16. Modelli e misure della disuguaglianza dei redditi

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CORSO DI STATISTICA ECONOMICA
PROF.SSA TIZIANA LAURETI
A.A. 2011/2012
Modelli e misure della disuguaglianza dei redditi
Una corretta impostazione dell’analisi statistica della
distribuzione del reddito richiede che siano chiarite in via
preliminare alcune questioni di carattere concettuale e
definitorio.
CONCETTO DI REDDITO. Esistono molteplici definizioni di
reddito (definizioni teoriche e legate alla computazione del
reddito nelle indagini campionarie)
¾ reddito di una persona in un dato intervallo di tempo è pari al
valore che questa può consumare al massimo nell’intervallo,
rimanendo al termine altrettanto ricca quanto lo era all’inizio
(J.Hicks)
¾ per misurare il reddito è necessario in pratica accertare i
flussi monetari e quelli che possono essere agevolmente
espressi in moneta disponibili in un determinato intervallo di
tempo, distinguendo se si tratta di redditi al lordo o al netto
delle imposte
Indagine sul reddito e le condizioni di vita
Il reddito netto familiare considerato dall’indagine è pari alla
somma dei redditi da lavoro dipendente4 e autonomo, di quelli da
capitale reale e finanziario, delle pensioni e degli altri
trasferimenti pubblici e privati al netto delle imposte personali,
dell’ICI e dei contributi sociali a carico dei lavoratori dipendenti
ed autonomi che costituiscono il nucleo familiare oggetto
d’indagine. Da questa somma vengono sottratti i
trasferimentiversati ad altre famiglie (per esempio, gli assegni di
mantenimento per un ex-coniuge). Non sono compresi gli
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1
eventuali beni prodotti
consumo(autoconsumo).
dalla
famiglia
per
il
proprio
LE UNITÀ ECONOMICO - STATISTICHE.
Nell’analisi della distribuzione dei redditi e delle ricchezze, oltre
alla necessità di analizzare le varie componenti del reddito, è
necessario anche individuare l’unità di riferimento. Ovviamente a
seconda dei dati rilevati può essere più opportuno avere
informazioni relative ai singoli individui oppure alle famiglie.
Quindi generalmente si ricorre all’individuo e alla famiglia.
L’impostazione individualistica, tipica dell’economia del
benessere, indica l’individuo come naturale punto di riferimento
per le teorie normative. Senza dubbio, però, per ragioni
demografiche ed economiche, il benessere individuale ha come
importante punto di riferimento la famiglia. Infatti la famiglia è
essenziale alla sopravvivenza stessa nelle fasi in cui un individuo
non è autosufficiente economicamente ed inoltre l’organizzazione
della vita all’interno di una famiglia consente di realizzare
numerose economie di scala.
Reddito individuale e reddito familiare costituiscono due
grandezze economiche di portata teorica e pratica molto diversa:
- il reddito complessivo della famiglia può derivare, e
normalmente deriva, dalla riunione di più redditi individuali.
- Gli appartenenti al nucleo familiare partecipano al processo
produttivo e a quello di distribuzione del reddito in epoche
successive, secondo lo svolgersi del loro ciclo di vita, o anche
per periodi alternati, come avviene, ad esempio, nel caso di
disoccupazione.
Statistica Economica
2
- Mediante i redditi individuali è possibile analizzare la
distribuzione dei rendimenti dell’attività produttiva dei singoli e
le relazioni con altri caratteri individuali come l’età, il sesso, la
professione, il grado di istruzione, ecc.
LE SCALE DI EQUIVALENZA
La scelta della famiglia come unità di osservazione pone problemi
non solo in relazione alla sua diversa dimensione, ma anche alla
sua variabile composizione per sesso, età e status socioprofessionale dei singoli componenti.
Una soluzione per studiare la distribuzione del reddito tra famiglie
di dimensioni e strutture per età standardizzate (anche se di natura
convenzionale) è quella di ricorrere a scale di equivalenza (SDE).
In particolare la SDE è un numero indice che misura il rapporto
fra il costo sostenuto da una generica famiglia e quello sostenuto
da una famiglia di riferimento in corrispondenza dello stesso
livello o tenore di vita.
Per fare un esempio, una SDE pari a 1,25 indica che la famiglia in
esame deve sostenere un costo maggiore del 25% rispetto alla
famiglia di riferimento per raggiungere lo stesso livello di
benessere. Ciò significa che la prima, spendendo 1.250 euro, “sta
bene” come la seconda quando spende 1000 euro.
In generale, sono tre le principali determinanti della SDE:
1. Il livello di benessere al quale effettuiamo il confronto: non è
detto che, ceteris paribus, la SDE sia la stessa se facciamo
riferimento ad una famiglia più o meno ricca; se prendiamo ad
esempio una famiglia composta da una coppia e un bambino,
possiamo immaginare che l’aumento percentuale di spesa (la
SDE) rispetto alla famiglia di riferimento (di due adulti) sia tanto
minore quanto più la famiglia è ricca.
Statistica Economica
3
2. Il sistema di prezzi in vigore: famiglie differenti possono
risentire diversamente di una variazione dei prezzi relativi .
3. La composizione delle due famiglie fra cui avviene il
confronto.
Le SDE rivestono una notevole importanza come strumento
decisionale e come presupposto conoscitivo in numerosi campi.
Le scale di equivalenza rappresentano un prerequisito in ogni
confronto del benessere realizzato attraverso misure sulla
distribuzione del reddito, disuguaglianza e povertà.
Esistono numerosi approcci per la determinazione delle SDE
legati anche all’ambito applicativo.
Le SDE correntemente utilizzate per scopi di politica socioeconomica o discusse in letteratura coprono una vasta gamma di
tipologie profondamente diverse fra di loro e originate da
“approcci filosofici” ben distinti. Conseguentemente i risultati a
cui pervengono differiscono anche sensibilmente. Tra le scale più
utilizzate ritrovano:
1)
2)
3)
4)
scale normative;
Scale basate su modelli uni equazionali;
Scale basate su sistemi completi di domanda;
Scale intertemporali.
Non esiste un criterio generale di preferenza di una scala rispetto
ad un’altra.
Esempi:
La scala di equivalenza dell’OCSE
Consentono di convertire l’ampiezza delle famiglie in unità
adulte. Le scale OECD: sono uguali ad 1 per il primo adulto nel
nucleo familiare, 0,7 per ogni altro adulto presente e 0,5 per ogni
figlio al di sotto dei 14 anni. Nella scala OECD modificata
l’adulto aggiuntivo pesa 0,5 e il bambino 0,3.
Il rapporto tra reddito familiare e il coefficiente di scala determina
il reddito equivalente. Il reddito equivalente così determinato
si interpreta come il reddito di cui ciascun individuo
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dovrebbe disporre se vivesse da solo per raggiungere lo
stesso tenore di vita che ha in famiglia.
Adulti equivalenti = 1 + 0,7*(adulti – 1) + 0,5*(minori di
14 anni)
SDE
per
determinare
la
soglia
di
povertà.
In questo caso la linea di povertà corrispondente è determinata
facendo il prodotto tra reddito della famiglia di riferimento (2
componenti) e il coefficiente.
Scala ISEE (Indicatore della Situazione Economica
Equivalente)
Statistica Economica
5
Nella scala ISEE (Indicatore della Situazione Economica
Equivalente), la presenza di persone "giovani" (che qui però
significa "minorenni") non ha effetti di per sé, ma diventa
rilevante se si combina con altre circostanze particolari. Ad
esempio, il coefficiente aumenta di 0,2 se la presenza di un minore
si accompagna all'assenza di un genitore, come si suppone che
avvenga qui per la famiglia descritta nell'ultima colonna della
tabella, quella formata da madre e figlio dopo la separazione.
LE TECNICHE DI RILEVAZIONE
Le informazioni sui redditi risultano assai spesso sottostimate e
vanno quindi utilizzate e interpretare con molta cautela
Una delle fonti statistiche più importanti sui redditi familiari è
l’indagine effettuata dalla Banca d’Italia (cfr. Indagine sui bilanci
delle Famiglie). Altre fonti sono rappresentate da fonti di
informazione di origine fiscale e amministrativa, rappresentate
dalle dichiarazioni dei redditi, e dalle registrazioni degli enti
previdenziali. I dati di origine fiscale forniscono informazioni
generalmente incomplete essendo riferite a persone con reddito
superiore al reddito minimo imponibile.
Il progetto Eu-Silc e l’indagine campionaria dell’Istat sui
redditi e le condizioni di vita.
Al fine di garantire la raccolta dei dati necessari per il calcolo
della maggior parte degli indicatori di coesione sociale, nel 2004
Eurostat ha varato, insieme agli istituti nazionali di statistica dei
paesi membri, un nuovo progetto denominato Eu-Silc (European
union statistics on income and living conditions). Il progetto
consente la produzione e la diffusione alla comunità scientifica di
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una base dati armonizzata sulle condizioni di vita e sui redditi dei
cittadini europei, che costituisce la fonte primaria per il calcolo
degli indicatori di coesione sociale dell’Unione.
La base dati integra una componente trasversale (cross-section) ed
una longitudinale (panel) a rotazione quadriennale. La
componente longitudinale consente di studiare la dinamica dei
processi di esclusione sociale osservando le transizioni dello stato
occupazionale e della struttura della famiglia (nascite, morti,
separazioni e divorzi).
La versione italiana del progetto Eu-Silc è basata sull’indagine
campionaria dell’Istat sui redditi e le condizioni di vita.
Rispetto al progetto generale, definito dal Regolamento quadro
europeo, la versione italiana contiene alcune informazioni
aggiuntive. Per esempio, lo status occupazionale è rilevato non
solo in base alla auto percezione della persona intervistata, ma
anche con riferimento alla definizione dell’Ilo (International
labour organisation). Inoltre, sono compresi ulteriori indicatori
non monetari delle condizioni di vita. In particolare, si chiede agli
intervistati se, negli ultimi 12 mesi, ci sono stati momenti in cui la
famiglia non ha avuto i soldi per pagare alcuni beni e servizi (cibo,
vestiti necessari, spese mediche, affitto, mutuo per la casa, bollette
di luce, gas, telefono, spese scolastiche, spese per trasporti, tasse).
Sul piano metodologico, l’aspetto peculiare della versione italiana
di Eu-Silc è costituito dall’integrazione (record linkage)
dell’indagine campionaria con dati di fonte amministrativa
(Agenzia delle entrate e Inps). Ciò consente di minimizzare
l’under reporting dei redditi (in particolare di quelli da lavoro
autonomo), di ottimizzare le procedure di imputazione dei dati
mancanti e di microsimulazione dei redditi lordi.
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STUDIO
STATISTICO
FAMILIARI E PERSONALI
DEI
REDDITI
a) LA RAPPRESENTAZIONE GRAFICA DELLA
DISTRIBUZIONE DELLE UNITÀ STATISTICHE
- Istogramma di frequenza: per studiare la forma della
distribuzione;
- Schema (Funzione) di ripartizione: permette di conoscere il
numero di famiglie o di persone con reddito inferiore ad un
dato limite di reddito. La rappresentazione grafica consiste
nel disporre in ascissa i redditi e in ordinata le frequenze
percentuali cumulate.
- Schema di graduazione: si ottiene disponendo in ascissa le
frequenze cumulate relative e in ordinata i livelli di reddito;
- Curva di concentrazione. La curva di Lorenz (Max O.
Lorenz, 1905) è uno strumento grafico proposto per l’analisi
della disparità nella distribuzione di un certo attributo.
Solitamente questo attributo è il reddito, ma non sono escluse
altre numerose applicazioni di questo strumento. Di seguito
ci concentreremo proprio sul reddito. La curva di Lorenz è
una misura relativa della disuguaglianza che consente di
rappresentare graficamente la quota di reddito totale
percepita da una porzione (frazione cumulata) di popolazione
ordinata per livelli non decrescenti di reddito. La curva di
Lorenz è la relazione che lega ciascuna quota cumulata della
popolazione con la corrispondente quota del reddito totale
posseduta da queste persone. (vedi richiami di statistica
descrittiva)
⇒ Dispersione e asimmetria della distribuzione dei redditi
Statistica Economica
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Quando si parla di disuguaglianza della distribuzione dei redditi
personali o familiari si fa riferimento a due distinti aspetti fra loro
strettamente connessi:
- la dispersione della distribuzione, dovuta al fatto che persone o
nuclei familiari diversi usufruiscono di redditi di diverso
ammontare
- l’asimmetria, che trae origine dal numero elevato di individui o
famiglie che percepiscono redditi bassi rispetto al numero
esiguo di quelli con redditi molto alti.
Fondamentale ai fini dell’analisi della disuguaglianza dei redditi è
la distinzione fra le due principali fonti di reddito: il lavoro e il
capitale. Nel primo caso i fattori che aiutano a spiegarne le
differenze sono soprattutto le capacità individuali, il tipo di
occupazione e il livello di istruzione; nel secondo il carattere
ereditario dei patrimoni e l’atteggiamento individuale verso il
rischio.
b) LA DESCRIZIONE
DISTRIBUZIONE
ANALITICA
DELLA
Quando si analizzano le distribuzioni di reddito, si può cercare di
ricondurle a modelli teorici, sia per scopi puramente descrittivi, sia
per formulare schematicamente una determinata teoria sui
meccanismi distributivi.
Il modello di Pareto
La misura della disuguaglianza dei redditi personali è una linea di
ricerca aperta sostanzialmente da Pareto, che ha fornito
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sull’argomento contributi molto importanti sia a livello teorico che
empirico. Nel suo Cours d’économie politique, pubblicato nel
1896, Pareto scrisse che la ripartizione della ricchezza può
dipendere dalla natura degli uomini di cui la società si compone1,
dall’organizzazione di quest’ultima ed anche, in parte, dal caso,
cioè da quel complesso di cause ignote, agenti ora in un senso ora
in un altro, che, nella nostra ignoranza circa la vera natura,
designiamo con l’espressione di caso. Egli precisò, d’altro canto,
che è l’osservazione che deve informare in merito alla parte che
hanno effettivamente tali cause nella ripartizione della ricchezza.
Se la ripartizione della ricchezza varia in misura considerevole e
in modo irregolare, si può concludere, osserva ancora acutamente
Pareto, che il caso ha una parte considerevole nel prodursi di
questo fenomeno, mentre se le variazioni della ripartizione della
ricchezza seguono i mutamenti dell’organizzazione economica, è a
questa che si deve attribuire una parte preponderante. Se, infine, la
ripartizione della ricchezza risulta relativamente stabile o
comunque varia poco per Paesi, epoche, organizzazioni
economiche diverse, si deve concludere che, senza trascurare le
altre cause, occorre ricercare nella natura dell’uomo la causa
principale che determina il fenomeno.
Utilizzando le dichiarazioni dei contribuenti dell’imposta sul
reddito di vari Paesi e di diverse epoche, Pareto giunse alla
conclusione che la distribuzione dei redditi è quasi identica nelle
diverse situazioni considerate e, di conseguenza, indipendente
dagli ordinamenti economici e politici, dai fattori etnici, ecc. In
particolare i riscontri empirici suggerirono a Pareto la
formulazione di una “legge universale della distribuzione del
reddito”, esplicitata in un modello matematico di tipo iperbolico.
A muovere l’interesse di Pareto sembra essere stata soprattutto
un’esigenza di carattere ideologico.
1
In tal senso, come già accennato sopra, la teoria della distribuzione personale dei redditi di Pareto può considerarsi
come una “correzione” ed una “prosecuzione naturale” della teoria delle abilità individuali di Galton.
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La dimostrazione dell’ottimalità del mercato di natura
concorrenziale lasciava infatti campo aperto alle possibili politiche
di intervento statale sulla distribuzione del reddito. Il
raggiungimento dell’ottimo paretiano implica l’operare delle leggi
della concorrenza, e le condizioni che garantiscono l’esistenza di
equilibrio concorrenziale assicurano anche il conseguimento
dell’efficienza globale del sistema. Ma in corrispondenza ad ogni
distribuzione iniziale delle risorse si può avere un dato equilibrio,
e quindi un determinato assetto distributivo. Quale equilibrio fra i
tanti possibili si instauri è un problema che il solo operare delle
leggi di mercato non permette di risolvere.
Ritenendo che una conclusione di questo tipo potesse rafforzare le
convinzioni tipiche della dottrina socialista sulla necessità di un
intervento redistributivo da parte dello stato, Pareto si propone di
dimostrare che la disuguaglianza della distribuzione personale dei
redditi è un fenomeno naturale, che risponde ad una legge
universale ed eterna, empiricamente verificabile.
Ogni intervento pubblico volto ad alterare la naturale distribuzione
dei redditi avrebbe come unica conseguenza quella di condurre
l’economia verso uno stato subottimale.
Per quanto riguarda la rappresentazione analitica della
distribuzione, occorre ricordare che Pareto, pur consapevole che le
curve risultano tendenzialmente unimodali e asimmetriche a
sinistra, disponeva in realtà di dati di origine fiscale che escludono
i redditi inferiori al minimo imponibile, e quindi di distribuzioni
tronche, che vanno a documentare soprattutto il ramo discendente
della curva.
Se si indica con x un determinato livello di reddito e con N ( x ) il
numero dei redditieri con reddito superiore o uguale a x (ossia
frequenze retro cumulate), Pareto osserva che i punti di coordinate
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log x e log N ( x) ,
rappresentati in un sistema di assi ortogonali
cartesiani, tendono approssimativamente a disporsi lungo una retta
decrescente rispetto all’asse delle ascisse. Tale andamento
suggerisce, quindi, l’opportunità di interpolare la curva dei redditi
mediante l’equazione lineare:
log N ( x) = log K − α log x
[1.1]
espressione di una retta in cui log K misura l’ordinata all’origine,
mentre il valore di α ne misura l’inclinazione.
Dalla espressione [1.1] si ottiene la c.d. legge di Pareto o
equazione paretiana di prima approssimazione:
N ( x) =
K
xα
[1.2]
definita per valori di x compresi nell’intervallo fra h e + ∞ , con
h che corrisponde al livello iniziale della distribuzione empirica,
ovviamente maggiore di zero e con K > 0 e α > 1 . La
rappresentazione grafica di tale funzione corrisponde ad una curva
decrescente di tipo iperbolico.
Statistica Economica
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La funzione di ripartizione della v.c. di Pareto come:
α
⎛h⎞
Fx ( x) = 1 − ⎜ ⎟
⎝x⎠
La distribuzione dei redditieri con reddito superiore ad x è
rappresentata ancora da un iperbole con grado α , ossia:
α
⎛ x ⎞
⎛h⎞
1− F ( x) = ⎜ ⎟ = ⎜ ⎟
⎝x⎠
⎝ x0 ⎠
−α
Per indicare che una v.c. ha una distribuzione paretiana si
scriverà: X ∼ P( I )(h,α ) . La relazione espressa nella formulazione
della funzione di ripartizione è nota come distribuzione di Pareto
del primo tipo.
Secondo la legge di Pareto, tra il livello del reddito e il numero dei
percettori sussiste una relazione che si può esprimere nel modo
seguente: al di sopra di un certo reddito h (che può corrispondere
al valore centrale della classe modale) il numero dei redditieri con
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reddito superiore ad un valore
espresso da2:
x>h
è con buona approssimazione
−α
⎛ x⎞
Nx = N ⎜ ⎟ , α ≥ 1
⎝h⎠
[1.9]
dove N è il numero dei redditieri con reddito superiore al limite
sinistro h. In tal senso, α , invece, rappresenta un indice
descrittivo e analitico della concentrazione dei redditi perché fa
corrispondere ad ogni valore x di reddito ( x > h ) il numero dei
redditieri con reddito più elevato3.
Il parametro α è connesso alla forma della curva e dovrebbe
risultare crescente all’aumentare della disuguaglianza. Tramite un
semplice procedimento interpolatorio, Pareto determinò il valore
di α per diverse distribuzioni e trovò che lo stesso oscillava da un
minimo di 1,32 per alcune città italiane (Arezzo, Ancona, Parma,
Pisa) ad un massimo di 1,72 per la Prussia del 1876. Questa
constatazione lo indusse a credere di aver trovato una legge
universale della distribuzione dei redditi valida per tutti i Paesi e
per ogni tipo di organizzazione economica; da questa evidenza
egli fu portato a dedurre che la disuguaglianza della distribuzione
dei redditi dipenderebbe solo debolmente dal tipo di
organizzazione economica e sociale e assai di più dalla natura
umana.
Per cercare di comprendere la posizione di Pareto bisogna tener
presente cosa egli intendesse per diminuzione della disuguaglianza
dei redditi. Ecco come si esprimeva l’Autore:
“ In generale, quando il numero delle persone che hanno reddito
inferiore ad x diminuisce in rapporto al numero delle persone che
2
In altri termini si può dire che il il numero N(x) dei redditieri con reddito uguale o superiore a x varia in ragione
inversa ad una potenza di x.
3
All’impostazione paretiana può essere imputato il difetto di non tenere conto della parte di distribuzione dei redditi
inferiori ad h. Il ramo ascendente della curva (fino ad h) non è di facile investigazione. Si può ragionevolmente supporre
che la curva nasca lentamente a partire dall’asse delle ascisse, e cresca quindi rapidamente rispetto a tale asse fino ad un
massimo che corrisponde al livello di reddito dove il colloca il maggior numero di redditieri.
Statistica Economica
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hanno un reddito superiore ad x, diremo che la diseguaglianza dei
redditi diminuisce”
Quindi, secondo l’impostazione paretiana, se la distribuzione del
reddito non varia significa che non è possibile ridurne la
disuguaglianza a meno di non aumentare il reddito medio di tutta
la collettività.
⇒ A conclusioni opposte pervenne Corrado Gini che partì nella
sua analisi dalla considerazione che un carattere trasferibile è tanto
più concentrato quanto maggiore è la frazione complessiva del
carattere che spetta alla frazione delle unità che lo possiedono in
misura superiore ad un certo limite (i più ricchi).
Il modello di Pareto si basa su funzioni di densità zero-modali,
mentre le distribuzioni del reddito, nella realtà sono unimodali. Il
modello si adatta solo alle distribuzioni di redditi elevati, non
inferiori alla moda della distribuzione completa; Pareto era a
conoscenza di questo limite, ma difendeva il suo modello
affermando che la sua valenza era limitata all’intervallo di redditi
assegnato.
Il modello LogNormale
Un altro importante modello è il Lognormale. In generale, una
variabile ha distribuzione Lognormale, se il suo logaritmo ha
distribuzione normale.
Statistica Economica
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La distribuzione lognormale, per vari valori dei parametri (µ e σ) della funzione
normale di partenza.
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c) LE MISURE DELLE DISUGUAGLIANZA DEI REDDITI
Si possono individuare due approcci allo studio della
disuguaglianza:
Approccio statistico: si utilizzano misure statistiche (od
oggettive).
Approccio di benessere sociale: si utilizzano misure del
benessere sociale
che discendono da esplicite
impostazioni in termini di funzione di benessere sociale
c) Approccio statistico: le misure di disuguaglianza
1) Rapporto di concentrazione del Gini;
2) Indice di Theil;
3) Indice di Herfindal;
4) Campo di variabilità o campo di variazione;
5) Scarto semplice medio dalla media aritmetica;
6) Varianza;
7) Coefficiente di variazione (indice ideale per confronti);
8) Differenza semplice media e con ripetizione;
⇒ Problema di scelta degli indici
Un indice di disuguaglianza deve soddisfare le proprietà seguenti:
1) indipendenza dalla media della distribuzione;
2) simmetria, ossia qualunque permutazione degli elementi della
distribuzione che non modifichi le frequenze non deve
modificare il valore dell’indice;
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3) sensibilità ai trasferimenti o principio di Pigou, secondo cui
l’indice deve aumentare se si verifica un trasferimento di
reddito da un individuo ad un altro con reddito superiore al suo.
Nella tabella seguente sono indicate le proprietà soddisfatte dai
vari indici. Si può dimostrare che se si calcolano gli indici che
godono delle tre proprietà su distribuzioni diverse i risultati che si
ottengono danno luogo a graduatorie identiche, a condizione che
le curve di concentrazione non si intersechino. In questa
particolare situazione, e nell’ipotesi che sia sufficiente disporre di
misure della disuguaglianza di tipo ordinale, la scelta dell’indice è
indifferente
INDICI
Campo di variazione
Scostamento semplice medio
Varianza
Coefficiente di variazione
Rapporto di concentrazione
Indice di Theil
PROPRIETA’
Prima
Seconda
No
Si
No
Si
no
Si
si
si
si
si
si
si
terza
No
No
Si
Si
Si
Si
L’indice di Gini soddisfa le proprietà di simmetria, di indipendenza dalla
media e dalla popolazione e il principio del trasferimento.
L’indice di Gini non soddisfa la proprietà di scomponibilità esatta tra
gruppi della popolazione. Un altro limite di questo indice, che lo
accomuna con tutte le misure statiche della dispersione, consiste nel fatto
che non fornisce informazioni sul grado di asimmetria di una
distribuzione.
L’indice di Theil gode della importante proprietà di scomposizione; può
essere scomposto per sottopopolazioni, individuando la quota di
disuguaglianza presente in una popolazione dovuta alle diversità fra i
gruppi (Regioni, Province, ecc…) e la quota di disuguaglianza dovuta alle
diversità delle unità statistiche (famiglie o individui) all’interno dei gruppi.
La formula dell’Indice di Theil (Misura di Entropia) è la seguente:
Statistica Economica
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T =
1
N
n
yi
yi
∑ y log y
i =1
L’indice di concentrazione δ del Gini
Se n individui sono graduati in ordine crescente secondo il
carattere quantitativo trasferibile e cumulabile reddito personale,
indicato con x , e se si considerano gli ultimi j redditieri della
graduatoria l’indice δ j è espresso da:
δ
⎛ j
⎞ j
⎜ ∑ xn − h +1 ⎟
⎟ = j
⎜ h =1 n
n
⎜ ∑x ⎟
⎟
⎜
i
⎝ i =1
⎠
Quindi, per una stessa distribuzione statistica il valore di δ non è
fisso ma varia al variare di j.
In pratica, data una ripartizione di redditi articolata in n classi si
determinano n-1 valori di δ , dei quali si calcola poi la media
aritmetica ottenendo un indice medio di concentrazione.
All’aumentare di δ la frazione di percettori che possiedono una
quota costante del reddito complessivo diminuisce.
Tra α e δ sussiste, a date condizioni, una relazione teorica
dimostrata da Gini stesso, ossia:
δ=
α
α −1
Statistica Economica
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Indici di concentrazione di Gini nei paesi europei e nelle
regioni italiane – Anno 2005
Statistica Economica
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La distribuzione del reddito in Italia
La più evidente caratteristica della distribuzione dei redditi in
Italia riguarda la dualità territoriale. Il Centro-Nord mostra,
rispetto al Mezzogiorno, una curva di frequenza del reddito
monetario più spostata verso destra, cioè verso i redditi più alti. La
curva di frequenza del Mezzogiorno risulta invece più densa in
corrispondenza di redditi inferiori a 23 mila euro l’anno (Figura
4).
Distribuzione di frequenza del reddito familiare netto (inclusi i
fitti imputati) nel Mezzogiorno e nel Centro-Nord – Anno 2006
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ISTAT – NOI Italia 100 statistiche per capire il Paese in cui viviamo
(2010)
Statistica Economica
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Statistica Economica
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C1) Equità e crescita economica in Europa e nelle regioni
italiane
Nel dibattito economico è diffusa la convinzione, derivata dalla
teoria dell’equilibrio economico generale nelle sue diverse
versioni, che esista un conflitto fra l’efficienza e l’equità di un
sistema economico.
L’esistenza del conflitto dipende, in ultima analisi, dall’ipotesi che
le disuguaglianze di reddito siano, soprattutto, un incentivo
all’impegno degli individui nello studio e nel lavoro. L’ipotesi
richiede che le disuguaglianze osservate riflettano, se non
interamente, almeno in larga misura i differenti livelli di impegno
degli individui. Solo così è possibile considerarle come “premi”
per quegli individui che potrebbero essere scoraggiati da una
distribuzione troppo egualitaria.
In quest’ottica, l’eguaglianza nella redistribuzione dei redditi
sarebbe poco rilevante o addirittura controproducente per la
crescita economica, perché rischia di ridurre l’impegno lavorativo,
di ostacolare la formazione del capitale umano e, in definitiva, la
produttività del sistema economico.
L’esame dei dati disponibili sulla disuguaglianza dei redditi,
tuttavia, mostra spesso l’esistenza di una relazione positiva fra
equità e crescita economica. I paesi e le regioni a più alto prodotto
pro capite sono spesso quelli caratterizzati da minori disparità
nella distribuzione dei redditi, cioè da più eguaglianza. Nel lungo
periodo e per la maggior parte dei paesi avanzati, quindi, non vi
sono evidenze empiriche dell’ipotesi che l’equità sia dannosa per
la crescita. Piuttosto, è ragionevole supporre la relazione opposta,
come emerge dalla più recente letteratura teorica. Dalla seconda
metà gli anni ’90, numerosi studi sulla crescita economica hanno
mostrato che gli effetti di lungo periodo dell’eguaglianza sulla
crescita sono, in molti paesi, positivi. Questo risultato è stato
spiegato soprattutto come l’effetto dei maggiori livelli di
Statistica Economica
24
istruzione favoriti dalla redistribuzione del reddito. Favorendo la
diffusione di maggiori livelli di istruzione fra i giovani delle
famiglie a basso reddito, l’eguaglianza si traduce in una migliore
utilizzazione delle capacità individuali e, quindi, in una maggiore
crescita.
Sulla base di questi dati e di queste analisi, alcuni studiosi non
solo considerano inesistente il conflitto fra equità ed efficienza,
ma sostengono al contrario che la redistribuzione dei redditi
consente un “doppio dividendo”, cioè sia più efficienza, sia più
equità, quest’ultima anche nei termini di una più rapida riduzione
della povertà. Oltre ai dati e alle teorie più recenti, anche
l’esperienza storica delle regioni italiane e dei paesi europei a più
alto
reddito
segnala
la
possibilità
di
conseguire
contemporaneamente obiettivi di eguaglianza e di crescita.
La relazione fra bassi livelli di reddito familiare e disuguaglianza
emerge sia dal confronto fra paesi europei, sia da quello relativo
alle regioni italiane, come si può ricavare dalle figure seguenti,
dove per consentire un confronto internazionale, il reddito
mediano è misurato a parità di potere d’acquisto.
La distribuzione dei redditi in Italia è più diseguale rispetto a
quella dei paesi scandinavi e di molti di quelli continentali a più
alto reddito. Al contrario, la disuguaglianza è minore in confronto
a quella rilevata nei paesi a più basso reddito dell’Europa
meridionale (ad esempio, Portogallo e Grecia). La relazione fra
eguaglianza e crescita dipende ovviamente anche dai modelli di
welfare e non si riscontra per tutti i possibili sottoinsiemi di paesi.
Per esempio, Regno Unito e Irlanda, pur avendo un reddito
familiare mediano superiore rispetto a Francia e Germania, sono
tuttavia caratterizzati da una maggiore disuguaglianza.
Nel confronto fra Italia e Spagna, quest’ultima presenta minori
disparità, pur avendo un reddito mediano inferiore. Anche l’esame
dei dati delle regioni italiane conferma l’esistenza di una possibile
relazione positiva fra equità e livello di reddito. Le regioni con i
Statistica Economica
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redditi mediani più bassi (Sicilia, Calabria, Puglia e Campania)
presentano in effetti diseguaglianze maggiori nella distribuzione
del reddito rispetto alle regioni centro-settentrionali.
Disuguaglianza e reddito in Europa – Anno 2005
Disuguaglianza e reddito nelle regioni italiane – Anno 2005
Statistica Economica
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Per quanto riguarda la disuguaglianza nella distribuzione dei
redditi familiari, le regioni italiane sono caratterizzate da profonde
differenze, paragonabili per entità relativa a quelle che si
riscontrano nel confronto fra paesi europei diversissimi fra loro
(Figura 3).
Nelle regioni italiane a più alto reddito (ad esempio, Trentino-Alto
Adige, Valle d’Aosta e Friuli-Venezia Giulia) il grado di
disuguaglianza è minimo, non troppo distante da quello dei paesi
europei più egualitari (Svezia, Danimarca, Austria e Paesi Bassi).
Statistica Economica
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Un secondo gruppo di regioni (Veneto, Marche, Basilicata,
Toscana, Abruzzo e Piemonte) si trova in una posizione
intermedia, con un grado di disuguaglianza moderato, vicino a
quello di molti paesi dell’Europa continentale (per esempio,
Francia, Germania, Belgio e Lussemburgo).
Maggiore è la disuguaglianza per Lazio e in Puglia, paragonabili
sotto questo profilo ad alcuni paesi dell’Europa orientale
(Ungheria, Romania e Polonia). Infine, alcune delle regioni
italiane più povere (Campania, Calabria e Sicilia) si trovano
accanto ai paesi europei più diseguali (Grecia, Portogallo, Lituania
e Lettonia).
⇒ La relazione fra equità e crescita economica nei confronti
internazionali e regionali, comunque, non prova l’esistenza di un
legame automatico fra le due grandezze. La correlazione positiva
dipende anche dal contesto sociale, istituzionale ed economico,
oltre che dalle condizioni iniziali del processo di sviluppo.
L’effetto dell’eguaglianza sulla crescita può essere annullato
quando la coesione sociale è minacciata da lesioni dei diritti di
proprietà e dalla diffusione di attività rent-seeking (per esempio da
fenomeni di corruzione, da “rendite di posizione“,
dall’intermediazione parassitaria dell’economia illegale ecc.)
Statistica Economica
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DEFINIZIONI E MISURE DELLA POVERTÀ
Nel ventesimo secolo il problema della povertà è stato
approfondito in molti paesi europei1 e nei paesi del Terzo Mondo.
Ciò può essere, in parte, attribuito alla crescita dell’influenza di
molte organizzazioni internazionali, come Banca Mondiale,
l’UNESCO e al Fondo Monetario Internazionale, alla
istituzionalizzazione della Comunità Europea e al tentativo, da
parte di molti politici, di trovare una soluzione al problema della
povertà dei paesi del Terzo Mondo.
Nel momento in cui si è iniziato a studiare il problema della
povertà economisti, nutrizionalisti, politici, statistici e psicologi
hanno iniziato ad avvertire la necessità di dare una definizione ad
essa. Durante il XX secolo si sono sviluppati tre concetti
alternativi di povertà, quello basato sulla sussistenza, quello sui
bisogni primari e quello sulla privazione relativa.
Da un punto di vista strettamente statistico, le questioni essenziali
per l’analisi della povertà sono la formulazione di una definizione
di povertà e la messa a punto di strumenti di misura in un quadro
concettuale coerente con gli interessi dell’indagine e compatibile
con le informazioni statistiche disponibili.
Le numerose teorie sociologiche sulla povertà, dalle quali si
ricavano altrettante definizioni, si possono schematicamente
ricondurre a due filoni principali:
- quello della povertà intesa come privazione assoluta, nel senso
di mancanza dei mezzi di sostentamento fondamentali
(alimentazione, abitazione e vestiario) e, in definitiva, come
carenza di reddito;
- quello della povertà in termini di privazione relativa, un
concetto secondo il quale si considerano povere le persone che
Statistica Economica
29
pur disponendo dei mezzi di sussistenza fondamentali non sono
in grado di mantenere il tenore di vita considerato normale nella
società del loro tempo.
Ai fini dell’analisi quantitativa è importante inoltre distinguere se
sia opportuno e possibile ricorrere alternativamente:
i. ad un solo indicatore (approccio unidimensionale), come il
reddito o, per l’imprecisione dei dati ad esso riferiti, un altro
carattere indicativo dei mezzi disponibili come la spesa per i
consumi;
ii. a più indicatori (approccio multidimensionale), secondo una
concezione della povertà più ampia, che non riflette soltanto
una condizione di insufficienza economica dell’individuo,
della famiglia o del gruppo sociale, ma anche l’esclusione
dalla vita sociale e politica. Questa impostazione, anche se
più aderente alla realtà, rende molto più incerta e complessa la
definizione dello status di povero.
Quasi tutti i metodi di analisi e di misurazione della povertà
proposti fino ad oggi, seppur facenti capo a diverse impostazioni
concettuali, hanno in comune alcuni aspetti fondamentali che è
importante sottolineare. Tali aspetti caratterizzano fortemente la
metodologia statistica e condizionano altrettanto fortemente i
risultati empirici, tanto da denotare un vero e proprio approccio
alla misurazione della povertà (che può essere indicato come
approccio tradizionale) a fronte del quale, recentemente, sono state
avanzate alcune proposte di carattere alternativo.
L'approccio tradizionale alla misurazione della povertà si articola
in due momenti separati e successivi.
Il primo di questi è finalizzato ad identificare la sfera di
diffusione della povertà e viene realizzato attraverso la
determinazione di un certo livello minimo di reddito, detto
Statistica Economica
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linea di povertà, al di sotto del quale un individuo o una
famiglia viene classificata come povera.
Il secondo momento consiste nella misurazione dell'intensità
della povertà mediante opportuni indici definiti in funzione
dei redditi dei poveri e della linea di povertà precedentemente
ricavata.
Le linee di povertà
Per effettuare una ricerca di tipo quantitativo sul fenomeno della
povertà, è necessario, inizialmente, stabilire quante e quali siano le
grandezze che contribuiscono all’identificazione della condizione
di povertà o meno di un individuo o di un nucleo familiare. Infatti
la povertà non è un attributo osservato direttamente, ma una
famiglia diventa povera in funzione della linea di povertà.
Tradizionalmente è considerato come riferimento uno specifico
livello di reddito o una qualsiasi altra funzione rappresentativa del
benessere familiare, come ad esempio la spesa per consumi.
Per la costruzione di tale linea esistono in letteratura molti modi di
procedere.
Se ci si riferisce all’approccio unidimensionale e quindi al
concetto di privazione assoluta, la povertà viene posta in stretta
relazione con il concetto di minimo di sussistenza, definendo
povere le famiglie che dispongono di una quantità di risorse
inferiore ad un limite prestabilito ritenuto convenzionalmente
insufficiente per procurarsi il minimo necessario per il
mantenimento dell’efficienza fisica.
Nel fissare il limite si tiene conto delle esigenze minime per
sostenere le spese per il vitto, l’abbigliamento e l’affitto
dell’abitazione in relazione alla composizione del nucleo
familiare.
Statistica Economica
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In questo modo si definiscono linee o soglie di povertà variabili
secondo la dimensione e la composizione demografica dei nuclei
familiari e rispetto alle quali si confrontano i redditi di tutti i
nuclei familiari dello stesso tipo. ( occorre disporre di una scala di
equivalenza)
Per quanto non sia esente da critiche, il criterio si rivela
particolarmente utile per individuare la quota di popolazione da
assistere o per fissare un minimo di reddito da garantire.
La fissazione delle linee di povertà è una operazione
inevitabilmente convenzionale e di natura politica.
Tuttavia, in armonia con la definizione di povertà prescelta, si
possono seguire criteri assoluti, che non mutano quindi con lo
standard di vita della società, o relativi.
Linee di povertà con il metodo dei bisogni primari, o
approccio basic needs
Seguendo l’approccio assoluto, si tratta di fissare un livello di
reddito che assicuri la possibilità di acquistare un paniere di beni e
servizi ai prezzi correnti.
Viene ritenuto povero il nucleo familiare che non dispone di
risorse economiche sufficienti per assicurarsi la disponibilità, ai
prezzi correnti, di un determinato “paniere di beni” di prima
necessità; secondo questo approccio la povertà è da intendersi
come mancato soddisfacimento dei bisogni primari. Per tenere
conto del diverso numero di membri e della composizione dei
nuclei familiari, si fa ricorso all’introduzione di una scala di
equivalenza.
Ovviamente, se risulta possibile fissare in termini di calorie e di
principi nutritivi fabbisogni alimentari adeguati, assai più
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problematica ed arbitraria è la determinazione di standard
qualitativi e quantitativo per gli altri consumi.
Si tratta di un criterio adeguato allo studio della povertà nei paesi
poveri, ma non in quelli ricchi perché non tiene conto che le
esigenze dei singoli individui sono fortemente condizionate
dall’ambiente economico e culturale in cui vivono.
Linee di povertà come percentuale del reddito medio o
mediano
Secondo questo metodo di tipo relativo, la linea di povertà viene
fissata con riferimento al tenore di vita della popolazione sotto
esame, cioè viene ancorata ad un qualche valore medio del livello
di benessere economico della popolazione. Infatti misurare la
povertà relativa significa valutare le risorse economiche di
ciascuna famiglia rispetto a quelle possedute dalle altre.
Sono considerati poveri tutti coloro il cui reddito risulta inferiore
ad una percentuale di indicatori monetari della società, quali
appunto il reddito medio o mediano.
In questo approccio relativo la povertà è ritenuta un fenomeno
sociale, che non riguarda cioè il singolo ma la collettività in cui
egli è inserito, poiché l’attenzione non è rivolta alla sola
sussistenza ma anche agli squilibri nella distribuzione delle risorse
e, indirettamente, alle possibilità di accedere ad esse.
Linee di povertà come percentile della distribuzione del
reddito
Sono considerati poveri coloro il cui reddito è inferiore ad un
percentile della distribuzione del reddito; in questo caso la
percentuale di poveri viene definita a priori e da essa scaturisce il
valore della linea di povertà.
Il criterio consiste nell’adottare come linea di povertà il reddito
corrispondente al primo o al secondo decile, in modo che le
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famiglie povere rappresentano sempre il 10% o il 20% delle
famiglie con i redditi più bassi rispetto al totale delle famiglie.
Il dibattito tra impostazioni assoluta e relativa della povertà è tuttora in
corso.(Amartya K. Sen)
L’uso di misure assolute di povertà basate sulla definizione di un paniere minimo di
beni e servizi presuppongono la definizione di un insieme di bisogni essenziali che,
ovviamente, variano a seconda del contesto di analisi. Esso può richiamare infatti il
concetto di sopravvivenza o, piuttosto, il livello di vita ritenuto minimamente
accettabile. Nel primo caso, la povertà assoluta è una situazione in cui la carenza di
risorse è così grave da mettere in serio pericolo la vita stessa (questa accezione di
povertà assoluta è spesso usata in riferimento ai paesi del terzo mondo); nel secondo
caso, la povertà si configura come l’incapacità di acquisire i beni e servizi che
permettono di raggiungere uno standard di vita ritenuto “minimo accettabile” nel
contesto di riferimento. Le principali difficoltà connesse con un simile approccio,
legate oltre che alla scelta e alla definizione dei beni e servizi da considerare
essenziali, anche alla determinazione del loro valore monetario, hanno determinato lo
sviluppo di un ampio dibattito a livello internazionale, tuttora in corso, e solo
sporadiche applicazioni di misure di povertà assoluta basate sulla definizione di un
paniere.
L’esperienza italiana, che portò alla prima definizione di una misura assoluta di
povertà, rappresenta una delle applicazioni e il tentativo, in un certo senso
pionieristico, di aprire il confronto sull’argomento. Venne definito un paniere di beni
e servizi essenziali in grado di assicurare alle famiglie uno standard di vita sufficiente
a evitare gravi forme di esclusione sociale e il suo valore monetario rappresentava la
soglia di povertà assoluta che, nel tempo, fu aggiornata per tenere conto delle
variazioni dei prezzi dei beni e servizi. Dal 1997 al 2002 questa stima di povertà
assoluta è stata diffusa insieme a quella della povertà relativa.
GLI INDICI SINTETICI
In ogni studio di tipo statistico devono essere costruite delle
grandezze utili per descrivere in modo sintetico un determinato
fenomeno. Nel nostro caso, una volta identificata la linea di
povertà, esistono vari indici che devono essere presi in
considerazione e che consentono di quantificare tale fenomeno,
Statistica Economica
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ovvero permettono di realizzare uno degli obiettivi fondamentali
dell’indagine.
Indice di diffusione della povertà
q
n
dove q è il numero delle famiglie povere, con reddito inferiore alla
LP, e n è il numero complessivo delle famiglie.
L’indice varia fra zero e uno (essendo un rapporto di
composizione), e non soddisfa il principio di monotonicità,
secondo cui l’indice deve crescere se il reddito anche di un solo
individuo povero si riduce. Inoltre, H non soddisfa il principio dei
trasferimenti di Pigou.
H=
Indice di intensità della povertà (income gap ratio)
L’indice tiene conto dell’entità dell’indigenza dei poveri e si
ottiene dal rapporto tra la somma delle differenze fra il reddito di
ciascun individuo povero e la linea di povertà e il massimo che
essa può assumere:
I=
∑ gi
i
qz
gi ≥ 0
i = 1,2,..., q
dove z è la LP e gi = z − yi ≥ 0 è il divario dell’i-esimo individuo
povero, avente reddito yi .
L’indice I varia tra 0 (se gi = 0 , ossia se nessun individuo ha un
reddito inferiore alla linea di povertà) e 1 (se ∑ gi = qz , cioè se
i
tutti i poveri hanno reddito nullo) e soddisfa il principio di
monotonicità, ma può non registrare le variazioni del numero degli
Statistica Economica
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individui poveri, a meno che queste non si accompagnino a
variazioni del totale di divari.
Inoltre, I come H, non soddisfa il principio dei trasferimenti ed è
insensibile ai mutamenti nella distribuzione del reddito.
Poverty Gap
Una misura della gravità della povertà più soddisfacente
dell’indice I è fornita dall’indice denominato poverty gap, PG
oppure P1, che misura la media su tutta la popolazione dei poverty
gap individuali, espressi in proporzione alla linea di povertà.
Questo indica la distanza media che separa la popolazione dalla
linea di povertà, espressa come una percentuale della linea di
povertà, ovvero la quota di reddito che mediamente dovrebbe
essere trasferita agli individui poveri per garantire loro un reddito
pari a z. Se si verifica un aumento di reddito di un individuo
povero che si trova vicino alla soglia di povertà, PG si riduce,
anche se l’individuo dopo il trasferimento oltrepassa la linea di
povertà.
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