1 Verso una definizione della sociologia dell`educazione

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Verso una definizione della sociologia
dell’educazione
Ogni educazione consiste in uno sforzo continuo per imporre al
bambino modi di vedere, di sentire e di agire a cui non sarebbe
pervenuto spontaneamente.
E. Durkheim, Le regole del metodo sociologico,
Edizioni di Comunità, Milano , p. .
Nel proporre un libro che illustra alcuni dei temi più importanti trattati, nel tempo o recentemente, dalla sociologia dell’educazione, si pone il
problema di definirne le caratteristiche e i contenuti, e ogni definizione
deve preliminarmente fare i conti con l’affermazione di Durkheim, tradizionalmente considerato il padre di questa particolare branca della
sociologia, secondo cui educare l’uomo, in qualche misura, coincide
con una limitazione della libera espressione della sua individualità in
favore di un adeguamento a modelli sociali prevalenti, sia pure con le
migliori intenzioni, con una finalità di bene comune. Anche Mannheim
(Mannheim, Stewart, , p. ) pensa che i metodi educativi debbano
adattarsi ai bisogni della società in trasformazione «per evitare un generale rovescio psicologico», e in questo adattamento il ruolo della sociologia è fondamentale. L’equilibrio fra tradizione e innovazione, fra
variabilità personale e solidarietà sociale costituisce lo snodo teorico che
ha tenuto impegnati i sociologi dell’educazione, ed è probabilmente
all’origine di un comune desiderio (al di là dei diversi orientamenti
ideologici e di valore) di trovare un’utilità sociale al proprio lavoro, che
convive con il problema di definire il campo dei propri interessi specifici, e che si pone non appena la sociologia dell’educazione incomincia
a trovare troppo limitato il ruolo di supporto alla pedagogia (cui viene
delegato di elaborare modelli educativi validi), o quello di “consigliere
del principe”, a cui spetta di elaborare e porre in atto strategie di politica educativa, e cerca un proprio statuto autonomo.
Se consideriamo doverosamente troppo generica la definizione di
Payne () per cui la sociologia educativa includeva «qualsiasi cosa nel
campo della sociologia che possa essere messa in relazione con i processi di apprendimento e socializzazione, e qualsiasi cosa nel campo dell’educazione che possa essere sottoposta a un’analisi sociologica», possiamo ancora accettare la definizione di Brookover () secondo cui la
sociologia dell’educazione può essere descritta, in modo molto generale, come:

FORMARE GLI INSEGNANTI
un’analisi scientifica dei processi e dei modelli sociali coinvolti nel sistema educativo. Ciò presume che l’educazione sia una combinazione di atti sociali e la
sociologia un’analisi delle interazioni umane. Questa analisi delle interazioni
umane nell’educazione può includere sia l’educazione formale, che si trova in
gruppi sociali come la scuola, sia la moltitudine di processi informali che servono alle funzioni educative.
Questa definizione indica nella sociologia dell’educazione quella branca della sociologia generale che ha per scopo specifico l’approfondimento in chiave sociologica, con i metodi e le categorie interpretative
proprie della sociologia, delle istituzioni e dei processi educativi: come
tutte le sociologie applicate (della famiglia, del lavoro, delle comunicazioni ecc.), non si occupa quindi se non indirettamente di sviluppare
riflessioni ed elaborare teorie generali sulla società, ma delimita il
campo dei propri interessi, e partecipa di una doppia natura, quella
della sociologia – a cui appartiene per la sua natura epistemologica – e
quella della specifica parte del sociale di cui si occupa.
. Dal punto di vista del suo essere parte della teoria sociologica, la
sociologia dell’educazione può essere studiata utilizzando le medesime
categorie di analisi della sociologia generale: potremo così fare riferimento a teorie dell’azione e teorie del sistema, sociologie interpretative
e sociologie strutturali, teorie del conflitto e teorie del consenso. Lo
stesso vale per i metodi adottati, che sono quelli tradizionali della ricerca sociologica, sia quantitativi – con l’uso di questionari o l’analisi di
dati statistici – che, in misura crescente, qualitativi, come lo studio dei
casi, le storie di vita, l’analisi partecipata.
Inoltre, la sociologia dell’educazione non può essere pensata isolatamente, come un corpo integrato di problemi, metodi e soluzioni che
non comunica né con gli altri settori della sociologia, né con le altre
scienze dell’educazione. La natura stessa del suo campo di interesse,
tipicamente interdisciplinare, o forse meglio predisciplinare, richiede
uno scambio con tutte le scienze che si occupano di temi e istituzioni
educative (la pedagogia, la psicologia, le scienze dell’organizzazione e
quant’altro) e con analisi compiute, nell’ambito sociologico, dalla sociologia della conoscenza, delle comunicazioni, del lavoro. Tra l’altro, la
tendenza più attuale della riflessione nelle scienze sociali è quella di
valorizzare i cosiddetti processi di confine, che avvengono nel momento
in cui due settori della società si sovrappongono parzialmente (ad esempio il lavoro e la formazione, la cultura e la politica) e danno origine a
procedure di fertilizzazione incrociata, che si hanno quando una scienza
adotta metodologie che provengono da una scienza diversa: nell’ambito della formazione, ad esempio, si sono rivelati molti proficui metodi
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.
VERSO UNA DEFINIZIONE DELLA SOCIOLOGIA DELL’ EDUCAZIONE
di analisi etnologica, come lo studio delle storie di vita o delle comunità di apprendimento.
. D’altro canto, la sociologia dell’educazione è influenzata dal particolare tipo di fenomeni che sono oggetto specifico del suo studio, e che
negli ultimi decenni hanno costituito un’area sociale in rapida trasformazione e soggetta a forte turbolenza. Ora, una delle caratteristiche specifiche delle sociologie applicate è quella di suscitare una forte domanda
sociale: quando si verificano dei problemi sociali , al sociologo non si
chiede più solo di descrivere e interpretare, ma di fornire soluzioni o
addirittura di prevedere che cosa succederà, cosa che evidentemente non
può fare. Possiamo identificare due momenti specifici, in Italia come in
tutte le società occidentali avanzate, che hanno segnato dei picchi in questa tendenza: il primo è il passaggio dalla scuola di élite alla scuola di
massa, che ha interessato in tempi diversi a seconda dei paesi gli anni cinquanta e sessanta, e il secondo è il movimento del , che, a partire dalla
contestazione giovanile, mette sotto accusa tutte le istituzioni educative e
gli elementi che le caratterizzano, dalla “selettività” al “nozionismo”, alla
“scuola di classe”: e di questo rifiuto globale e acritico, fatto proprio
anche da parte della sociologia, si scontano ancora le conseguenze.
La sociologia dell’educazione è dunque quella branca della sociologia
generale che ha per scopo specifico l’approfondimento in chiave sociologica, con i metodi e le categorie interpretative proprie della sociologia, dell’inserimento nel contesto sociale di ogni individuo, sia nella fase
iniziale che nel corso della vita. In questo processo, è possibile porre
l’attenzione sulle strutture e le istituzioni, così come sull’insieme dei
significati e delle relazioni. Sempre meno si tende a mantenere separati
questi due aspetti, e sempre più si tende ad affermare che costituiscono
due facce di un’unica realtà, distinte per comodità di studio, ma sistematicamente interagenti.
Al centro di questo insieme di fenomeni, si pone certamente l’educazione, termine con cui
si intende generalmente quel processo di formazione della personalità individuale che avviene in un contesto sociale (cioè grazie a relazioni e interazioni con
altre persone), e che passa attraverso la trasmissione di norme, valori, atteggiamenti e comportamenti (in breve: della cultura) condivisi dal gruppo sociale di
appartenenza (Volonté et al., , p. ).
. Collins distingue, sulla scorta di Weber, i problemi sociali dai problemi sociologici: un problema sociale diventa sociologico quando la sociologia se ne occupa analizzandolo in base a categorie specifiche.
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FORMARE GLI INSEGNANTI
L’educazione copre però solo gli aspetti formalizzati e intenzionali dell’inserimento sociale, mentre stanno acquisendo importanza crescente
anche gli aspetti informali e non intenzionali delle relazioni che agiscono sul comportamento dei giovani (e anche degli adulti): l’insieme dei
due aspetti viene compreso nel termine “socializzazione”, che è dunque
più largamente comprensivo del processo attraverso il quale da un lato
ogni società si perpetua nel tempo e dall’altro ogni individuo diviene
parte della società in cui è nato, passando dall’appartenenza a società
più semplici, come la famiglia e il gruppo.
Naturalmente, questo processo non è affatto nuovo, ed è sempre
stato studiato, tanto che costituisce l’oggetto specifico della pedagogia
e delle scienze dell’educazione, in una visione in cui – con una semplificazione estremamente schematica – possiamo dire che il sapere pedagogico rappresenta un elemento unificante che opera una sintesi fra
tutti gli apporti possibili, e le scienze dell’educazione sviluppano invece
approcci specialistici e anche frammentari. L’apporto specifico della
sociologia dell’educazione, avviato da Durkheim, è stato quello di
cogliere il nesso specifico fra società e individuo, che non è un processo
naturale e universale, ma riceve la sua forma e il suo contenuto dal tipo
di “regole sociali” che l’individuo deve apprendere. Tutte le società
hanno un processo di socializzazione, ma in ogni società valori, norme,
modelli di comportamento, linguaggi (in una parola: la cultura) sono
diversi, e in modo diverso vengono trasmessi.
Nel CAP.  Elena Besozzi analizza in modo dettagliato, attraverso
un’ampia ricostruzione teorica, gli aspetti che caratterizzano il processo
di socializzazione nella società contemporanea, e formula quindi la premessa allo studio di tutti i temi ulteriori. In un tempo in cui l’allentamento dei legami tradizionali stenta a essere sostituito da nuove relazioni forti, in un quadro di relativismo e frammentazione, Besozzi sottolinea che «la socializzazione non può realizzarsi se non a partire da
due poli di riferimento ugualmente importanti: l’integrazione da un lato
e il conseguimento di identità (personale e sociale) dall’altro». Ma non
ci si può fermare a un individualismo astratto, che «considera gli esseri
umani come atomi sociali, astratti dai loro contesti sociali, e trascura il
ruolo delle relazioni sociali e della comunità nel costruire la natura reale
di ogni singolo essere umano» (Friedman, , p. ). È dunque
necessario quello che la sociologa femminista americana definisce
«identità comunitaria», che non è basata sul conflitto ma sulla collaborazione, e sull’esistenza di una «reciproca cura e di un’affettuosa condivisione di interessi» (ivi, p. ) che prende ad esempio la relazione fra
madre e figlio. Ed è interessante notare come in un ambito culturalmente ben diverso, se non opposto, Angelini (, p. ) afferma che
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.
VERSO UNA DEFINIZIONE DELLA SOCIOLOGIA DELL’ EDUCAZIONE
non è possibile riflettere sull’educazione se non a partire dal nesso fra
genitori e figli, in cui «il figlio stesso è, prima che un compito, una promessa per la vita stessa dei genitori», in una condizione storica in cui la
società civile è tutta tesa alla ricerca di significati che ne ricostruiscano
l’unità.
La seconda parte del volume è dedicata a “temi e problemi dell’attualità” e accosta due temi che fin dall’origine appartengono alla ricerca
sociale, cioè la condizione giovanile e il rapporto fra scuola e mercato del
lavoro, e due temi verso cui l’interesse ha di recente conosciuto una notevole accelerazione: i mezzi di comunicazione di massa e la crescente presenza di giovani e bambini stranieri nelle agenzie formative.
Per quanto riguarda il rapporto fra scuola e mercato del lavoro, il
ruolo sociale del sistema scolastico si manifesta con particolare forza nel
rapporto fra formazione e occupazione, ed è visto dai sociologi del conflitto come meccanismo di riproduzione della divisione del lavoro e
conseguentemente della legittimazione politica della disuguaglianza
attraverso il consenso generalizzato. A parte la loro caratterizzazione
ideologica, questi modelli si rivelano inadeguati in periodi di cambiamento, come sottolinea il CAP.  di Giuseppe Moro, e infatti sono stati
gradualmente sostituiti da modelli non “a costanza” ma “a tendenza”,
come l’alternanza nel sistema di formazione integrato, che facendo crescere l’elasticità istituzionale facilita i passaggi dall’una all’altra condizione e migliora la qualità della vita, anche se forse nasce come espressione di una crisi della tradizionale separatezza fra sistema formativo e
sistema produttivo. Oggi la formazione non è più strumentale, finalizzata alla positiva integrazione della forza lavoro nei ruoli produttivi
(secondo il modello fordista), e non è neppur più accettabile la concezione di scuola come servizio sociale indifferenziato, senza alcuna logica di efficienza e priva di valenze professionalizzanti: esiste uno stretto
legame fra sviluppo economico e crescita della capacità di apprendimento, e la società basata sulle competenze assegna di nuovo alla scuola un ruolo centrale per lo sviluppo della risorsa umana, per far fronte a
una crescente domanda sociale e individuale di professionalizzazione,
sia pure di una professionalità di tipo aperto.
Si può probabilmente affermare che il fenomeno forse più rilevante
che la sociologia dell’educazione deve fronteggiare, e che ancora non è
tenuto sotto controllo, è proprio il dilagare delle tecnologie dell’informazione, sia nella forma “classica” dei mezzi di comunicazione di
massa, sia in quella relativamente nuova delle tecnologie informatiche.
I media non si limitano a comunicare la realtà, ma la costruiscono, non
comunicano in quanto esistono, ma esistono in quanto comunicano. Si
passa da una realtà come costruzione sociale a una realtà come simula
FORMARE GLI INSEGNANTI
zione, come immagine, come copia di un originale perduto o che non
esiste, come in Forrest Gump: come scrive Eco, Disneyland è più reale
della realtà. Se la comunicazione e l’agire comunicativo sono «lo strumento per eccellenza dell’agire sociale» (Livolsi, , p. ), la comunicazione veicolata dai mass media è «un campo cruciale per lo scenario sociale contemporaneo, la cui cultura appare sempre più legata alla
trasformazione del sistema dei media» (ivi, p. ). In particolare, il CAP.
, di Cristiana Ottaviano, intende affrontare il rapporto fra mezzi di
comunicazione ed educazione, con un’ampia panoramica legata al tema
del media educator, il cui ruolo all’interno della professionalità docente,
oltre che come professionista specificamente qualificato, è stato finora
sottovalutato in un quadro in cui il ruolo di costruzione della realtà
sociale operato dai media, e in particolare dalla televisione, non può più
essere ignorato in nessun contesto educativo.
Il tema della condizione giovanile è stato ampiamente percorso dalla
sociologia dell’educazione, che ha indagato sulla possibilità dei giovani
di costruire una cultura propria, alternativa – o in opposizione – a quella del mondo adulto, e già Ardigò (), due anni prima dello scoppio
della contestazione, arrivava a ipotizzare che
la condizione giovanile sta per esser assunta come condizione cruciale significativa, nel mondo occidentale, ma non soltanto in esso, per il generale discorso
sulla società del nostro tempo […] sta forse per prendere il posto, nelle aree di
elevato sviluppo economico, già occupato nella problematica dell’Ottocento
dalla condizione operaia.
Il CAP. , di Andrea Maccarini, riprende il dibattito teorico su questo
problema, ma soprattutto esamina criticamente le principali ricerche
che nel corso degli ultimi vent’anni si sono occupate dei giovani in
Italia, del loro sistema di valori, delle caratteristiche della loro identità.
Il tema della presenza crescente degli stranieri nella società italiana,
e dei loro figli nella scuola e nelle altre agenzie formative, sta diventando cruciale, e sembra di poter affermare che la varietà degli attuali
movimenti migratori non può essere compresa da nessun tipo di sovrasemplificazione teorica. D’altro lato, le politiche educative dovrebbero
trasformarsi continuamente per tenere dietro ai cambiamenti della
società, mentre sembrano esitare tra pluralismo e assimilazione, tra
“servizio sociale” e sviluppo delle abilità cognitive di tutti i bambini,
inclusi quelli stranieri. Renata Mancuso (CAP. ) sottolinea come non sia
possibile esaminare la questione della multiculturalità nella scuola separatamente da quella della presenza dello straniero nella società, con il
portato di problemi che si trascina dietro, legati al lavoro, ai servizi

.
VERSO UNA DEFINIZIONE DELLA SOCIOLOGIA DELL’ EDUCAZIONE
sociali, al difficile rapporto con la devianza. Partendo dal caso siciliano,
l’autrice fa notare che anche la dinamica di decentramento oggi in atto
in parecchi contesti deve fare i conti con il problema della multiculturalità: la politica degli enti locali, nata con l’idea di tenere conto dei
bisogni di utenze diversificate (quindi anche delle minoranze) rischia
però di innescare una meccanica disgregativa, che chiama di nuovo in
causa il dilemma fondamentale tra difesa dell’unità e tutela delle differenze. Dove il decentramento è regionale, non è insolito che gli enti
locali adottino politiche diverse da quelle centrali.
La terza parte del volume esamina alcune delle principali trasformazioni in atto nell’organizzazione formativa per eccellenza, la scuola, che
viene analizzata dal punto di vista organizzativo, con le trasformazioni
legate alla nuova normativa sull’autonomia, e con le implicazioni che
riguardano gli insegnanti, il rapporto fra pubblico e privato, l’orientamento e la continuità didattica e infine la dispersione e la redditività.
Francesco Barattini (CAP. ) riprende alcune delle principali teorie sulla
scuola come organizzazione, a partire dall’introduzione dell’autonomia
che segna il passaggio da un modello centralizzato e burocratico a un
sistema di scuole autonome, determinando una vera e propria frattura:
non si tratta dell’evoluzione di un vecchio modello, ma dell’introduzione di un modello concettualmente diverso, in cui le singole scuole devono avere una propria identità e un proprio progetto, ed essere dotate di
un proprio potere di iniziativa e di risorse sufficienti, mentre va ridefinito il livello decisionale centrale, che oggi assomma in sé tutte le competenze. L’autonomia non è solo una razionalizzazione nell’uso delle
risorse, anche se può introdurre elementi di valutazione e controllo nell’uso delle risorse, ma è soprattutto un modello che consente una risposta migliore alla domanda di formazione.
Un aspetto particolare della diversità nella domanda formativa è
quello collegato alla realizzazione del sistema pubblico, con il riconoscimento del carattere paritario delle scuole non statali: il contributo di
Luisa Ribolzi (CAP. ) sottolinea il carattere anomalo del dibattito nella
società italiana, che identificando “pubblico” con “statale” di fatto ha
negato per cinquant’anni il carattere di servizio pubblico svolto da una
quota rilevante di scuole. L’approvazione della legge / ha aperto
la strada all’attuazione di un processo di integrazione che, riconoscendo la scelta familiare come diritto del cittadino, da un lato riconosce la
scuola non statale e avvicina l’Italia agli altri paesi europei, e dall’altro,
nell’ambito della medesima scuola statale, valorizza la capacità di innovazione delle scuole migliori e stimola la partecipazione delle famiglie.
La realizzazione di ogni innovazione non può avvenire ex lege, ma
passa necessariamente dagli insegnanti: ed è innegabile che
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FORMARE GLI INSEGNANTI
le profonde trasformazioni della cultura, dei saperi e dei mezzi con i quali vengono trasmessi pongono agli insegnanti, e all’organizzazione scolastica in cui
operano, domande assolutamente inedite, le cui risposte non sono disponibili
senza un impegno straordinario di ricerca e di elaborazione (Drago, , p. ).
Il contributo di Lorenzo Fischer (CAP. ) svolge a tutto campo il tema
del ruolo docente nella scuola di oggi, a partire dalla consolidata dicotomia fra professionalizzazione e proletarizzazione, delineandone le
competenze sulla scorta delle teorie di Schön e sviluppando poi tutto il
tema dei percorsi formativi. Non mancano ampi e documentati riferimenti sulle caratteristiche e gli atteggiamenti degli insegnanti italiani.
I CAPP.  e , rispettivamente di Giovanna Ceccatelli e Luca
Queirolo, affrontano due aspetti in qualche modo intrecciati tra loro,
che sviluppano il tema del successo formativo, considerato come obiettivo primario del sistema, ma negato nei fatti dalla diffusione ancora
troppo elevata dei fenomeni di dispersione. Per i più giovani, l’abbandono è legato a un difficile rapporto con la scuola, vissuto come la conseguenza di un proprio fallimento, dove la bocciatura è l’esemplificazione concreta delle proprie incapacità, e si generano dinamiche di
autoemarginazione, oppure di ostilità per i valori contenuti nel curricolo “ufficiale”, e molti autori hanno sottolineato come gli studenti
ricavano dalle loro famiglie, dagli amici del tempo libero e dai lavoretti part-time una fonte alternativa di informazioni, che usano per valutare le proposte scolastiche (Giroux, ). Per evitare che l’esito di
queste dinamiche sia una autoesclusione dalle possibilità di mobilità
sociale che la scuola ha pur sempre in sé, si sottolinea il ruolo centrale
dell’orientamento che passa soprattutto attraverso una «sistematizzazione curricolare della funzione orientativa, intesa come supporto all’esperienza scolastica dei ragazzi e alle scelte soggettive dopo la scuola di
base» (Ceccatelli, infra, pp. -).
Riferimenti bibliografici
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Caprioli, L. Vaccaro, Educazione: questione cristiana e questione civile, Morcelliana, Brescia.
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Questioni di sociologia, La Scuola, Brescia, pp. -.
BROOKOVER W. (), A Sociology of Education, American Book Company, New
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DRAGO R. (), La costruzione della professione docente: gli standard professionali, in A. Cenerini, R. Drago (a cura di), Standard professionali, carriera
e Ordine degli insegnanti, Erickson, Trento.
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