riforma fiscale e ricapitalizzazione delle imprese

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RIFORMA FISCALE E
RICAPITALIZZAZIONE
DELLE IMPRESE
Profili economici 2
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RIFORMA FISCALE E
RICAPITALIZZAZIONE
DELLE IMPRESE
Seminario 2 marzo 1998
E’ consentito l’utilizzo, anche parziale, del contenuto degli interventi
riportati, purché venga fatto riferimento alla fonte ed al Convegno.
Programma
-
Saluto di apertura
Giuseppe Zanini
Presidente C.C.I.A.A. di Treviso
- Attività e programmi camerali in tema di ricapitalizzazione
delle imprese
dott. Renato Chahinian
Segretario Generale C.C.I.A.A. di Treviso
- Sistema fiscale e finanziamento delle imprese: verso una
penalizzazione dell’indebitamento
prof. Gilberto Muraro
Università di Padova
- IRAP e DIT come strumenti per la ricapitalizzazione delle PMI
dott. Michele Zanette
Università Ca’ Foscari di Venezia
- Considerazioni sugli aspetti economici ed operativi derivanti
dai recenti interventi normativi
in materia fiscale
dott. Pierluigi Bortolussi
Presidente Club Fiscale - Unindustria Treviso
Saluto del Presidente della Camera di Commercio
Giuseppe Zanini
Porgo il saluto, mio personale e della Camera di Commercio, a tutti i
presenti.
Un saluto particolare ai relatori, al prof. Gilberto Muraro, ordinario di
Scienza delle Finanze e già Rettore dell’Ateneo padovano, al dott.
Pierluigi Bortolussi del Club Fiscale di Unindustria Treviso, al dott.
Michele Zanette dell’Università Ca’ Foscari di Venezia e
naturalmente al dott. Renato Chahinian, Segretario Generale della
Camera di Commercio, che ci illustrerà in dettaglio le attività che
abbiamo realizzato e che stiamo realizzando in materia di credito e
finanza d’impresa.
A questo proposito, mi preme sottolineare come si tratti di questioni
estremamente importanti, la cui corretta impostazione da parte di
ciascuna azienda risulta essenziale se non addirittura vitale, tanto più
considerando, da un lato, l’ormai prossima unificazione dei mercati
finanziari europei, dall’altro, la crescente globalizzazione di quelli
internazionali.
L’incontro di oggi fa seguito alla realizzazione di una ricerca sui
“Problemi finanziari e creditizi delle p.m.i.”, commissionata dalla
Camera di Commercio alla Società Progest, i cui risultati sono già stati
presentati in occasione di un Convegno tenutosi lo scorso 15
dicembre.
Tale studio, condotto analizzando un campione significativo di
aziende trevigiane, ha evidenziato una diffusa sottocapitalizzazione ed
un altrettanto deciso e pericoloso ricorso al debito bancario, spesso a
breve termine. Questo comporta, come conseguenza necessaria,
l’assunzione di pesanti oneri finanziari.
Si tratta di una situazione che sembra accomunare sia le imprese
artigiane sia quelle medio-piccole. Solo spostando l’analisi alle
imprese di maggiori dimensioni, si registra il tentativo, peraltro in
molti casi riuscito, di cercare strategie finanziarie più complesse, più
articolate e certo anche più vantaggiose. Non sono comunque esempi
statisticamente abbastanza importanti da modificare il quadro
complessivo e da giustificare un allentamento dell’attenzione su
quello che rimane il problema generale, riassumibile in due parole:
l’indebitamento bancario.
Le ragioni sono molteplici e derivano sia da quella che può essere
genericamente definita come la “cultura aziendale” tipica delle nostre
imprese, sia dalla scarsità degli strumenti finanziari alternativi ed
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anche appetibili - in termini di costi diretti ed indiretti - messi finora a
disposizione dal sistema bancario italiano.
Un ulteriore importante motivo - e questo ci porta all’oggetto
specifico dell’incontro odierno - va comunque senz’altro ricercato
nella disciplina fiscale propria del nostro paese.
Si può infatti ragionevolmente affermare che il ricorso
all’indebitamento è stato storicamente favorito, se non addirittura
determinato, dal fatto che, mentre gli interessi passivi erano
completamente deducibili dalla base imponibile, il finanziamento con
capitale di rischio è stato via via sempre più colpito dalla pressione
fiscale sia attraverso forme di indetraibilità sia attraverso l’istituzione
di specifiche imposte sul patrimonio netto.
Al medesimo risultato conduceva inoltre il diverso trattamento
riservato al reddito percepito a titolo di interessi, rispetto a quello
percepito come dividendi, con soluzioni di netto vantaggio per il
primo.
Sappiamo che con la legge finanziaria del 1996 molte cose sono
cambiate.
Ad essa si deve infatti l’avvio di una completa ed articolata riforma
dell’intero sistema fiscale finalizzata, tra l’altro, a promuovere la
ricapitalizzazione delle imprese: a favore di quest’ultima sembrano
infatti congiuntamente tendere sia la razionalizzazione delle imposte,
sia il riordino della tassazione dei proventi da attività finanziaria.
L’obiettivo del seminario odierno è proprio quello di capire come ed
in quale misura detta riforma sia in grado di modificare la politica di
reperimento delle risorse finora condotta dalle imprese, con
un’attenzione specifica alle esigenze di ricapitalizzazione, esigenze come abbiano detto - diffusamente presenti nelle aziende di minori
dimensioni le quali, in maniera del tutto corretta, si stanno rendendo
conto del fatto che l’assetto finanziario può effettivamente
rappresentare un vero e proprio tallone d’Achille.
Ai relatori il compito di chiarirci questi aspetti, evidenziando, da un
lato, i contenuti più significativi del nuovo sistema impositivo,
dall’altro, le possibilità che esso offre nella promozione di forme più
mature e stabili di finanziamento.
Prima di concludere, un grazie ancora ai relatori per aver accolto il
nostro invito.
La parola ora al dott. Chahinian.
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ATTIVITA’ E PROGRAMMI CAMERALI IN TEMA DI
RICAPITALIZZAZIONE DELLE IMPRESE
dott. RENATO CHAHINIAN
Segretario Generale della C.C.I.A.A. di Treviso
Prima di entrare nel vivo dell'argomento di questo seminario, è
opportuno richiamare quanto è già stato analizzato, nel convegno di
dicembre, sui problemi finanziari delle nostre piccole e medie imprese
e sugli strumenti pubblici a sostegno di uno sviluppo finanziario a
livello locale. E, quindi, è il caso - molto brevemente - di tratteggiare
un quadro sintetico di quello che sta facendo la Camera di Commercio
nello specifico campo della ricapitalizzazione delle imprese.
Ovviamente, delle imprese minori, cioè delle cosiddette piccole e
medie imprese.
Se per ricapitalizzazione intendiamo lo sviluppo del capitale di
rischio, cioè la crescita del capitale proprio necessario allo sviluppo,
cioè ancora di un capitale che, incrementandosi, permetta anche un
aumento del capitale di credito e, quindi, uno sviluppo finanziario in
grado di coprire i maggiori fabbisogni, che si determinano
nell'impresa, nel momento in cui entra nella fase di un vero e proprio
sviluppo aziendale, allora risulta evidente l’importanza di questo
fattore per l’evoluzione economica della nostra provincia.
Sappiamo tutti, però, che questo aumento di capitale di rischio è
scoraggiato da varie norme che condizionano, soprattutto, le esigenze
delle piccole e medie imprese. Basti pensare, ad esempio, ai mercati
mobiliari locali, che erano già stati, da tempo, studiati e teorizzati e di
cui già in altri Paesi esistono esperienze, e che da noi non sono
decollati; anzi la loro regolamentazione è stata ulteriormente
procrastinata. Su questi problemi, la Camera di Commercio,
ovviamente, non può incidere direttamente, ma può solo fare delle
proposte ed un’opera di sensibilizzazione, come ha fatto, anche
attraverso la costituzione di una Società per la gestione dei mercati
locali. Società che attualmente - appunto - non è potuta decollare,
proprio perché questi mercati mobiliari non sono stati effettivamente
istituiti.
Ma, al di là di questi problemi, in cui la Camera di Commercio tenta
di fare qualcosa ma, ovviamente, può influire solo marginalmente,
essa ha dato vita e sta dando vita ad altri servizi, che riguardano più
direttamente le imprese, soprattutto per renderle più preparate nelle
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difficili scelte per quanto riguarda l'approvvigionamento del capitale
di rischio.
In realtà, già è stata presentata nel convegno di dicembre una ricerca,
condotta dalla Progest, con il coordinamento del professor Bresolin,
sulle tematiche della piccola e media impresa e sulle difficoltà che
hanno le PMI trevigiane a reperire un capitale di rischio soddisfacente.
In più, questa occasione odierna di formazione costituisce un ulteriore
passo verso una migliore conoscenza delle problematiche fiscali che,
anche per questa via, ci permettono di programmare meglio le scelte
finanziarie ai fini, sempre, di un incremento del capitale di rischio,
considerato che, ora, le agevolazioni fiscali stanno mutando direzione
in favore di tale tipo di capitale.
Altri incontri sono in programma, tra cui, prossimamente, uno
riguarderà le problematiche economico-finanziarie delle imprese, in
relazione all'introduzione dell'Euro. E anche in questo campo,
ovviamente, il problema della capitalizzazione delle imprese sarà uno
dei temi principali, anche in relazione alle sfide, competitive delle
aziende europee certamente meglio strutturate pure sotto l’aspetto
finanziario.
Inoltre, sotto l'aspetto dell'informazione e della consulenza, è da tener
presente che la Camera ha aderito recentemente ad un Consorzio
Nazionale tra le più grandi Camere di Commercio italiane, per il
coordinamento dei mercati locali e dei servizi innovativi alle imprese.
Attraverso questo Consorzio, prossimamente, sarà disponibile la
pubblicazione di una guida operativa molto specifica, sugli strumenti
finanziari a disposizione delle piccole e medie imprese per l'accesso al
capitale di rischio, inoltre uno sportello telematico, che offrirà una
prima consulenza di base su questi problemi, ed infine iniziative di
assistenza formativa sui temi della finanza che riguardano le piccole e
medie imprese.
Inoltre, sotto l'aspetto della promozione, verrà avviato un repertorio
mobile delle aziende da monitorare sui temi finanziari. In altre parole,
verranno monitorate alcune imprese che, ovviamente, hanno una certa
capacità di sviluppo, per poter tenere sotto controllo i loro principali
parametri standard, ai fini, poi, di una successiva quotazione oppure di
facilitare l’accesso a degli strumenti finanziari evoluti della finanza
internazionale.
Per finire, diciamo che tutte queste sono iniziative che riguardano la
ricapitalizzazione delle imprese. Ma la Camera di Commercio,
parallelamente, sta portando avanti altre iniziative di tipo più
tradizionale, ma comunque valide, per lo sviluppo del mercato del
credito. Tra queste, abbiamo: i contributi ai consorzi fidi, che
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ultimamente si sono arricchiti di un'altro supporto per quanto riguarda
l'aiuto ai fenomeni dell'usura; uno sportello informativo in progetto
sulle agevolazioni per le diverse problematiche relative agli
investimenti aziendali; concorsi annuali finalizzati alla concessione di
agevolazioni in conto capitale, per particolari tipi di investimenti
innovativi, quali possono essere quelli relativi alla qualità ed
all'ambiente.
Per il futuro, è in progetto - anche se sarà difficile e, comunque, lungo
attuarla - la realizzazione di analisi settoriali, in grado di indicare le
principali linee di sviluppo dei diversi settori che dovrebbero fungere
da guida, non solo per i futuri investimenti nelle imprese, ma anche
per la valutazione, poi, che gli istituti di credito possono fare, ai fini
dell’individuazione della capacità di credito delle imprese stesse.
Infatti, in questo modo, se effettivamente si riuscirà a disporre di
programmi generali, in grado di indicare quali siano gli investimenti
che hanno migliori prospettive, ai fini di uno sviluppo settoriale, anche
le analisi di fido delle banche potrebbero essere più propense a
valutare una capacità di credito futura, cioè orientata sulle possibilità
di sviluppo future dell'impresa, e non sulla sua situazione attuale.
Speriamo di riuscire nell’intento.
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SISTEMA FISCALE E FINANZIAMENTO DELLE IMPRESE:
VERSO UNA PENALIZZAZIONE DELL’INDEBITAMENTO
prof. GILBERTO MURARO
Ordinario di Scienza delle Finanze - Università di Padova
Il sistema fiscale influenza il finanziamento delle imprese sotto il duplice
profilo del livello e della forma del finanziamento stesso. Le due influenze
sono spesso intrecciate, poiché il trattamento tributario di un particolare
canale finanziario, oltre che modificare per definizione la convenienza
relativa di detto canale rispetto agli altri, può incidere in modo non
trascurabile sull’equilibrio del mercato dei capitali e quindi sul costo in
generale del finanziamento (in astratto, vi incide sempre, anche se spesso
l’effetto pratico può essere considerato irrilevante per la scarsa quota di
mercato interessata al canale finanziario colpito). Per semplicità espositiva,
le due influenze si considerano inizialmente separate, salvo tentare una
sintesi finale.
1. Fisco e risparmio
Il tema del livello complessivo di finanziamento disponibile per le
imprese chiama in causa gli aggregati e le variabili di aggiustamento del
sistema macroeconomico: reddito, consumo, risparmio, investimento, saggio
d’interesse, ecc.
L’analisi può essere semplificata considerando un’imposta generale sul
reddito. Dato un certo reddito, tale imposta può in alcuni casi indurre il
contribuente a limitare i consumi, perché egli si è posto un obiettivo di
accumulazione patrimoniale che è rigido nel livello e nel tempo. Più spesso,
tuttavia, l’effetto è ripartito tra consumi e risparmi, e anzi cade sui secondi
più che sui primi, che sono a volte incomprimibili per il basso livello o che
non vengono comunque compressi per la volontà di mantenere lo standard
relativo di vita raggiunto.
Si intuisce quindi come la tassazione sul reddito, specialmente se
fortemente progressiva, faccia diminuire l’offerta di risparmio e aumentare il
costo del finanziamento per le imprese. Essa induce una rarefazione del
risparmio che si indirizza al sistema economico interno anche attraverso
l’esportazione di capitale verso i paesi a minore pressione fiscale. Infine,
essa stimola l’evasione.
D’altro lato i servizi pubblici sono essenziali per lo sviluppo economico,
e la tassazione sul reddito è una forma efficiente, oltre che equa, di
finanziare lo Stato. A parità di spesa pubblica, infatti, le imposte indirette
trasferiscono comunque lo stesso potere di acquisto dai privati all’erario e in
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più creano distorsioni nell’uso dei fattori produttivi che riducono l’efficienza
del sistema.
Né appare convincente, nonostante l’autorevole appoggio di Einaudi, la
tesi della doppia tassazione del risparmio che sarebbe implicita nella
tradizionale imposizione sul reddito: la prima colpendo il reddito originario,
ossia colpendo in modo uniforme il consumo e il risparmio che da quel
reddito promanano; e la seconda colpendo i frutti del risparmio stesso. Vale
infatti l’obiezione che il risparmio non è fruttifero di per sé ma produce
nuovo reddito solo in quanto partecipa ad un nuovo ciclo produttivo che si
avvale anche dei servizi pubblici; e per il finanziamento di tali servizi è
giusto colpire tutto il reddito di questo secondo ciclo, quindi anche il frutto
del risparmio. Senza contare che molti consumi sono necessari a mantenere e
sviluppare quel capitale umano che produce nel successivo ciclo il reddito da
lavoro; sicché, se si dovesse esentare dall’imposta il risparmio, limitando
l’imposizione al reddito consumato, bisognerebbe anche esentare la parte
considerata necessaria dei consumi. Ma lo Stato moderno non può
finanziarsi solo colpendo i consumi superflui, e quindi bisogna concludere,
come osserva Steve1, che se doppia tassazione c’è, essa c’è per gran parte
dei consumi e non solo per il risparmio, e quindi non si vede motivo di
invocare per questa via un “diritto” all’esenzione del risparmio.
Il problema non sta quindi nella tassazione sul reddito e di conseguenza
sul risparmio e sugli interessi, bensì sul rapporto tra quanto i cittadini danno
allo Stato e quanto dallo Stato ricevono. E qui sì è opportuno seguire
l’insuperata lezione di Einaudi, che parlava di imposta economica e di
imposta grandine e di imposta taglia per caratterizzare tre tipi emblematici di
azione pubblica: quella virtuosa, che ha una resa in servizi superiore al
prelievo, così incrementando il reddito e il risparmio e facendo diminuire il
tasso d’interesse; quella che nulla rende in cambio del sacrificio del
contribuente, così riducendo lo sviluppo e incrementando il saggio
d’interesse; e quella che addirittura provoca danni addizionali rispetto al
prelievo monetario2.
In Italia lo sviluppo c’è stato, ma il contributo dell’azione pubblica a tale
riguardo trova ben pochi sostenitori. Molti anzi sostengono che il Paese si sé
sviluppato nonostante il peso dell’apparato pubblico: peso fiscale diretto;
peso fiscale indiretto, legato ad un sistema impositivo mutevole, complicato,
esigente, che obbliga a ricorrere al consulente perfino per gli adempimenti
1
Cfr. STEVE S., Lezioni di Scienza delle Finanze, VII edizione, Cedam, Padova,
1976, pp.299-306.
2 Cfr. EINAUDI L., “Osservazioni critiche intorno alla teoria dell’ammortamento e
teoria delle variazioni nei redditi e nei valori capitali susseguenti all’imposta”
(1919), rist. in Saggi sul risparmio e l’imposta, Torino, 1958, p. 181.
14
minori; peso dell’apparato regolamentare (i 24.000 miliardi di costo per le
imprese italiane derivante dai tanti lacci burocratici, di cui parla una recente
stima); sprechi in determinate zone e strozzature per mancanza di
investimenti collettivi in altre zone, in particolare nel Nordest, come si sa per
quotidiana vita vissuta, ecc.
Nel lungo e convincente quaderno delle doglianze va sottolineato, nel
campo che stiamo esaminando, l rastrellamento del risparmio operato dallo
Stato nell’ultimo trentennio, specialmente a partire dagli anni ’80. Sono gli
anni in cui il debito pubblico tocca e supera la soglia del 60% sul Prodotto
interno lordo e il tasso di interesse reale diventa ben superiore al saggio di
crescita reale dell’economia.
La cultura di Maastricht ci rende oggi consapevoli che il 60%, pur con
tutti i limiti di una regola spacciata per generale a dispetto delle peculiarità di
ogni situazione storica, va visto come una soglia di pericolo per la tenuta
della moneta e della finanza pubblica. Il pericolo aumenta quando il debito
sia stato creato non a fronte di investimenti che nel lungo periodo si ripagano
attraverso un aumento della capacità produttiva del Paese, bensì per
consentire di andare avanti con spese correnti superiori alle entrate correnti.
E tale era il caso dell’Italia, già allora, con la rapida dilatazione della spesa
sociale non compensata da un pari aumento di pressione fiscale. I
risparmiatori, che dal 1974 erano stati sfruttati pesantemente con saggi
d’interesse nominale inferiore al saggio d’inflazione (erano gli anni del
rapido aumento dei prezzi indotto dalle crisi petrolifere del ’74 del ’79),
cominciano a prendere familiarità con l’inflazione e a cautelarsi. Dal 1981 il
governo, per continuare a piazzare i titoli del debito pubblico, è costretto ad
accettare un brusco aumento dei rendimenti su tali titoli, con tre
conseguenze.
La prima è che i risparmiatori diventano una categoria privilegiata, anche
se costretti a vivere nell’angoscia sulla capacità dello Stato di onorare gli
impegni assunti.
La seconda è che il debito pubblico aumenta più di prima, perché non
cessa la spinta del disavanzo corrente trainato dalla dinamica della spesa
sociale e inoltre si manifesta la forte spinta dei pagamenti per interessi (in
mancanza di un immediato risanamento della finanza pubblica, il debito
comincia ad autoalimentarsi fino a raggiungere il massimo del 124,% del Pil
nel 1994, da cui scende al 121,6% a fine 1997, mentre continua ancora oggi
a crescere in valore assoluto data la persistenza di un deficit annuale, sia pure
inferiore al fatidico 3% del Pil imposto dal Trattato di Maastricht).
La terza conseguenza è che il costo del denaro diventa elevato per le
imprese, aggravando la situazione di quelle indebitate e di quelle nuove o in
fase di espansione che hanno bisogno di credito. E tale problema rimarrà
grave fino ai giorni nostri, quando il risanamento della finanza pubblica
15
riesce finalmente ad abbassare il saggio d’interesse reale, anche se ulteriori
riduzioni appaiono auspicabili e possibili.
Per le imprese il problema è aggravato dai tassi penalizzanti che
incontrano nell’indebitamento sul sistema bancario, a causa della
insufficiente concorrenzialità di tale sistema. Appare infatti come uno dei
patti non scritti ma più osservati negli ultimi decenni di storia patria quello
che ha legato le autorità monetarie e le banche: le seconde impegnate ad
assecondare la grande domanda di risparmio da parte dell’operatore
pubblico, anche accettando in certi periodi vincoli severi sulla dinamica delle
operazioni con i loro clienti, e le prime impegnate a proteggere la struttura e
le regole di comportamento di un grande oligopolio contro gli attacchi
concorrenziali endogeni o esogeni. E bisognerà arrivare agli ultimissimi anni
per vedere un forte rimescolamento interno nel sistema bancario italiano alle
prese con lo scenario competitivo derivante dalla prospettiva dell’Unione
monetaria.
Nel diventare il grande rastrellatore del risparmio nazionale, lo Stato
cerca di darsi carico anche del problema delle imprese e aumenta il numero e
il livello degli interventi agevolativi, a volte sul fronte fiscale ma più spesso
sul fronte creditizio, in tal modo configurandosi come Stato-banchiere. E’ un
ruolo anomalo, che allunga e rende più costoso il circuito tra risparmio delle
famiglie e investimento delle imprese, che sostituisce alla imparzialità e
celerità dei rapporti di mercato la discrezionalità e la lunghezza delle
istruttorie attuate o guidate dalla mano pubblica, che è inevitabile fonte di
abusi, privilegi, corruzioni e concussioni. Ma a nulla valgono le aspre
critiche di molti autorevoli studiosi, a cominciare da Mario Monti, poiché è
evidente come tale ruolo sia anomalo rispetto ai canoni del buon governo ma
sia invece funzionale, oltre che alle esigenze del finanziamento illegale di
numerosi esponenti e gruppi politici, alle esigenze del consociativismo.
Pure su questo fronte, è solo con il cambiamento di cultura politica e di
classe politica avvenuto nell’ultimo quinquennio, grazie anche e forse
soprattutto alla disciplina sulla concorrenza imposta dalla Comunità
Europea, che si inizia a invertire la rotta.
Nell’anzidetto scenario dominato da variabili extratributarie, come ha
giocato il fisco? In estrema sintesi, la storia fiscale del nostro Paese dopo
dalla riforma del '73-74 ad oggi vede una iniziale impostazione strategica
corretta, date le previsioni allora dominanti sull’evoluzione strutturale dei
sistemi economici, che però comincia subito a deviare per la crescita
puramente nominale degli imponibili nel periodo della forte inflazione
iniziata nel 1974, e che cozza presto contro l’inadeguatezza dell’apparato
amministrativo.
L’aumento delle imposte dirette rispetto alle indirette era il principale
obiettivo della riforma; ma la loro crescita accelerata nel primo decennio di
16
applicazione, sfruttando l’inasprimento automatico in inflazione dell’Irpef in
quanto imposta progressiva sul reddito nominale, è responsabile di una crisi
di rigetto che ha impedito di assimilare i valori etici di tale imposta, ha
rafforzato l’esportazione di capitale, ha impedito la diffusione generalizzata
della condanna morale dell’evasione che è invece un connotato
fondamentale di altri sistemi tributari (e se al fatto delle aliquote troppo alte
si aggiunge il cattivo uso pubblico del gettito tributario, si comprende come
l’evasione tributaria sia stata da più parti considerata non solo perdonabile
ma addirittura provvidenziale quando essa andava ad alimentare
l’autofinanziamento di tante piccole imprese che hanno consentito al Paese
di svilupparsi nonostante gli ostacoli creati dall’assenza o dall’inefficienza
dell’intervento pubblico).
Da questo punto di vista è da approvare la recente riforma dell’Irpef che
ha abbassato al 46% l’aliquota marginale massima, al contempo regolando il
trattamento fiscale all’estremo inferiore attraverso un aumento delle
detrazioni che più che compensano per i redditi bassi l’aumento dell’aliquota
nel primo scaglione (anche se ciò non è stato da tutti ben compreso). Mi si
consenta al riguardo l’autocitazione di un mio intervento del 19813, in cui
dichiaravo quanto segue.
“Ritengo che un ragionevole campo di variazione delle aliquote debba
essere incluso tra il 20% e il 50%. Non conviene andare sotto perché del
problema dei bassissimi redditi bisogna tener conto attraverso le deduzioni e
non abbassando oltre misura l'aliquota marginale; e sopra il 50% non
conviene andare perché significherebbe semplicemente autoingannarsi: salvo
casi rari che confermano la regola, aliquote maggiori i contribuenti non le
pagano, pagano piuttosto i consulenti perché trovino vie più o meno legali di
evitare tale tassazione, e lo fanno con la coscienza tranquilla di evitare non
già un giusto debito tributario ma un'autentica vessazione4. Meglio dunque
3
Cfr. MURARO G., “L’imposizione personale in un contesto inflazionistico”, in
MOSCHETTI F. e MURARO G. (a cura di), Inflazione, bilancio e fisco, Cedam,
Padova, 1982,pp. 75-91citazione:pp. 89-90).
4 Del resto lo stesso legislatore è costretto a tener conto di queste reazioni, sicchè,
anche all’estero, l’imposta personale con alte aliquote si accompagna di fatto a
trattamenti preferenziali - nei confronti dei guadagni di capitale finanziario e delle
spese deducibili - di cui si giovano soprattutto i contribuenti più agiati e che hanno
l’effetto di diminuire notevolmente l’aliquota effettiva rispetto a quella nominale:
ma in tal modo si rinuncia a quel carattere onnicomprensivo dell’imponibile
dell’imposta personale e a quella trasparenza nel rapporto tributario che sarebbero
invece essenziali per perseguire i conclamati obiettivi di ridistribuzioni senza creare
discriminazioni indesiderate. Si vedano al riguardo le magistrali osservazioni di
Sergio Steve (Lezioni di Scienza delle Finanze, cit., pp. 312-317).
17
puntare ad una progressività ridotta, che abbia maggiori probabilità di essere
applicata.”.
A distanza di 17 anni, annoto con soddisfazione che l’auspicio si è
realizzato.
Si può quindi concludere questa succinta analisi macroeconomica
osservando che il finanziamento delle imprese è stato in passato penalizzato
dal rastrellamento del risparmio fatto dallo Stato, dal conseguente forte
saggio d’interesse (che nei riguardi delle imprese debitrici del sistema
bancario saliva a livelli ancora più penalizzanti per la scarsa concorrenzialità
di tale sistema) e dalla forte progressività dell’Irpef. Sotto tutti questi profili
la situazione è migliorata e promette ulteriori miglioramenti grazie al
risanamento in atto della finanza pubblica e grazie alle innovazioni
strutturali e comportamentali indotte dal processo di unificazione monetaria
europea.5
2. Fisco e forme di finanziamento delle imprese nel recente
passato.
Passando ora a considerare le modalità di finanziamento dell’impresa in
rapporto al sistema fiscale, si sa che il canale relativamente privilegiato è
stato costituito in passato dall’indebitamento rispetto all’aumento del
capitale di rischio.
Il fenomeno non è di ovvia spiegazione, perché le considerazioni appena
svolte sulla scarsa concorrenzialità e gli alti tassi d’interesse del sistema
bancario italiano tenderebbero semmai a giustificare un comportamento delle
imprese opposto a quello registrato.
2.1. Gli aspetti extrafiscali
I fattori esplicativi sono di natura fiscale e di natura extrafiscale.
Consideriamo dapprima questi ultimi, distinguendo tra imprese quotate in
Borsa, imprese quotabili e imprese non quotabili.
Le imprese quotate appaiono propense per definizione all’acquisizione di
capitale di rischio. Ma fino a poco tempo fa esse non trovavano un’ampia
offerta di capitale: La propensione all’investimento in borsa dei risparmiatori
è stata infatti sempre scarsa in Italia rispetto al livello di ricchezza raggiunto
dal nostro Paese, per due motivi: l’insufficiente diffusione della “cultura di
Borsa”, a sua volta legata, in un circolo vizioso, al basso numero di imprese
quotate; e il fondato sospetto degli azionisti minori (il parco buoi, secondo il
lessico di borsa) di poter essere manovrati disinvoltamente dagli azionisti
detentori del potere societario. Data a circa vent’anni fa l’inizio di una lenta
5
Per approfondimenti sulla recente storia economica del Paese, cfr. DE ROSA
L.,Lo sviluppo economico dell’Italia dal dopoguerra a oggi, Laterza, Roma e Bari,
1997.
18
sequenza di miglioramenti, con la creazione di un organo di controllo, la
Consob, con le nuove norme sull’Opa, con la istituzione di nuovi strumenti
di raccolta e gestione del risparmio, quali i Fondi d’investimento aperti.
Queste innovazioni contribuirono ad attrarre parecchio risparmio in Borsa
già verso la metà degli anni ‘80. La crisi di borsa del 1987 funzionò per
qualche tempo da deterrente ma servì anche a sollecitare nuove regole, più
giuste ed efficaci., che in effetti sono state introdotte negli anni ‘90.
Meglio ora di prima, dunque, ma il ritardo va sottolineato, e serve allo
scopo il sintetico giudizio di Tommaso Padoa-Schioppa che, dopo avere
spiegato la necessità di un “insieme di regole volto a far sì che chi ha
l’effettivo controllo dell’impresa operi nell’interesse della generalità degli
azionisti, senza privilegiare i controllori a danno degli altri”, testualmente
scrive: “Questa esigenza venne avvertita negli Stati Uniti nella prima metà
del secolo; nell’Europa continentale solo molti decenni dopo. L’Italia a tutto
ciò giunse particolarmente tardi: la legge sulla concorrenza è del 1990,
quella sull’insider trading del 1991, quella sulla Borsa come mercato del
1996, le norme di correttezza sulle gestioni nascono solo ora”6.
Per le società che potrebbero entrare in Borsa, l’ostacolo è rappresentato
spesso dai timori dei maggiori costi di gestione, poiché aumentano gli
adempimenti societari necessari, dai timori della maggiore trasparenza
richiesta e del maggiore controllo sociale sulla vita aziendale, dai timori di
perdere la rapidità gestionale. Si tratta, insomma, di timori più o meno
fondati che in ogni caso denunciano un problema di capitalismo non ancora
maturo e la cui soluzione implica un processo di crescita della cultura
aziendale che si prospetta lungo, in particolare nelle aree, come la nostra, in
cui domina l’azienda familiare.
Per le imprese che, a causa della ridotta dimensione e dell’instabilità,
non possono ipotizzare l’entrata in Borsa, il ricorso all’indebitamento
anziché alla raccolta di capitale di rischio appare come una necessità e non
una preferenza, data la difficoltà di rapportarsi direttamente ai risparmiatori.
Una risposta a questo problema doveva venire dai Fondi mobiliari chiusi,
istituiti con L.86/94, modificata dalla L. 503/95. Essi tuttavia non hanno sin
qui avuto successo, forse per l’insufficiente flessibilità dei rapporti tra Fondo
e sottoscrittori.
Per riassumere, sul fronte extrafiscale si trovano abbondanti spiegazioni
del ritardo e dell’insufficienza del ricorso al capitale di rischio da parte della
imprese italiane, sia dentro sia fuori della Borsa; e gli innegabili progressi
registrati su questo fronte non significano che tutta la strada delle riforme
istituzionali e della diffusione di un’adeguata cultura finanziaria sia già
percorsa.
6
Cfr. PADOA SCHIOPPA T., Il mercato e la legge, La Repubblica, 1.3.1998.
19
2.2. Gli aspetti fiscali
Ciò non toglie, tuttavia, che anche il fronte fiscale contribuisca a spiegare
in modo significativo il fenomeno in esame. E questo vale anche dopo la
legge Pandolfi del 1977 che introdusse il credito d’imposta sui dividendi
azionari e così eliminò la più vistosa penalizzazione del capitale di rischio
rappresentato dalla doppia imposizione del dividendo (una prima volta
tassato come reddito d’impresa e una seconda volta come reddito
dell’azionista); oltretutto, eliminazione completa rispetto all’Irpeg ma
inoperante rispetto all’Ilor. E questo vale anche tenendo conto che le
plusvalenze azionarie, le quali riflettono dal punto di vista economico gli
utili non distribuiti oltre che gli incrementi di utile attesi per il futuro, non
sono state sin qui tassate, tranne un brevissimo periodo7, mentre gli interessi
pagati agli obbligazionisti erano colpiti dall’imposta sostitutiva.
Fino alla riforma Visco del ’98, resta infatti nettamente prevalente il
vantaggio comparato dell’indebitamento, sotto due profili:
a) la deducibilità degli interessi passivi per l’impresa, che riducono il costo
effettivo del debito per l’impresa stessa di una percentuale pari
all’aliquota ( con un’Irpeg al 37%, un prestito ricevuto a saggio
d’interesse 10% comporta un costo effettivo pari al 6,3%),
b) la tassazione più blanda in testa ai percipienti degli interessi colpiti
dall’imposta proporzionale sostitutiva al 12,50% rispetto ai dividendi
soggetti all’aliquota marginale dell’Irpef progressiva, mentre gli utili non
distribuiti scontano l’elevata imposizione societaria (per non parlare del
vantaggio, valutato come non piccolo dai contribuenti nel noto clima di
diffidenza verso il fisco, dell’anonimato dell’obbligazionista rispetto alla
identificabilità dell’azionista). Come avvertenza per il futuro non va
dimenticato, poi, che per un certo periodo, prima degli interventi
correttivi del 1984, la non tassabilità degli interessi sul debito pubblico
aveva generato il ricorso delle imprese al debito privato, con interessi
passivi deducibili, per acquistare titoli di Stato.
7
La tassazione introdotta nel 1991, infatti, venne ben presto sospesa.
20
3. Fisco e forme di finanziamento delle imprese dopo la riforma
Visco.
Come si presenta ora la riforma fiscale del Ministro Visco nei confronti
del finanziamento dell’impresa?
Tra i numerosi e incisivi provvedimenti introdotti dal Governo nel corso
del 1997, in forza delle ampie deleghe ricevute con la legge 23.12.1996,
n.662, collegata alla Finanziaria 1997, le innovazioni rilevanti per il nostro
tema concernono l’imposizione sulle rendite e le plusvalenze finanziarie,
l’Irpef, la Dit (Dual income tax) e l’Irap.8
3.1. L’imposizione fiscale sulle rendite e le plusvalenze finanziarie.
La nuova disciplina sulle rendite e le plusvalenze finanziarie, che entrerà
in vigore il 1° luglio 1998, è caratterizzata dall’assimilazione piena delle
plusvalenze agli interessi. Per motivi che ho diffusamente spiegato altrove9,
essa merita un giudizio pienamente positivo sotto il profilo dell’equità
tributaria; e analogo giudizio merita la conferma di una sola coppia di
aliquote, 12.5% e 27% , aggiungendo l’auspicio che si possa arrivare in un
prossimo futuro ad un’unica aliquota.
Resta però il fatto che la riforma viene ad eliminare l’unico vantaggio sin
qui esistente per l’azionista rispetto al creditore, ossia la non tassabilità delle
plusvalenze azionarie A parità delle altre condizioni, quindi, il ricorso al
capitale di rischio si prospetta per questo fatto più oneroso che non in
passato, e quindi il ricorso all’indebitamento si prospetta relativamente
ancora più vantaggioso per l’impresa che deve mettere in conto la pretesa del
potenziale azionista di avere una più elevata redditività lorda dal proprio
investimento azionario.
Occorre quindi vedere se le altre misure riescano più che a compensare
l’imposta sulle plusvalenze. La risposta appare positiva.
8
I riferimenti normativi delle innovazioni di seguito commentate sono:
D.Lgs.21.11.1997,n.461, Riordino della disciplina tributaria dei redditi di capitale e
dei redditi diversi, a norma dell’art.3 c.160 della L.23.12.1996,n.662.
D.Lgs. 15.12.1997,n. 446, Istituzione dell’imposta regionale sulle attività produttive,
revisione degli scaglioni, delle aliquote e delle detrazioni dell’Irpef e istituzione di
una addizionale regionale a tale imposta , nonché riordino della disciplina dei tributi
locali, in attuazione dell’art.3, commi da 143 a 149 e 151 della L.
23.12.1996,n.662.
D.Lgs. 18.12.1997,n.466, Riordino delle imposte personali sul reddito al fine di
favorire la capitalizzazione delle imprese, a norma dell’art.3, c.162, lettere e) ed i)
della L.23.12.1996,n.662.
9 Cfr. MURARO G.,”Princìpi ed effetti economici della riforma Visco”,in Il
Commercialista veneto,n.121, gen.-febb. 1998, pp.2-5.
21
3.2. La riforma dell’Irpef e dell’Irpeg, in particolare l’introduzione
della Dit.
Innanzitutto è da ricordare il già commentato intervento sull’Irpef, con
l’abbassamento dell’aliquota massima e il ridisegno di tutte la scala delle
aliquote, che dovrebbe alleggerire, rispetto al passato, le fasce di contribuenti
più interessate alla partecipazione al capitale di rischio delle imprese.
Importante è poi la riforma dell’imposizione sul reddito d’impresa, in
sede di Irpeg e di Irpef, con l’introduzione della Dit. Come è noto, la nuova
fiscalità sul reddito contempla un’aliquota agevolata per la parte degli utili
che rappresenta la “remunerazione ordinaria” del capitale di rischio. Con
metodo ineccepibile, il legislatore valuta tale remunerazione sulla base del
rendimento medio delle obbligazioni pubbliche e private, aumentato di un
premio per il rischio che viene determinato dal Ministero delle Finanze su
base annua entro un tetto di 3 punti percentuali. Per il 1997 il saggio di
remunerazione ordinaria è fatto pari al 7%.
L’agevolazione è peraltro soggetta ad alcune limitazioni, di cui
commentiamo gli aspetti principali
La prima limitazione contempla l’agevolazione solo per l’incremento di
capitale rispetto al valore raggiunto al 30.6.96 (e comporta ulteriori
qualificazioni, differenziate a seconda della natura giuridica dell’impresa,
che qui si ignorano e che sono dirette ad evitare comportamenti elusivi ). E’
una limitazione facilmente spiegabile per ragioni di gettito e comunque
compatibile con l’obiettivo macroeconomico di aumentare la
capitalizzazione dell’impresa, un obiettivo che dipende dalla dinamica
presente e passata e non dai fatti pregressi. Essa tende ad attenuarsi nel
tempo, nella probabile ipotesi di una crescita continua del capitale d’impresa
e quindi della parte di esso che rappresenta incremento agevolato rispetto al
dato di partenza. Essa non pesa, infine, sulle nuove società che si presentano
con capitale interamente nuovo e quindi agevolato e che pertanto trovano
nella Dit un forte beneficio.
La seconda limitazione riguarda i soggetti agevolabili, che sono
rappresentati da tutte le società di capitale ma soltanto dalle società di
persone e imprese individuali che siano tenute alla contabilità ordinaria o che
optino in modo irrevocabile per tale tipo di contabilità. Sono molti gli
esclusi iniziali, poiché si valuta che circa due terzi delle piccole imprese
individuali siano in regime di contabilità semplificata. Tuttavia la platea dei
beneficiari rimane estremamente importante per l’economia del Paese e
appare destinata ad aumentare sotto lo stimolo dell’agevolazione in esame.
La terza limitazione riguarda il tetto quantitativo dell’agevolazione. E’ da
premettere che l’aliquota agevolata per la parte di reddito che rappresenta la
remunerazione ordinaria dell’incremento di capitale è fissata al 19%, pari
quindi all’aliquota del primo scaglione dell’Irpef e intermedia tra le aliquote
22
del 12,5 e del 27% gravanti sugli interessi e le plusvalenze. Nel caso di
società di persone e di imprese individuali tale aliquota, che nella normale
disciplina dell’Irpef si applicherebbe solo ai primi 15 milioni di lire di
reddito, si estende a tutta la parte di utile che rappresenta l’anzidetta
remunerazione normale, con un’agevolazione che da questo punto di vista
non è soggetta a limiti e risulta pari al risparmio d’imposta sulla quota di tale
remunerazione che supera i 15 milioni. Tuttavia il livello del reddito
agevolato pesa nel calcolo dell’aliquota marginale cui assoggettare la parte
residua del reddito del contribuente10. Nel caso di società di capitali, poi, la
legge impone che l’aliquota media sul reddito complessivo d’impresa non sia
inferiore per singolo esercizio al 27%. L’aliquota del 19% viene quindi
pienamente sfruttata solo dalle società con sufficiente capienza di reddito
ulteriore rispetto a quello che rappresenta la remunerazione ordinaria
dell’incremento di capitale, mentre salirebbe al 27% per la società che avesse
un utile pari soltanto a tale remunerazione. E’ comunque concessa la
possibilità di portare avanti per 5 anni il beneficio della Dit non goduto a
causa di tale limite sull’aliquota media.11Si tratta ad evidenza di una
limitazione dettata dalle esigenze di gettito dello Stato, che riduce
significativamente ma non annulla l’impatto della Dit .Rimane quindi
confermato che risulta ora attenuato, in particolare per le società di capitali,
il precedente vantaggio comparato del debito rispetto all’incremento di
capitale di rischio nel finanziamento dell’impresa.
3.3. L’introduzione dell’Irap.
L’ultima novità rilevante per il problema in esame è l’introduzione dell’
Irap, l’Imposta regionale sull’attività produttiva, che rappresenta il fatto più
vistoso della riforma Visco. Il nuovo tributo riguarda tutto il mondo
produttivo, anche oltre i confini dell’attività svolta a fini di lucro, e vede
quindi come soggetti passivi gli imprenditori individuali, le società, gli enti
commerciali e non commerciali, gli esercenti arti e professioni e le
amministrazioni pubbliche. L’aliquota base nel settore privato è pari al
4,25% , con attenuazioni transitorie per le imprese agricole e aggravamenti
transitori per banche, enti finanziari e assicurazioni.
10 Per chiarire con un esempio, se la quota di utile da considerarsi remunerazione
ordinaria dell’incremento di capitale è pari a 60 milioni, che è il tetto del terzo
scaglione, il contribuente paga il 19% su tale cifra, come se stesse tutta nel primo
scaglione, ma poi salta per il residuo reddito al 40%, che è l’aliquota del quarto
scaglione, appunto perché il reddito agevolato pesa comunque nel determinare la
progressione dell’aliquota sull’imponibile non agevolato.
11 Per le società che entrano in Borsa, per i primi tre anni vale la particolare
agevolazione di un’aliquota ridotta al 7 anziché al 19%, con il vincolo di
un’aliquota media al 20 anziché al 27%.
23
L’Irap ha comportato una forte semplificazione del sistema tributario,
poiché ha preso il posto di contributi sanitari, Ilor, imposta patrimoniale,
tassa di concessione governativa sulla partita Iva, Iciap, tasse di concessione
comunali. Esso ridisegna anche la ripartizione del potere fiscale tra centro e
periferia. Tuttavia qui si ignorano gli aspetti che, seppur importanti per
l’evoluzione politica ed economica dell’Italia, non appaiono influenti per le
scelte dell’impresa in campo finanziario.
Basterà pertanto sottolineare che l’imponibile dell’Irap si configura come
valore aggiunto netto e che, al di là delle peculiarità settoriali introdotte dal
legislatore, nel campo delle imprese si presenta sostanzialmente come
somma di profitti, interessi passivi e remunerazioni del lavoro.12 Vi è quindi
piena assimilazione concettuale ai fini dell’imposta tra il compenso del
capitale di rischio, cioè l’utile, e il compenso del capitale preso a prestito,
cioè l’interesse pagato dall’impresa.
L’Irap si aggiunge dunque alle altre manovre prima commentate nel
ridurre le precedenti distorsioni a favore del finanziamento tramite debito. Il
suo contributo in questa direzione è anche indiretto, poiché essa ha
comportato l’eliminazione dell’Ilor, che accentuava il sovraccarico tributario
sugli utili destinati a remunerare il capitale di rischio rispetto agli interessi
passivi deducibili.
In astratto si potrebbe semmai accusare l’Irap di introdurre una nuova
distorsione nella scelte finanziarie dell’impresa, a scapito sia del debito
12 L’imposizione sugli interessi passivi
ha sollevato forti critiche sul piano
giustributario, poiché alcuni autorevoli giuristi vi vedono una palese violazione
del principio di capacità contributiva. Essa ha anche creato preoccupazioni sul
piano economico, dato l’aggravamento forse insostenibile che potrebbe derivarne a
carico delle imprese più indebitate, che sono imprese in crisi oppure imprese nuove
o in rapida espansione in situazione di sottocapitalizzazione. Non è qui possibile
approfondire l’analisi di tali problemi ma sento il dovere di prendere posizione
rispetto ad essi. Dichiaro quindi che ritengo rispettabili nelle intenzioni ma
infondate nella sostanza le obiezioni giuridiche, quando si consideri che il
principio di capacità contributiva attiene all’intero sistema tributario e non al
singolo tributo che può ben ispirarsi al principio del beneficio e quando si consideri
il fenomeno della traslazione dei tributi che configura l’impresa, sia pure soltanto
per una parte dell’onere, come un non dichiarato ma non per questo meno reale
sostituto d’imposta. E dichiaro che ritengo fondate in linea di principio ma
eccessive in pratica le preoccupazioni economiche, quando si pensi che l’impatto
dell’Irap sulle imprese indebitate è attenuato dalla cosiddetta “ clausola di
salvaguardia “, che impedisce inasprimenti troppo forti del carico tributario per la
singola impresa rispetto alla situazione precedente, ed è attenuato ulteriormente
dalla rapida diminuzione del saggio d’interesse provocata dal risanamento in atto
della finanza pubblica.
24
esplicito che dell’incremento di capitale di rischio, resi come si è detto
uniformi sul piano della tassabilità delle rispettive remunerazioni, e a favore
del finanziamento da fornitori nascosto sotto forma di maggior costo, questo
sì deducibile, dei beni e servizi acquistati. Ma le condizioni concrete del
mercato finanziario rispetto a quelle del credito commerciale da fornitori
assicurano che il fenomeno non potrà avere incidenza apprezzabile.
4. Conclusioni
Le imprese italiane hanno subito per lungo tempo, e in particolare dopo
il 1981, i costi di un finanziamento più oneroso di quanto il livello di
risparmio nel Paese potesse giustificare. Il rastrellamento che di tale
risparmio ha fatto lo Stato per finanziare il crescente debito pubblico,
alimentato da sistematici deficit di parte corrente, ha infatti prodotto elevati
tassi d’interesse, resi ancora più alti da un sistema bancario poco
concorrenziale che si rifaceva mediante un forte differenziale tra tassi attivi
e passivi dei costi che lo Stato imponeva ad esso attraverso gli obblighi di
sostegno dei titoli pubblici.
Grazie alla disciplina imposta dall’obiettivo di entrare nell’Unione
monetaria, le cose sono recentemente cambiate e stanno tuttora evolvendo
in meglio su ambedue i fronti: riduzione del deficit corrente e dell’incidenza
del debito pubblico sul Pil nonché aumento della concorrenzialità del
sistema bancario.
Per quanto riguarda le modalità di finanziamento, è osservabile nello
stesso periodo una sistematica distorsione a favore del prestito e contro i
capitale di rischio. Ciò si spiega in parte con fattori extrafiscali - la ridotta
dimensione e l’inaffidabilità della Borsa, la scarsa propensione dei piccoli e
medi imprenditori a pagare il costo dei controlli per attrarre più capitale di
rischio - e in parte per fattori fiscali. Sul fronte tributario, pur in assenza di
tassazione delle plusvalenze, il capitale di rischio era penalizzato dall’alta
imposizione sugli utili d’impresa e dall’aspra progressività sui redditi
personali, laddove gli interessi erano costi deducibili per l’impresa e
comportavano un onere proporzionale e di minore aliquota media per il
prestatore.
Anche su questo fronte le cose si sono mutate in meglio, sia negli aspetti
extrafiscali, con una crescita significativa, ancorché insufficiente,
dell’efficienza e della trasparenza del mercato finanziario, sia negli aspetti
strettamente fiscali. Quest’ultimo risultato è legato al pacchetto di
innovazioni introdotte dal Governo con vari decreti legislativi nel corso del
1997, in attuazione delle numerose ed ampie deleghe ricevute con la legge
23.12.96 n. 662, collegata alla Finanziaria per il 1997. La “riforma Visco”,
pur prevedendo dal primo luglio 1998 la tassazione delle plusvalenze, ha
fortemente ridotto gli svantaggi comparati del finanziamento mediante
25
capitale di rischio, eliminando l’Ilor, rimodulando la struttura dell’Irpef,
concedendo con la Dit un’aliquota ridotta sulla parte di utili che rappresenta
la normale remunerazione del capitale e introducendo l’Irap che colpisce
allo stesso modo gli utili e gli interessi passivi.
Occorrerà un periodo di sperimentazione per calibrare nel miglior modo
le regole di dettaglio, sia sostanziali che procedurali, di tale riforma. Ma le
innovazioni di principio possono già da ora esser giudicate positive sul
piano dell’equità e dell’efficienza del sistema tributario. Esse promettono
inoltre di retroagire positivamente sulla propensione dei risparmiatori a
fornire capitali al sistema delle imprese, che in prospettiva vede quindi la
possibilità di un finanziamento più ampio e meno oneroso.
26
IRAP E DIT COME STRUMENTI PER LA
RICAPITALIZZAZIONE DELLE PMI
dott. MICHELE ZANETTE
Universita’ Ca’ Foscari di Venezia
Nel corso del 1997 è avvenuta una sorta di rivoluzione nel campo della
finanza aziendale. Dopo decenni in cui le scelte di finanziamento delle
imprese erano quasi esclusivamente limitate alle modalità di indebitamento,
il ventaglio delle possibilità si è allargato inaspettatamente anche al ricorso
al capitale di rischio. Nel dicembre 1997 il legislatore ha infatti emanato i
decreti legislativi di attuazione relativi all'Imposta Regionale sulle Attività
Produttive (IRAP) e alla Dual Income Tax (DIT). Queste nuove disposizioni
fiscali hanno contribuito in modo sostanziale a ridurre il vantaggio che la
legislazione aveva storicamente concesso all'indebitamento come fonte di
finanziamento delle imprese, vantaggio basato sulla deducibilità degli
interessi passivi, e sembrano rendere molto più conveniente il ricorso al
capitale di rischio.
Non è intenzione di questo breve intervento illustrare in dettaglio le
modalità di funzionamento delle due nuove imposte. Ciò che ci sembra
essenziale capire è se e come IRAP e DIT possano effettivamente indurre
alla ricapitalizzazione delle imprese, in particolare delle piccole e medie
imprese che sono quelle generalmente più esposte nei confronti del sistema
bancario. Vale la pena di sottolineare che entrambe queste imposte hanno dei
precedenti in ambito europeo, e che proprio il successo dell'esperienza in
campo internazionale ha ispirato la neonata legislazione italiana. Bisogna
però sgombrare subito il campo dall'equivoco che l'esperienza internazionale
rappresenti una garanzia di sicuro successo delle disposizioni di legge. In
effetti, il problema non è quello di capire se l'approccio seguito dal
legislatore sia funzionale all'obiettivo di favorire la capitalizzazione delle
imprese, ma se le specifiche disposizioni in vigore, come ad esempio le
aliquote adottate, inducano ad un effettivo cambiamento nel comportamento
delle imprese, spostando le modalità di finanziamento degli investimenti
dall’indebitamento al capitale di rischio. Per questo motivo riteniamo sia
quindi essenziale affrontare il problema non sul piano concettuale, ovvero
della validità della struttura legislativa, ma sul piano empirico.
Sia l'IRAP che la DIT hanno come obiettivo esplicito, enunciato
chiaramente
dal
legislatore
nella
Relazione
Ministeriale
di
accompagnamento alla Legge delega, favorire la capitalizzazione delle
imprese. Le due imposte agiscono però in maniera diversa rispetto a questo
obiettivo. La DIT si propone specificamente di incentivare la raccolta di
capitale di rischio, e dunque favorisce in maniera diretta il raggiungimento
dell'obiettivo prestabilito, mentre l’IRAP ha una duplice valenza,
27
penalizzando da una parte il comportamento antitetico,
cioè
l’indebitamento, e favorendo, da un’altra, il ricorso al capitale di rischio.
L’IRAP rappresenta cioè qualcosa di più generale, e forse di più complesso,
della DIT nell'ambito delle scelte finanziarie delle imprese. Ed è proprio per
la sua complessità e per la sua ambiguità che l’IRAP risulta molto più
contestata della DIT. Mentre la DIT viene infatti considerata dal tessuto
imprenditoriale come una disposizione che al margine determina
sicuramente dei vantaggi rispetto alla situazione attuale, o per lo meno non è
penalizzante, l'IRAP viene percepita come una disposizione che può far
aumentare la pressione fiscale e quindi gravare pesantemente sull'intera
gestione aziendale.
Vi sono poi altre importanti differenze che spiegano il diverso
atteggiamento degli operatori nei confronti delle due imposte. Mentre l'IRAP
esplica i suoi effetti immediatamente ed indipendentemente dal fatto che
l'impresa ponga in essere specifiche azioni sul fronte finanziario, la DIT ha
efficacia soprattutto nel medio e lungo periodo, mentre inesistenti sono gli
effetti di impatto e molto modesti quelli di breve periodo. E’ facile poi
osservare che la DIT non ha nessun effetto sul piano del debito di imposta, e
quindi sull’utile netto dell’impresa, fintantoché non si realizzano specifici
comportamenti finanziari da parte delle imprese, nella fattispecie la
capitalizzazione delle imprese. Va comunque sottolineato che IRAP e DIT
concorrono entrambe e simultaneamente a indirizzare il comportamento
finanziario delle imprese verso il capitale di rischio per cui gli effetti delle
due nuove imposte non potrebbero essere valutati separatamente.
Prima di analizzare il funzionamento di queste due nuove imposte è
comunque bene precisare che entrambe sono già in vigore. La DIT può
essere già applicata con riferimento ai redditi 1997, e quindi i suoi effetti
potranno essere già evidenziati con la denuncia dei redditi di giugno 1998,
mentre l'IRAP è entrata in vigore dal primo gennaio 1998.
Come abbiamo detto l’obiettivo della DIT è molto specifico: favorire la
capitalizzazione dell'impresa ed in particolare l’apporto di nuova liquidità
nella forma di capitale di rischio. Il meccanismo che è stato introdotto per
raggiungere tale obiettivo è quello classico di questa forma di tassazione, in
vigore ormai da anni nei paesi scandinavi: il reddito complessivo
dell'impresa viene distinto in due parti: la prima, corrispondente alla
remunerazione ordinaria degli incrementi di capitale, invece di essere tassata
ad aliquota piena è assoggettata ad un’aliquota fiscale ridotta (che la legge
fissa al 19%), mentre la parte rimanente subisce la tassazione normale.
Per comprendere il funzionamento della DIT ci concentreremo
inizialmente sul caso generale, trascurando le disposizioni relative ai regimi
speciali, che sono stati previsti per le società ammesse alla quotazione in
borsa (regime agevolato con DIT al 7% per i primi tre periodi di imposta e
28
aliquota media non inferiore al 20%), per le banche e assicurazioni (per le
quali la DIT si applicherà solo fra quattro anni), e per i gruppi di imprese. Il
caso relativo alle società di persone e alle persone fisiche sarà invece oggetto
di specifica analisi, rientrando pienamente nell'ambito del presente studio.
Iniziamo quindi analizzando il funzionamento della DIT per le società di
capitali, che rappresenta il caso più semplice da esaminare. Si consideri il
significato della seguente simbologia:
U = Utile operativo;
CN = Patrimonio Netto dell’impresa al 31/12/1996;
∆CN = Variazione in aumento del CN rispetto al dato di bilancio 31/12/1996
derivante da conferimenti in denaro e utili accantonati a riserva
(non sono considerati rilevanti i conferimenti in natura, i
finanziamenti soci e il passaggio di riserve a capitale);
rn = tasso di remunerazione ordinaria del capitale, determinato annualmente
dal Ministero delle Finanze entro il 31 marzo e fissato per il 1998 nel
7%.
ri = tasso d'interesse sull'indebitamento, per ipotesi il 9%;
rf = tasso di remunerazione medio del capitale finanziario, per ipotesi il 5%;
td = aliquota DIT (19%);
tG = aliquota IRPEG (37%).
Consideriamo ora una società di capitali che ha effettuato un
investimento I finanziato con i metodi ammessi dalla DIT (ovvero con
conferimento in denaro o con utili accantonati); poiché abbiamo I = ∆CN,
l'impresa pagherà imposte per un ammontare pari a:
T = ∆CN·rn·td + (U - ∆CN·rn) tG = U·0,37 - ∆CN·0,07·0,18
Il termine ∆CN·rn·td rappresenta l'imposta pagata sul reddito ordinario
del capitale, dato dal prodotto fra l'aumento del patrimonio netto e il tasso di
remunerazione ordinaria del capitale, e sconta l'aliquota agevolata DIT del
19%, mentre il termine (U-∆CN·rn)tG rappresenta l'imposta IRPEG sul
reddito d'impresa rimanente. Si noti che abbiamo qui implicitamente assunto
anche la validità della normativa IRAP che ha determinato l'abolizione
dell'ILOR e della Patrimoniale.
Il vantaggio fiscale che la nuova normativa fiscale consente rispetto alla
situazione precedente è facilmente quantificabile. Nel vecchio regime fiscale
l’imposta totale che doveva essere pagata quando l’investimento era
finanziato con conferimenti di denaro era data (escludendo anche l'ILOR per
separare gli effetti imputabili alla DIT da quelli imputabili all'IRAP) da:
29
TP = U·tG = U·0,37
Così, è facile evidenziare che il risparmio d’imposta che la DIT consente
rispetto al regime precedentemente in vigore è dato da:
TP - T = ∆CN·rn (tG - td) = ∆CN·0,0126
In sostanza la nuova legislazione consente, sulle stesse operazioni
finanziarie, un risparmio di imposta pari all’1,3% circa dell’investimento
effettuato. Si noti che, nel caso delle società di capitali, tale risparmio si
protrae anche per i periodi di imposta successivi, e non dipende, come nel
caso delle società di persone, dal periodo di ammortamento fiscale
dell'investimento.
La questione importante è però capire se questo risparmio d'imposta è
sufficiente a raggiungere l’obiettivo di una modificazione delle scelte
finanziarie dell’impresa. In particolare, dobbiamo chiederci se tale vantaggio
riesce a favorire il ricorso al capitale di rischio rispetto all’indebitamento.
Per rispondere al quesito dobbiamo innanzitutto calcolare l’utile netto
d’esercizio in regime DIT. Questo sarà dato da:
UN = U - T = U·0,63 + ∆CN·0,07·0,18
Se però l'impresa in esame, a parità di altre circostanze, decidesse di
finanziare l'investimento ricorrendo al debito (si avrebbe quindi ∆CN = 0),
pagherebbe in questo caso imposte per un importo pari a:
TD = (U - ri·I) tG = (U - ri·I)·0,37
che rappresenta l'imposizione IRPEG sull'utile operativo al netto degli
interessi passivi. In questa situazione l'utile netto d'esercizio, o reddito
disponibile, sarà dato da:
UND = (U - ri·I)·0,63 = U·0,63 - I·0,09·0,63
Per capire se effettivamente la DIT sia vantaggiosa per l'impresa bisogna
quindi confrontare il reddito netto disponibile nelle due situazioni sopra
prospettate. La differenza fra i due sistemi di finanziamento, in termini di
utile netto (dove si è posto I = ∆CN) è data da:
UN - UND = ∆CN (rn·0,18 + ri·0,63) = ∆CN·0,0693
30
Tale espressione dimostra come, finanziando un investimento con
capitale di rischio in regime DIT, l’impresa possa godere di un beneficio
economico, rispetto al caso in cui ricorra all'indebitamento, valutabile in una
percentuale pari al 6,9% dell’investimento. Si noti però che il citato
beneficio è riferito al soggetto giuridico e non all’investitore! Per capire
quale sia il reale vantaggio per l'investitore, e quindi se questi abbia una
qualche convenienza a finanziare l’impresa con capitale di rischio, dobbiamo
anche tenere conto del rendimento che può essere percepito sul capitale che
rimane nella disponibilità dell'imprenditore qualora egli decida che gli
investimenti dell'impresa vengano finanziati con debito. In questo caso il
reddito disponibile netto diventa:
*
UND = (U - ri·I)·0,63 + I·rf = U·0,63 - ∆CN (0,09·0,63 - 0,05)
dove abbiamo considerato il reddito netto aggiuntivo derivante dalla
remunerazione del capitale finanziario (per ipotesi il 5%). Confrontando
infine l’utile derivante all’investitore con le due modalità di finanziamento
dell’investimento si ha che:
*
UN - UND = ∆CN (rn·0,18 + ri·0,63 - 0,05) = ∆CN·0,0193
In definitiva, appare evidente che finanziando gli investimenti
dell'impresa con conferimenti di denaro o con accantonamento di utili a
riserva, il socio può ottenere un vantaggio economico personale, rispetto al
caso in cui gli investimenti vengano finanziati con l'indebitamento da parte
dell'impresa, pari a circa il 2% del capitale investito. Come vedremo
successivamente, il vantaggio complessivo derivante dalla disposizione
fiscale non può però essere valutato pienamente se non si considerano anche
le imposte di registro che devono essere pagate sul versamento di capitale, e
che sono pari all'1% del capitale versato. Per questo motivo riteniamo che il
vantaggio che si è venuto a creare con la DIT nel ricorso al capitale di
rischio sia ancora troppo modesto per favorire l’auspicata revisione dei
comportamenti finanziari delle imprese.
In generale, è evidente che il vantaggio fiscale conseguibile con la nuova
legislazione è tanto maggiore tanto più elevato è il tasso d'interesse
sull'indebitamento (ri) e tanto più elevato è il tasso di remunerazione
ordinaria del capitale fissato annualmente per legge (rn).
In teoria, è facile osservare che il meccanismo della DIT potrebbe portare
a casi paradossali in cui il livello della tassazione media scende a livelli
31
bassissimi o addirittura si annulla. In effetti, il tasso medio effettivo di
imposizione, t, in regime DIT, è dato da:
t = T / U = 0,37 - (∆CN·rn·0,18) / U
dal quale appare evidente ogni qualvolta l’impresa finanzia i suoi
investimenti con capitale di rischio (nelle forme ammesse dalla legge) il
tasso di imposizione fiscale medio scende sotto il livello massimo definito
dall'aliquota IRPEG. E' altrettanto evidente che se l’aumento del capitale di
rischio è sufficientemente alto o se il livello di utile lordo è sufficientemente
basso, allora, dati tutti gli altri parametri fiscali, il tasso di imposizione
media può annullarsi. In particolare, si può sottolineare come le imprese che
producono più reddito (in termini assoluti) siano quelle che traggono i
minori vantaggi dall'applicazione della DIT, ovvero dalla capitalizzazione
dell'impresa. Viceversa, le imprese meno redditizie sono quelle che hanno la
convenienza maggiore ad effettuare conferimenti in denaro nell'impresa.
Per evitare livelli estremamente bassi di tassazione, facilmente verificabili
per l’impresa in fase di espansione che effettua molti investimenti e produce
redditi modesti, il legislatore (art. 1 comma 3) ha posto il vincolo che il
livello della tassazione media (t) non possa essere inferiore al 27%. Diventa
quindi importante capire in quali circostanze potrebbe realizzarsi questa
situazione. In particolare, quando si verifica che t < 0,27? E' facile
dimostrare che tale situazione ricorre quando:
∆CN / U > 7,94
Così, tutte le imprese che hanno effettuato un aumento di capitale il cui
importo supera di circa 8 volte il valore dell'utile lordo potrebbero godere di
un tasso medio d'imposizione inferiore al 27%. In tutti questi casi scatta il
vincolo imposto dal legislatore. In termini generali, il risparmio massimo
possibile, in termini di pressione fiscale media, è quindi esattamente pari al
10% (la differenza tra il 37% e il 27%) ed è il massimo risparmio d’imposta
ammissibile da questo sistema.
E' comunque interessante ricordare che qualora scatti il vincolo di
imposizione minima è consentito il riporto a nuovo delle parti di reddito
ordinario non “utilizzato”. Abbiamo cioè che se t < 0,27, una parte del
rendimento ordinario del capitale, una parte cioè di ∆CN·rn, va riportata a
nuovo e può esser utilizzata per godere di una imposizione fiscale ad
aliquota ridotta del 19%, nei successivi 5 periodi.
Esaurita questa presentazione della DIT relativa al semplice caso delle
società di capitali, è importante spostare la nostra attenzione al caso delle
piccole e medie imprese (PMI), che rappresentano l’oggetto specifico della
32
relazione. La legislazione non prevede regimi fiscali speciali con riferimento
alla dimensione dell’impresa, ma fa solo una discriminazione di tipo
giuridico: distingue la norma generale, che si applica alle società di capitali,
dalle norme che si applicano alle società di persone o alle ditte individuali.
Nel seguito di questo intervento esamineremo dunque gli effetti della DIT su
questo secondo gruppo di imprese, che rappresentano nella nostra accezione
le piccole e medie imprese.
Prima di addentrarci nell'analisi degli effetti della DIT per le PMI ci
dobbiamo chiedere se le disposizioni di legge siano o meno rilevanti per
l’insieme di queste imprese. La legge dispone che solo le imprese in
contabilità ordinaria possano utilizzare questa disciplina. Questo vincolo
rappresenta uno sbarramento non indifferente: solo un terzo circa delle
società di persone e ditte individuali si trovano infatti in questa condizione,
mentre le altre si avvalgono tutte del regime di contabilità semplificata. Allo
stato attuale, quindi, ben i due terzi dell’universo delle cosiddette PMI non
ha la possibilità di godere dei benefici di questa norma. Anche queste ultime
possono evidentemente optare per la contabilità ordinaria, ma questo
passaggio, comportando un aggravio di spesa nella gestione aziendale, non è
indolore e va valutato nell'ambito dei risparmi fiscali consentiti dalla DIT.
Ad una lettura “normale” del testo di legge potrebbe poi sembrare che le
PMI siano le imprese che traggono i maggiori benefici dalla DIT. Un
motivo, per così dire, “macroeconomico” è che la DIT ha un costo per
quanto riguarda il sistema fiscale nel suo complesso, che è stato valutato nel
disegno di legge - e comunque nella relazione di accompagnamento alla
legge - in circa 3.200 miliardi di minori imposte. Questi 3.200 miliardi sono
stati coperti dal fisco con una nuova imposta che ha come base imponibile le
riserve per la maggiorazione di conguaglio, un’imposta che in pratica
colpisce solo le società di capitali. Pertanto, a livello aggregato, un motivo
che potrebbe far pensare a una qualche forma di agevolazione per le PMI si
può leggere in questi termini.
Rispetto a queste osservazioni, che potrebbero far ritenere le PMI delle
imprese privilegiate, ci sono invece le considerazioni di merito che portano a
conclusioni del tutto diverse. Poiché la legislazione DIT per le PMI, intese
come società di persone e ditte individuali, è un po’ più complicata rispetto a
quanto visto in precedenza, abbiamo predisposto le tabelle A e B che
esemplificano tutti i ragionamenti che vogliamo sviluppare per affrontare
l’argomento.
Per rendere più semplice la spiegazione abbiamo considerato in primo
luogo il caso di una ditta individuale con un reddito d’impresa lordo di 100
milioni di lire (come vedremo in seguito, i risultati generali non
cambierebbero anche considerando un livello di reddito più elevato). Poiché
la variazione in aumento del capitale di rischio “assume rilievo” ai fini della
33
DIT solo se si sostanzia in particolari variazioni di poste di bilancio,
consideriamo il caso in cui tale impresa effettua un investimento in beni
strumentali, rispettivamente di 150, 300 e 500 milioni, finanziato con le
modalità ammesse dalla DIT. La prima colonna (sono stati indicati anche
degli anni per avere dei riferimenti temporali) fa riferimento all’investimento
che soddisfa le condizioni di ammissibilità, ad es. un versamento di contante
o la destinazione a riserve di utili. La legge afferma che questo tipo di
aumento di capitale ha rilevanza per la durata del periodo di ammortamento
legale dell'investimento, per cui se questo bene è ammortizzabile in 4 anni,
esso ha rilievo ai fini DIT per 4 anni, come si vede nella prima colonna. Si
noti che, a differenza di quanto avviene per le società di capitali, i vantaggi
fiscali della DIT si esauriscono in un lasso limitato di tempo, che coincide
con il periodo di ammortamento del bene.
Detto questo, possiamo esaminare la tab. A. Nella formulazione della
tabella abbiamo considerato il caso in cui il tasso di remunerazione ordinaria
del capitale (rn) sia fissato dal Ministero al 7%. Sotto questa ipotesi, il
versamento di 150 milioni di capitale di rischio comporta (vedi la colonna b)
10,5 milioni di reddito ordinario. Tale reddito verrà colpito quindi
dall'aliquota impositiva “agevolata” del 19% che implica (v. colonna c) 2
milioni lire di imposte DIT. L’importanza della legislazione per le società di
persone o, come in questo caso, per un’impresa individuale sta nel fatto che
il reddito derivante dalla remunerazione ordinaria del capitale, i 10,5 milioni
di lire, vanno considerati come se fossero la parte “iniziale” del reddito (il
primo scaglione di reddito) da indicare nella dichiarazione delle persone
fisiche. Nel nostro caso l’imprenditore dovrà quindi pagare l’IRPEF sui
redditi da 10,5 fino a 100 milioni di lire con le aliquote fiscali previste dagli
scaglioni di reddito relativi a tale fascia di reddito e non, semplicemente
l'IRPEF su 89,5 milioni (la differenza tra 100 e 10,5 milioni). Tenendo conto
della recente riforma delle aliquote e degli scaglioni IRPEF, ciò implica che
l’IRPEF residua è data dall'applicazione dell'aliquota del 19% sui redditi da
10,5 a 15 milioni di lire, dell'aliquota del 27% per i redditi da 15 a 30 milioni
di lire, dell'aliquota del 34% da 30 a 60 milioni di lire e il 40% per i redditi
da 60 a 100 milioni. In totale l’IRPEF è pari a 31,11 milioni di lire (colonna
d).
Nel caso in esame, l'ammontare totale delle imposte che l'impresa dovrà
pagare è quindi determinato dalla DIT (2 milioni) più l'IRPEF residua (31,11
milioni) per un totale di 33,1 milioni di lire (v. colonna e). E' facile osservare
che, in questo caso, le imposte complessive in regime DIT corrispondono
alla normale imposta IRPEF su 100 milioni di reddito (colonna g). In questo
caso, l'impresa individuale non trae alcun vantaggio dalla DIT, e ciò perché
questa imposta colpisce con un’aliquota del 19% un reddito che sarebbe
stato in ogni caso colpito fiscalmente al 19% dall’IRPEF (v. ultima colonna
34
della tabella A). L'esempio che abbiamo considerato è molto importante
perché dimostra come una piccola impresa (una ditta individuale nel nostro
caso) non abbia alcun vantaggio aggiuntivo, rispetto alla legislazione
precedentemente in vigore, dal finanziare gli investimenti con capitale di
rischio
Le cose cambiano relativamente poco se aumenta l'importo
dell'investimento finanziato con apporti di denaro (v. la parte sottostante
della tabella A). Con un investimento di ben 300 milioni, e assumendo
sempre che la remunerazione ordinaria del capitale sia fissata al 7%, le
imposte totali in regime DIT ammontano a 32,62 milioni di lire, mentre le
imposte che si sarebbero dovute pagare considerando solo l'IRPEF sarebbero
sempre pari a 33,1 milioni di lire. In questo caso (si veda sempre l’ultima
colonna della tabella A) il risparmio d’imposta è pari a sole 480 mila lire.
Sempre sotto le stesse ipotesi, si può notare che qualora l'investimento
ammonti a 500 milioni di lire la nuova legislazione fiscale consente un
risparmio di imposta, rispetto alla legislazione precedente, di 1,95 milioni di
lire, pari ad appena il 4 per mille del valore dell'investimento.
E' interessante a questo punto cercare di capire come possono cambiare le
conclusioni appena viste se cambia il livello del reddito d’impresa. E' facile
osservare, seguendo i ragionamenti fatti sopra, che se il reddito della ditta
individuale fosse di 200 milioni, a parità d’investimento, cambierebbero gli
importi relativi alle imposte totali in regime DIT e quelle che si sarebbero
dovute pagare nel regime precedente, ma rimarrebbe invariata la differenza
fra le due. Si può quindi concludere che il risparmio fiscale netto consentito
dal regime DIT non dipende in alcun modo dal livello del reddito d’impresa.
Ma vi è ancora un’altra importante questione. Come possono cambiare i
risultati in funzione del fatto che il reddito d’impresa venga prodotto non da
una ditta individuale, come si era fin qui ipotizzato, ma da una società di
persone? In questo caso, è evidente che la quota di reddito soggetta a
tassazione agevolata andrà divisa per il numero di soci, in proporzione della
loro quota sociale. Così, se consideriamo una società di persone che effettua
un investimento di 500 milioni con versamento di denaro contante da parte
dei cinque soci, aventi per ipotesi ciascuno la stessa quota sociale, allora è
evidente ogni socio si avvantaggia della DIT solo per la quota di capitale che
egli ha versato, ovvero per 100 milioni. Il vantaggio risulterebbe quindi
equivalente a quello visto sopra, derivante dal versamento di capitale di
rischio di 100 milioni per un imprenditore individuale. In tal modo il
risparmio fiscale per il singolo socio, rispetto alla legislazione precedente,
sarebbe nullo. In generale, quanto più numerosa è la compagine sociale
relativa ad una società di persone, tanto maggiore dovrà essere il capitale di
rischio versato nell'impresa per consentire un vantaggio fiscale ai soci.
35
Abbiamo constatato che nella stragrande maggioranza dei casi il
risparmio d’imposta consentito dalla DIT per le piccole e medie imprese,
ditte individuali e società di persone, è minimale, quando non è nullo.
Appare ora evidente che sarà molto improbabile che le imprese in contabilità
semplificata, escluse per legge dai “benefici” della DIT, possano optare per
il regime di contabilità ordinaria. La differenza nei costi amministrativi tra il
regime contabile semplificato e quello ordinario non è affatto trascurabile e
riteniamo che possa facilmente superare i vantaggi offerti dalla DIT. E’
pertanto evidente che per quei due terzi delle PMI che sono in contabilità
semplificata, i “benefici” della nuova legislazione fiscale saranno
assolutamente virtuali.
Ma un altro elemento è a mio avviso fondamentale per capire il
comportamento finanziario tenuto da molti imprenditori negli ultimi decenni.
In effetti, come si diceva all’inizio, con la precedente legislazione fiscale era
molto più conveniente per un imprenditore investire le proprie disponibilità
finanziarie in titoli pubblici e finanziare l'investimento dell'impresa
ricorrendo al debito bancario. Ci sembra giusto chiederci a questo punto se la
nuova legislazione fiscale sia in grado di modificare questo tipo di
comportamento. In altri termini, l’introduzione della DIT può indurre gli
imprenditori a quel comportamento virtuoso, voluto dalla riforma Visco, che
favorisce la capitalizzazione delle imprese? Può riuscire a penalizzare
l'investimento finanziario dei risparmi personali a favore di un radicamento
delle risorse finanziarie nelle imprese?
La risposta a questi quesiti ci sembra sia negativa. Vedremo di spiegare
quest’affermazione esaminando, sempre nel caso di una ditta individuale,
quale sarebbe il reddito disponibile dell’imprenditore qualora questi
decidesse di finanziare l’investimento con capitale proprio o, in alternativa,
preferisse ricorrere all’indebitamento per finanziare l'acquisto di beni
strumentali. Nella tabella B abbiamo cercato di evidenziare l'impatto della
seconda opzione sul reddito disponibile dell'imprenditore.
Finanziando l’investimento con il ricorso al debito, l’impresa può detrarre
integralmente dal proprio bilancio l’importo degli interessi passivi pagati.
Nell’esempio della tabella B, dove si ipotizza un costo del finanziamento
pari al 9%, gli interessi passivi su un investimento di 150 milioni
ammontano a 13,5 milioni di lire l’anno (colonna b). Il reddito imponibile
d’impresa scende così da un importo di 100 milioni, il reddito operativo, a
86,5 milioni, sui quali l'imprenditore paga un’IRPEF pari 27,7 milioni di
lire. In questo caso il reddito netto dell'impresa risulterà pari a 58,8 milioni
(colonna e).
Bisogna però considerare che oltre a questo reddito l'imprenditore
percepisce anche un reddito da attività finanziarie che è dato dal rendimento
del capitale finanziario disponibile e non versato nell'impresa. Nel nostro
36
esempio, a fronte di un tasso di rendimento netto delle attività finanziarie
ipotizzato al 5% netto, tale reddito aggiuntivo sarà pari a 7,5 milioni di lire.
Il reddito disponibile totale dell'imprenditore, comprensivo del reddito
percepito sulle attività finanziarie, risulterà quindi pari a 66,3 milioni di lire.
A questo punto è facile osservare, considerando anche quanto esposto nella
colonna (f) della tabella A, che il reddito disponibile dell'imprenditore che
privilegia il ricorso all'indebitamento nelle scelte finanziarie risulterà
inferiore di appena 600.000 lire rispetto a quello dell’imprenditore che
intenda avvalersi dei vantaggi offerti dalla DIT. Si noti peraltro che
l'esempio sopra considerato è quello che offre i maggiori vantaggi dal ricorso
alla DIT. In effetti, se il rendimento delle attività finanziarie salisse al 6% e
oltre il reddito disponibile dell’imprenditore che finanzia gli investimenti
ricorrendo al debito sarebbe sempre superiore a quello che percepirebbe
finanziando l'impresa con capitale proprio.
In definitiva, la DIT consente alle piccole e medie imprese solo modesti
vantaggi economici rispetto al regime fiscale precedente e, in ogni caso,
questi vantaggi sono troppo contenuti per modificare il comportamento
finanziario degli imprenditori. Per le PMI questa riforma, che ha dei
momenti ispiratori veramente importanti nelle legislazioni dei paesi nord
europei, non sembra quindi funzionale all'obiettivo di favorire la
capitalizzazione delle imprese. Sarebbe evidentemente importante capire
come si potrebbe rendere più incisiva l'azione della legge modificando alcuni
parametri di base, ad esempio innalzando il tasso di remunerazione ordinaria
del capitale o rivedendo lo schema previsto per le piccole imprese.
A conclusione del mio intervento vorrei esporre alcune considerazioni di
sintesi sull’IRAP. Questa imposta viene di solito presentata come uno
strumento atto a favorire la ricapitalizzazione delle imprese in modo
indiretto, ossia penalizzandone l’indebitamento. Com’è noto, questo effetto
si ottiene sottoponendo a tassazione tutte le componenti del valore aggiunto
prodotto dall’impresa, e quindi anche gli interessi passivi. Se non sembrano
esservi dubbi sul fatto che l'IRAP penalizzi l'indebitamento, rimane però da
valutare quanto questa nuova imposta renda meno conveniente il ricorso al
debito.
Un primo modo per valutare tale effetto è quello di calcolare la differenza
fra il costo dell’indebitamento, al netto di tutte le imposte, in regime IRAP e
il costo dello stesso nel precedente regime fiscale. Considerando gli effetti di
impatto, è abbastanza facile dimostrare che l’aumento del “costo del
capitale” per le operazioni di investimento finanziate con debito è pari a
circa il 34% perché, oltre all’IRAP sugli interessi passivi, cambiano anche le
aliquote fiscali sul reddito netto d’impresa. Nel precedente regime fiscale, gli
interessi passivi potevano infatti essere portati in deduzione da un reddito
che era assoggettato ad un imposta marginale complessiva del 53%,
37
(l’IRPEG del 37% e l’ILOR del 16%). Il vantaggio fiscale conseguente alla
possibilità di detrarre gli interessi passivi dal reddito quando l’aliquota di
imposizione è del 53% è molto maggiore del vantaggio fiscale che si ha in
regime IRAP, regime in cui l’imposizione sul reddito è rappresentata dalla
sola aliquota IRPEG (che è del 37%). Nel complesso il passaggio da un
regime all'altro comporta un aumento del costo complessivo (comprensivo
degli oneri fiscali) dell’indebitamento pari al 34%. Ad esempio, un debito
bancario che prima della riforma aveva un costo al netto di tutte le imposte
pari al 10%, avrà ora un costo pari al 13,4%.
Diverso è il caso se consideriamo il costo marginale dell’indebitamento
in regime IRAP. In questo caso, che tiene conto esclusivamente del maggior
costo del debito in rapporto ad altre modalità di finanziamento, il costo
dell’indebitamento è maggiore di quello nominale di appena il 4,25%. Su
ogni milione di interessi passivi pagati, l’impresa dovrà infatti pagare
un’IRAP pari a 425 mila lire, che equivale, per qualsiasi tasso d’interesse sul
debito ad un aumento del 4,25%. Così, se il costo nominale
dell’indebitamento è pari al 10%, il costo marginale dello stesso risulta
essere pari al 10,425%. Da questo punto di vista l’IRAP non sembra quindi
particolarmente gravosa, né in termini assoluti, né in rapporto alle normali
differenze che esistono nei tassi d’interesse praticati dalle banche.
Più difficile è invece capire come l’IRAP possa promuovere la
ricapitalizzazione delle imprese, non solo penalizzando l’indebitamento, ma
anche riducendo il costo del capitale di rischio. Nella letteratura esistono
varie spiegazioni ma si è oramai abbastanza concordi sul fatto che l’IRAP
determina un incentivo al finanziamento con capitale proprio essenzialmente
grazie alla riduzione dell’aliquota fiscale che colpisce gli utili dell’impresa.
Nel precedente regime fiscale per le società di capitali tale aliquota si
attestava, come già detto, al 53%, mentre nel nuovo regime fiscale, con
l'abolizione dell’ILOR, questa scende al 37%. Si può dimostrare che questo
cambiamento porta ad una riduzione del costo del capitale finanziato con
capitale di rischio di circa 5 punti percentuali, ad esempio dal 15 al 10%.
Pur nella sua complessità - non va dimenticato che l’IRAP è stata
introdotta anche per modificare il sistema di finanziamento della sanità, per
consentire l’autonomia finanziaria delle Regioni, per semplificare alcuni
adempimenti fiscali (vengono aboliti alcuni tributi fra cui la patrimoniale,
l’ICIAP, l’ILOR, la tassa sulla partita IVA e soprattutto i contributi sanitari)
- l’IRAP ha dunque effetti molto rilevanti sulle scelte finanziarie delle
imprese. Anche qui bisogna però chiedersi se essa riesca a modificare in
maniera sostanziale la tradizionale distorsione a favore dell’indebitamento.
E’ cioè sufficiente questa disposizione fiscale, nelle modalità con cui è stata
attuata dai decreti legislativi, a far sì che il finanziamento di un investimento
con capitale di rischio sia più conveniente rispetto al finanziamento con
38
capitale di debito? La risposta è no perché, pur aumentando il costo
dell’indebitamento e pur riducendosi quello del capitale di rischio, esiste
ancora un notevole vantaggio netto a favore del finanziamento con
indebitamento. La riforma dell’IRAP introduce certamente una maggior
neutralità nelle scelte finanziarie delle imprese, in linea con quanto auspicato
dal legislatore, ma permane la convenienza assoluta delle imprese a ricorrere
all’indebitamento.
Detto questo è ora opportuno concentrarci sulle PMI, intese sempre
nell’ampia accezione che fa riferimento, non tanto a particolari dimensioni
dell’impresa, quanto a specifiche figure giuridiche, come le ditte individuali
o le società di persone. La normativa dell’IRAP non prevede, a differenza di
quella vista per la DIT, particolari disposizioni per queste categorie
d’impresa. Ciononostante, molte sono le differenze che emergono rispetto al
caso generale visto per le società di capitali, prima fra tutte la necessità di
considerare l’imposizione sul reddito delle persone fisiche. L’IRPEF
rappresenta infatti la principale imposta sui redditi prodotti da queste
imprese, siano esse ditte individuali o società di persone, ed è strettamente
interrelata all’IRAP perché la riforma fiscale in oggetto ha profondamente
modificato, sia in termini di scaglioni che di aliquote, anche l’imposta sulle
persone fisiche.
L’impatto dell’IRAP per le PMI è molto diverso dal caso generale anche
perché, con l’introduzione dell’IRAP, il titolare di una ditta individuale vede
aboliti non solo l’ILOR e la patrimoniale, ma anche il Contributo al Servizio
Sanitario Nazionale. Al di là del fatto che tale contributo era deducibile
dall’imponibile IRPEF, esso presentava anche una marcata regressività
rispetto al reddito (il contributo non era infatti dovuto per la parte di reddito
che eccedeva i 150 milioni). Appare quindi evidente che gli effetti della
riforma fiscale dipendono strettamente dallo scaglione di reddito
dell’imprenditore o del socio.
Per i motivi sopra detti gli effetti dell’IRAP sul reddito disponibile del
titolare di una PMI non sono facilmente sintetizzabili. Comunque, pur nella
varietà dei casi aziendali considerati, si può affermare che la riforma fiscale
determina un aumento, talora anche consistente, del reddito disponibile di
questi contribuenti. Ciò si verifica però nella situazione normale, cioè nel
caso in cui le imprese non godevano in precedenza di particolari
agevolazioni fiscali. La “vecchia” legislazione fiscale prevedeva infatti
alcune eccezioni all’applicazione integrale dell’ILOR. Una delle più
importanti consisteva nell'esonerare da questa imposta i redditi d’impresa
derivanti da imprese individuali o da società di persone nelle quali l’attività
del titolare risultasse prevalente e il numero complessivo degli addetti,
compreso il titolare, non superasse le 3 unità. In sostanza, prima della
riforma fiscale la stragrande maggioranza delle piccole imprese non pagava
39
l’ILOR. Oltre a ciò, erano anche previste importanti deduzioni dalla base
imponibile, e cioè dal reddito d’impresa, a favore di alcune categorie di
contribuenti quali ad esempio i commercianti e le imprese artigiane iscritte
all’Albo.
E’ evidente che con l’introduzione dell’IRAP, e la simultanea abolizione
dell’ILOR, tutti i contribuenti che godevano di agevolazioni ILOR, totali o
parziali, hanno un beneficio relativamente minore di quelli che invece ne
erano assoggettati integralmente. Senza voler entrare nel merito dell’analisi
riteniamo di poter affermare che il reddito disponibile di questi imprenditori
minori diminuisce a seguito della riforma e tale diminuzione è tanto
maggiore, in termini assoluti, quanto più elevato è il reddito d’impresa. In
particolare, si può dimostrare che le ditte “minori” aventi redditi inferiori a
80 milioni, godono di una situazione di pareggio rispetto al regime fiscale
precedente, mentre gli imprenditori individuali con redditi d’impresa
superiori ai 100 milioni vengono penalizzati dall’introduzione dell’IRAP.
Si conferma quindi quanto più volte enunciato dai rappresentanti di
queste categorie economiche, in primis gli artigiani, che avevano
ampiamente anticipato l’effetto negativo derivante dall’introduzione
dell’IRAP. La “negatività” della riforma va però interpretata in senso
relativo, e cioè rispetto al concreto vantaggio che essa consente alle imprese
più “grandi”, ovvero a quelle che non godevano di particolari agevolazioni.
Queste conclusioni si riflettono anche sul problema delle scelte finanziarie
delle imprese. E’ evidente cioè che le micro-imprese saranno meno
incentivate a capitalizzarsi di quanto non lo siano le grandi imprese, e
perpetueranno quindi la figura della piccola impresa indebitata e
sottocapitalizzata che frequentemente ricorre nelle analisi del sistema
produttivo nazionale.
40
3,99
3,99
3,99
3,99
6,65
6,65
6,65
6,65
Con aumenti di capitale pari a 300 milioni
300
300
21,00
0
300
21,00
0
300
21,00
0
300
21,00
Con aumenti di capitale pari a 500 milioni
500
500
35,00
0
500
35,00
0
500
35,00
0
500
35,00
1997
1998
1999
2000
1997
1998
1999
2000
(**) = Con le nuove aliquote e scaglioni.
2,00
2,00
2,00
2,00
Con aumenti di capitale pari a 150 milioni
150
150
10,50
0
150
10,50
0
150
10,50
0
150
10,50
1997
1998
1999
2000
24,50
24,50
24,50
24,50
28,63
28,63
28,63
28,63
31,11
31,11
31,11
31,11
31,15
31,15
31,15
31,15
32,62
32,62
32,62
32,62
33,10
33,10
33,10
33,10
68,85
68,85
68,85
68,85
67,38
67,38
67,38
67,38
66,90
66,90
66,90
66,90
33,10
33,10
33,10
33,10
33,10
33,10
33,10
33,10
33,10
33,10
33,10
33,10
1,95
1,95
1,95
1,95
0,48
0,48
0,48
0,48
0,00
0,00
0,00
0,00
IRPEF
RISPARMIO
INVEST.
VARIAZ. Remuneraz. D.I.T.
IRPEF (**)
IMPOSTE
REDDITO
SU
METTO
Finanz.
CAPITALE ordinaria
0,19
RESIDUA
TOTALI
DISPONIB.
(milioni) calcolata sugli IN REGIME IN REGIME 100 MLN. (in milioni)
con capitale AMMESSA
0,07
(milioni)
(milioni)
scaglioni di
(**)
proprio
DIT
DIT
(milioni)
(g)-(e)
(a)*7%
(b)*19% reddito residui
(c)+(d)
100-(e)
(a)
(b)
(c)
(d)
(e)
(f)
(g)
Tab. A - IMPOSTE E REDDITO NETTO IN REGIME D.I.T. PER IMPRESA INDIVIDUALE
(Reddito d'impresa pari a 100 milioni - escluse tutte le altre imposte e tasse)
Tab. B - IMPOSTE E E REDDITO DISPONIBILE CON INDEBITAMENTO
(Reddito operativo d'impresa pari a 100 milioni)
INVESTIM.
DEBITO
Interessi
REDDITO
IRPEF(**)
REDDITO
REDDITO
REDDITO
finanz.
TOTALE
passivi
IMPONIB.
SU
DISPONIBILE
SU ATT.
DISPONIB.
con debito
(milioni)
(milioni)
FINANZ.
TOTALE
(milioni)
(milioni)
(milioni)
0,09
IRPEF
REDDITO
(milioni)
NETTO
NETTO
(a)*9%
100-(b)
(milioni)
(c)-(d)
(a)*0,05
(e)-(f)
(a)
(b)
(c)
(d)
(e)
(f)
(g)
1997
1998
1999
2000
150
0
0
0
150
150
150
150
13,50
13,50
13,50
13,50
86,50
86,50
86,50
86,50
27,70
27,70
27,70
27,70
58,80
58,80
58,80
58,80
7,50
7,50
7,50
7,50
66,30
66,30
66,30
66,30
1997
1998
1999
2000
300
0
0
0
300
300
300
300
27,00
27,00
27,00
27,00
73,00
73,00
73,00
73,00
22,30
22,30
22,30
22,30
50,70
50,70
50,70
50,70
15,00
15,00
15,00
15,00
65,70
65,70
65,70
65,70
1997
1998
1999
2000
500
0
0
0
500
500
500
500
45,00
45,00
45,00
45,00
55,00
55,00
55,00
55,00
15,10
15,10
15,10
15,10
39,90
39,90
39,90
39,90
25,00
25,00
25,00
25,00
64,90
64,90
64,90
64,90
(**) = Con le nuove aliquote e scaglioni.
Indice
- Saluto di apertura
Giuseppe Zanini
Presidente C.C.I.A.A. di Treviso
pg. 7
- Attività e programmi camerali in tema di ricapitalizzazione delle
imprese
Dott. Renato Chahinian
Segretario Generale C.C.I.A.A. di Treviso
pg. 9
- Sistema fiscale e finanziamento delle
imprese: verso una penalizzazione dell’indebitamento
prof. Gilberto Muraro
Università di Padova
pg. 13
- IRAP e DIT come strumenti per la
ricapitalizzazione delle PMI
dott. Michele Zanette
Università Ca’ Foscari di Venezia
pg. 27
Alla data di pubblicazione del presente volume non è disponibile la
relazione del dott. Pierluigi Bortolussi riguardante “Considerazioni sugli
aspetti economici ed operativi derivanti dai recenti interventi normativi in
materia fiscale”.
43
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