Consiglio comunale.
Appare superfluo sottolineare
che
gli
anni
cui
si
fa
riferimento erano particolarmente difficili, perché gravidi
della problematica del dopoguerra, e sicuramente le lotte
politiche erano di un tale livello e dense di invidia e
gelosia che portavano facilmente a considerazioni e
valutazioni errate su persone che, viceversa, svolgevano la
propria attività lavorativa ed amministrativa all’insegna
dell’onestà e nell’esclusivo interesse della popolazione
amministrata.
Difatti, ed è questa la carenza dell’articolo cui si fa
riferimento – perché non ha terminato di rendicontare gli
eventi limitandosi a valutare esclusivamente un arido verbale
redatto il 13.6.1946 – il sindaco Magnanelli all’epoca dei
fatti tenne un comportamento esemplare e corretto tant’è che
articoli, apparsi sulla cronaca riminese di quel periodo, lo
testimoniano senza dubbio (come risulta dalla documentazione
in possesso: articoli e delibere comunali).
Il sindaco Magnanelli, per onor del vero, fu riabilitato dopo
i fatti narrati dalla stessa prefettura, a seguito di
risultati dell’ispezione-inchiesta rigorosa svoltasi, che lo
elogiò per la mirabile opera svolta quale capo
dell’amministrazione, riconoscendogli onestà e perizia
esemplare. Il sindaco Magnanelli, a dimostrazione del proprio
valore, vide riconosciuta la propria competenza, onestà,
dedizione e zelo, che rispondevano ai valori propri, cristiani
e democratici, della sua vita a cui scrupolosamente si
atteneva.
Tali valori oppose all’indubbio amarezza sofferta per le
ignobili, infondate accuse subite, facendo proprio il motto
“la miglior vendetta è il perdono”.
Quanto sopra si è voluto precisare per salvaguardare la
memoria di una persona che non avrebbe meritato di vivere una
simile esperienza anche, alla fine, ha visto riconosciute le
proprie indiscutibili doti umane ed amministrative e che un
postumo articolo non può proprio rimettere in discussione.
Maria Silvana Magnanelli
Romagna, regione mai esistita
- Questa nostra Romagna, terra dalla geometria variabile a
seconda dei tempi e dei momenti della sua storia, terra di
gente calda, focosa e generosa, terra di gente dallo spirito
indomito e ribelle al potere nefasto della tirannide dei
potenti e della Chiesa, terra i cui uomini hanno dato un
eroico contributo alle lotte del Risorgimento per la
formazione di un’Italia unita, terra che vanta i natali di
Andrea Costa primo parlamentare socialista (1881) della storia
d’Italia, terra che ha aderito con le sue città alla
Repubblica Romana nel 1849 e che ha dato rifugio all’eroe dei
due mondi, terra che può essere considerata la culla del
movimento operaio italiano e del movimento cooperativo che
ebbe come pioniere ed organizzatore quel suo figlio generoso
che risponde al nome di Nullo Baldini, terra che nella guerra
di liberazione del 1943-45 ha dato un valido contributo con le
sue brigate partigiane sia
sull’Appennino sia nella pianura ravennate dove gli uomini del
leggendario Bulow indebolivano le azioni dell’occupante
germanico e dei suoi accoliti repubblichini e liberavano la
stessa Ravenna, terra che ha contribuito fortemente alla
formazione della nostra Italia unita e democratica;
questa terra viene oggi interessata da una iniziativa il cui
scopo è quello di perseguire un intento che possiamo chiamare
come: …. “separatista”? E’ calzante questa definizione? Oppure
no?
Questa nostra terra di Romagna che occupa la zona sud
orientale della Regione Emilia-Romagna e che non ha e non ha
mai avuto esatti confini verso nord ovest, viene a trovarsi
oggi al centro di una diatriba tra chi vorrebbe staccarla dal
resto dell’Emilia, per farne una Regione autonoma e chi non è
d’accordo con questa iniziativa.
Ma quale è la ragione per cui i romagnoli dovrebbero staccarsi
dal resto dell’Emilia? Vi sono esatte ragioni storiche? O
geografiche? O vi sono questioni di opportunità economiche? E
quale dovrebbe poi essere la capitale di questa nuova Regione?
La storia del passato non dimostra mai una esatta regionalità
della Romagna e né esatte linee di demarcazione verso nordovest.
Nell’età della Roma imperiale faceva parte della Ottava
Regione Emilia in base all’ordinamento di Augusto. Nel IV
secolo faceva parte della Pentapoli, era cioè inserita,
assieme ai territori dell’Esarcato di Ravenna, con le cinque
città legate da un fattore comune amministrativo, politico e
religioso (Rimini, Pesaro, Fano, Senigallia ed Ancona).
Il nome di Romània venne dato, dopo l’invasione longobarda, a
quel territorio rimasto in Italia all’Impero di Bisanzio, come
per rivendicare una continuazione della civiltà romana in
contrapposizione alla Longobardìa.
Poi nel 756 Pipino il Breve, cosiddetto perché di piccola
statura, Re dei Franchi e figlio di Carlo Martello, dopo il
ritiro in convento di suo fratello Carlomanno, riuscirà a
costringere Astolfo, Re dei Longobardi, a lasciargli le terre
dell’Esarcato e della Pentapoli, che gli serviranno per farne
dono al Papa Stefano II il quale gli ha fatto già esplicita
richiesta recandosi personalmente in Francia, per incoronarlo
Re dei Franchi, quale compenso. Sarà questa donazione
l’origine del dominio pontificio della Marca e della Romagna.
(1)
Nel XII secolo le città romagnole si danno degli ordinamenti
comunali ma sviluppano anche una serie di lotte e di alleanze
con guerre intestine; avremo Bologna e Faenza contro Forlì;
Bologna che vuole sottomettere Imola, Ferrara che entra nella
Lega Lombarda contro il Barbarossa. Nel secolo seguente gli
imperatori riconoscono sulla Romagna l’autorità del Papa ma,
fino alla fine del XV secolo, questa sarà contestata da quei
comuni che sono riusciti a sopravvivere.
Assistiamo anche alla formazione delle Signorie che
scaturiscono principalmente in conseguenza della politica
nepotista dei vari Papi (vedasi il Papa Sisto IV che concede
le città di Forlì e di Imola a suo nipote Riario e vedasi il
Papa Borgia, Alessandro VI, che lascia suo figlio Cesare, il
Valentino, libero di costringere tutte le città della Romagna
sotto il suo dominio in una unica Signoria).
Tra le altre Signorie, sorte sotto la spinta delle armi da
parte dei vari capitani di ventura abbiamo quelle di Alberico
da Barbiano, Muzio Attendolo Sforza, Giovanni dalle bande nere
che è figlio di Caterina da Forlì e poi, nel nostro riminese,
Sigismondo Pandolfo Malatesta uomo d’arme, ma anche di cultura
e mecenate che ci ha lasciato il Tempio Malatestiano in Rimini
opera dell’Alberti.
Nel 1530 i veneziani, che con una buona amministrazione
avevano gestito tutte le terre della fascia costiera fino a
Cervia, si ritirarono e tutta la Romagna cadde di nuovo sotto
il dominio diretto dello Stato della Chiesa e questo durerà
fino alla fine del Settecento (1796).
E’ questa una data importante per la terra di Romagna per la
sua inclusione prima nella Repubblica Cispadana poi nella
Cisalpina, che risveglieranno in essa la cultura e la vita con
spirito laico di libertà e ribellione. Si infonderanno negli
animi il giacobinismo che accenderà la fiamma della politica
rivoluzionaria per il superamento dell’oscurantismo clericale
e aprirà la scintilla per la formazione di una democrazia
futura. Dopo la caduta delle illusioni provenienti dalla
ventata transalpina, sarà il Congresso di Vienna del 1815, con
la restaurazione e la repressione papalina, che spingerà la
nuova borghesia ed una parte anche della aristocrazia, alla
cospirazione nelle sette liberali.
Con l’epopea del Risorgimento, con i primi moti del 1820 e del
1821, con i moti di Rimini del 1831, con i moti delle Balze
del 1845, con la partecipazione di Aurelio Saffi nel 1849 alla
Repubblica Romana, assistiamo ad una serie di accadimenti che
qualificano lo spirito emiliano-romagnolo in una autentica
partecipazione popolare e al risveglio delle coscienze contro
il nefasto, ottuso ed anacronistico dominio assoluto della
Chiesa.
Osserviamo che, dopo la formazione dello stato italiano
unitario nel censimento del 1871 (quindi 10 anni dopo) ciò che
ha lasciato lo Stato Pontificio nelle Romagne è semplicemente
disastroso sotto l’aspetto economico, sociale e civile. Vi è
l’ottanta per cento dell’analfabetismo, la disoccupazione, uno
stato di fame endemica, le popolazioni affette dalla pellagra
perché costrette dalla miseria a nutrirsi esclusivamente di
polenta. Qui, in queste terribili condizioni, si innestano le
mirabili capacità e risorse di grandi uomini che inventano le
società operaie, le società di mutuo soccorso, le leghe di
resistenza, le cooperative di consumo, le cooperative
bracciantili (socialiste e repubblicane ma anche cattoliche).
Nel 1914 la nostra terra di Romagna, al centro di acuti
conflitti sociali derivanti dalla disoccupazione ed animata
dallo spirito, forse innato, dell’antiautoritarismo e dallo
spirito antimonarchico della popolazione, sarà teatro di una
breve rivolta popolare che passa sotto il nome di “settimana
rossa”. Poi la nascente piaga dell’interventismo, che prevarrà
ed attuerà l’intervento armato, produrrà lutti e rovine a non
finire nella Prima Guerra Mondiale, dividendo i socialisti e i
repubblicani.
Purtroppo nel dopoguerra lo squadrismo agrario attuerà un
insieme di prove generali a partire dal 1921-22 proprio nella
nostra Romagna. Le cosiddette “colonne di fuoco”, capeggiate
dagli squadristi Italo Balbo e Dino Grandi, assaliranno e
devasteranno le cooperative, le camere del lavoro ed
assassineranno un numero impressionante di oppositori al
fascismo. E saranno proprio gli emiliano-romagnoli, più di
ogni altro popolo italiano, ad opporsi alle vili azioni di
quelle squadracce di delinquenti che, agivano spesso anche con
il complice silenzio della forza pubblica, distruggendo quanto
di più nobile possa produrre l’associazionismo in nome della
volontà popolare e della gestione democratica della cosa
comune.
Non mi pare che nella storia della Romagna si ravvisino gli
elementi per giustificare uno strappo per una identificazione
autonoma. Non si riscontrano identità culturali proprie
distaccate da quelle delle zone limitrofe. La nostra Romagna
non è una Regione chiusa, non è il frutto di quei processi di
isolamento
tradizionale
che
possano
sedimentare
antropologicamente il profilo di un popolo autenticamente
connotato. E’ invece una “periferia mobile sorta attraverso
scambi, incontri, sovrapposizione di genti, di poteri, di
culture” (come evidenzia il professore Roberto Balzani nel suo
volume “La Romagna”, ed. il Mulino 2001).
Se osserviamo la descrizione della Romagna ai tempi di Dante
si nota che il limite verso nord-ovest arriva a comprendere
buona parte dell’Emilia con Bologna e Ferrara comprese,
restano fuori solo le province di Parma Piacenza Modena e
Reggio Emilia. Sarebbe ragionevole un tale confine? Oppure
quale dovrebbe essere? E perché?
Ci sono invece altre ragioni? Di carattere amministrativo? Di
convenienza economica?
E perché può essere più conveniente stabilire una nuova
capitale più vicina di una Regione più ristretta che svolga
meglio il ruolo di distribuzione delle risorse? Se è così la
soluzione non dovrebbe forse essere diversa? Non dovrebbe
passare attraverso una maggiore capacità di incidenza nel
governo della Regione ed una maggiore partecipazione ed
espressione dei particolarismi locali degni di attenzione ?
Non sono forse questi dei problemi che resterebbero poi sempre
anche dopo la costituzione di una più piccola Regione? Non ha
forse Rimini una realtà locale ed economica del tutto diversa
da Forlì da Cesena e da Ravenna? Cosa faremmo poi in futuro?
Nascerebbero altre spinte separatiste perché la peculiare
economia riminese richiederebbe una attenzione che i
forlivesi, i cesenati ed i ravennati non sarebbero in grado di
capire?
di Silvio Di Giovanni
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