La teologia politica delle macchine

La teologia politica delle macchine
- Benedetto Vecchi, 17.11.2015
Tempo presente. Il sistema delle macchine è un mostro totalitario. Ha consentito lo sviluppo
economico, ma ha prodotto una società che non tollera eresie. Un sentiero di lettura a partire dal
saggio «La religione tecno-capitalista» di Lelio De Michelis per Mimesis. Ma quello mondiale è un
disordine fortemente organizzato, come testimonia «L’età del caos», un libro di Federico Rampini
per Mondadori. Nel frattempo, la democrazia è ridotta a guscio vuoto e in deficit di legittimità, come
afferma nel suo ultimo volume Pierre Rosanvallon pubblicato da Rosenberg&Sellier
Un libro con una tesi semplice, ma basato su una stratificazione analitica, filosofica, economica e
sociologica molto articolata e complessa, quasi a costituire un labirinto nel quale il rischio è di
smarrirsi. C’è molta teoria critica francofortese, ma anche il fustigatore della tecnostruttura Jacques
Ellul, il socialista liberale Norberto Bobbio, il Max Weber della gabbia di acciaio, l’ostilità filosofica
di Martin Heidegger verso la tecnica, la filosofia antitotalitaria di Hannah Arendt. E molti altri
ancora. L’autore è Lelio De Michelis, docente di sociologia economica e studioso da anni della
grande trasformazione che ha investito il capitalismo negli ultimi tre decenni a partire dal ruolo
sempre più determinante della tecnica, e la scienza diventata forza produttiva a tutti gli effetti, nei
processi produttivi. Suoi contributi sono usciti nei volumi collettivi Biopolitiche del lavoro,
Biopolitica, bioeconomia e processi di soggettivazione e Natura e artificio, dove la tecnologia è vista
come un apparato ormai autonomo dall’economia, ma che ha il potere di imporre regole, vincoli e
compatibilità all’insieme delle relazioni sociali. Ha infatti un potere performativo che plasma la
realtà sociale e politica a sua immagine e somiglianza. Il capitalismo, avverte De Michelis, l’ha usata
per garantire la sua riproduzione, che marxianamente non poteva che essere allargata, arrivando
cioè a costituire l’unico modo di produzione del pianeta terra, cancellando, talvolta violentemente,
talvolta in maniera light, le altre forme di produzione della ricchezza. Il capitalismo, cioè, non ha più
né antagonisti – il socialismo reale – né altre formazioni sociali subalterne, nel classico rapporto tra
centro e periferia del sistema-mondo, dove attingere materie prime o dove vendere le merci prodotte.
Un altrove mondano
Non c’è dunque un fuori dal capitalismo. È quella totalità dalla quale non ci sono vie di fuga o nella
quale elaborare progetti di trasformazione radicale. Da qui la necessità di delineare criticamente le
caratteristiche di una Religione tecno-capitalistica, questo il titolo del volume pubblicato da Mimesis
(pp. 261, euro 20), che ne legittima l’esistenza e che non ammette eresie. Religione mondana, come
d’altronde aveva scritto Walter Benjamin in un testo «minore» scritto negli anni Venti del Novecento,
recentemente usato dal filosofo tedesco Peter Sloterdijk per segnalare appunto la dimensione
teologica e performativa della società capitalista. Fallito il socialismo, il golem impastato con le sue
ceneri non ha ovviamente nulla a che fare con la vision umanista di Karl Marx sull’uomo nuovo,
bensì con quell’individuo proprietario che massimizza i suoi interessi economici e sociali, nonché
affettivi e relazionali. Come avviare una secolarizzazione, rimane però domanda inevasa. Per il
momento, scrive l’autore, occorre accontentarsi di mettere in evidenza il fatto che, data la sua
caratteristica «totalitaria» (termine che ritorna ossessivamente in tutto il libro), promette felicità e
benessere, attraverso una mercificazione di ogni ambito sociale e individuale. Non c’è dunque un
altrove ultraterreno, bensì un ordinamento teologico che si manifesta nel funzionamento del sistema
delle macchine.
L’avvento del mondo tecno-capitalista è successivo a un’apocalisse culturale e sociale che ha reso il
pianeta un «paradiso del diavolo». Nei trent’anni ingloriosi del neoliberismo il welfare state è stato
ridotto ai minimi termini e con la sua manifesta irrilevanza e la deflagrazione del sociali reale è stata
cancellata ogni possibile alternativa al capitalismo. La tecnica è dunque la fedele sentinella di un
ordine costituito che non tollera faglie, striature, opposizione. Tutto deve funzionare come un
sistema autoregolato, mentre la società deve essere governata secondo un principio pastorale.
Non c’è dunque possibilità che la religione tecno-capitalista possa produrre caos, muovendo guerre
o distruggere nazioni e società pur di garantire la sua riproduzione. Se questo avviene è per mettere
ordine nel gregge da governare. Nel libro non ci sono però echi di quanto avviene alle porte
dell’Europa, ma forte rimane il non detto: le guerre che si combattono in Iraq, Afghanistan, Libia,
Siria sono da inscrivere in quel processo di disgregazione dove il caos è preferibile all’esistenza di
paesi riottosi a far propria la religione tecno-capitalista.
L’assenza di qualsiasi traccia di questo tema, che comincia a farsi strada tra le migliaia di cadaveri
causati dalle guerre umanitarie o dal tentativo di instaurare califfati, rende il mondo descritto da
Lelio De Michelis come un mostro nato dalla ricombinazione genetica dei due mostri della tradizione
biblica, cioè il Leviatano (ordine statale) e Beemoth (le passioni lasciate libere a se stesse), che non
contempla principio di contraddizione. Una prospettiva che spunta l’arma della critica, perché il
caos, organizzato va da sé, in uno dei tanti ossimori che dominano la realtà contemporanea, ha
costituito e costituisce tutt’ora forma politica dominante del capitalismo.
È questo il quesito sullo sfondo di un efficace libro di sintesi dei conflitti economici e politici scritto
dal giornalista Federico Rampini (L’età del caos, Mondadori, pp. 327, euro 18,50). Il caos è però
complementare all’ordine, perché è all’interno di un sistema mondiale: diciamo che è la forma più
adeguata affinché la logica di potenza a breve termine del capitalismo possa essere efficace.
Eppure il tecno-capitalismo rischia di crollare sotto il peso di quella tecnostruttura che ne ha
garantito lo sviluppo negli ultimi trent’anni. I costi sociali sono altissimi, così come quelli
psicologici-individuali. Cresce l’esclusione sociale, la povertà, le diseguaglianze di reddito e di status.
A livello individuale l’infelicità è esperienza diffusa, alimentando il consumo di psicofarmaci e di
droghe chimiche finalizzati alla gestione, in nome di un insindacabile principio di prestazione, dello
stress e del panico derivanti dalla inadeguatezza a rispondere ai inemendabili diktat imposti dagli
algoritmi che regolano il flusso del lavoro e della vita sociale.
Prigionieri della Rete
L’autore sceglie di radiografare il presente a partire dalla Rete, anche se La religione
tecno-capitalista non è un libro sul world wide web. Internet è considerata come la forma più
sofisticata della tecnostruttura. Definisce i ritmi sociali in forma impalpabile attraverso gli algoritmi
alla base del software che la fa funzionare. È inoltre presentata come oggettiva; è friendly, perché si
propone di aiutare gli umani a vivere meglio, sollevandoli dall’onere di svolgere lavori faticosi e
noiosi. Non c’è però nessuna indulgenza verso la network culture, sia nella sua versione
anarco-capitalista in auge negli Stati Uniti che in quella ribelle e libertaria, che attira l’attenzione di
attivisti e movimenti sociali. La Rete è tecnologia del controllo sociale, annota l’autore, che tritura
privacy, affetti, desideri, sentimenti. Inoltre, punta a manipolare la coscienza dei singoli (l’autore ne
scrive come di una «psicotecnica»). Ed è in base a questo punto di vista, che l’autore mostra
scetticismo verso le analisi del capitalismo cognitivo, perché il general intellect è sì forza produttiva,
ma sono le macchine che la fanno ancora da padrone. Per questo il lavoro è organizzato attorno a un
taylorismo digitale che scompone l’attività cognitiva in tante, parcellizzate funzioni che devono
essere eseguite senza tanto discutere, perché la loro fonte di legittimità viene dal potere
impersonale degli algoritmi che le fanno funzionare. Da qui la centralità dell’alienazione.
Una alienazione che ha tuttavia echi deboli con quella marxiana. Forte invece è la sua declinazione a
partire dalla psicoanalisi lacaniana e da Martin Heidegger: l’alienazione è circoscritta alla sofferenza
dovuta alla perdita di autenticità e di distacco da una presunta natura umana violata e «inquinata»
appunto dalla tecnica. L’invito al godimento e al soddisfacimento dei desideri tipici del regime
neoliberale non aprono quindi le porte alla libertà, ma a un nuovo e totalitario asservimento
dell’animale umano alla tecnica.
L’approdo di Lelio De Michelis è a un pessimismo cosmico dove la prassi politica può essere tutt’al
più propedeutica a una laicizzazione della «società del capitale». Constatata la crisi irreversibile
della democrazia rappresentativa, l’autore liquida come dannosa la democrazia diretta del web – qui
propedeutica alla crescita del populismo sia nella sua versione antisistema che in quella tecnocratica,
incarnata da Matteo Renzi – e ingenue le forme «ibride» di democrazia diretta e democrazia
rappresentativa, come fanno autori come Jürgen Habermas, Colin Crouch o il politologo francese
Pierre Rosanvallon – La legittimità democratica. Imparzialità, riflessività, prossimità
(Rosenberg&Sellier, euro 22) e Controdemocrazia, (Castelvecchi, euro 22).
La religione tecno-capitalista è un saggio rappresentativo di un percorso di ricerca critico sul
capitalismo contemporaneo maturata soprattutto nell’ambito del cattolicesimo sociale e democratico
o della sinistra postmarxista segnata dalla convinzione che oltre l’apocalisse culturale si sia
consumata anche un’apocalisse sociale. Tutto del passato si è dissolto nell’aria e la scena è occupata
in maniera «totalitaria» il termine che più ricorre nel volume – dalla tecnostruttura, che
disumanizza le relazioni sociali. Ma a differenza, ad esempio, delle riflessioni, del sociologo Mauro
Magatti, secondo il quale la crisi del 2008 è la crisi del tecno-nichilismo che apre la strada a inedite
possibilità di crescita mutualistica e solidale, come ha argomentato nei saggi pubblicata da
Feltrinelli (Una nuova prosperità, La grande contrazione, Libertà immaginaria), Lelio De Michelis
non nutre molta speranza nel mutuo soccorso o nel «fare società».
Biopotere dei Big data
È infatti scettico verso quella sorta di teologia del sociale che caratterizza buona parte
dell’associazionismo cattolico, e non solo. Il suo semmai è un invito alla defezione, alla sottrazione,
all’exit. La sua critica al capitalismo tocca marginalmente i nuovi meccanismi di sfruttamento e la
capacità del capitalismo di trasformare affetti, linguaggio e conoscenza in mezzi di produzione. Non
ignora certo la precarietà, ma considera un’illusione la possibilità che l’eterogeneità del lavoro vivo
(dove convivono knowledge workers e chain workers) operante in una rete produttiva assuma
tonalità conflittuali e di fuoriuscita dal regime di accumulazione capitalista.
Significativo di tale linea di ricerca è proprio la sua analisi della Rete, dove non c’è la sua messa a
fuoco del web come esemplificazione del capitalismo. Internet è appunto tecnostruttura, mentre i
Big Data vengono relegati alla dimensione biopolitica (controllo dei corpi e delle menti),
ridimensionando così il fatto che sono l’esemplificazione della trasformazione della comunicazione
sans phrase in un settore produttivo . Sia ben chiaro: molte pagine sono condivisibili e alcuni
percorsi di ricerca sono sicuramente da percorrere. Il sentiero si biforca però sul «che fare» e sul
«con chi fare». Cioè su domande essenziali del Politico. Ed è qui che il discorso può riaprirsi alla
trasformazione e al superamento del regime del lavoro salariato a partire dalla critica radicale dei
rapporti sociali di produzione. E dunque su come organizzare tanto la defezione. O meglio l’esodo, in
quanto rivoluzione, dal capitalismo.
© 2017 IL NUOVO MANIFESTO SOCIETÀ COOP. EDITRICE