POLITECNICO DI MILANO DOTTORATO DI RICERCA IN CONSERVAZIONE DEI BENI ARCHITETTONICI - XIII CICLO - L’immagine del restauro Percezione gusto e operatività tra unità e frammento Coordinatore: Prof. ssa Tatiana Kirova Tutor: Prof. Amedeo Bellini Candidata: Dott. ssa Lucina Napoleone INDICE PREMESSA 1. pag. 3 IL TEMA DELL’UNITA’ 1.1 REVIVALS E ARCHITETTURA ECLETTICA: LA PERDITA DEL GUSTO PER LA PUREZZA STILISTICA 1.1.1 I temi dell’unità e della mimesi 1.1.2 La ricerca dello Stile 1.1.3 Garnier, la generazione di metà secolo e la rottura dell’unità 1.2 TEMPO E VERITA’ ALLA FINE DEL XIX SECOLO 1.2.1 La riflessione sulla Storia 1.2.2 Il modificarsi del tempo alla fine del XIX secolo 1.2.3 Verità-Autenticità 2. pag. 13 pag. 15 pag. 24 pag. 30 pag. 43 pag. 48 pag. 52 IL RESTAURO TRA UNITA’ E FRAMMENTAZIONE 2.1 LA REINTEGRAZIONE DELLE LACUNE: ABBANDONO DELLA PUREZZA STILISTICA E MANTENIMENTO DELL’UNITÀ RELATIVA 2.1.1. La reintegrazione nel restauro: unità e completezza. pag. 60 2.1.2 Gli interventi: scelte di gusto o problemi tecnici? pag. 72 2.2 LA LACUNA NON REINTEGRATA: IL FRAMMENTO COME RICCHEZZA E IL GUSTO PER LA COMPLESSITÀ 2.2.1 La “conservazione” tra storia e accettazione dell’immagine frammentata 2.2.2 La fortuna del frammento tra romanticismo e post-modernismo 2.3 ALCUNE RIFLESSIONI SULLA SITUAZIONE ATTUALE 2.3.1 Il restauro kitsch e il restauro puzzle Testi consultati pag. 88 pag. 102 pag. 111 pag. 121 pag. 132 PREMESSA «...Perché un'opera notevole dell'ingegno riesca a produrre lì per lì un effetto ampio e profondo, deve esistere un'affinità segreta, o persino una concordanza, tra il destino personale del suo autore e quello comune della generazione contemporanea. Gli uomini non lo sanno perché attribuiscono fama a un'opera d'arte. Ben lontani dalla competenza credono di scoprirvi cento virtù, per giustificare tanto interesse; ma la ragione vera del loro plauso è una cosa imponderabile, è simpatia.» Thomas Mann L’attuale approccio dei restauratori e dei teorici del restauro all’architettura del passato fa volentieri uso di un tipo di linguaggio in cui compaiono parole come traccia e segno. Su quest’uso ha senz’altro influito il successo della metodologia di analisi dell’architettura semiotico-strutturalista che, sin dagli anni 60, tanta fortuna ha avuto fra critici e storici dell’architettura e, più di recente, l’influenza delle riflessioni in dei filosofi “continentali” che si avvalgono del metodo ermeneutico (da Heidegger al pensiero debole, anche se tarda a venir recepito lo sviluppo problematico di questo approccio che negli anni novanta ha coinvolto esponenti soprattutto italiani, da Eco a Vattimo a Ferraris). Ma, cominciando dal significato dei termini, non possiamo dimenticare che traccia significa: impronta, percorso, indizio, ricordo, testimonianza, documentazione, vestigia. A ben guardare una doppia significazione: una che si rifà alla fisicità dell’impronta lasciata sul terreno e dunque, per estensione, della impronta su un manufatto, e un’altra che riveste immediatamente il termine di contenuti simbolici, rinviando al mondo culturale che si cela e guida la mano che consciamente o inconsciamente lascia dei segni. Questi hanno la caratteristica fondamentale di essere, prima di qualunque altra cosa, oggetto di percezione. Unicamente con la vista e dunque in modo sensibile possiamo fare esperienza di una traccia. Da qui, per meglio inquadrare il discorso sulla conservazione dei segni dell’architettura nasce la necessità di approfondire, o almeno di tratteggiare, il panorama delle vertenze che queste considerazioni pongono in campo. Per fare questo è necessario confrontarsi con temi complessi come quello della percezione, del gusto, accertarsi del modo in cui questi influiscono nello sviluppo della storiografia e della critica architettonica, fino a giungere al tema generalissimo e dunque fondativo di tutti gli altri: quello della conoscenza. Sarebbe necessario, per fare ciò, essere storici, filosofi, critici e psicologi, e non solo studiosi di temi che riguardano il restauro architettonico. Ma forse, cercando di identificare nodi tematici e alcuni periodi significativi della storia della disciplina - non pretendendo di tracciare teorie onnicomprensive - può essere possibile individuare spunti di riflessione che servendosi degli studi portati avanti in altri ambiti disciplinari contribuiscano a chiarire la nostra, indicando quei territori di confine in cui avvengono ibridazioni lasciando intravedere influenze di grande interesse. In questo senso il passaggio decisivo sta nell’individuazione di una serie di temi chiave che permettano una trattazione degli argomenti che non rimanga nella pericolosa generalità dei principi e che ricerchi in vicende scelte ad hoc, il senso e la conferma dell’enunciato concettuale. La prima fase di studio è stata dedicata, pertanto, alla messa a fuoco di un doppio problema: la definizione dei termini usati per enunciare il tema e la individuazione degli strumenti di ricerca da utilizzare per riempire di contenuti le ipotesi formulate nel tema stesso. La riflessione è partita dalla messa a fuoco della questione, in principio generalissima, della “influenza tra estetica e restauro” che si è immediatamente tramutata in “influenza tra gusto e restauro”. Vediamo perché. Abitualmente, si intende per estetica la filosofia dell’arte, una disciplina che restringe il suo campo di interesse ad un particolare prodotto dell’attività umana che presenta specifiche caratteristiche: l’opera d’arte. Questa concezione dell’estetica non può servire a questo tipo di ricerca, mentre il discorso cambia se si pensa all’accezione settecentesca del termine estetica: filosofia del gusto. Perché allora non parlare direttamente di gusto? Il tema si sposta in questo modo sull’influenza del gusto nel restauro, laddove si consideri gusto una facoltà, ma anche un «insieme di 4 inclinazioni estetiche che caratterizzano un periodo»1 Il gusto, in questo senso, si segnala come atteggiamento eminentemente storico che si modifica nel tempo e modifica a sua volta le manifestazioni esteriori della cultura. Passare dalla riflessione sul concetto di gusto a quella sull’immagine è naturale, ma non per questo meno complesso. Il termine immagine, infatti, può essere letto anch’esso con una doppia valenza: quella di immagine mentale - prodotto dell’immaginazione- e quella di “eidelon”, forma, aspetto, configurazione. La prima accezione richiama aspetti fondamentali della ricerca attorno all’atto gnoseologico: partendo dalla percezione, dalla ritenzione, dalla definizione di coscienza, fino ad arrivare al pensiero come riproduzione o produzione ex-novo, all’atto poietico, a quello ermeneutico. Argomenti che, volendo approfondire il problema del gusto, devono essere necessariamente affrontati. Se consideriamo infatti la percezione -atto che alcuni riconoscono già come atto estetico2- come primo atto della conoscenza che produce l’iscrizione nella coscienza di una traccia3 che servirà poi all’atto del rammemoramento e dunque alla formazione del pensiero, ecco che diventa estremamente interessante individuare i possibili intrecci tra l’atto di percezione, l’atto di rammemorazione, il prodursi di immagini mentali e la facoltà del gusto che, come scrive Bozal, è «immediato e ha pretesa di universalità nei suoi giudizi»4. Prendiamo nota per il momento di come la parola traccia sia comparsa in un contesto in cui è luogo di intreccio tra percezione, memoria, gusto. Ma se il gusto è giudizio immediato esso può arrivare ad influire sul momento in cui percepisco un ente e dunque lo iscrivo nella mia memoria. È possibile che insieme a dati empirici come grandezza, forma, peso, colore, io ritenga anche una sensazione e dunque un sentimento di piacere o dispiacere strettamente legato a quell’oggetto e che contribuisce a qualificarlo. In altre parole, oltre alla 1234- voce gusto, Grande Dizionario Garzanti della lingua italiana, Milano, Garzanti, 1987 cfr. Maurizio Ferrarsi, Estetica Razionale, Milano, Raffaello Cortina, 1997. Già Cartesio dava della memoria l’immagine di una tavoletta di cera sulla quale era incisa l’impronta della sensazione percepita. Valeriano Bozal, Il gusto, Bologna, Il Mulino, 1996, pag. 11. 5 forma quadrata, al colore rosso, alla ruvidezza e alla grandezza io iscriva nella mia memoria, immediatamente, anche “mi è piaciuto!”? Se così fosse, nel momento in cui, attraverso la rammemorazione e quella che alcuni chiamano immaginazione attiva, io prendessi l'avvio da questo tipo di immagini mentali per riflettere sulla realtà o per agire su di essa, sarei in partenza influenzato dalla qualità impressa in quelle percezioni che ho iscritto nella mia coscienza, e dunque non potrei prescinderne, esse sarebbero gli elementi che costruiscono il mio “modo di vedere” il mondo (la mia visione del mondo), e di conseguenza il mio “modo di costruire” e di trasformare il mondo stesso5. Pensiamo al restauro: pur avendo eliminato dall’orizzonte degli strumenti decisionali, agli inizi del XX secolo, il giudizio estetico, è rimasto un problema ancora più grande da affrontare: quello della reazione immediata ad un oggetto causata dal giudizio di gusto che, non essendo razionale, non è passibile di una dimostrazione che lo delegittimi. Non è possibile tralasciare questo iniziale giudizio di gusto che scaturisce dal fare parte di un momento storico, dall’essere totalmente immerso e imbevuto in un certo tipo di cultura, espressa, per dirlo con Dilthey6., dalle weltanschauungen filosofica, artistica e religiosa. Ma se così è, analizzare le manifestazioni artistiche e le idee filosofiche di un certo periodo e di una certa cultura non può che aiutare a renderci coscienti di ciò che influenza le scelte e ad individuare una sorta di tavola del “gusto del tempo” entro la quale individuare quelle forme della percezione che hanno dato vita alle immagini mentali e tra queste a quelle del restauro. O, perlomeno, deve spingerci una volta di più a ragionare sul fatto che riflettere sul restauro e sulla sua storia restando nell’ambito chiuso dei 5- 6- «La memoria è una sinfonia in quattro movimenti: acquisizione, conservazione, trasformazione ed espressione. (…) Fin dal momento in cui le sensazioni vengono registrate, la personalità di ogni singolo individuo interviene per modificarne la percezione: La conservazione delle impressioni e delle idee non solo non è né immutabile né garantita, ma viene anche modificata: L’atto di memoria va quindi dall’acquisizione personalizzata alla trasformazione, all’attualizzazione immaginaria.» Jean-Yves Tadié, Marc Tadié, Le sens de la mémoire, Paris, Gallimard, 1999 (trad. it., Il senso della memoria, Bari, Dedalo, 2000, pag. 9.) Wilhelm Dilthey, Das Wesen der Philosophie, 1907, (trad. it. a cura di Giancarlo Penati, L’essenza della filosofia, Milano, Rusconi, 1998). 6 saperi espressi dai restauratori non può bastare. Limitarci a questo significherebbe non poter guardare di là dei giudizi espressi all’interno del gruppo e non poter individuare l’origine dalla quale questi giudizi hanno preso forma, per valutare quanto essi siano stati influenzati dal pensiero e dal gusto dominante. Da qui e’ partita l’ulteriore riflessione sul problema del gusto e del rapporto esistente tra la percezione e il gusto stesso. E’, infatti, proprio a livello di percezione che possono avvenire le cose più interessanti dal nostro punto di vista. Possiamo pensare che il gusto, intrecciato profondamente alla percezione, la influenzi in qualche maniera e dunque modifichi nel tempo il modo con cui percepiamo, guardiamo, vediamo, le cose? Cerchiamo di definire il gusto. Esso è, come la percezione, immediato, è enunciato sotto forma di giudizio e non è espresso dalla ragione. È storico perché muta con il mutare delle mode, del trascorrere del tempo e si diversifica grazie ai diversi tipi di contatti che si hanno con l'esterno. Ha un ruolo fondamentale: contribuisce a costruire un modo di vedere le cose. Ma, abbiamo detto, il modo di vedere il mondo, a sua volta, modifica la percezione. Studiando il gusto non è possibile allora capire perché sono state fatte determinate scelte? A questo punto formuliamo un’ipotesi: il giudizio di gusto deriva dal gradimento (o non gradimento) immediato suscitato da una percezione. I passaggi che portano a questa ipotesi sono: la percezione di un oggetto è sempre accompagnata da un sentimento di piacere o dispiacere che fa si che al momento stesso della percezione io dia all'oggetto percepito una connotazione qualitativa, mi piace non mi piace. Il sentimento è il riflesso soggettivo che accompagna ogni nostra esperienza e che rappresenta il gradimento di una percezione, gradimento immediato e che da adito al giudizio di gusto7. 7- Interessante la definizione di Scheler che parla di sentimento come reazione del soggetto alla situazione emotiva che produce il manifestarsi di valori: prima di qualunque giustificazione metafisica, morale o religiosa il sentimento istituisce autonomamente i valori. 7 In questo modo e’ possibile affermare che il sentimento, attività primaria dello spirito umano, si inserisce temporalmente accanto all'atto di percezione che è puro e solo successivamente cadrà sotto il dominio della ragione o della volontà, attraverso la conoscenza e il giudizio di convenienza. Ma se il sentimento è il riflesso immediato che si ha di fronte ad un oggetto allora il piacere o il dispiacere rimangono per sempre legati a quell'oggetto qualificandolo. A questo punto affermare che il gusto è storico, significa unicamente che il giudizio cambia con il cambiare delle mode, con il modificarsi delle relazioni tra le persone, oppure ci si vuole riferire a modificazioni più profonde che coinvolgono i sentimenti che proviamo di fronte alle cose e perfino il livello della percezione? E allora la percezione delle cose, il sentimento che esse suscitano sono storiche come il giudizio di gusto? Facciamo un ulteriore passo: si è detto che alla percezione fa seguito la trascrizione dell'oggetto nella memoria. La facoltà che presiede a questo atto è l'immaginazione. Cosa trascrivo, cosa trattengo nella coscienza? Probabilmente una rappresentazione formale ma legata strettamente a ciò che ha pregnanza sentimentale, esattamente ciò che ha suscitato piacere. La coscienza è modificata da questa iscrizione che a sua volta influenzerà le percezioni successive (in questo senso la percezione di un oggetto e’ storica). Ciò significa, compiendo un vertiginoso salto dal mondo teoretico a quello empirico, che se il sentimento suscitato da un oggetto percepito è stato di piacere nel momento in cui dovrò io, in prima persona, produrre un oggetto dello stesso genere o decidere quale oggetto restaurare o tutelare, tenderò a partire da quell'oggetto per riprodurre quel sentimento. Ricapitolando si è passati dall'estetica, al gusto, al sentimento, alla percezione approdando in particolare al tema centrale del rapporto tra percezione e "forma" del pensiero: se la percezione è legata al gusto può dare origine a "forme" che influenzano il successivo atto percettivo. In questo caso il semplice guardare il 8 mondo è già influenzato da forme a priori che ne condizionano la ritenzione e l'apprendimento8. La seconda parte del lavoro, si è concentrata sull’individuazione dei campi in cui portare avanti una lettura, parallela alla formulazione delle ipotesi teoriche, per indagare i rapporti tra il gusto e l’atto del restaurare. Per ipotizzare l’influenza percezione/gusto/restauro è necessario individuare momenti storici in cui si è assistito ad una modificazione del gusto legato a un contemporaneo cambiamento nella percezione del mondo. Un evento di questo genere, ampiamente studiato, si è verificato nel XVII secolo nel momento in cui la natura comincia ad essere percepita come possibile deposito di bellezza, cosa in precedenza inconcepibile. Un altro esempio è il cambiamento di gusto avvenuto in Europa nel 700, con il pittoresco, e in Francia dalla fine del Settecento, momento in cui si comincia a studiare l’architettura gotica. Credo sia possibile considerare allo stesso modo, come segno di una profonda modificazione del gusto e dunque della percezione delle cose, la caduta, nella seconda metà del XIX secolo, dell'importanza dell'unità stilistica. Il tema dell’unità di stile era venuta in primo piano nel XVIII secolo con il neoclassicismo, imperversa per tutto il XIX secolo tramontando solo quando l’unità stilistica propria dei revivals si disperderà nella “babele” dell'eclettismo. Accade che, ad un certo punto del XIX secolo, la purezza e la coerenza stilistica non appare più necessaria, e questo coincide grosso modo con la più generale presa di posizione nichilista e relativista. Il bello non è più assoluto ma si trasforma in concetto variabile e contingente: esistono tante bellezze che dipendono dalle culture e dai tempi. Chiunque può produrre arte e bellezza. Proprio in questi anni, il dibattito intorno al restauro dei monumenti si arricchisce degli apporti della storiografia architettonica che allarga i confini della bellezza architettonica (si pensi alla scuola di Vienna, a Wickhoff piuttosto che a Riegl o a Dvorak, alla riscoperta del tardoantico 8- Si pensi, in questo senso ai paradigmi kuhniani che influenzano lo sviluppo delle scienze e ne condizionano i percorsi. 9 e del barocco) e si pone il problema del giudizio sugli stili contemporaneamente presenti sul monumento. Si comincia a pensare che sia possibile conservare ogni vestigia in quanto testimonianza storico-artistica, al di là dell'unità stilistica. Questa posizione è sintomo del fatto che si è prodotto un cambiamento che ha permesso che la percezione e la ritenzione nella memoria, associato ad un sentimento piacevole, non si rivolga più unicamente al semplice, al puro, all'ordinato e all'unitario, ma si apra al vario, all'eterogeneo, al capriccioso, al complicato, al ridondante, fino a giungere ad oggi (attraverso vere e proprie rivoluzioni del gusto) al rifiuto per il troppo pulito, il troppo nuovo, il troppo ordinato, il troppo semplice. Qualcosa è dunque accaduto che ha reso accettabile e anzi gradevole l'immagine del monumento non più puro stilisticamente. Probabilmente una qualche influenza dell'atteggiamento ruskiniano arriva nell’Austria di Riegl o nella Francia dei primi del Novecento (vedremo l’atteggiamento di Proust, ma soprattutto gli articoli della rivista “Pierre de France”, che si scaglia contro i restauri di Viollet-le-Duc, rei di aver intaccato l’autenticità del monumento9), ma basta questo a spiegare un fenomeno così importante? Questo lavoro si pone come un primo tentativo di indagare questo aspetto della questione mettendo a sistema il cambiamento di atteggiamento operativo nel restauro con il precedente cambiamento di gusto più generalizzato che e’ rappresentato dall’eclettismo. E' possibile, ad esempio, che i restauratori abbiano affinato il proprio gusto in conseguenza alla miriade di edifici dei più disparati stili (o che addirittura racchiudevano in se diversi stili) che dal 1850 vengono costruiti in tutto il territorio europeo. Ricordiamo che molti restauratori sono anche architetti e lo studio approfondito, all'interno delle accademie, degli stili greco, romano, bizantino ma anche rinascimentale e barocco - per non parlare degli stili orientali ed esotici - potrebbe aver modificato il gusto per i segni del passato portando ad un loro apprezzamento anche quando presenti “naturalmente” sul monumento. Il 9- Cfr. Le comble de l'impudence. Le travestissement de Notre-Dame de Paris par Viollet-le-Duc, in «Les Pierres de France», n.1, 1937. 10 restauro storico, ma soprattutto quello filologico, segnano il passaggio ad una concezione che non mette più in primo piano l'unità stilistica per evidenziare invece tutti i segni della storia, una sorta di fotografia del volto della storia, la cattura del tempo passato e la sua rappresentazione sul monumento. Ma è necessario mettere in evidenza che il poter fare a meno dell’unità stilistica, per il restauro della prima metà del XX secolo, non significa rinunciare alla completezza. La percezione e la rappresentazione dei segni della storia proposta dal restauro filologico liberatosi dal dogma dell’unità stilistica, segue in ogni modo una regola non meno rigida, quella della finitezza. Il monumento restaurato deve essere comunque finito, ogni singola storia che racconta deve essere completa. Potremmo dire che il monumento non è più chiamato ad essere testimone di un'unica epoca e di una sola bellezza, ma i diversi racconti che permette di leggere devono essere comunque completi. Questa completezza si raggiunge per mezzo della reintegrazione delle parti mancanti o lacunose. Da questa considerazione si evince che l'Ottocento ha portato alla relativizzazione del bello e dunque alla rinuncia dell'unità stilistica, ma non dell'unità tout-court. Siamo, al contrario, di fronte a un nuovo proporsi dell'unità come unità figurale del monumento: esso può presentare tutti i segni del passaggio della storia, senza discriminazioni (o meglio con discriminazioni non più di tipo stilistico ma storico), ma l’immagine finale del monumento deve essere comunque unitaria. A tale proposito basti leggere il giudizio di Alfredo Barbacci, sul restauro del monastero di S. Giorgio in Braida a Verona, pubblicata su un numero di Palladio del 1940. A proposito dell’eterogeneo gruppo di fabbricati che compongono il monumento, Barbacci scrive che il monastero “... composta la varietà delle forme e delle masse in una armoniosa unità di sentimento, ha ripreso in pieno la sua funzione d’arte in uno degli ambienti paesisticamente e architettonicamente più cospicui della città”10. Ci troviamo pertanto di fronte ad una differente interpretazione della categoria classica della varietà nell’unità. 10- Alfredo Barbacci, Il monastero ... op. cit., 11 Ma sono gli ultimi decenni del XX secolo che segneranno un mutamento più profondo, che sembra portare la novità più significativa: l’accettazione del frammento. Il lavoro dunque evidenzia una continua oscillazione tra tendenza all’unità e al frammento indipendentemente dai tempi e dai luoghi; e proprio questi i concetti sono stati assunti come guida per individuare, almeno in parte, l’influenza del gusto nelle scelte operative. 12 CAPITOLO 1 IL TEMA DELL’UNITA’ 1.1 REVIVALS E ARCHITETTURA ECLETTICA: VERSO LA PERDITA DEL GUSTO PER LA PUREZZA STILISTICA «Per dare un’idea dello stato in cui si trovava allora il mio spirito, non vi è niente di meglio a cui lo possa paragonare di uno di quegli appartamenti come se ne vedono oggi, dove si trovano confusi insieme mobili di tutti i tempi e di tutti i paesi. Il nostro secolo non ha forme. Noi non abbiamo impresso il suggello del nostro tempo né alle nostre case né ai nostri giardini, né a qualsiasi altra cosa. […] Anche gli appartamenti dei ricchi sono bazar di curiosità: l’antico, il gotico, il gusto del rinascimento, quello di Luigi XIII, tutto vi è mescolato alla rinfusa. Insomma abbiamo impronte di tutti i secoli, salvo il nostro, cosa mai vista in nessun’altra epoca: l’eclettismo è il nostro gusto; noi prendiamo tutto ciò che troviamo, questo per la sua bellezza, quello per la sua comodità, tale cosa per la sua antichità, talaltra per la sua stessa bruttezza; di modo che noi non viviamo che di rimasugli, come se la fine del mondo fosse vicina.» Alfred De Musset Se si considerano le parole dei simboli che, tramite il rimando ad un significato, individuano il senso del messaggio che con il linguaggio intendiamo inviare, ci si rende conto di quanto importante sia avere la sicurezza della precisione semantica di un termine, soprattutto quando si tratta di espressioni di cui normalmente si abusa, “banali”, che si rischia per questo di assumere senza alcuna attenzione rispetto alla loro storia e, di conseguenza, alle modificazioni di significato che hanno subito11. In questo senso, qualunque studio che usi come struttura argomentativa parole chiave come, nel nostro caso, storia, verità, autenticità, gusto, immagine cercando di definire un 11 - Per meglio chiarire questo concetto basti riferirsi all’importanza posta da Martin Heidegger nel mostrare la modificazione che subì il significato della parola ϕυσιζ, nel passaggio dal mondo greco a quello della latinità.Il filosofo ne parla in Introduzione alla Metafisica, del 1953. Se nella cultura greca con ϕυσιζ si intendeva propriamente “essere”, i latini tradussero il termine con “natura” «… e con ciò smarrirono il senso di quel linguaggio originario che vive in prossimità del senso dell’essere» cit. in Umberto Galimberti, Invito al pensiero di Martin Heidegger, Milano, Mursia, 1986, pag. 79. Questa “dimenticanza” condizionò fortemente lo sviluppo della cultura occidentale rispetto a quella greca. Non tenere conto di ciò, spiega il filosofo, produce necessariamente un travisamento di qualunque interpretazione storica che non tenga conto di questo diverso contenuto a cui fare riferimento. percorso logico-storico coerente, necessita il porre in chiaro il senso a cui noi, qui e ora, facciamo riferimento. Per molti termini che usiamo quotidianamente, infatti, esiste un insieme di significati che può variare a volte notevolmente nel giro di pochi decenni. Da questo punto di vista, allora, riflettere su un avvenimento o su un pensiero lontano nella storia comporta, la necessità della contestualizzazione, per riuscire ad usare quelle parole che sono state adoperate per descriverlo con il significato più aderente al periodo in cui sono state pronunciate. Per fare questo è necessario cercare di individuare la differenza tra la odierna modalità d’uso di un termine e quella propria del periodo di cui ci si occupa. Data questa premessa, cominciamo con un gruppo di termini che individuano categorie di pensiero che appartengono all’ambito del gusto e che ci sono parse efficaci per riconoscere alcuni atteggiamenti importanti, nel mondo del restauro, che altrimenti sarebbero rimasti sullo sfondo. In questo senso individuare nelle teorizzazioni e nelle realizzazioni del restauro l’influenza del gusto è possibile solo munendosi di una griglia interpretativa, una sorta di strumento che permetta di rintracciare atteggiamenti che acquistano senso solo alla luce di questa lettura. Solo in questo modo è possibile individuare alcuni “elementi spia” che aiutano a cogliere atteggiamenti che evidenziano un attaccamento a categorie di tipo “formale”. Questo, anche in un periodo in cui erano già accettate altre categorie che facevano riferimento alla relatività del giudizio storico ed estetico. I termini che compongono questa griglia sono unità, bellezza, varietà, simmetria, proporzione e lo stesso termine gusto. Ad essi riaccompagnano altri termini come storia, stile, verità e autenticità. La prima di queste parole chiave, che attraversa tutta la storia dell’architettura e, di conseguenza del restauro, è unità che viene solitamente opposta alla frammentazione vista come pericoloso elemento di degradazione del monumento12. 12 - «Il restauro di reintegrazione compiuto nel chiostro della Cattedrale di Bayonne, in Francia, 14 Parlare di unità e di frammentazione necessita incontrovertibilmente di quel lavoro di contestualizzazione di cui si è detto. In effetti l’unità nel restauro dell’ottocento, non è stessa cosa rispetto al concetto di unità che si afferma nel XX secolo. Ne è esempio il fatto che, nel periodo di tempo che va dai primi del Novecento13 al secondo dopoguerra, in diverse occasioni ritroviamo questo termine ma con significati leggermente differenti fino a che, anche linguisticamente, si consuma la trasformazione da unità stilistica in unità architettonica. Proprio quest’ultima locuzione é indicata dalla “Carta di Atene” come fine da raggiungere nella reintegrazione del monumento. Capire la differenza tra queste due espressioni permette dunque di capire che non si tratta del medesimo concetto di unità che viene messo in gioco. Vedremo come si arriverà a questo cambiamento nei prossimi paragrafi. 1.1.1 I temi dell’Unità e della Mimesi Per riflettere sui termini Unità e Mimesi è necessario collegarli ad un terzo termine, quello di Stile che dai primi due dipende. E’ necessario inoltre tornare indietro nel tempo fino agli inizi del XIX secolo quando la questione della ricerca dello Stile esplode e dunque caratterizza semanticamente il termine. La ricerca di un nuovo Stile, per la progettazione del nuovo, è infatti uno dei temi ricorrenti nei testi dei teorici dell’architettura del XIX secolo. Possiamo anzi affermare che tutto il riflettere sull’architettura, dal 1750 al Movimento Moderno, si gioca su questo tema come è possibile verificare dando una scorsa ai più importanti testi di storia dell’architettura moderna. valse a salvare il monumento da un progressivo deperimento, e ad affrancarlo dallo squallore che gli imponeva l’eccessiva sua frammentarietà…», cit. in Carlo Perogalli, La progettazione del restauro monumentale, Milano, Tamburini, 1955, pag. 65. 13 - Alois Riegl, Der moderne Denkmalkultus, sein wesen und seine entstehung, Wien und Leipzig, in Verlage von W. Braunmüller, 1903 (trad.it., Il culto moderno dei monumenti. Il suo carattere e i suoi inizi, in «Chiesa, città campagna», Bologna, Alfa, 1981) 15 Chiarire cosa s’intenda per Stile, unità e mimesi, a maggior ragione, è presupposto necessario per condurre una riflessione su quel periodo della storia dell’architettura denominato Eclettismo. Si tratta, infatti, di un momento in cui proprio partendo dalla necessità di risolvere l’annoso problema della mancanza di uno Stile per il proprio tempo, adotterà delle soluzioni che paleseranno una profonda rottura rispetto al classicismo Beaux-Arts degli anni ’30 dell’Ottocento riscontrabile, in particolare, nell’allontanamento dai precetti dell’unità stilistica e della mimesi. Proprio in relazione a questi due concetti è possibile riflettere inoltre sulla differenza tra Revivals – come il Neoclassico o il Neogotico – ed Eclettismo14 e, ai fini della nostra ricerca, indagare intorno all’esistenza di una caduta della tensione verso l’unità a favore di una libertà compositiva che legittimerà ogni stile storico. Infatti tale legittimazione non proverrà più unicamente dalle regole di un classicismo improntato ad un forte razionalismo, ma unicamente dalla sua storicità che non si palesa unicamente in una forma ma nel complesso delle regole compositive e nel rapporto con i volumi e gli spazi. Ma gli stili storici, pur studiati con passione, non vengono più riproposti filologicamente e archeologicamente ma sono sempre punto di partenza per creare 14- differenza già chiara nel XIX secolo, se nel 1899 leggiamo:« (…) se per eclettismo, nel campo architettonico, intendessimo solo la facoltà di usare da parte dei costruttori, contemporaneamente, o successivamente, vari stili, fra gli eclettici noi dovremmo porre, a mò di esempio, il Canina, che usò forme egizie, greche e romane, il Valadier, che fu palladiano, ma s’adattò anche a forme neoclassiche e intese, nel restauro del Duomo di Orvieto, i valori dell’arte gotica, lo Jappelli, puro neoclassico nel Pedrocchi, lodoliano nella villa del parco di Soanara, neogotico e imitatore dello stile moresco in altre sue costruzioni; […] Ma negli architetti che abbiamo ora nominato, […] dominava sempre una mentalità storicistica. Cioè mentre attraverso le aspirazioni alla libertà d’espressione già affermata dal Wackenroder – per cui l’arte era esaltata quale libera attività spirituale dell’individuo, perché non esiste un unico tipo di bellezza – e le teorie estetiche dei postkantiani – che chiariscono sempre meglio il concetto di originalità e libertà dell’arte – quegli architetti agivano individualmente legati ad un determinato stile storico, gli eclettici della seconda metà del secolo sono pronti ad esprimersi usando un vario numero di stili a seconda delle circostanze o delle funzioni dell’edificio è destinato, e quel che è peggio, a sommare elementi caratterizzatori degli stili diversi in una stessa costruzione.» Alfredo Melani, Manuale di Architettura italiana antica e moderna, capitolo Architettura del secolo XIX. Neoclassico ed eclettismo, Milano, Hoepli, 1899, pp. 568-604. 16 ciò che Charles Garnier chiama «style actuel», uno stile cioè prodotto da una società e da una cultura necessariamente differente da quelle che hanno prodotto gli stili storici. E questa differenza si deve palesare anche nella decorazione: lo stile Napoleone III, allora, può presentare nel suo apparato decorativo numerosi frammenti dei precedenti stili Luigi (XIV, XV, XVI, …), alcuni elementi rinascimentali ed altri barocchi, ricomposti però in una unità, differente da quella classica, data non più dall’uso dell’ordine ma unicamente dalla capacità compositiva del singolo artista. Questa capacità non è più regolata da leggi universali naturali ma va rintracciata all’interno di una visione del fenomeno architettonico come prodotto culturale dunque storico, relativo e variabile. Cominceremo dunque con il trattare dei concetti di unità, mimesi e stile nel periodo che precede la metà dell’Ottocento, per poi indagare il fenomeno che più ci interessa, quello della rottura, della crisi del classicismo, spia della più complessa crisi di una visione del mondo fortemente unitaria che il Settecento, e parte dell’Ottocento propugnano fortemente. «Quello di purezza stilistica era un concetto affatto nuovo. (…) Durante il Barocco non si era contrari a collocare altari, baldacchini e statue nelle chiese gotiche. Il nuovo purismo non consentiva tali commistioni. Laugier fece una pregnante asserzione affermando, a proposito delle aggiunte decorative a Notre-Dame de Paris, che “le siystème d’architecture a été dénaturé”»15 Questo brano di Kaufmann pone l’accento proprio sul tema della purezza, dunque dell’unità stilistica, che, come abbiamo accennato, è legato profondamente al concetto di Stile in voga tra la fine del Settecento e nella prima metà dell’Ottocento. Il tema della purezza stilistica non può essere trattata separatamente dal tema più generale della ricerca dell’unità. Infatti questa visione è legata alla convinzione 15- Emil Kaufmann, Three Revolutionary Architects, Boullée, Ledoux, and Lequeu, Philadenphia, The American Philosophical Society, 1952 (trad. it., Tre architetti rivoluzionari. Boullée Ledoux Lequeu, Milano, Franco Angeli, 1976, pag. 120). 17 profondamente illuminista della possibilità che la ragione possa dare una risposta unica ad ogni quesito posto, ma è possibile ritrovarla ancora prima in tutta la cultura metafisica occidentale che si fonda proprio su questa ricerca senza sosta di principi primi. Da sempre, infatti, si è concepito il mondo come formato da due realtà, quella dell’arte e quella della scienza, ma non sempre queste due realtà sono state pensate come campi di indagine separati, retti da leggi diverse, da indagare in modo differente. Il principio dell’unità del sapere ha, in effetti, costruito per secoli visioni complessive del mondo, tendendo a racchiudere il reale all’interno di una logica totalizzante che individuasse un’unica legge alla base sia del sentimento sia della ragione. La tendenza all’unificazione dei saperi è risultato di un sistema che si occupa con la medesima disinvoltura sia i prodotti della cultura umanistica sia quelli della riflessione sulla scienza. Non esiste dunque separazione netta, come oggi conosciamo e pratichiamo, tra arte e scienza, tra scienza e filosofia, tra filosofia e religione; tutte le discipline si richiamano a principi metafisici unici e possono essere descritte come rami appartenenti ad un unico tronco che presenta differenti diramazioni. Le enciclopedie seicentesche tendevano alla costruzione di sistemi cristallizzati onnicomprensivi, finalizzati all’appropriazione, al possesso della totalità del mondo alla «ricerca della mathesis universalis come scienza generale dell’ordine e della misura e quella di una clavis universalis considerata quale strumento in grado di cogliere l’essenza e la trama ideale della realtà»12, il metodo empirico, e dunque l’analisi contrapposta alla sintesi, tende a raggiungere una conoscenza della realtà attraverso l’indagine in mancanza di aprioristiche posizioni di partenza. Un sistema di conoscenza descritto dagli arbor scientiarum, prodotti per tutto il XVII e XVIII secolo16, vere e proprie organizzazioni logiche del sapere in cui le differenti 12- Walter Tega, Arbor Scientiarum. Enciclopedie e sistemi in Francia da Diderot a Comte,Bologna, Il Mulino, 1984 pag. 5. 16- Ad esempio quello di Alsted del 1630, Cfr. Walter Tega, Arbor Scientiarum. Enciclopedia e sistemi in Francia da Diderot a Comte, Il Mulino, Bologna, 1984, pag. 18 e segg. 18 discipline venivano ordinate per importanza mettendone in luce le dipendenze e i rapporti. Essi avevano lo scopo di porre ordine nel reale e fungere da guida alla conoscenza del mondo per i loro ideatori, ma per noi rappresentano la chiara esemplificazione di come, in questa visione fortemente unitaria, vi fosse una dipendenza forte della scienza o dell’arte dalla metafisica. Era a quest’ultima, infatti, demandato il compito di proporre orizzonti conoscitivi entro i quali muoversi dati dal suo domandare e dal suo affermare filosoficamente. All’arte o alla scienza è riservato l’atto poietico e l’atto conoscitivo e descrittivo delle leggi naturali, sempre però rimanendo all’interno di quell’orizzonte di senso dato dalla metafisica. La scienza compirà un vero e proprio balzo in avanti verso la totale autonomia solo con il distacco dalla metafisica che la porterà a definire autonomamente i campi di indagine e i limiti da porsi, dandosi non più regole di comportamento generali di tipo metafisico bensì etico. Questo deciso distacco avverrà a metà del XIX secolo, con Auguste Comte che lavorerà per eliminare qualunque scoria metafisica dalla sua filosofia positiva. Ma otterrà un risultato che andrà oltre le sue aspettative. Difatti pur continuando ad affermare la necessità di una unità del sapere, proprio il suo metodo contribuirà a provocare la cesura che si consumerà a fine secolo tra Naturwissenschaft e Geisteswissenschaft. Egli, infatti, propugnando un unico metodo nell’approccio alle due regioni dello spirito (che noi, oggi, intendiamo separate) e stigmatizzando la metafisica finisce per pretendere di far ricadere tutto il reale all’interno di una lettura scientifica, che diventerà alla fine scientista. Questo causerà la dura reazione di coloro i quali, lontani dalla cultura positiva francese, sentiranno come prioritario il mantenimento di un metodo metafisico-ermeneutico per le scienze dello spirito, metodo che si esplicherà nello Storicismo tedesco di fine secolo. Infatti tutta la storia della storiografia europea del XIX secolo è cronaca di conflitti tra due differenti visioni. L’una vede la storia come: «… la scienza delle società 19 umane. Essa cerca da quale forza queste sono governate, cioè quale forza ha mantenuta la coesione e l’unità di ognuna di quelle società. (…) Essa studia gli organi di cui le società hanno vissuto, cioè a dire il loro diritto, la loro economia pubblica, le loro abitudini spirituali e materiali, tutte le loro concezioni dell’esistenza. Ogni società fu un essere vivente; lo storico deve descriverne la vita.»17. Dunque una visione positivista che si occupa di fatti storici come fossero fatti naturali da studiare secondo il metodo scientifico. L’altra visione, quella cosiddetta della “prospettiva gnoseologica”, vede la realtà come il sistema dei fatti ma fatti dati nella coscienza e dunque nell’esperienza interna. La storia, e più in generale le scienze dello spirito, studia questi fatti con un metodo che si pone come oggetto «individuali unità viventi reciprocamente legare in senso sociale, ed innanzitutto le singole persone, delle quali sono manifestazioni i moti espressivi, le parole, le azioni. Il compito delle scienze dello spirito è di farle rivivere e comprenderle a fondo col pensiero.»18 Dunque una contrapposizione evidente tra la descrizione finalizzata alla spiegazione del metodo scientifico e la comprensione della gnoseologia. Tornando al XVIII secolo, il postulato di unità, assieme a quello di semplicità, e continuità dei fenomeni è uno dei capisaldi anche della cultura espressa dall’Encyclopédie. Condillac nel suo Origine delle conoscenze umane, del 1746, cerca il “principio unico” a cui fosse possibile ricondurre tutti i fatti psichici. D’altronde anche l’istituzione dell’École Polytéchnique pur introducendo il «principio della specializzazione e l’applicazione delle capacità dei ricercatori a settori di indagine distinti [… manteneva la] preoccupazione sistematica e unitaria [che si] spostava verso i dipartimenti del sapere»19 17- N. D. Fustel de Coulanges, L’Alleu et le domaine rural pendant l’époque mérovingienne, Paris, 1889, pag. IV. 18- Wilhelm Dilthey, Das Wesen, ... op. cit., (cit. tratta da W. Dilthey, L’essenza della filosofia, Milano, Rusconi, 1999, pag. 55.) 19- Walter Tega, Arbor Scientiarum … op. cit., pag. 64-65. 20 Si pensi inoltre alla caparbietà con cui la Francia, in quest’epoca cercò di mettere ordine nelle unità di misura al fine di rendere unitario un mondo in cui esistevano ancora once, pinte, caraffe, pollici e tese e come, proprio durante gli anni della rivoluzione si arrivò alla determinazione del metro come misura lineare di riferimento. Non è possibile pensare che tutto ciò abbia un significato unicamente strumentale: è segno di una civiltà che sente la forte necessità di mettere ordine, classificare, nominare, dunque normare la cultura (così come avvenne con la creazione delle Académie Royales prima e con l’École des Beaux Arts dopo). L’unità del sapere d’altronde è molto forte anche nel campo dell’estetica, disciplina figlia del XVIII secolo. Uno dei testi fondativi della materia, pubblicato nel 1746 da Charles Batteaux, porta come titolo Le Belle arti ricondotte ad unico principio. Il principio unificante è la mimesi, l’imitazione della belle nature, che diviene il punto di partenza e di arrivo per ogni successiva riflessione. La riflessione sulla neonata disciplina va dunque verso la definizione di un principio unico, universale, in accordo con i più generali precetti metafisici, che dia alla “filosofia della sensibilità”, da una lato la forza di proporsi come autonoma rispetto all’etica e, dall’altro, lo strumento operativo per esprimere il giudizio. Scrive Batteaux: «Ci lamentiamo sempre della moltitudine delle regole: esse ostacolano nello stesso modo sia l’autore che vuol comporre, sia l’amatore che vuol giudicare. (…) Le regole si sono moltiplicate mediante le osservazioni fatte sulle opere; esse devono semplificarsi riconducendo queste stesse osservazioni a dei principi comuni. Imitiamo i veri fisici, che accumulano esperienze e poi fondano su queste un sistema che le riconduce ad un principio. (…) Tutte le regole sono rami che provengono da uno stesso tronco. Se risalissimo alla loro origine, scopriremmo un principio abbastanza semplice per essere colto con immediatezza, e abbastanza ampio per assorbire tutte le regole particolari, che è sufficiente conoscere mediante il sentimento e la cui teoria non fa 21 altro che turbare lo spirito, senza illuminarlo.»20 Il principio della mimesi soddisfa queste caratteristiche. L’Unità inoltre è principio che informa di sé anche la categoria sulla quale si fonda l’estetica normativa: quella della bellezza, definita da diversi autori come unità nella varietà21. Questa categoria tende a comprendere tutto ciò che, pur presentando caratteri di mutevolezza, movimento, eterogeneità, alla fine si subordina ai principi superiori di simmetria, proporzione, equilibrio dei pesi, elementi che conferiscono all’opera l’unità necessaria per apparire gradevole. Il principio della mimesi e la categoria di bellezza definiti nell’estetica di Batteaux definiscono a loro volta il primo sistema delle Belle Arti nel quale la vicinanza dell’opera al modello immutabile ed eterno, individuato nella belle nature22 rappresenta il fondamento del giudizio di gusto e dunque regolano l’accesso nel sistema di ogni manifestazione artistica23. 20- Charles Batteaux, Les Beaux-Arts réduits à un même principe, Paris, Durand, 1746 (trad. it. a cura di Ermanno Migliorini Le belle arti ricondotte ad unico principio, Palermo, Aesthetica, 1983, pagg. 3132.) 21- Anche J.-B. Lassus che, con Viollet-le-Duc, è il restauratore di Notre Dame di Paris, afferma, ancora nel 1845, che la bellezza consiste nella varieté dans l’unité. Cfr Jean-Baptiste Lassus, De l’art et l’archéologie, in «Annales Archéologiques», aprile 1845, pag. 203. 22- La Belle Nature è la fonte di «... tutti i piani delle opere regolari e i disegni di tutti gli ornamenti che ci possono piacere». Charles Batteaux, Les Beaux-Arts réduits à un même principe, Paris, Durand, 1746 (trad. it. a cura di Ermanno Migliorini Le belle arti ricondotte ad unico principio, Palermo, Aesthetica, 1983, pag. 38) 23- La nascita dell’estetica si colloca, per tradizione storiografica, nei primi decenni del XVIII secolo con gli studi di Du Bos, André, Hutcheson, Crousaz. Giunge a maturità con Batteaux che per primo adotta un sistema delle Belle arti. Questo primo sistema, in una prima stesura, non vede l’Architettura tra le belle arti. Mimesi, infatti, per Batteaux si rifà al concetto platonico del copiare un modello immutabile ed eterno, al quale è necessario riferirsi per non cadere nell’errore del soggettivismo: «Tutte le arti [...] non sono che delle cose immaginarie, degli enti finti, copiati e imitati secondo quelli veri. E’ per questo che arti sono poste senza cessa in opposizione alla natura; che non si ode che questo appello: che bisogna imitare la natura, che l’arte è perfetta quando la rappresenta perfettamente e, finalmente che i capolavori dell’arte sono quelli che imitano la natura così bene che li si prende per la natura stessa.» La Natura è dunque fonte ispiratrice delle arti che devono esprimerla per aspirare a raggiungere la perfezione. L’architettura pone da subito un problema di individuazione del referente: dimostrare che la Natura sia l’ente a cui essa si ispira e a cui aspira. A differenza di quanto accade alla Musica per i suoni, alla Pittura per i colori e alla Scultura per le forme, l’Architettura non può far risalire le sue colonne, i suoi archi e le sue scale direttamente dalla Natura. Questa aporia è il fattore che scatena la riflessione che, intorno a questi temi, si dispiega per tutta la seconda metà del XVIII secolo. Si cerca, in sostanza, di giustificare il riconoscimento 22 Il problema della mimesi è importante soprattutto rispetto al ruolo che gioca nella riflessione intorno alla nascita del nuovo Stile. Soprattutto. è interessante il modo con cui si passa dall’attribuzione del significato molto vicino a quello di copia ad una definizione diversa, lontana, che finirà per mettere in il sistema neoclassico. Già con Blondel, infatti, la mimesi non è più proposta come mera copia dell’oggetto naturale, ma come un adeguamento delle forme dell’opera agli scopi per cui essa è stata ideata. Dunque il principio a cui ridursi è comunque l’imitazione ma non più di una forma bensì di un processo: quello che la natura segue nel conformare i suoi prodotti. Con Quatremère de Quincy si giunge alla piena separazione teorica tra copia ed imitazione. Il copiare diviene una operazione esclusivamente formale, didattica, l’imitare è un agire secondo le leggi naturali. Quatremère dedica ai due concetti differenti voci del suo Dictionnaire24. Copiare è «ripetere» un oggetto in un altro che ne diviene l’immagine; è ammesso farlo solo perché atto propedeutico all’imitazione, in ragione del fatto che ciò che si copia - l’opera d’arte - rappresenta una sorta di natura semplificata. D’altro canto l’atto del copiare, eliminando la possibilità dell’invenzione, deve essere esercitato per il tempo strettamente indispensabile all’esplicazione della sua funzione didattica, senza farne abuso. Nella seconda voce Quatremère precisa ciò che intende con imitazione. Per farlo ciò deve ulteriormente chiarire cosa intenda con il termine Natura. Essa non è vista unicamente come “il mondo naturale”, l’insieme dei prodotti, ma, secondo un cammino di progressiva astrazione, giunge, alla fine del XVIII secolo a coincidere con l’insieme delle leggi che la regolano. La conseguenza di questa astrazione è un dell’Architettura in quanto “Bella Arte”, operazione che deve approdare necessariamente all’individuazione di un modello, ispiratore e referente, che sia altro dalla Natura ma ad essa assimilabile. Questo modello è individuato, dall’abate Laugier, nella capanna, archetipo dell’architettura: «La piccola capanna primitiva (...) costituisce il modello a partire dal quale ogni magnificenza architettonica è stata concepita». 24- A. Quatremère de Quincy, Dictionnaire historique d'architecture, comprenant dans son plan les notions historiques, descriptives, archaeologiques, biographiques, théoriques didactiques et pratiques de cet art, Paris, Librairie d'Adrien le Clère et c. ie, 1832, 2 tomes, (trad. it. Dizionario storico di architettura, a cura di V. Farinoti e G. Teyssot, Venezia, Marsilio, 1985) 23 sensibile cambiamento del problema mimetico, che elimina la necessità di doversi riferire ad un preciso oggetto, o complesso di oggetti, considerati come unica fonte e modello di bellezza ma tende a riferisi piuttosto alle leggi che ne regolano il funzionamento. Viollet-le-Duc raccoglie direttamente l’eredità di Quatremère de Quincy in fatto di mimesi. Ne esalta la funzione didattica intendendola non come ripetizione ma come approccio conoscitivo ad un’opera e mezzo di apprendimento dei principi universali da essa espressi. Il suo lavoro consiste nel rintracciare all’interno dell’architettura quei principi che si rifanno alle leggi naturali e che divengono, una volta portati alla luce, categorie di giudizio. Attraverso questo percorso egli fonda, ad esempio, la sua convinzione che il XV secolo produsse una cattiva architettura, basando il proprio giudizio sulla constatazione che, pur rifacendosi alle forme classiche romane, questo secolo rimase estraneo ai principi - il legame al territorio, ai materiali, al clima - operando perciò in modo ideologico ed astratto25. 1.1.2 La ricerca dello Stile Viollet-le-Duc nei suoi Entretien afferma che in architettura c’è lo Stile e ci sono gli stili. Questa affermazione non è innocua come si potrebbe pensare, in quanto rappresenta la spia di un pensiero molto diffuso nella prima metà dell’Ottocento e che tende a distinguere il semplicistico ricopiare le forme del passato e dunque riproporre colonne, capitelli e decorazioni, dal più nobile imitare queste stesse architetture rintracciando in esse i principi dello Stile, principi formali, strutturali, 25- «Ce qui doit surtout attirer notre attention dans l'architecture antique, qu'elle appartienne à l'Orient, aux Grecs ou aux Romain, c'est la parfaite concordance de sa composition avec les moeurs, les habitudes des populations, avec les procédés de construction». Eugène E. Violletle-Duc, Entretiens sur l'architecture, Paris, A. Morel et C. Éditeurs, rue Bonaparte 13, MDCCCLXIII (tome premier) - MDCCCLXXII (tome deuxième), tome I pag. 331. 24 compositivi, che dovrebbero andare a costruire quell’idea di unità a cui tendere per giungere al nuovo stile. Categorie come la purezza stilistica, la solidità, la verità strutturale, la rispondenza all’uso, il soddisfacimento del programma esecutivo, la coerenza costruttiva e l’economicità dei mezzi, sono assurti, da questa parte della cultura Ottocentesca, allo stesso livello delle categorie più strettamente estetiche: bellezza, proporzione e simmetria. L’insieme di queste categorie produce il giudizio circa l’appartenenza dell’oggetto di architettura al novero delle opere d’arte, che dunque non può più ignorare il rapporto con i materiali, con la razionalità della disposizione delle piante, con l’economia e la semplicità della decorazione che deve sempre e comunque essere necessaria. Viollet-le-Duc mostra chiaramente attraverso il Dictionnaire e poi gli Entretiens questo passaggio che trasforma lo Stile, prima una categoria di giudizio strettamente formale, in una categoria che implica la considerazione anche di questi aspetti peculiari dell’architettura e, in questo senso, egli si presenta come sintesi del pensiero classicista dei primi quaranta anni del XIX secolo. Vediamo allora più in dettaglio cosa intende Viollet per Stile, tenendo conto che la sua idea influenzerà fortemente quella di tutti i teorici successivi non solo francesi. Procedendo in modo cronologico nell’analisi degli scritti del francese incontriamo in primis la voce Stile all’interno del Dictionnaire26. In questo scritto egli afferma che l’artista «non riceve direttamente da una scena, da un oggetto o dalla natura una sensazione atta a trasformarsi in opera d’arte.»27. L’opera dunque nasce dall’uomo stesso, dalla sua immaginazione, e dalla facoltà di ragionare; non presenta, in questo senso, alcun referente meramente naturalistico. Solo se l’architetto è realmente artista tutte le suggestioni esterne a cui egli attinge si fondono in una concezione 26- Eugène E. Viollet-le-Duc, Eugène Viollet-le-Duc, Dictionnaire raisonnée de l’architecture française du XII au XVI siècle, Paris, Ernest Grund, 1854-1868. (trad.it. parz. a cura di M. Antonietta Crippa, L’architettura Ragionata. Estratti dal Dizionario, Milano, Jaka Book, 1981). 27- Eugène Viollet-le-Duc, Dictionnaire … op. cit., voce Stile pag. 303 25 unitaria e inedita; «se non lo è, la sua opera è solo un ammasso di prestiti di cui è facile riconoscere l’origine: essa manca di stile»28. Ciò rende lo Stile categoria estetica indispensabile per l’individuazione, nella “costruzione”, dell’opera d’arte. Nel Dictionnaire risulta però ancora confuso il carattere irrinunciabile dello Stile in questo riconoscimento. Lo Stile è ancora categoria molto, troppo, ampia che può investire di sé oggetti di vario tipo. Ma gli Entretiens, diventano il modo per Violletle-Duc di precisare il suo pensiero. Lo Stile «est un des éléments essentiels de la beauté, mais ne constitue pas la beauté à lui seul»29. La bellezza dunque è costituita da molti attributi, ai quali va aggiunto, rispetto a quelli tradizionali, quello di Stile. Esso è condizione sine qua non: nessun edificio può essere considerato bello se non lo possiede. É un passaggio importante che permette di spiegare la posizione di Viollet-le-Duc su alcune questioni fondamentali: il suo rapporto con il classico, la rivalutazione dell’architettura gotica, l’atteggiamento verso il restauro. Lo Stile infatti introduce, all’interno del Bello, una sfumatura diversa da quella tradizionale, perché porta a riconoscere il carattere di bellezza in un’opera solo quando «la forma indica nettamente l’oggetto e ne fa comprendere a qual fine questo oggetto è prodotto»30. Viene dunque incluso, nella bellezza, un carattere che dipende dall’espressione dei fini dell’oggetto, e assume un carattere essenziale l’approccio funzionale rispetto a quello formale, coinvolgendo e condizionando il giudizio sulla bellezza. Questo non significa, come potrebbe apparire, un immiserimento del fronte strettamente artistico dell’architettura: per Viollet forma e struttura sono un’unica cosa. Esse non possono essere separate una dall’altra poiché l’una emanazione dell’altra.; cambiando il materiale o la struttura è necessario modificare le forme31. 28293031- Eugène Viollet-le-Duc, Dictionnaire … op. cit, voce Stile pag. 303 Eugène Viollet-le-Duc, Entretiens … op. cit., I, pag. 180. Eugène Viollet-le-Duc, Entretiens … op. cit., I, pag. 314 Questo atteggiamento ha un riscontro importante nell’opera di Cuvier, il famoso naturalista francese. Scrive Foucault: a questo proposito: «Nell’analisi dei classici, l’organo era definito, a un 26 Ma, ancora, questa consequenzialità non comporta che la forma sia subordinata alla struttura e al materiale e, per questo, sia meno “autonoma”; se la forma dell’architettura non è coerente, non si sposa con la materia formando un tutt’uno, non si ha opera d’arte. Al massimo avremo – ed è il caso dell’architettura romana un fulgido esempio di ingegneria, una costruzione che ha Stile ma questo non basta all’opera per essere opera d’arte. Il ruolo che lo Stile gioca nel giudizio dell’architetto francese, si evince chiaramente dall’insieme degli scritti in cui egli analizza l’architettura rispetto alla sua rispondenza ad un programma iniziale, alla fusione con i costumi del popolo che l’ha creata, alla scelta delle materie da usare, al modo di metterle in opera e alla deduzione logica dei particolari dall’insieme. Seguendo questo approccio Viollet giunge a formulare un giudizio positivo sull’architettura medievale che soddisfa pienamente quei requisiti. Per questo è possibile giudicarla bella e accostata a quella classica. Viollet-le-Duc in questo modo costruisce le basi per una “legittimizzazione” del gotico che diventa architettura da studiare anche per il suo essere bella arte. Ma lo Stile diventa parametro unificante che lega lo studio dell’architettura, il suo restauro e la sua progettazione. Solo con l’uso di questa guida è possibile avvertire la mancanza di gusto nel passato e nel presente. È possibile dunque lavorare, con il restauro, per correggere un passato che deve servire da esempio e da sprone per il presente e adoperare i medesimi strumenti per creare la propria nuova architettura. Lo Stile si rivela essere per Viollet – ma lo sarà tempo, in base alla sua struttura e alla sua funzione; era come un sistema a doppia entrata che poteva esser letto esaustivamente o a partire dal compito che svolgeva (ad es. la riproduzione), o a partire dalle sue variabili morfologiche (forma, grandezza, disposizione o numero). I due modi di decifrazione coincidevano con la massima esattezza, ma erano indipendenti l’uno dall’altro, dal momento che il primo enunciava l’utilizzabile, il secondo l’identificabile». Cuvier dunque elimina l’indipendenza tra forma e funzione e mette in primo piano il ruolo di quest’ultima che «assoggetta la disposizione dell’organo alla sovranità della funzione». Le citazioni sono tratte da: Michel Foucault, Les mots et les choses, Paris, Editions Gallimard, 1966 (trad. it. di Emilio Panaitescu, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, Milano, Rizzoli, 1994, pag. 286). 27 per molti teorici per tutto l’Ottocento – quel principio universale unitario al quale ricondurre le arti. Anche Semper tratta del tema dello Stile legandolo a quello dell’Unità e, in particolar modo, al concetto vitruviano di autorità. Questo termine designa «qualcosa per cui la lingua tedesca non ha il vocabolo equivalente: cioè l’emergere in una figura di certe componenti formali dalla serie delle altre, per cui tali componenti diventano come le prime voci di un coro e le rappresentanti ufficiali di un principio unificatore»32. In questa frase è possibile sentir riecheggiare il tema del bello come unità nella varietà. Semper individua tre autorità che guidano il giudizio e la creazione artistica: l’autorità simmetrico-euritmica, l’autorità di proporzione, l’autorità di direzione. Queste sono a loro volta destinate a ricomporsi in nome di un ulteriore principio unitario: l’unità di fine o di contenuto che «in base al grado di perfezione ammesso dalla natura e dall’arte, si manifesta come regolarità, come tipo, come carattere, e, alla massima potenza, si spinge fino al livello dell’espressione»33. Rimanendo all’interno di una visione che pone l’idea a fondamento dell’arte, Semper si avvicina molto allo stesso Viollet quando, andando ancora di più a ritroso nella ricerca di un principio primo estraneo alla contingenza dell’operare artistico del momento, si richiama alle leggi naturali. Egli infatti afferma che: «nell’arte come nella natura, ora con la regolarità del cristallo, ora con il predominio della simmetria, ora con un particolare sviluppo della proporzione, ora infine con una speciale accentuazione della direzionalità, l’idea si rivela nella forma in modo chiaro e significativo. In certe costruzioni si ritrova la perfezione euritmica del cristallo e di altre forme naturali assolutamente regolari: per esempio i tumuli, le piramidi egizie e monumenti consimili, sviluppati ugualmente da ogni parte e privi 32- Gottfried Semper, Der Stil in den technischen und tektonischen Kunsten oder praktische Asthetik. Ein Handbuch fur Techniker, Kunstler und Kunstfreunde, Frankfurt am Main, Verlag fur Kunst und Wissenschaft, 1860 (trad. it., Lo Stile nelle arti tecniche e tettoniche o estetica pratica. Manuale per tecnici, artisti e amatori, Roma-Bari, Laterza, 1992, pagg. 32) 33- idem 28 di una vera articolazione proporzionale o direzionale»34. È curioso che anche il teorico francese indichi il cristallo come principio unificante dal quale partire per applicare nell’arte le stesse leggi che regolano la natura. Ma se ripensiamo a quella visione unitaria del sapere, di cui si è trattato sopra, si può immaginare come fosse diffusa la conoscenza delle discipline scientifiche (d’altronde più accessibili in quanto non avevano ancora adottato il linguaggio matematico come elemento, ancora una volta, unificatore) e in particolare della geologia che faceva parte del bagaglio culturale di molti uomini che oggi conosciamo soprattutto per la loro attività artistica, basti pensare a Goethe. Viollet-le-Duc non è dunque il primo a portare alla ribalta questi temi. Già nel 1835 J. Metzger35 metteva in relazione la geometria delle cellule e dei cristalli con le forme dell’architettura gotica e l’idea di un rapporto stretto tra architettura e legge naturale era considerata, tra gli anni ’30 e ’50 del XIX secolo, una certezza scientifica. Spiegazione scientifica e giudizio estetico dunque si uniscono e l’una diviene fondamento dell’altro. In un passo della voce «Rose» del Dictionnaire egli scrive, a proposito del rosone della Sainte-Chapelle di Parigi: «En observant, par exemple, la contexture des plantes, on remarque que les réseaux que forment les feuilles, la pulpe de certains fruits, présentent un système cellulaire très résistant, si l’on tient compte de la ténuité des filaments et de la mollesse de ces organes. C’est un principe analogue qui dirige les maîtres dans les tracé des roses du XVème siècle. Ils conservent quelques rayons, et remplissent les coins laisses entre eux par une véritable arcature cellulaire, assez semblable à celle des organes végétaux»36. La logica della cristallizzazione è usata da Semper e, soprattutto, da Viollet per spiegare non solo i principi del fare architettura ma anche la storia del suo evolversi 34- idem 35- J. Metzger, Gesetze der Pflantzen und Mineralienbildung angemenet auf altdeutschen Bausyl, Stuttgart, 1835. 36- Eugène Viollet-le-Duc, Dictionnaire, vol. VIII (1866), article «Rose», pag. 62. 29 nel tempo. Inoltre, la cristallografia permette allo studioso francese di studiare le leggi che guidano il mondo inorganico, quelle stesse pietre che, lavorate dall’uomo, danno forma all’architettura. Anche in questo caso Viollet non è il primo, giacché lo stesso fecero Ledoux e Durand. 1.1.3 Garnier, la generazione di metà secolo e la rottura dell’unità In varie occasioni nella storia dell’arte si è assistito alla rottura di una visione unitaria e al sorgere di un periodo in cui esplode il conflitto, tra differenti stilemi, poetiche o addirittura tra differenti visioni del ruolo e del significato complessivo del fare arte. Uno di questi periodi è descritto con maestria da Mario Manieri Elia e ci riporta alla costruzione dell’Arco di Costantino nel IV secolo d.C. Ci troviamo di fronte ad un’opera che accosta frammenti di rilievi di diverse epoche provenienti da monumenti demoliti. «Si tratta di qualcosa di assolutamente diverso, ormai, dalla organica contaminazione di elementi eterogenei del Pantheon. È una “antologia” (Becatti, 1951), o, forse un “archivio” […] delle glorie imperiali: un richiamo sincronico - e quindi soprastorico – ancorché fatto di pezzi di storia, all’unità del mito di Roma»37 Siamo di fronte sicuramente ad una composizione eclettica, pur alla ricerca di una unità generale che però risulta essere definitivamente lontana dalla sintesi classica. Un secondo esempio, che individua nella frammentazione un momento di crisi e di presa di distanza dalla tensione all’unità, è individuabile nelle conseguenze, sul gusto dell’epoca, della fortuna dell’archeologia nel XVIII secolo. Già dal Seicento si era cominciato a formare un mercato dei reperti e delle vestigia che si alimentava di 37- Mario Manieri Elia, Architettura e mentalità dal Classico al Neoclassico, Roma-Bari, Laterza, 1989, pag. 32-33. 30 frammenti, di prodotti bizzarri ed esotici. «… la spinta verso l’assortimento e l’originalità dei prodotti tende ad allargare la ricerca a periodi e ambienti storici meno studiati»38. Il gusto si rivolse allora, alla fine del Settecento, verso l’etrusco e l’egizio. Il fenomeno è sintetizzato, per la moda degli oggetti “à la grec” da una lettera del 1763 dell’Abate Galiani: «Vedermi tutto il giorno accarezzato, festeggiato, onorato da gente che non mi chiede altra grazia se non che a qualunque prezzo e spesa far ottenere loro gli ercolani [le pitture di Ercolano N.d.R.],[…] hanno prodotto nel gusto dei francesi una incredibile crisi e rivoluzione. Dato il bando ai cartocci, fogliami e alle linee curve tanto care agli architetti, si sono di botto rivolti al gusto dell’antico con tanta precipitazione che è già passato in eccesso. Ci sono già tutti i mobili “à la greque”, tabacchiere, ventagli, oriuoli e perfino insegne di botteghe.»39 In questo senso, l’abbandono del rococò settecentesco sembra quasi più facilmente attribuibile alla moda che alle teorizzazioni dei razionalisti classici! Siamo, in ogni caso, di fronte al nascere di quell’atteggiamento chiamato Revival dai critici che si sviluppa tra la fine del XVIII e la prima metà del XIX sec. e che vede alternarsi la moda per il Neoegizio, il Neoetrusco, il Neoclassico, il Neogotico, il Rundbogenstil. Esistono allora almeno due accezioni del termine eclettismo, usato per la prima volta probabilmente da Thomas Hope nel suo Saggio storico sull’Architettura, del 1835, nel quale si lamenta della varietà degli stili in voga in Inghilterra: «Sembra che nessuno abbia ancora concepito il più piccolo desiderio o d’idea di prendere solo in prestito da ogni passato stile architettonico qualsiasi cosa si presenti di utile o di ornamentale, di scientifico o di dotato di gusto; o di aggiungere d’ora in poi qualunque altra nuova forma a disposizione che possa permettere opportunità ed eleganze finora mai raggiunte […]»40. Una si riferisce genericamente all’uso, in una 38- Mario Manieri Elia, Architettura… op. cit., pag. 155-57. 39- ibid. 40- Thomas Hope, Saggio storico sull’Architettura, 1835, cit. in Peter Collins, Changing ideals in modern architecture, London, Faber and Faber, 1965, (trad. it., I mutevoli ideali dell’architettura moderna, Milano, Il Saggiatore, 1972, pagg. 149-150). 31 stessa epoca, di stili storici, atteggiamento che non si può limitare ad un unico periodo storico. Come abbiamo visto sopra, ne abbiamo esempi nel periodo tardoantico così come dalla seconda metà del Settecento in poi. Un'altra accezione di eclettismo è invece quella proposta da Roberto Gabetti in cui «… l’aggettivo eclettico [è] usato solo a proposito di un edificio che sia fatto di più stili scelti dall’autore, a gusto suo ricomposti e accostati»41. È a questo concetto di eclettismo che ci riferiamo nelle pagine che seguono in quanto è nostro intento il riuscire ad individuare in questo atteggiamento la rottura dell’unità stilistica nella progettazione e metterla in relazione con il cambiamento che questo provoca anche nella riflessione intorno ai temi del restauro. Solitamente si fa succedere ai Revivals l’Eclettismo. I due termini non sono sinonimi, anche se fanno entrambi riferimento ad un modo di fare architettura fortemente legato ed ispirato ai modelli del passato. Ma è proprio nell’evidenziarsi delle differenze tra l’atteggiamento revivalista ed eclettico che si consuma la rottura del XIX secolo con la visione unitaria dell’architettura, rottura che andandosi ad affiancare con le altre che via via si verificheranno nella seconda metà del secolo, porterà a quella crisi di fine secolo in cui, per la prima volta in modo così profondo, si metterà in discussione l’intera episteme occidentale fondata sulla metafisica e dunque sulla ricerca di verità assolute e di risposte univoche ai dubbi dell’uomo. Proprio questo ci interessa: individuare nell’architettura i segni di questa debolezza che impedirà sempre più di pensare all’esistenza di un principio primo, di un ordine supremo, di una bellezza assoluta, di un periodo storico di splendore, in poche parole in tutto ciò che solo un secolo prima Winckelmann. Cosa è accaduto dunque in questo secolo che ha minato alla base l’intero sistema? Non vi è dubbio che la crisi è tutta interna al classicismo e, in quanto tale, ancora più devastante perché matura all’interno delle istituzioni che esso aveva creato per 41- Roberto Gabetti, Da Torino a Milano, in «La Casa», n. 6, 1958, pag. 23. 32 proteggersi e auto rigenerarsi, dunque l’Accademia e l’École des Beaux-Arts. Proprio la Francia, dopo essere stata la patria del Razionalismo classico settecentesco e del Neoclassicismo Ottocentesco, si ritrova, ancora una volta ad essere protagonista, per questo ci siamo finora occupati e ci occuperemo, in particolare, della vicenda in atto in questo paese credendo che sia emblematica e fondativa di tutto ciò che accadde negli altri, in particolare in Italia. È leggendo ciò che scrisse Camillo Boito nel 1880 che troviamo una sintesi chiara sul fenomeno dell’eclettismo: «Il gran malanno dell’arte decorativa oggi e delle arti industriali sta nella confusione, nel rimpasticciamento delle forme, le quali tolte da varii stili, non s’accomodano insieme con ingenua armonia. […] Ci affaccendiamo in un lavoro veramente da farmacisti: si manipola e si lambicca. E l’eclettismo, bisogna rendersene conto, può riescire di due specie, o un accozzamento o un decotto. È un accozzamento quando, a mo’ d’esempio, in un palazzo signorile si fa il gabinetto moresco e l’oratorio gotico, la sala da ballo rococò e la sala da pranzo svizzera; è un decotto quando si mettono a bollire insieme più stili, e di uno rimane dentro nella broda una sagoma, dell’altro una fregiatura, di questo una foglia, di quello un cartoccio, come chi parlasse con i verbi in italiano, i nomi in francese, le congiunzioni in tedesco e gli aggettivi in turco.»42 L’Eclettismo fu dunque aspramente criticato dai propri contemporanei, nonostante che alcuni suoi esponenti, primo fra tutti Garnier, avessero conquistato fortuna e fama. E si continuò a criticarlo per decenni escludendolo in sostanza da ogni indagine sullo sviluppo dell’architettura dell’Ottocento, nelle quali si passava dai Revival direttamente a Morris, all’Art Nouveau e alla Secessione viennese. Come se trent’anni almeno non fossero trascorsi o nulla avessero lasciato. Ancora oggi è difficile trovare sui testi di storia dell’architettura una rassegna esaustiva dell’Eclettismo, almeno quanto quella dedicata al periodo immediatamente 42- Camillo Boito, Ornamenti di tutti gli stili, Milano, 1880. 33 precedente, e senza dubbio è un’epoca che ancora è comunemente vista come profondamente decadente. Cerchiamo di capire perché questo accanimento. Probabilmente è dovuto ad un duplice motivo: in primis il profondo sentimento di ribellione verso l’unità classicista e il razionalismo che subordina la decorazione al materiale e alla struttura. Questa prima rottura è provoca l’ostracismo di coloro i quali mantengono come primaria la ricerca del principio unitario e universale dello Stile. Ma un secondo momento di rottura penso possa essere indicato nel momento in cui, agli inizi del XX secolo, coloro i quali erano diventati i depositari della tradizione Beaux-Arts (proprio gli eclettici) vengono contestati da artisti che si richiamano ai principi unitari e razionali del periodo dei Revivals. La storia, si sa, è scritta dai vincitori, dunque la legittimazione degli architetti moderni si gioca con la individuazione di pionieri e di regole che fanno individuare una tradizione a cui rifarsi. Questo processo di legittimazione cancella del tutto quello che già i contemporanei del XIX secolo stentavano a riconoscere: un qualche interesse verso un’architettura troppo libera e spregiudicata. Eppure proprio l’Eclettismo, con il suo aver separato la decorazione dalla struttura e la costruzione dalle proporzioni costrittive dell’ordine, apre alla possibilità che si sviluppi da una parte un’architettura legata più alla progettazione di spazi e volumi e dall’altra permette concettualmente che sia dia, portando all’estremo un ragionamento su una decorazione figlia del proprio tempo, l’annullamento della decorazione stessa, cosa che sarà invece teorizzata, di frequente, in contrapposizione all’Eclettismo. Spesso si mette in parallelo questo atteggiamento nel campo dell’architettura con quello, nel campo della filosofia, di Victor Cousin, propugnatore dell’Eclettismo filosofico. Nel testo Del vero, del bello e del bene del 1836, ma pubblicato nel 1853, Cousin spiega cosa intende per metodo eclettico. Esso consiste nel considerare lo sviluppo della filosofia dal punto di vista evoluzionista e di costruire un pensiero attraverso l’assunzione di punti di vista scelti (εχλεγο) dai metodi adottati nel 34 passato. Lo sviluppo è tutto teso a provare l’esistenza di un ideale; il criterio evoluzionista dà voce alla convinzione che ogni secolo che succede al precedente si avvicini sempre più a questo ideale. Dunque Cousin rimane in ogni caso un filosofo alla ricerca di un principio universale a-storico, pur se cerca di afferrarlo nella storia, e dunque è vicino all’ideale propugnato sia dai classicisti sia, ad esempio, da Violletle-Duc, i quali pongono alla base dei loro studi proprio l’individuazione dei principi. Per costoro, la storia era unicamente un archivio entro cui rintracciare il materializzarsi dei principi. Solo attraverso le opere era possibile studiare e analizzare il principio per poi passare al giudizio alla luce dell’idea. Nel caso, era accettabile modificare l’opera per riportarla alla verità tradita da un difetto di interpretazione dell’idea. L’uso del metodo eclettico da trasferire nell’architettura era sostenuto dal Direttore della Revue Générale de l’Architecture come mezzo per riuscire a superare il conflitto tra gli stili. «L’eclettismo, egli scrisse in un articolo poi tradotto in inglese (…), potrebbe non creare una nuova arte, ma essere almeno un elemento di transizione tra il revivalismo e l’architettura del futuro. Finora, gli artisti creativi si sono limitati a progetti eterogenei, perché i loro sforzi non erano animati da alcun principio. Ciò è avvenuto perché facevano parte di una società che non aveva essa stessa alcun principio di valore universale. Sia gli architetti che la società in generale sono andati verso il futuro appesantiti da una confusa massa di elementi presi a prestito da tutte le società antecedenti. La confusione che sarebbe risultata da un amalgama eclettico di tutti gli “stili” era essa stessa viziata; ma era una delle condizioni necessarie al progresso dell’architettura.»43 In ogni nuovo progetto sarebbe stato corretto combinare elementi moderni con frammenti antichi «… onde esercitare un’azione salutare, che sarebbe diventata ogni giorno più evidente. Per 43- Peter Collins, Changing ideals in modern architecture, London, Faber and Faber, 1965, (trad. it., I mutevoli ideali dell’architettura moderna, Milano, Il Saggiatore, 1972, pagg. 147-152). 35 quanto la risultante confusione delle forme non sarebbe stata buona in se stessa (nel senso che ogni determinato edificio sarebbe stato in qualche modo difettoso), avrebbe invece avuto vantaggi dal punto di vista della ricerca, della sperimentazione e del progresso.»44 Diverso appare dunque l’atteggiamento, rispetto la storia, degli architetti della generazione di metà secolo. Essi, infatti, usavano lo strumento dell’archeologia come avevano imparato all’École, ma lo facevano in modo critico rispetto la selezione a priori operata dai classicisti: «Certes, l’archéologie est une science utile, et tout architecte doit étudier et tous les ages et tous les styles; il n’y a pas d’exclusion dans ses études, il ne doit pas y avoir d’exclusion dans l’admiration. Chaque architecture a son caractère, chaque époque a ses beautés; la cathédrale gothique vaut les monuments grecs; tout ce qui est vrai, tout ce qui est beau doit parler a l’âme; et, si l’éclectisme doit être repoussé complètement lorsqu’il s’agit de produire, il faut être éclectique pour admirer»45 Dunque l’idea di storia, viene rivista completamente da Garnier mettendo in evidenza, in primo luogo, che le forme architettoniche si evolvono storicamente, che il progresso dell’architettura necessita lo studio archeologico eclettico del passato e infine, che l’architetto può essere definito come uno storico che scrive la storia direttamente nei suoi edifici. In questo modo egli legittima ogni architettura che sia mai stata fatta, in quanto «Un monument, quel qu’il soit, ne doit jamais être considéré comme l’expression d’une évolution artistique passagère; il doit, au contraire, se présenter à nous comme une manifestation permanente du temps dans lequel il a été élevé; c’est une page d’histoire qui doit se classer à sa place, et qu’il ne doit être permis à personne de supprimer ou falsifier.»46 44- idem 45- Charles Garnier, A travers les arts. Causeries et mélanges, Paris, 1869, cit. in Christopher Curtis Mead, Charles Garnier’s Paris Opera. Architectural Empathy and the Renaissance of French Classicism, Cambridge, The MIT Press, 1991, pag. 206. 46- Charles Garnier, La reconstruction des monuments de Paris, in «Le Temps», 7 sept. 1871, cit in Christopher Curtis Mead, Charles Garnier’s Paris Opera. Architectural Empathy and the Renaissance of French Classicism, Cambridge, The MIT Press, 1991, pag. 207. 36 Siamo nel 1871, mentre Viollet-le-Duc restaura Pierrefond, Carcassonne e St. Sernin a Tolosa, Victor Baltard procede al restauro delle chiese di St. Eustache e St. Etienne du Mont di Parigi, chiese del XVI secolo, dichiarando in questo modo un interesse verso un periodo di transizione dell’architettura francese considerato di decadenza. Mead nel suo esauriente libro su Garnier afferma che l’architetto francese dava un’interpretazione della storia che stava tra quella Neoclassica e quella Romantica: «La sua accettazione dell’idea romantica della storia lo allontana dal credo Neoclassico di un’architettura generata dall’imitazione di un ideale naturale e di un ordine immutabile. Ma di contro la sua opposizione al razionalismo strutturale lo riporta su posizioni neoclassiche quando afferma che l’architettura dipende dalla realizzazione di forme ideali, piuttosto che dallo sviluppo progressivo delle strutture.»47 Garnier punta allo smantellamento di una sorta di unità di secondo grado: i Neoclassici, come abbiamo visto, oltre a concepire un principio primo unitario affermano l’importanza di sottoprincipi come la mimesi ed il bello come “unità nella varietà”, Garnier mantenendo il principio primo consistente nel raggiungimento di un ideale, non accetta quelli secondari, più legati, da una parte al giudizio sulle opere del passato e dall’altra alla normativa progettuale. Garnier è Prix de Rome nel 1848 pertanto qualunque sua riflessione è maturata a partire dagli insegnamenti e dai principi impartitigli dall’Accademia. Ciò significa che negli anni quaranta – quando seguì i corsi all’Ècole – era già percepibile una crisi del modello neoclassico che egli assimilò ed esasperò fino alla vincita, vent’anni dopo, del concorso per l’Opera, con un’architettura assolutamente lontana dagli schemi 47- Christopher Curtis Mead, Charles Garnier’s Paris Opera …, op. cit., pag. 208. «Garnier’s interpretation of architecture falls between the Neoclassical and Romantic positions. His acceptance of the Romantic idea of history precluded the Neoclassical belief that architecture originated in an imitation of nature’s ideal and unchanging order. Yet his rejection of Romanticism’s structural rationalism returned him to the Neoclassical premise that the art of architecture depended upon the realization of ideal forms, rather than upon the progressive science of structures.» 37 della tradizione accademica. La rottura dunque non è certo attribuibile al solo Garnier, pur se è possibile dire che egli sia stato l’elemento catalizzatore delle differenti sollecitazioni che provenivano da varie direzioni. Vediamo di chiarire questo passaggio. Il periodo purista dell’Accademia toccò il suo culmine sotto il segretariato di Quatremère de Quincy, tra il 1816 e il 1839. Egli, infatti, fu fautore di un’architettura di stile strettamente greco-romana48 legata allo studio archeologico. Ma per Quatremère archeologia significa soprattutto studio filologico dei documenti. L’oggetto, nella sua materialità, è meno importante, è visto unicamente come manifestazione dell’idea e solo questa è il fine da raggiungere attraverso l’imitazione. L’archeologia serve all’architetto per entrare in contatto con l’idea (o, come si esprimerebbe Viollet-le-Duc, con i principi) così come si è manifestata nell’edificio costruito. Ma l’idea e il principio sono in ogni modo raggiungibili solo razionalmente e non discendono da alcuna analisi empirica; sono dati a priori. Proprio per questo motivo sono in grado di esprimere un giudizio sull’opera storica. Questo atteggiamento è messo in discussione in due modi dalla generazione successiva: dal punto di vista del metodo e dal punto di vista della scelta stilistica. La purezza stilistica fu messa da parte, immediatamente dopo la sua morte, dal suo successore a Segretario perpetuo all’Accademia, Raoul-Rochette, che propugnava lo stile rinascimentale. A questo avevano guardato, già con grande interesse, architetti precedenti come Percier e Fontaine, e Charlies Pierre Normand. D’altronde la famosa polemica tra Classicisti e Goticisti, era, in effetti, a tre e coinvolgeva anche gli Eclettici rinascimentali49 anzi proprio contro questi ultimi erano indirizzate le 48- «Notre architecture est celle des anciens Grecs et Romans, en un mot, l’architecture antique», Antoine-Chrysostome Quatremère de Quincy, voce Moderne in Dictionnaire historique de l’architecture …, op. cit., II. 49- «Quoi! Le gothique serait notre art national! Et nous devrions répudier toutes les conquêtes qui ont été faites depuis! Quoi! Telles seraient les bornes imposées au génie français, et depuis le quinzième siècle notre art aurait perdu toute originalité, tout caractère! Nous ne pouvons le croire; l’art en général et l’architecture particulièrement, sont soumis à l’impulsion des idées qui dominent à l’époque de leur production.» Leon Vaudoyer, Etudes d’architecture, in «Le Magasin pittoresque», XII, 1844, pag. 262. 38 critiche più feroci dai primi due, coalizzati. In effetti, ciò che più spaventava, era proprio l’abbandono della difesa del principio di unità: «… to translate the veiled terms used by Lassus and Viollet-le-Duc, these Gothicists were less opposed to the Neoclassiciss, who looked upon the Renaissance as the revival of Greek principles of art, than they were to the Romantics, who looked upon the Renaissance, especially in its French form, as an essential lesson in historical evolution.»50. Ma si andrà oltre l’allargamento degli studi, prima al Rinascimento e poi a tutti gli stili in modo indistinto. Ciò che provocherà la vera e propria rottura, e che farà indignare Boito nel modo che abbiamo visto sopra, sarà l’abbandono dell’ordine classico nella sua funzione di elemento unificante e di norma. Si arriverà in altre parole ad usare gli ordini semplicemente come decorazione e a ignorare la suddivisione tradizionale tra dorico, ionico e corinzio per giungere ad una progettazione libera che usi, sì, la colonna o la trabeazione, ma le decori con due o più stili insieme e vi aggiunga altri elementi assolutamente inediti. Questo passaggio deriva dall’opposizione forte della generazione di Garnier rispetto alla regola razionalista del principio di verità strutturale che affermava la necessità di far corrispondere anche visivamente la composizione degli esterni con le strutture interne, l’uso dei materiali alla progettazione delle strutture, e infine la decorazione ai materiali e alle strutture. Un’esigenza di palesare un rapporto stretto tra struttura, materiale, decorazione che non lasciava spazio alla creazione libera a certi materiali come lo stucco, in una parola, l’immaginazione di barocca memoria, contro la quale si erano scagliati i primi razionalisti classici alla metà del Settecento. Garnier compie questo passo verso la emancipazione della decorazione dal materiale criticando il principio primo di Quatremère, la capanna vitruviana, riconosciuta dai tempi di Laugier come archetipo naturale per l’architettura. Da questa scelta discendeva, infatti, la necessità della chiarezza di lettura tra aspetto e struttura, come accade nella capanna, ma 50- Christopher Curtis Mead, Charles Garnier’s Paris Opera …, op. cit., pag. 224. 39 anche in tutto ciò che è guidato dalle leggi naturali (anche Viollet-le-Duc dunque ragiona nel medesimo modo). Garnier sostituisce alla capanna il richiamo ad un archetipo sentimentale, umano: il rapporto con lo spazio, con i volumi Questo rapporto diventa per il francese la vera materia di studio per individuare la legge che regola l’idea prima. Questo provoca inevitabilmente la caduta dell’ordine classico visto «as the realization of architecture’s general character in precise stylistic forms. Where Quatremère de Quincy archetype defined the form of architecture, Garnier’s archetype shaped only the relationships of space within an indeterminate form.»51 Già Felix Duban nel suo progetto per l’Ècole des Beaux-Arts del 1832-40 era andato oltre la visione che concepiva in modo unitario costruzione e decorazione. Lo aveva palesato tramite l’uso non ortodosso di lesene, palesemente non portanti, che fungevano da decorazione di una struttura composta di archi a tutto sesto. Il culmine tuttavia giunse con il Vestibule d’Harlay, al Palazzo di Giustizia di Parigi di Louis Duc, del 1852-68. In questo edificio infatti il ruolo della struttura è assolutamente sganciato da quello della decorazione. Abbiamo, anzi, una sovrapposizione di questi due piani in cui si legge chiaramente che lo scheletro strutturale è formato da archi ribassati e pilastri, mentre le semicolonne che danno vita all’apparato decorativo della facciata portano unicamente le parti aggettanti della trabeazione. Allo stesso modo nel progettare l’Opéra, Garnier usa l’ordine come decorazione applicata alla costruzione vera e propria, trasformando la «prosaic structure into a poetic and figurative language, which orders the facade into a stylistic form»52. Scrive Mead, che l’esperienza di Duc fu per Garnier doppiamente rilevante: in primo luogo, considerando l’ordine come insieme di forme 51- «Questo archetipo umano, imbeve la progettazione Beaux-Arts con significati universali e contemporaneamente risponde alle esigenze di realtà storica del Romanticismo. Esso inoltre spazza via il concetto di ordine classico in quanto realizzazione attraverso precise forme stilistiche del carattere generale. Dove l’archetipo di Quatremère de Quincy definisce una forma, l’archetipo di Garnier da forma unicamente a relazioni spaziali senza una forma determinata» in Christopher Curtis Mead, Charles Garnier’s Paris Opera …, op. cit., pag. 222. 52- Christopher Curtis Mead, Charles Garnier’s Paris Opera …, op. cit., pag. 232. 40 immaginarie (fictive forms), è salvata la subordinazione neoclassica tra vero e verosimile; ma non rinnegando l’uso dell’ordine stesso, è negata sia l’unità tra decorazione e struttura, sia l’idea di un’origine degli ordini dall’imitazione di un ideale naturale53. L’ultimo passaggio in questa rottura dell’unità neoclassica è dato dall’interpretazione che l’architetto francese fornisce dell’uso degli ordini nel suo progetto per l’Opéra. A suo dire: «On appelle ordre l’ensemble de dispositions particulières et caractéristiques, découlant de règles et de donnés fondamentales, et servant à la décoration des édifice.» Garnier è insoddisfatto del modo in cui nei secoli gli ordini sono stati classificati, non gli basta l’individuazione dei tradizionali cinque ordini e, infatti, ne riconosce almeno otto (tre greci e cinque romani). A suo parere si tratta comunque di un linguaggio limitato che soprattutto non può dare, da solo, carattere ad un’architettura: «Que se soit un palais, un musée ou un théâtre, si l’on emploie dans ces divers édifices des colonnes, des arcades, des entablements, des chapiteaux ou des panneaux, le caractère particulier des éléments de décoration ne change guère, et le chapiteau corinthien, je suppose, d’une salle de bal, s’il se compose seulement de feuillages, ne sera guère plus typique que le chapiteau corinthien d’une salle du trône.»54 È necessario invece che proprio la decorazione, vista come l’elemento “artistico”, immaginativo dell’architettura, sia il veicolo attraverso cui dare carattere e dare vita ad uno stile attuale liberamente composto. 53- «The orders used by Duc e Garnier are at once historically resonant and compositionally specific to their building: while the Vestibule d’Harlay might refer to the Egyptian temple of Hathor at Denderah and the Greek temples at Agrigentum, and the Opéra might refer to the Louvre and the Garde Meuble, their respective colonnades cannot be detached from the structure they express. They are products of their building, rather than being interchangeable of selfsufficient forms, and they participate in a composition that equates the Opéra order with its facade sculpture as much as the Vestibule d’Harlay’s order is equivalent to its row of figural reliefs.» Christopher Curtis Mead, Charles Garnier’s Paris Opera …, op. cit., pag. 232. 54- Charles Garnier, Des ordres de l’architecture, in «Musée des Sciences», I, 1857, pagg. 78-79, cit. in Christopher Curtis Mead, Charles Garnier’s Paris Opera …, op. cit., pag. 235. 41 Di conseguenza, proprio nel disegnare i capitelli dell’Opéra Garnier rompe con qualunque norma classica. Credendo che l’architettura sia comunque una manifestazione contingente al periodo in cui viene creata, Garnier avalla la possibilità di uno sviluppo evolutivo dell’architettura stessa. Pensa dunque che «stylistic heterogeneity could be overcome and homogeneity achieved only if form were freed from imitation and allowed to act as its own self-determining principle»55 Assistiamo allora alla nascita di quello che Garnier stesso chiamerà Stile Napoleone III, in cui la decorazione, sia essa strettamente architettonica, scultorea o pittorica, gioca un ruolo essenziale che si stacca da quella classica proprio nel liberarla dalle strette norme stilistiche e proporzionali. Il progetto non è determinato a priori dalle proporzioni, ma esse derivano dalla logica seguita nella disposizione degli spazi e dei volumi. La decorazione, dunque, trae sviluppo da questi elementi e si evolve autonomamente. È allora possibile fondere insieme in un unico capitello l’ordine ionico e quello composito e aggiungere a questi altri elementi decorativi che lo rendono totalmente inedito. 55- Christopher Curtis Mead, Charles Garnier’s Paris Opera …, op. cit., pag. 237. 42 1.2 SPAZIO E TEMPO ALLA FINE DEL XIX SECOLO «Man muss das All zersplittern. Bisogna mandare il tutto in frantumi» Friedrich Nietzsche 1.2.1 La riflessione sulla Storia La riflessione storica tocca da vicino il restauro dal momento in cui i temi, che abbiamo finora trattato, sono assunti dal dibattito di fine ottocento che assume una visione della storia che non è più “ricerca storica”, intesa come cronologia degli eventi riguardanti l’oggetto, ma riflessione intorno al tema della storicizzazione. Essa è atto critico che, di fronte ad un fatto o ad un oggetto, cerca di spiegarlo calandolo nel contesto in cui è nato o si è verificato, spostandolo in questo modo in un campo semantico diverso da quello della contemporaneità. Gli oggetti appartenenti a questo passato concluso assumono caratteristiche che quelli del nostro presente non hanno: divengono intoccabili, inalienabili, irriproducibili. I concetti di valore storico e di storicizzazione seppur presenti in alcuni aspetti già nella cultura rinascimentale, e ne è testimonianza la sensibilità verso la cura dei monumenti antichi di alcune norme emanate già nel XVI secolo, vedono il loro sviluppo solo nel XVIII secolo e la loro piena affermazione nell’Ottocento. Ma solo nel momento in cui la storia si afferma in quanto storia dell’uomo e delle sue manifestazioni, appare in tutta la sua urgenza la necessità di «storicizzare tutto, di scrivere a proposito di ogni cosa una storia generale.»56. Ma facciamo un passo indietro. Nell’articolo “Idée” del Dizionario filosofico, Voltaire scrive che l’idea è un’immagine che ci si rappresenta nel cervello e che è il 56- Michel Foucault, Les mots et les choses, Paris, Editions Gallimard, 1996 (trad. it. di Emilio Panaitescu, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, Milano, Rizzoli, 1994 pag. 396). 43 risultato di «tutti gli oggetti che ho percepito»57. Negli Essai sur les mœurs et l’esprit des nations58 afferma esser chiaro che «tutta una matematica dirige la natura e causa ogni nascondimento»59 e che Dio, che ha creato il mondo, può essere visto come «eterno geometra»60. Questa frase, che mette in evidenza la razionalità della natura e dunque dell’essere umano, ci permette di focalizzare l’elemento che, attraverso Voltaire, porta al cambiamento della storiografia Settecentesca. Esso è racchiuso nella consapevolezza della capacità riproduttiva del pensiero. La conoscenza non proviene dal mondo sensibile, la verità risiede nella ragione. Se risaliamo a Isaac Newton, troviamo un elemento ancor più incisivo per la nostra storia: l’universalizzazione del reale che permette di rintracciare leggi tramite le quali dominare una Natura fino a quel momento regno dell’inconoscibile. Questa affermazione produce la presa di coscienza, da parte dell’uomo del Settecento, della possibilità di indagare, comprendere e riprodurre le leggi su cui si basa il mondo. Di più, il mondo stesso diventa gestibile dal pensiero umano non essendo più necessario fare affidamento su dogmi religiosi o su spiegazioni che affondano le loro radici nel mito. Questa consapevolezza libera l’uomo dal peso dell’inconoscibile e diviene un’arma che permette di porre in atto meccanismi di ordinamento del mondo che ne permetteranno il dominio. Questo cambiamento nel porsi di fronte al reale è una delle idee “direttrici” che W. Dilthey, nel suo studio sulla storiografia del XVIII secolo, individua come caratterizzanti della nuova epoca: «l’autonomia della ragione, il dominio dello spirito umano sulla terra mediante la conoscenza, la solidarietà delle nazioni pure in mezzo ai loro conflitti di potenza e la fiducia in un continuo progredire derivante dalla validità universale delle verità scientifiche, che consente di 57- Voltaire, La raison par alphabet, s.l., 1769 (trad. it. a cura di M. Bonfantin, Dizionario filosofico, voce Idea, Torino, Einaudi, 1950 pag. 244) 58- edito nel 1769. 59- F. Meinecke, Die Entstehung des Historismus, Munchen, 1936, (trad. it., Le origini dello storicismo, Sansoni, Firenze, 1954, pag. 58). 60- ibid. 44 fondarle l’una sull’altra»61. Dilthey giudica di eccezionale importanza il fatto che si sia compresa la efficacia di un percorso che «dalla conoscenza delle leggi naturali si estende fino al dominio della realtà mediante la potenza del pensiero, e da qui alle idee supreme che determinano tutti noi»62. La ragione si rende autonoma e questo significa che tende a separarsi dalla religione e dal mito, al fine di «formarsi un concetto generale dei popoli che avevano abitata e devastata la terra, imparare a conoscere lo spirito, gli usi e i costumi delle più grandi nazioni, fondandosi su quei fatti che si dovevano necessariamente conoscere.»63 Molto diverso dunque da quel modello di racconto storico ben rappresentato dal Bossuet che scrive nel 1681 una storia universale il cui primo capitolo è titolato Adamo, ovvero la creazione64 per poi risalire a Noè, Abramo, Mosé e su, su, fino a Carlo Magno, in un esempio di storia universale che appare essere un racconto in cui totale è la sovrapposizione tra la storia documentaria e la storia biblica, dunque tra storia mito e racconto religioso. E’ storia, dunque, che non è finalizzata ad alcuna dimostrazione ma alla semplice legittimazione di uno status che si attua mediante la descrizione genealogica, tramite il risalire all’indietro in modo tale da far derivare la legittimità direttamente al “collaudo” del tempo. Anche in architettura era forte l’idea che la propria legittimità dipendesse direttamente dal tempo passato e in questo senso Chateaubriand, nella sua opera Genio del Cristianesimo, esalta la cattedrale gotica, messa a confronto con i templi moderni: «Dio è la legge eterna; la sua origine e tutto ciò che si riferisce al suo culto deve perdersi nella notte dei 61- Wilhelm Dilthey, Das achtzehnte Jahrhundert und die geschichtliche Welt, in Deutsche Rundschaun, ag.- sett. 1901 (trad. it., Il secolo XVIII e il mondo storico, s.l., Edizioni Comunità, 1967, pag. 46 ). 62- ibid. 63- F. Meinecke, Le origini …, op. cit., pag. 55. 64- Jacopo Benigno Bossuet, Discorso sopra la storia universale. Per dilucidare la Continuazione della Religione e le Mutazioni degl’Imperj, dal principio del Mondo fino all’imperio di Carlo Magno, Stamperia Baglioni, Venezia, MDCCXCVI, pag. 9. 45 tempi»65. Dunque la cattedrale non trae legittimità dal suo essere “casa di Dio”, ma dal suo risalire ad un tempo remoto e dunque direttamente a Dio. È con Voltaire che fare storia diviene altro ma soprattutto la cultura del XIX secolo esprimerà la necessità che il suo studio serva a rintracciare nel passato la propria giustificazione, il proprio fondamento e non più la semplice legittimazione ad esistere. La storia è diventata, in questo modo, processo, concatenamento di fatti, che nel suo svolgersi giustifica, questa volta, l’odierno status. Dunque se la storia come legittimazione era mera constatazione, la storia come giustificazione è dimostrazione di una sorta di ipotesi di partenza. In questo modo essa assume aspetto fondativo perché tramite il concetto di processo rintraccia, per qualunque ipotesi espressa e che può essere racchiusa nel tempo presente o nel futuro, una origine e prefigura un possibile divenire. Una visione teleologica della storia che è tesa a dimostrare il raggiungimento di un determinato stato che si esplicita «nell’indipendenza della ricerca scientifica, nella tolleranza, nell’illuminismo religioso, nell’arte stilisticamente compiuta e nella nuova libertà dell’uomo di dispiegare la sua personalità»66. Tra i tanti studiosi che definiscono l’Ottocento come secolo della Storia, troviamo anche Riegl, che ne parla come del «secolo storico perché in un grado più alto di prima (...) trovò il suo piacere nel rintracciare ed esaminare accuratamente i fatti particolari, cioè i singoli atti umani nella loro nitida formazione originaria»67 e, aggiungiamo, a fondare sul loro esempio l’azione presente e futura. Gli uomini del XIX secolo ritengono indispensabile rivolgere lo sguardo al passato per riuscire a comprendere il presente e Nietzsche, che proprio per questo li chiama «uomini 65- René de Chateaubriand, Genie du christianisme, (trad. it. Genio del cristianesimo, Torino, UTET, 1941, trad. it. parziale Il Genio del Cristianesimo, Padova, Messaggero, 1982, pag. 162). 66- Wilhelm Dilthey, Das achtzehnte jahrhundert und die geschichte Welt, in “Deutsche Rundschau”, agosto-settembre 1901. (trad. it., Il secolo XVIII e il mondo storico, Roma, Edizioni di Comunità, 1967, pag. 55). 67- Alois Riegl, Der Moderne, ... op. cit., (trad. it. a cura di Sandro Scarrocchia, Alois Riegl: teoria e prassi della conservazione dei monumenti, Accademia Albertina, Bologna, Clueb, 1995, pag. 181). 46 storici»68, giudica questo atteggiamento il più delle volte fine a se stesso arrivando ad una visione di condanna della storia che finisce per arrecare danno alla vita. Per il filosofo tedesco, la storia così concepita «ha solo la possibilità di conservare la vita e non di generarla»69. Questa sorta di ipertrofia del valore storico finisce per far considerare veneranda ogni cosa solo per il fatto di essere antica e passata, rifiutando tutto ciò che è «nuovo o in divenire»70. Alla fine del XIX secolo questo grande sviluppo del valore storico, associato al relativizzarsi della bellezza estetica, finisce per influenzare fortemente il giudizio sull’architettura che si arricchisce, anche al di fuori della sfera di influenza del “pittoresco”, di categorie che contemplano il tempo e i suoi segni. Dunque il gusto per i segni della storia, segni che hanno una forma che influisce sull’immagine complessiva del monumento. Mentre fino ad un certo punto della storia questi segni provocavano unicamente una percezione che rimandava all’idea di degrado, di oblio, da un certo momento in poi divengono rimandi ad una nuova idea di bellezza. Questo significa che il giudizio ha inglobato in sé il tempo e ha sviluppato la «convinzione (…) dell’insostituibilità anche del più piccolo fatto nel processo di sviluppo...»71 e, nel medesimo tempo, un “gusto per i segni della storia” che, contrariamente a quanto accadrà con l’estetica neo-idealista, permetterà, in prospettiva, la comprensione della complessità dell’architettura frammentaria e “autentica”. Questo nuovo atteggiamento, mette in campo argomenti importanti: il tema della verità, dell’autenticità, della 68- Friedrich W. Nietzsche, Unzeitgemâsse Betrachtungen, Zweiterstûk. Vom Nutzen und Nachteil der Historie fûr dal Leben, 1874 (trad,. it. di Ferruccio Masini, Sull’utilità e il danno della storia per la vita. Considerazioni inattuali, II, Newton Compton editori, Roma, 1978, 1988, pag. 42). 69 - Friedrich Nietzsche, Betrachtungen, Zweiterstuck, Vom Nutzen und Nachteil der Historie für das Leben, 1874, (trad. it. Considerazioni Inattuali II. Sull’utilità e il danno della storia per la vita, Roma, Newton Compton, 1978, pag. 53). 70- Friedrich W. Nietzsche, Sull’utilità e il danno …, op. cit., pag. 52. 71- Alois Riegl, Der Moderne, ... op. cit., (trad. it. in Sandro Scarrocchia, Alois Riegl: teoria e prassi della conservazione dei monumenti, Accademia Albertina, Bologna, Clueb, 1995, pag. 181). 47 “intoccabilità” dell’oggetto storico e non ultimo quello del gusto. Il valore storico si sostituisce alla tradizione artistica classica che legittimava tramite la regola, l’ordine. Esso lo fa puntando l’attenzione sul passaggio del tempo che diviene la manifestazione di una storia concepita finalmente come processo e concatenazione di eventi. Tutto ciò ha una duplice ricaduta: da un lato l’assunzione di importanza di ogni singolo evento e di ogni singola traccia, dall’altro l’esplosione, la nietzschiana paralizzante inondazione di fatti storici che suscita angoscia e spinge paradossalmente al relativismo e alla sospensione chi si rende conto dello sterminato passato che c’è dietro alle proprie spalle. 1.2.2 Il modificarsi del tempo alla fine del XIX secolo Dunque lo Stile si frantuma, la Storia si frantuma, moltiplicando all’infinito i suoi oggetti, ma anche il tempo non è da meno. «Il problema del tempo occupa una posizione particolare nella riflessione teorica dell’uomo»72. Così si legge in un interessante saggio sulla visione del tempo nell’ambito delle scienze che continua affermando che: «Nei diversi modi di affrontarlo si esprime infatti la diversità delle culture e delle epoche storiche. E si esprime anche la diversità dei saperi che in contesti diversi hanno considerato se stessi in rapporto alla episteme piuttosto che al mito, alla favola o all’opinione. Si può dire che ognuno di essi ha posto a fondamento delle proprie teorie e delle proprie pratiche scientifiche una qualche elaborazione di quello che molti hanno definito il “mistero del tempo”»73. Uno dei momenti della storia della cultura in cui balza in primo piano, in modo cosciente, il problema del tempo e della sua influenza sulla vita è il periodo tra la fine del XIX secolo e la prima guerra mondiale. È, questo, un 72- Antonio di Meo, Circulus Aeterni motus. Tempo ciclico e tempo lineare nella filosofia chimica della natura, Torino, Einaudi, 1996, pag. VII. 73- ibid. 48 momento in cui l’accelerazione del tempo sociale impressa da alcune scoperte come il telefono, la radiotelegrafia, i raggi X, il cinema, la bicicletta, l’automobile e l’aeroplano, dal diffondersi dei viaggi in treno e dalla diffusione dei quotidiani, finisce con l’influire anche sul tempo individuale, personale, dunque sulla percezione che ognuno ha del trascorrere, della durata. I primi effetti di queste modificazioni naturalmente sono di tipo pratico ma, ad osservarli oggi, è possibile rendersi conto di quanto possano avere influito anche sulla introiezione del concetto di tempo nella vita delle persone. Pensiamo solo al fatto che fino al 1888 non esisteva nel mondo un’ora ufficiale. Essa non era necessaria in un mondo in cui gli spostamenti erano talmente lenti che, per la quasi totalità, una collettività basava la propria esistenza sul rispecchiamento di se stessa nel locale, nello spazio più prossimo. Stephen Kern, nel libro Il tempo e lo spazio. La percezione del mondo tra Otto e Novecento, afferma che solo con lo svilupparsi dei traffici ferroviari si sente sempre più la necessità di trovare una soluzione al problema dell’ora ufficiale. Infatti in ogni città, anche se molto vicine tra loro, vigeva un’ora personale ed era possibile, negli Stati Uniti del 1870, dover avere a che fare con circa 80 differenti ore ferroviarie. Solo nel 1888 si decise di prendere come comune riferimento il meridiano di Greenwich e non prima del 1913 si iniziò calcolare l’ora in un punto preciso del globo - l’osservatorio di Parigi - e trasmetterla in tutto il mondo via radio dall’antenna della Tour Eiffel. Solo nel XX secolo, pertanto, comincia a diffondersi l’idea che il tempo sia qualcosa di gestibile, di ordinabile e, soprattutto, di uguale per tutti. Ma questa che può apparire come una rivincita dell’unità dell’ora ufficiale sulla frammentazione delle ore locali, in realtà provoca un terremoto che dal cosiddetto tempo sociale si trasmette al tempo individuale. Nella stessa epoca, infatti, si avvia una riflessione sul modo, da parte del singolo, di accostarsi al tempo e soprattutto alla velocità, al trascorrere e alla durata. E’ un’appassionata ricerca che impressiona per la quantità 49 e la qualità delle elaborazioni prodotte. Ecco allora, in letteratura, tutta una serie di romanzi che pongono al centro del loro interesse il trascorrere del tempo e la crisi che questo induce nei personaggi: Il ritratto di Dorian Gray, di Wilde del 1890, L’agente segreto di Conrad del 1907, La recherche di Proust del 1923-22, Il processo di F. Kafka del 1914-15, l’Ulisse di Joyce del 1922. Ma tutto il mondo artistico, negli stessi anni, è scosso dal Futurismo e soprattutto dal Cubismo che hanno come punto centrale delle proprie riflessioni il rapporto con il tempo e segnano l’irrompere del trascorrere in un’arte relegata fino ad allora alla staticità della tela, della superficie bidimensionale. E non dimentichiamo l’importanza, nella psicanalisi, della ricostruzione del passato e del ricordo rimosso e, uno per tutti, dell’Uno, nessuno e centomila di Pirandello. «In un’annotazione di diario del 1922, Kafka commentava sulla discordanza disperante tra tempo pubblico e personale: “… l’impossibilità di dormire, impossibilità di vegliare, impossibilità di sopportare la vita o più esattamente la successione nella vita. Gli orologi non vanno d’accordo, quello interiore corre a precipizio in un modo diabolico e demoniaco, in ogni caso disumano, mentre quello esterno segue faticosamente il solito ritmo”»74. Ancora Kern annota che questa riflessione sul passato si incentrò su quattro temi essenziali: «l’età della terra, l’influenza del passato sul presente, il valore di questa influenza e il modo più efficace di ritrovare un passato che è stato dimenticato»75. Proprio gli ultimi tre punti ci interessano in modo particolare, soprattutto perché la “scoperta del tempo”, accostato agli oggetti del passato, in particolar modo a quelli architettonici, fanno comprendere il successo degli scritti di Ruskin anche fuori dall’Inghilterra e coniugato con il tema della verità porta direttamente all’altro tema principe del XX 74- Stephen Kern, The Culture of Time and Space 1880-1918, Cambridge, Harvard University Press, 1983 (trad. it., Il tempo e lo spazio. La percezione del mondo tra Ottocento e Novecento, Bologna, Il Mulino, 1988, pag. 24). 75- Stephen Kern, Il tempo e lo spazio … op. cit., pag. 54. 50 secolo, quello dell’autenticità. E’ un momento in cui il passato è sentito come fondamento del presente non solo tra gli addetti ai lavori. La conservazione dell’architettura esce dagli atelier degli artisti e dei cultori e diventa tema di emergenza nazionale. Non più solo passaggio necessario per concepire di un nuovo Stile, ma elaborazione fine a se stessa, legata alla vita culturale globale dell’uomo. A tale proposito è emblematica la posizione di due intellettuali dell’epoca: Proust e Simmel, la prima desumibile da alcuni passi della Recherche, la seconda dal saggio Die Ruine. «La descrizione di un’antica chiesa di Marcel Proust e il saggio sociologico di Simmel su La Rovina rivelano la sensibilità della alta cultura per la funzione dell’architettura nel preservare il passato in forma solida»76 Proust descrive la chiesa del paese come l’incarnazione nella pietra della fede: egli guarda gli angoli del suo antico portico e vede che sono levigati e scavati «come se la tenue carezza dei cappotti delle contadine che entravano in chiesa e delle loro dita timide che prendevano l’acqua santa, ripetuto per secoli, avesse potuto acquistare una forza distruttiva, inflettere la pietra e intaccarla di solchi, simili ai solchi che vien formando la ruota dei carretti sui paracarri urtandovi ogni giorno»77. La chiesa di Combray evoca lontani e preziosi ricordi dell’infanzia e rende palpabile la storia: «… un edificio che occupava, se così si può dire, uno spazio di quattro dimensioni – la quarta era quella del tempo – che spiegava attraverso i secoli la sua nave, che, di galleria in galleria, di cappella in cappella, pareva oltrepassare e superare non pochi metri soltanto, ma epoche successive, donde usciva vittoriosa.» 78. Simmel nella rovina vede il materializzarsi della vita stessa. La rovina «… crea la forma presente di una vita passata, non in base ai suoi contenuti e ai suoi resti, 76- ibid. 77- Marcel Proust, Du côté de chez Swann, 1913 (trad. it., La strada di Swann, Torino, Einaudi, 1991, vol. I, pag. 64). 78- Marcel Proust, La strada di Swann … op. cit., pag. 67. 51 bensì in base al suo passato in quanto tale»79. Simmel aggiunge una annotazione preziosa per quel che riguarda la necessità di conservazione che nasce dal rapporto tempo oggetto architettonico. Egli infatti evidenzia quanto sia affatto ingenuo pensare che di fronte alle antichità «una imitazione assolutamente precisa possa giungerebbe ad eguagliarle nel valore estetico.» 80 A queste riflessioni, d’altronde, potrebbero aggiungersi, quelle di Freud del 1915 in Caducità e di Hugo Von Hofmannsthal in Le statue, del 1917, come fa Marco Biraghi in un suo saggio su Ananke81. 1.2.3 Verità - autenticità Si legge, nei testi di storia dell’estetica, che esiste un momento importante e fecondo nella storia dell’estetica: il momento in cui la verità migra fino all’interno dell’opera d’arte. Questo avviene agli inizi del XIX secolo. Nel Settecento le prime estetiche sistematiche si erano poste come compito primario l’emancipazione della sensibilità, vista come capacità umana disgiunta da altre e dunque bisognosa di una propria filosofia, dall’etica e dalla logica. Ma solo con Schelling il punto di vista si sposta dalle sensazioni umane all’oggetto artistico, trasformando dunque l’estetica in filosofia dell’arte, una disciplina che si occupa delle opere e del giudizio su di esse. Schelling in questo modo, pochi anni dopo la Critica del Giudizio di Kant, stravolge le basi settecentesche della disciplina ponendosi come compito di fare dell’opera d’arte l’oggetto dell’estetica e distinguere questa dalla semplice teoria dell’arte tipica dei trattatisti e che discende dalla prima. Peter Szondi afferma che «Schelling distingue la filosofia dell’arte che egli stesso si propone di sviluppare, sia dall’estetica 79 - Georg Simmel, Die Ruine, in Philosophische Kultur. Gesammelte Essais, Leipzig, 1911, (trad. it. in «Ananke», n. 1, 1993, pag. 34). 80 - ibid. 81- Marco Biraghi, Alle radici della conservazione: Simmel, Freud, Von Hofmannsthal, in «Ananke», n. 1, 1993, pag. 25-30. 52 dell’effetto, che cerca di spiegare il bello con una psicologia empirica, sia dalle poetiche precettistiche che - come egli scrive - sono “in un certo senso dei ricettari o dei libri di cucina, dove la ricetta per la tragedia suona così: molto spavento, ma non troppo; tanta compassione quanta è possibile, e lacrime innumerevoli”»82 In poche parole ciò che Schelling fa è portare la riflessione sulla verità all’interno di quella sull’opera d’arte. Se nel Settecento il bello era indagato per ricercarne le forme e le caratteristiche normative come la simmetria, l’armonia, la semplicità, la varietà, ecc. andando al contempo alla sua ricerca nei più differenti campi del fare e del pensare umano, nell’Ottocento la bellezza diviene una categoria astratta e razionale pertanto, come afferma Pigafetta, «diviene la forma di più piena evidenza e automanifestazione del vero»83. Ma questo significa che, se la verità è nel Bello e il bello è nell’Arte, il Vero è entrato negli oggetti artistici che sono la messa in opera del Bello. La verità è dunque entrata nelle cose, è custodita da esse. L’Arte è produttrice di principi e norme ma è, essa stessa, metro per il giudizio del bello. Dunque la verità non è più solamente un concetto metafisico, e dunque astratto, ma si incarna nelle cose ed è possibile giudicarne gli effetti. Una conseguenza importantissima di ciò si evidenzia nello sviluppo dell’atteggiamento conservativo nel restauro. Se davvero l’opera custodisce la verità, è possibile continuare ad accettarne la perdita quando questa comporta anche, e soprattutto, la scomparsa della materializzazione del Bello e dunque della Verità stessa? Vediamo che solo da questo momento è possibile iniziare a pensare al restauro come disciplina che ha trovato il proprio oggetto scientifico. Il primo ad evidenziarlo in tutta la sua novità è Viollet-le-Duc. 82- Peter Szondi, Hegels Lehre von der Dichtung Schellings Gattungspoetik, in Poetik und Geschichtsphilosophie I e II, Frankfurt sur Main, Suhrkamp, 1974 (trad. it., La Poetica di Hegel e Schelling, Torino, Einaudi, 1986, pag. 257). 83- Giorgio Pigafetta, La verità di Dedalo, Firenze, Alinea, 1986 pag. 19 (il corsivo è nostro). 53 Il Francese negli Entretiens afferma che «l’art est (...) la forme donnée à une pensée»84. L’arte è materializzazione di ciò che egli chiama “principi razionali”. Ma la verità che egli insegue è la verità che si esplicita nella coerenza dell’opera con questi principi ed è insita in ogni singolo edificio che soddisfi, pur in modo sempre diverso, i principi. Partendo da questa affermazione il passaggio seguente pone il problema della possibilità di individuare questo principio. Individuazione che avviene, per Viollet, attraverso un’indagine critica che ha come finalità il riconoscimento del Bello, dello Stile. Questo procedere ci conduce direttamente ad un altro punto fondamentale del pensiero sette-ottocentesco e cioè quello di verità come conformazione. Questa locuzione esprime non solo la visione del Vero propria dell’Architetto francese ma di tutta la cultura occidentale. È ad esempio, la definizione di verità che Aristotele desume dal Sofista di Platone: verità è il dire di ciò che è che è e di ciò che non è che non è. La verità è identificata come proprietà di enunciati che presentano una corrispondenza con la realtà che descrivono. Appare, in questo caso, fondamentale la dipendenza verso un referente che sta al di fuori del cerchio stretto dell’enunciato linguistico e proprio questo ci pone alla presenza di quella che è normalmente indicata come teoria corrispondentista della verità. Trasponendo questa posizione nel discorso sull’arte è possibile far risalire la verità alla necessità di una conformazione dell’opera ad un elemento esterno riconosciuto vero: un modello, un canone, la Natura, la Classicità. Questo atteggiamento porta alla riflessione sulla mimesi che abbiamo affrontato nel primo paragrafo. La crisi dell’estetica della seconda metà del XIX secolo ha come conseguenza la caduta dei modelli classici e il superamento, anche nell’arte, della verità come conformazione. A questa si sostituisce una forte spinta alla ricerca di coerenza interna a ciascuna opera che sfocia spesso nella creazione di poetiche personali, non esistendo più alcun riferimento ad un ente 84- Eugene E. Viollet-le-Duc, Entretiens …op. cit., pag. 24. 54 veritativo esterno all’arte stessa. L’artista non sente l’imperativo categorico della mimesi, un tempo unico percorso che gli assicurasse il possesso di una verità da riprodurre in modo univoco e universalmente riconoscibile nell’opera d’arte. L’opera d’arte, al contrario, diviene manifestazione di una verità propria che da essa è racchiusa e per la quale diviene custodente, referente e legittimante. Dunque l’Arte diviene autoreferente e l’opera manifestante una verità che è semplicemente l’espressione della coerenza ad una propria logica interna che non si rifà a nulla di esterno. In questo modo la verità si è frantumata, in quanto è possibile riconoscere un vero per ogni opera che prendo in considerazione; non possiedo più un concetto universale, immutabile ed indeformabile di Vero. Dunque: «Il pensiero architettonico non è un mero ritrovare e combinare, neppure un formare e costruire secondo leggi date, ma un processo che ha in se stesso la propria legge universale in quanto esso deve considerarsi come pensiero, deve consistere in uno sforzo di elaborare il proprio materiale in un sempre più puro prodotto spirituale»85. Un altro elemento ci interessa riflettendo sulla verità: ad un certo punto essa assume un forte contenuto temporale, che caratterizza il Vero come originario, come non manomesso dunque come autentico86. Fino a quando il Vero è conformarsi ad un modello, però, non assumere alcun valore il fatto che la conformazione avvenga anche diversi secoli dopo la prima ideazione dell’opera: dunque se l’analisi critica di un’opera vi individua elementi spuri, superfetazioni, anomalie, errori, esiste la possibilità di ricondurla alla verità. Il problema della temporalità è del tutto inesistente poiché la conformazione non ha carattere storico. Questa è la posizione di tutto il restauro stilistico, ma anche del restauro storico, analogico e critico. Ogni volta, 85- K. Fiedler, Aphorismen, (1887), pubblicato postumo in Konrad Fiedler Schriften über Kunst, Munchen, 1914 (trad. it. di Rossana Bossaglia, Aforismi sull’arte, Milano, Editori associati, 1994). 86- «Rispondente a verità, valido, regolare. Vero, genuino, schietto. Attribuito in modo irrefutabile a un autore, non imitato né falsificato. Dal latino tardo authenticus, che è dal greco authentikós, authéntes “signore, autore”» lemma autentico in Giacomo Devoto, Giancarlo Oli, Il Dizionario della lingua italiana, Firenze, Le Monnier, 1990. 55 dunque, che si individua un valore all’esterno dell’opera al quale far riferimento, sia esso estetico o storico. Viollet-le-Duc, ad esempio, si situa certamente in una fase in cui la verità non è strettamente legata al tempo: il suo agire sull’opera è finalizzato a completarne il messaggio e renderlo conforme al principio veritativo che secondo la sua lettura è stato falsato o che è andato perduto. L’opera gli appare certamente custode della verità, ma di una verità che non appartiene di un tempo diverso e incommensurabile al proprio. Il suo atto restaurativo che modifica l’opera è vissuto come una legittima ri-conformazione di quelle opere che egli giudica essersi allontanate dal modello. Ma alla fine del secolo, quando il relativizzarsi dei valori elimina la possibilità dell’esistenza di un principio cui conformarsi, altri elementi assumono importanza: ad esempio quello della temporalità che porta con sé quello dell’irriproducibilità. Temi che attraversano tutto il Novecento e ancora dividono. Massimo Cacciari assume la riproducibilità non come mero problema tecnico, ma in quanto problema: «… [essa è N.d.R.] qualcosa che attiene alla natura stessa della nostra memoria. E’ la nostra memoria che riproduce, ma tale riprodurre non è mai un imitare statico, è un riprodurre immaginativo, trasformante; non vi è mai una pietas, rivolta ad un oggetto dato, che possa in quanto tale trasportarlo da un luogo ad un altro»87. Riprodurre è interpretare nuovamente, stravolgere e perciò, inevitabilmente, trasformare in altro da sé il monumento riprodotto. Alla luce di questo appare chiara nella cultura ottocentesca un atteggiamento che sembra contraddittorio. Da un lato esso sente fortemente la necessità della storicizzazione, ma in seguito la nega attraverso la modificazione dell’oggetto storicizzato. Si attribuisce allora valore storico agli oggetti mentre si teorizza la loro modificazione. E la coerenza di questo atteggiamento regge fino a quando si mantengano separate storicità e verità. Queste, alla fine del XIX secolo si congiungeranno nel concetto di autenticità e da quel 87- Massimo Cacciari, La metamorfosi dell’autenticità, in «Ananke», n. 2, 1993, pag. 13. 56 momento, nel restauro, storia e verità viaggeranno di pari passo, ponendo sempre più in primo piano la necessità di non compiere, con i propri atti, falsi storici, di distinguere l’intervento odierno dall’originale e così via. L’opera è concepita sempre più come composta di tutto ciò che è stata, che è, e che diviene. E’ ciò che è grazie al tempo trascorso, alle trasformazioni accumulate, alle diverse risemantizzazioni che ha subito. Un intervento che venga ad intaccare questo divenire, ad interromperlo, a modificarlo in un certo punto, compie un’operazione arbitraria, che ne manomette l’essenza stessa e dunque la verità. Il salto concettuale attraverso il quale il tempo o meglio la durata entra in rapporto stretto con la verità e la conoscenza dell’oggetto, attraverso l’intuizione, è ben rappresentato, nella cultura francese, dal pensiero del filosofo Henri Bergson, secondo il quale non attraverso il metodo analitico, proprio delle scienze, ma unicamente tramite l’intuizione è possibile raggiungere la conoscenza degli assoluti. Tute le discipline, se condotte scientificamente e dunque tramite: «descrizione, storia e analisi lasciano, quindi, nel relativo»88. Per dimostrare ciò, Bergson fa esempi che ci sembrano particolarmente utili al ostro discorso. Porta ad esempio una città: noi possiamo fotografarla da tutti gli infiniti punti di vista ma essa non potrà mai essere restituita alla coscienza come nel momento in cui la si vive passeggiando nelle sue vie. «Nel desiderio, eternamente insoddisfatto, di abbracciare l’oggetto intorno a cui è condannata a girare, l’analisi si moltiplica senza fine i punti di vista per completare una rappresentazione sempre incompleta.»89. Il sogno di Viollet, di un’analisi così spinta da poter far rivivere l’antico artefice dell’architettura gotica è, a questo punto, assolutamente lontano. Per agire nel tempo, al contrario, è necessaria l’intuizione. Mentre il metodo analitico, infatti, opera su un “immobile” l’intuizione «si colloca sulla mobilità o, ciò 88- Henri Bergson, Introduction à la méthaphisique, in «Revue de méthaphisique et de morale», 1903, (trad. it., Introduzione alla metafisica, Bari, Laterza, 1987, pag. 44). 89- ibid. 57 che è lo stesso, nella durata»90. Dunque mentre il reale è «riconoscibile per il fatto di essere la variabilità stessa»91, l’elemento che estraiamo per poterlo analizzare è l’invariabile per eccellenza: invariabile in quanto schema, ricostruzione semplificata, veduta colta sulla realtà che scorre via. E’ in errore chi pensa che una realtà possa essere ridotta a semplici schemi e che attraverso lo studio di questi si possa nuovamente risalire alla conoscenza della complessità della realtà. Si pensi ad un artista schizza la torre di Notre-Dame: «La torre è legata inseparabilmente all’edificio che, non meno inseparabilmente è legato al suolo, alle cose che lo circondano, a Parigi tutta intera, ecc.(...) la torre è costituita, in realtà di pietre, il cui accostamento particolare è ciò che dà alla torre la forma sua propria: ma il disegnatore non si interessa delle pietre; nota soltanto la sagoma della torre. Sostituisce, dunque all’organizzazione reale ed interna della cosa, una ricostruzione esteriore e schematica...» Essendo stato a Parigi e avendola intuita originariamente interamente, egli riuscirà a ricondurvi gli schizzi collegandoli insieme. Ma non si può, partendo dagli schizzi giungere all’intuizione dell’insieme. Tutto ciò perché l’essenza di Parigi non può essere vista come costituita di parti. Al contrario, ogni singola parte che estraggo diventa elemento astratto come le lettere dell’alfabeto che non sono più parti di un poema, ma “espressioni parziali”. Solo avendo a che fare con la cosa stessa e non con la sua riduzione a parti, secondo Bergson, posso giungere alla conoscenza. Abbiamo visto, nel paragrafo precedente gli esempi di Simmel e di Proust rispetto al tema del rapporto tra l’architettura e il tempo. Ancor più pregnante rispetto a questi temi è il pensiero dello scultore Auguste Rodin che, nel 1914, pubblica lo scritto Les Cathédrales de France. Questo saggio denuncia chiaramente come il problema dell’autenticità si sia oramai diffuso nel campo del restauro dei monumenti anche in 90- ibid. 91- ibid. 58 Francia. Sostiene Rodin: «Voyez, (…) au fronton de Reims, le pignon de droit. Il n’a pas été retouché. De cet amas puissant sortent des fragments de torse, des draperies, des chefs-d’oeuvre massifs. Un simple, sans même bien comprendre, peut, s’il est sensible, connaître ici le frisson de l’enthousiasme. Ces morceaux, cassés par places comme ceux du British Museum, sont comme eaux admirables en tout. – Mais regardez l’autre pignon, qu’on a restauré, refait: il est déshonoré. Les plans n’existent plus. C’est lourd, fait de face, sans profils, sans équilibre de volumes. Pour l’église, penché en avant, c’est un poids énorme sans contrepoids. (…)»92, e ancora «Oh! Je vous supplie, au nom de nos ancêtres et dans l’intérêt de nos enfants, ne cassez et ne restaurez plus! Passants, qui êtes indifférents mais qui comprendrez et vous passionnerez peut-être un jour, ne vous privez pas vos enfants ! Songez que des générations d’artistes, des siècles d’amour et de pensée aboutissent là, s’expriment là, que ces pierres signifient toute l’âme de notre nation, que vous ne saurez rien de cette âme si vous détruisez ces pierres, qu’elle sera morte, tuée par vous, et que vous aurez du même coup dilapidé la fortune de la patrie, car les voilà les vraies pierres précieuse»93. Questa attenzione verso l’autenticità dell’architettura, che richiama alla mente gli anatemi di Hugo e di Didron contro il vandalismo dei primi del XIX secolo, è fortemente ripreso dalla rivista Les pierres de France, pubblicata negli anni ’30 e che rappresenta il culmine del rifiuto contro il restauro “alla Viollet-leDuc” e introduce, quasi come un intercalare, il termine “authenticité”. Nel primo numero è pubblicato un lungo articolo dedicato alle “manomissioni” di Viollet-leDuc, in cui leggiamo: «Quel nom donner à toutes ces choses, sinon ceux de falsification et e travestissement ? Et quant à leur auteur, comment ne pas dire qu’il est au rang des hommes les plus néfastes qui aient jamais ruiné le patrimoine le plus 92- Auguste Rodin, Les Cathédrales de France, Paris, Armand Colin, 1914, rist. parziale, Les Cathédrales de France, Reims, Editions de l’Atelier, 1996, pag. 14 . 93- Auguste Rodin, Les cathédrales …, op. cit., 17. 59 précieux de leur pays ? Cet homme-là, il eut été infiniment préférable, pour les Cathédrales de France, qu’il ne fut pas né»94. 94- Le comble de l’Impudence … op. cit., pag. 64. 60 CAPITOLO 2 IL RESTAURO TRA UNITA’ E FRAMMENTO 2.1 LA REINTEGRAZIONE DELLE LACUNE: PERDITA DELLA PUREZZA STILISTICA, MANTENIMENTO DELL’UNITÀ RELATIVA «Soglia: oh, pensa che è, per due che si amano logorare un po’ la propria soglia di casa già alquanto consunta, anche loro, dopo dei tanti di prima, e prima di quelli di dopo … leggermente.» Rainer Maria Rilke 2.1.1 La reintegrazione nel restauro: unità o completezza Abbiamo visto che la seconda metà dell’Ottocento può essere letta come un progressivo spostarsi, nell’ambito della cultura europea, dalla ricerca di una mitica unità verso la consapevolezza angosciata dell’inevitabile frammentazione. Sarebbe possibile ingrandire la galleria di esempi in cui questo passaggio è chiaro, ma ciò che ci interessava porre in evidenza era, in particolar modo, il complesso delle sollecitazioni affinché si configurasse una sorta di scenario in cui far muovere, ora, i protagonisti della riflessione sul restauro. L’aver superato il concetto di unità stilistica sicuramente ha ridotto quantitativamente un atteggiamento che in passato aveva portato a pericolose generalizzazioni, legate ad una visione dello Stile come universale a-temporale. Conseguenza di ciò erano state 61 scelte a priori che spesso avevano avallavano una visione del restauro teso alla esaltazione di un tipo particolare di bellezza (che si riduceva spesso ad uno stile). Ma l’abbandono dell’unità stilistica, da sola, non elimina dall’orizzonte la valutazione e il giudizio sul singolo edificio o sulla singola porzione di edificio. In questo senso mentre non è più sentita la necessità di ricondurre il monumento nell’alveo di uno Stile che dia legittimità all’esistenza stessa del monumento95, é ancora forte la necessità di rendere comunque unitario ciò che ho di fronte. Questo appare evidente nella prima metà del XX secolo in cui lo sforzo teorico è concentrato nell’affermazione della relatività del giudizio storico e dell’unità combinate insieme. Questo tentativo può essere letto in filigrana nelle riflessioni e nelle realizzazioni di restauri che rientrano nei giovannoniani restauri di reintegrazione. É proprio questa categoria che diviene emblematica per il nostro percorso. Se infatti in questo periodo le frange più avanzate della cultura del restauro non ritengono più ammissibile il restauro storico, quello analogico e soprattutto quello stilistico, allo stesso modo però non tollerano lasciare il monumento mutilo, incompleto, almeno laddove sia possibile rintracciare le “prove certe” di una completezza precedente. La soluzione progettuale che permette di ottenere questo risultato consiste nella idea, non nuova, di intervenire puntando alla ricostruzione di una certa unità nella percezione dell’intero monumento da lontano, mantenendo la certezza del riconoscimento del pezzo autentico da vicino96. Vedremo come questo atteggiamento sia differente rispetto a quello ottocentesco. 95- In quanto il monumento puro stilisticamente diventa veicolo didattico, portatore di un messaggio artistico incorrotto che il presente ha perduto. 96- Posizione d’altronde già espressa da Camillo Boito in occasione del III Congresso Internazionale degli ingegneri e degli architetti tenutosi a Roma nel 1883: «... Bisogna che i compimenti, se sono indispensabili, e le aggiunte se non si possono scansare, mostrino di non essere opere antiche, ma di essere opere di oggi». E in seguito, in Questioni pratiche di Belle arti: «[Ella] ... trova i brani di un brano latino e greco; (...) s'accorge che compongono l'opera intiera o qualche capitolo di essa e li riordina, li ricopia l'un sotto l'altro, astenendosi dall'aggiungere di suo capo una sola parola, e, dove riscontra una lacuna, mette i puntini o si inserisce una nota, sicuramente, modestamente, da uomo che non ama che il vero (...). Posto che quel che manca sia necessario a tenere in sesto quel che c'è, aggiungo una costruzione laterizia, un pilone in pietra, un fusto, un architrave, accompagno una cornice, 62 In questo senso il tema della reintegrazione delle lacune è stato scelto in quanto emblematico dello svolgersi del dibattito intorno al restauro architettonico. E’ chiaro, infatti, il suo ruolo di punto di convergenza e di necessario compromesso operativo tra questioni, di tipo tecnico e storico-formale, proprie del rapporto tra l’operatore e il monumento. Di fatto, nell’atto stesso del porsi di fronte ad una lacuna per decidere come operare, si determina l’esplicitarsi del conflitto tra tendenza al completamento e attenzione per l’autenticità dell’opera che fa emergere, tra l’altro, l’influenza profonda del gusto per l’unità o per il frammento. Tali distinti sentimenti non sono legati necessariamente a tempi, epoche o culture differenti; ambedue sono sempre presenti nella cultura artistica e in quella del restauro sin dalla nascita della disciplina ma sembra che tendano di volta in volta a prevalere l’una sull’altra. Basti pensare che Hegel e Novalis apprezzano il frammento poetico e Schopenhauer arriva a rivendicare «…“il gusto dell’abbozzo”, contro quello delle opere definite e contro il riempimento delle lacune»97, e lo stesso fa la cultura inglese legata alla poetica del sublime e delle rovine. Al contrario, negli stessi anni, nel cerchio stretto della cultura del restauro architettonico prevale la voglia di unità stilistica, che va alla ricerca di una “compiutezza che potrebbe non essere mai esistita” e finisce, a volte, per ridursi unicamente ad un completamento semplicistico e banale che oltretutto annulla intere fasi storiche del monumento originale. Le due visioni appena viste, sembrano convivere soprattutto nel periodo che dalla fine XIX secolo giunge al secondo dopoguerra. In questo intervallo di tempo sono, difatti, individuabili forti slanci verso il rifiuto dell’unità di stile che veniva vista come una intollerabile reductio di tutti gli stili presenti ad uno unico, ma nel contempo rimane alta la necessità della ricerca di una nuova unità, seppure di grado minore rinnovo un capitello, incastro dei cunei negli archi (...) ma sopprimendo gli intagli nelle sagome, contentandomi delle sole squadrature, eseguendo le opere in materiali o con metodi diversi dagli antichi. Far io devo così che ognuno discerna essere l'aggiunta un'opera moderna.» 97 - cfr Stefano Gizzi, Giovanni Secco Suardo. La cultura del restauro tra tutela e conservazione dell’opera d’arte, in «Ricerche di storia dell’arte», n. 60, 1996, pag. 84. 63 rispetto a quella stilistica, che Giovannoni definirà unità di linea98. Questa unità consiste nel riproporre una certa completezza figurativa dell’opera, evitando però di compiere una scelta tra i differenti stili presenti, scelta improponibile in un momento in cui l’indipendenza del valore storico dal giudizio estetico permette di considerare le tracce delle trasformazioni sul monumento come altrettanti segni della sua storicità, che va tutelata. Questa restituzione dell’unità all’opera si persegue tramite cauti “ripristini” che permettano di rendere leggibile l’immagine complessiva del monumento. Atteggiamento, questo, che riprende le indicazioni che quasi cinquanta anni prima erano state del Boito99. Tra l’altro per definire il monumento nella configurazione che mantiene ogni traccia del suo passaggio nel tempo (il valore dell’antico riegliano), Giovannoni usa il termine palinsesto100 e questo far riferimento ad un antico codice manoscritto sul quale è stato raschiato il primo testo per scriverne un secondo, denota, da un lato un forte richiamo ad una delle discipline, la filologia, che per lo studioso è fondativa per il restauro e, da un altro, rende bene l’immagine di una superficie in cui leggo una stratificazione di segni che vanno interpretati ma soprattutto conservati. Giovannoni inoltre intende in accezione negativa la locuzione “monumenti artistici e storici” che a suo dire «…aveva provocato una selezione aristocratica, che non ha più ragione di esistere dal momento in cui si considera 98 - «… il concetto architettonico che intende riportare il monumento ad una funzione d’arte e, quando sia possibile, ad una unità di linea (da non confondersi con la unità di stile) …» in La mostra del restauro dei monumenti in regime fascista, in «Palladio», n. 1, 1939, pag. 32 99 - «Nel caso che le (…) aggiunte o rinnovazioni tornino assolutamente indispensabili per la solidità o per altre cause invincibili, e nel caso che riguardino parti non mai esistite o non più esistenti e per le quali manchi la conoscenza sicura della forma primitiva, le aggiunte o rinnovazioni si devono compiere con carattere diverso da quello del monumento, avvertendo che, possibilmente, nell’apparenza prospettica le nuove forme non urtino troppo con il suo aspetto artistico.» Camillo Boito, I restauri in architettura. Dialogo primo, in Questioni pratiche di Belle Arti, Milano, Hoepli, 1893, pagg. 31. 100 - «Quasi tutti i monumenti d’Italia ci presentano, nella loro lunga vita, esempi delle due tendenze, o della sovrapposizione spregiudicata, o rispetto, che quasi può dirsi mimetismo. E questi procedimenti di continuazione ci interessano per due ragioni: perché ci mostrano la complessa formazione, fatta di varie fasi, come in un palinsesto in cui gli strati si sovrappongono, e con questo individuano i quesiti del restauro; e perché ci espongono sperimentalmente i precedenti del restauro moderno». Gustavo Giovannoni, Il restauro dei monumenti, Roma, Tipografia editrice Italia, 1945, pag. 24 64 essenzialmente l'antichità del monumento. Ciò che importa in esso sono i segni evidenti dell'età ed una sufficiente compiutezza individuale, grazie alla quale esso si definisce nei confronti dell'ambiente e del resto del mondo»101. La “compiutezza individuale” è in altre parole il risultato che è necessario perseguire tramite l’unità di linea. La forte esigenza di ottenere un risultato formale di questo tipo, non può però farsi derivare da una posizione “estetica” nei riguardi del monumento. Se infatti intendiamo per estetica (almeno nella sua concezione tradizionale, propria del XIX secolo) un insieme di riflessioni - che si sviluppa intorno a un oggetto particolare che è l’opera d’arte - sistematizzate in una teoria che definisce i modi per il riconoscimento dell’opera (che cosa è l’opera d’arte?) e individua alcune categorie che la determinano (come quella della bellezza), non mi pare possibile affermare che la ricerca di una completezza per il monumento storico sia un risultato che rientri nell’ambito delle possibili finalità dell’estetica (non siamo di fronte all’atto creativo bonelliano). In effetti, il concetto di unità è un termine che rientra nelle categorie estetiche, è uno dei parametri con i quali dare un giudizio sull’opera d’arte, ma non è in alcun modo assimilabile al semplice concetto di completezza. Se infatti intendiamo l’unità in ambito estetico come «armonica corrispondenza d’ispirazione e forma in ogni singola parte e delle parti tra loro in un tutto organico»102 e consideriamo una definizione generica di unità come «configurazione di una molteplicità in un complesso omogeneo e organico», individuiamo alcune importanti differenze. Mentre nella definizione “estetica” l’unità si riferisce ad una corrispondenza di ispirazione e forma, riferibile direttamente all’opera dell’artista o di colui che comunque pensa di poter rintracciare questa ispirazione e operare una sorta di “creazione differita”, la definizione generica di unità si riferisce unicamente al tentativo di mettere in atto degli accorgimenti che di fronte ad una configurazione frammentaria e eterogenea 101 - ibid. 102 - voce Unità in Giacomo Devoto, Giancarlo Oli, Il dizionario della lingua italiana, Firenze, Le Monnier, 1995. 65 (dal punto di vista artistico e storico) rendano possibile, in un certo grado (da lontano ad esempio) una lettura omogenea. Questo significa che l’atto di liberazione e ripristino dell’opera sono diretti a rendere possibile, previa la conservazione delle diverse parti, una lettura immediata delle forme principali del monumento. In altri termini quando Giovannoni parla di unità di linea e, ancor prima, quando sente la necessario risarcire una lacuna, non lo fa ponendosi in un orizzonte di pensiero che propone il ripristino dell’unità come via che permetta di far riacquistare al monumento qualità estetiche perdute - tant’è vero che, comunque, la differenziazione tra originale e aggiunta deve essere perseguita senza eccezioni. Egli ha dunque, in parte, eliminato l’estetica da suo orizzonte: usa ancora il giudizio estetico per individuare le parti che vanno conservate e quelle che possono essere sacrificate (ha solo ampliato il numero delle opere riconosciute come opere d’arte rispetto ai suoi predecessori, e questo probabilmente grazie alle conquiste della nuova storiografia artistica di fine XIX secolo), ma non lo utilizza per compiere un’azione di tipo creativo sull’opera da restaurare. Il suo scopo non consiste nel riaffermare la bellezza del monumento. Essa sussiste, anche se offuscata, e difatti il restauro «ha (…) per movente di conservare e porre in valore i segnacoli d’arte delle nostre città, interessanti anche se mutili e completati dalla fantasia e dai ricordi»103. A ben vedere i resoconti dei restauri dell’epoca usano solitamente espressioni che vedono il restauro come «dignitoso ripristino della facciata», come ricerca di misure «semplici, logiche ed estetiche»104, «rimessa in maggior valore»105, termini alquanto dimessi che individuano dunque semplici operazioni, nell’intento dei restauratori addirittura neutrali, che in alcun modo vogliono intervenire in modo dialettico con l’artisticità dell’opera. Se Giovannoni dunque non tende, tramite il ripristino dell’unità di linea, a ricomporre l’artisticità dell’opera d’arte, persegue invece un modello diffuso nel “senso comune” e che vuole che un’architettura sia unitaria nel senso di ordinata, completa. Se così è, siamo di fronte 103 - Gustavo Giovannoni, Il restauro ...op. cit., pag. 20. 104- Alfredo Barbacci, Il monastero ... op. cit., pag. 80. 105- Ferdinando Forlati, La Pieve di S. Andrea a Sommacampagna, in «Palladio», n. 5-6, 1942, pag. 184. 66 ad una necessità legata al gusto che è a sua volta strettamente legato sia al senso comune, sia alla visione del mondo di un’epoca e di una cultura. Si ricerca la piacevolezza nella visione del monumento a seguito dell’intervento del restauratore. Esso dovrà possedere determinate caratteristiche, contingenti ma universali, in quanto appartenenti sia all’operatore che al pubblico. E in quel momento, nell’Italia della prima metà del ‘900, il gusto spinge verso il completamento, verso qualcosa che non se non è più unità di stile è, almeno, unità di presentazione al pubblico. Questa necessità non si lega più, come nel XIX secolo, alla finalità didattica che conduceva alla produzione di un oggetto che avesse uno scopo che andava comunque oltre quello della conservazione. Il monumento allora diveniva oggetto simbolico, mezzo per la creazione di un nuovo stile. Proprio con Giovannoni, infatti, il restauro perde questo essere un mezzo per la progettazione del nuovo. Venendo meno questa finalità, diventa possibile abbandonare l’unità stilistica, sorta di forzatura ideologica, e ciò che rimane è la genuina necessità al decoro, all’ordine, alla semplicità. E’ d’altro canto questo l’atteggiamento che si desume dalla Carta italiana del restauro in cui leggiamo che: «…nell’opera di restauro debbano unirsi e non elidersi, neanche in parte, vari criteri di diverso ordine: cioè le ragioni storiche che non vogliono cancellata nessuna delle fasi attraverso cui si è imposto il monumento, né falsata la sua conoscenza con aggiunte che inducano in errore gli studiosi, né disperso il materiale che le ricerche analitiche pongono in luce; il concetto architettonico che intende riportare il monumento ad una funzione d’arte e, quando sia possibile, ad un’unità di linea (da non confondersi con l’unità di stile); il criterio che deriva dal sentimento stesso dei cittadini, dallo spirito della città, con i suoi ricordi e con le sue nostalgie…»106. Trent’anni prima Alois Riegl aveva posto fortemente l’accento proprio sul tema del sentimento del popolo e su un particolare impulso che giocava un ruolo primario nell’apprezzamento dei monumenti storici: la Stimmung. Essa è una sensazione contraria a quella 106- Carta italiana del restauro, Roma, 1932, in Giuseppe Rocchi, Istituzioni di Restauro dei Beni Architettonici e Ambientali. Cause – accertamenti – diagnostica, Milano, Hoepli, 1985, pag. 330. 67 settecentesca del sublime, anche perché, come quella si basava sulla forza sconosciuta e paralizzante della natura, questa elimina questa forza che non è più ignota ma riconducibile a «un principio di causalità [che] percorre tutto il creato; ogni divenire causa un trascorrere, ogni vita chiede la morte, ogni movimento avviene carico di un altro movimento. È l’infinita lotta per l’esistenza che fa soffrire l’uomo – altamente dotato di intelletto e di sensibilità – infinitamente più degli esseri viventi semplici, che può annientare a centinaia con un solo movimento. Da millenni tutte le intenzioni culturali dell’uomo si sforzano di bandire la legge naturale brutale del più forte e sostituirla con un ordine mondiale liberatore. Oggi, dopo tanti sforzi il nostro destino ci sembra inevitabile, senza via d’uscita. Al posto di quiete, pace ed armonia, c’è lotta senza fine, distruzione e dissonanza ovunque giungano vita e moto. Su quella vetta di montagna per il contemplatore solitario si realizza ciò che l’anima dell’uomo moderno, coscientemente o incoscientemente, desidera. Non è la pace da camposanto che lo circonda lassù, (…) ma ciò che da vicino gli sembra una lotta spietata, da lontano gli pare una pacifica coesistenza, concordia ed armonia. (…) Questa idea dell’ordine e della legalità al di sopra del caos, dell’armonia al di sopra delle dissonanze, della quiete al di sopra dei moti, la chiamiamo Stimmung, atmosfera. I suoi elementi sono la quiete e la veduta da lontano.»107. La Stimmung dunque è un sentimento che dona quiete e serenità in quanto deriva dalla contemplazione degli oggetti e della natura umana da lontano, nel suo complesso, sorvolando sui contrasti particolari e sulla lotta tra le sue parti. Essa è parte importante del gusto, secondo Riegl, e dunque componente di quel kunstwollen contemporaneo che è alla base dell’affinità per il valore dell’antico. In uno scritto sulla Porta gigante di Santo Stefano del Duomo di Vienna lo studioso viennese dà conto di questo rapporto tra Stimmung e valore dell’antico. Riegl, infatti, si chiede quanto la porta possa piacere - e in che modo - a i 107- Alois Riegl, Die Stimmung als Inhalt der modernen Kunst, in «Graphische Kunste», XXII, 1899. (trad. it. La Stimmung come contenuto dell’arte moderna, in Sandro Scarrocchia, Alois Riegl: teoria e prassi della conservazione dei monumenti. Antologia di scritti, discorsi, rapporti 1898-1905, con una scelta di saggi critici, Bologna, CLUEB, 1995, pagg. 135-136). 68 suoi contemporanei. Riferendosi a questo dubbio lo studioso individua due differenti modi di guardare e giudicare quest’opera romanico-gotica: l’uno si rifà all’estetica che la giudica confrontandola con i parametri rigidi della bellezza moderna. In questo caso il manufatto risulterà tanto più bello quanto più si avvicinerà ai moderni canoni. Il secondo metodo, per noi molto più interessante riprende i principi della Stimmung: «È un modo di considerare che osserva le cose da più lontano possibile, le spoglia della loro limitata e palpabile corporeità e le riduce a semplici reticoli di colori, che poi integra e trasforma in essenze precise, partendo dalla coscienza dell’esperienza e per mezzo di un lavoro mentale; (…) La vita che dai vecchi edifici promana verso un simile osservatore è una vita storica, da molto tempo ormai trascorsa; ma nell’immaginazione dell’osservatore essa risorge possente allorché egli si trova dinnanzi le sue immediate testimonianze.»108. Dunque un sentimento che permette di apprezzare l’opera antica anche se non rispondente ai canoni estetici vigenti. In effetti, questi ultimi sono comunque parametri razionali e vengono normalmente sistematizzati in una teoria estetica che fonda il giudizio, mentre in questo brano vediamo come Riegl immetta nel discorso un elemento di irrazionalità che risale direttamente alla percezione delle cose e alle sensazioni che questa percezione dà. Questo elemento è fondamentale nella trattazione del valore in quanto memoria nel suo Culto moderno dei monumenti; da questo punto di vista, infatti, il monumento appare totalmente trasfigurato e sublimato. Scrive ancora Riegl: «Il monumento rimane solo un sostrato percettibile e necessario per creare nel suo contemplatore quello stato d’animo che nell’uomo moderno produce la concezione del naturale corso circolare del divenire e del trascorrere, dell’emergere dell’individuale dal generale e della necessità naturale, per quest’ultimo, di rivivere a poco a poco nel generale. Questo stato d’animo, non presupponendo nessuna esperienza scientifica109, crede di poter 108 - Alois Riegl, Das Riesentor zu St. Stephan,, in «Neue Freie Presse», 1 febbraio 1902. (trad. it. La porta gigante di Santo Stefano, in Sandro Scarrocchia, Alois Riegl: teoria e prassi della conservazione dei monumenti. Antologia di scritti, discorsi, rapporti 1898-1905, con una scelta di saggi critici, Bologna, CLUEB, 1995, pagg. 166). 109- «(dato che non sembra richiedere in particolare nessuna delle conoscenze acquisite con 69 avanzare la pretesa di diffondersi non solo tra gli specialisti, ai quali la conservazione storica dei monumenti necessariamente deve rimanere ristretta, ma tra le masse, tra tutti gli uomini senza distinzione di formazione culturale.»110 Nel 1912, al I convegno degli Ispettori Onorari dei Monumenti, Giacomo Boni e Gustavo Giovannoni teorizzano il metodo del sottosquadro, che consiste nel colmare le lacune tramite una risarcitura muraria tenuta un paio di centimetri al di sotto del filo della muratura originaria. Questa metodica nasce sicuramente da un’esigenza di tipo “etico” che privilegia l’autentico sulla reintegrazione e che, come già visto, si può far risalire al Boito delle Raccomandazioni, ma inevitabilmente, come tutti i metodi impiegati per risarcire le lacune in architettura, risulta essere un atto che influisce fortemente sull’immagine finale del monumento. Nei decenni successivi, difatti, diverse scuole di pensiero si susseguono nel tentativo di modificare quelle tecniche che, a parità di conservazione delle parti autentiche, affermavano una volontà di recuperar quella configurazione del monumento che con il tempo andava modificandosi. È indubbio, in effetti, che «L’integrazione muraria (…) oltre a rivestire una funzione di carattere protettivo nei confronti del sottostante nucleo antico, doveva servire anche a facilitare la lettura della configurazione architettonica dei ruderi.»111. Nell’ambito della legge generale della unità di linea, il sottosquadro dava libertà di usare, per ricomporre le lacune, materiali uguali a quelli del monumento che si stava integrando permettendo di abbandonare la pratica dell’uso di differenziarli giocando sul contrasto spinto, come nel caso delle reintegrazioni con laterizi delle colonne di marmo nei Fori romani. Seguire lo sviluppo del dibattito sulla l’erudizione storica come necessarie per il suo soddisfacimento; anzi, viene suscitato dalla percezione squisitamente sensitiva, motivo per cui si esterna subito come sentimento)» Alois Riegl, Entwurf einer Gesentzlichen Organisation der Denkmalpflege, in Osterreich, Vienna, 1903. (trad. it. Progetto di riforma – Il culto moderno dei monumenti, in Sandro Scarrocchia, Alois Riegl,... op. cit., pagg. 177). 110- Alois Riegl, Entwurf einer Gesentzlichen Organisation der Denkmalpflege, in Osterreich, Vienna, 1903. (trad. it. Progetto di riforma – Il culto moderno dei monumenti , in Sandro Scarrocchia, Alois Riegl,... op. cit., pagg. 177). 111- Elisabetta Pallottino, I modi costruttivi nel restauro dell’antico: obiettivi, criteri di valutazione e precedenti storici nell’area romana, in Segarra Lagunes, Maria Margarita (a cura di), La reintegrazione nel restauro dell’antico. La protezione del patrimonio dal rischio sismico, Atti del seminario di studi Paestum, 11-12 aprile 1997, Roma, Gangemi, 1997, pag. 160. 70 reintegrazione nel restauro archeologico è dunque fruttuoso in quanto rappresenta una sorta di estremizzazione del più generale dibattito sul restauro architettonico, ponendo in primo piano (come accade anche nel restauro pittorico) istanze che sono ben presenti anche nella riflessione sulla conservazione architettonica e che non fanno i conti con il problema funzionale (e il conseguente gusto per il decoro e per quella che oggi chiameremmo la prestazione, due termini che non sempre sono legati unicamente ad esigenze di tipo strettamente tecnico). Assistiamo allora alla diffusione e, poi, al declino di numerose soluzioni che vanno appunto dal sottosquadro all’uso di lavorare il materiale in modo differente dall’originale, fino all’uso di materiali riconoscibili come il calcestruzzo, giungendo al rifiuto, negli anni ’60, dell’idea stessa di reintegrazione e che porta ad assemblaggi “brutalisti” che paiono riaffermare un trionfo di quel frammento che duecento anni prima aveva immaginato Piranesi in una delle tavole delle sue Rovine nella quale rappresentava una composizione casuale di antiche lapidi marmoree. Certamente, nel caso delle reintegrazioni, ci si scontra con la urgente necessità di individuare un modo tecnicamente valido per perseguire il mito della completezza, ma spesso esso va al di là della necessità strettamente statica, arrivando nei casi estremi all’uso del monumento come mezzo di propaganda, come accade negli anni del Governatorato in cui la strumentalizzazione politica si spinge fino a fare uso di architetture restaurate come esplicitazione materiale della forza dell’Impero. Il monumento così concepito deve mostrare inevitabilmente una unità che, in questo caso, è sinonimo di forza, contro la debolezza e il senso di precarietà del frammento. In casi limite come questo il monumento è più che mai ricordo, simbolo e ammonimento e, in quanto tale, deve presentarsi completo per poter essere efficace. Si è parlato finora di reintegrazioni, e questo è termine che ci appare sicuramente familiare, ma è necessario riflettere su un particolare linguistico: Giovannoni e i suoi contemporanei si riferiscono a questa operazione usando il termine ripristino. Perogalli annota questa distinzione: «[Giovannoni N.d.R.] pone l’accento sulla preventiva 71 valutazione della convenienza di procedere alla reintegrazione (o ripristino, com’essa dice …»112. Le due espressioni non significano la medesima cosa. Reintegrare, deriva dal latino integro e significa «ricollocare qualcosa nella posizione precedentemente occupata facendo cessare gli effetti dannosi di avvenimenti sopraggiunti che ne avevano determinato l’allontanamento. Ritornare intero» Ripristinare, da Ri-pristinus che significa ‘primitivo’, indica il ri-stabilire, ri-mettere in funzione, in uso. Dunque in un caso restituire una condizione di interezza, completezza e nell’altro riportare ad una situazione precedente. Nel primo caso agendo per aggiunta del nuovo sulla falsa riga dell’esistente per riottenere l’intero, nel secondo caso andando a levare per tornare indietro ammettendo unicamente piccole aggiunte. 2.1.2 Gli interventi: scelte di gusto o problemi tecnici? Trattando di reintegrazioni nel restauro è necessario occuparsi, in effetti, di due distinte operazioni che nella terminologia giovannoniana sono individuate con i termini di liberazione e di ripristino. Spesso non c’è l’una senza l’altra. E, infatti, sia Giovannoni nel suo Il restauro dei monumenti sia, in seguito, Carlo Perogalli in La progettazione del restauro monumentale dovendo individuare delle categorie in cui fosse possibile catalogare le operazioni di restauro, parlano sia quella di liberazione sia quella di ripristino. La successione di queste operazioni, in questo momento del dibattito, appartiene intimamente al processo mentale e poi operativo che porta al restauro di un edificio. A differenza delle teorie precedenti, però, notiamo una maggiore attenzione nel suddividere l’operazione generica di “restauro” in diverse sotto-operazioni parziali e a 112- Carlo Perogalli, La progettazione del restauro monumentale, Milano, Libreria politecnica Tamburini, 1955, pag. 59. 72 studiare, da un lato l’impatto che queste hanno sull’opera, dall’altro il rapporto reciproco, tra loro esistente. Questo è possibile solo dal momento in cui l’edificio non venga più visto come una unità da considerare globalmente, ma dal momento in cui balza in primo piano il problema dell’autenticità dei segni storici che su di esso si trovano. Solo da queste premesse è possibile partire per comprendere l’approfondimento dedicato dagli studiosi dei primi decenni del Novecento al tema della liberazione e delle sue implicazioni riguardo la perdita di materiale e sul conseguente ripristino, legato a sua volta al tema dell’autenticità dell’aggiunta. Questa attenzione deriva direttamente dalla presa di coscienza, oramai imprescindibile negli anni ‘40-‘50, che: «Non v’è […] forse monumento che risponda ad unità di concetto e di attuazione, senza alterazioni, e senza sovrapposizioni di varie fasi. Queste vicende occorre quindi, per quanto è possibile, conoscere quando ci si accinge ad un restauro; e viceversa il restauro, con la osservazione diretta, offre una preziosa occasione, che non deve lasciarsi disperdere, per lo studio del monumento e per la cognizione di queste sue vicende costruttive ed artistiche.»113. Il definirsi della categoria giovannoniana di palinsesto è inoltre un grande passo avanti nella considerazione del portato storico del monumento, ma nonostante ciò all’interno della teoria e soprattutto della pratica del restauro negli anni della guerra e del dopoguerra si nasconde ancora un’insidia. Scrive Giovannoni: «L'opera del restauratore deve mettere in evidenza ciò che appartiene ai vari periodi e merita di essere conservato»114. Siamo nuovamente di fronte ad un giudizio che, come abbiamo visto nel capitolo precedente, non potendo fondarsi su un’estetica metafisica si riduce di fatto ad essere giudizio di gusto. Infatti, proseguendo nella lettura del brano vediamo quali sono i casi, le eccezioni i cui è possibile per l’architetto romano procedere con le liberazioni: «La teoria ora vigente limita questo significato [restauro 113- Gustavo Giovannoni, Il restauro, ... op. cit., pag. 7. 114- ibid. 73 di liberazione, N.d.R.] per la parte negativa agli elementi privi di ogni valore d’arte od alle fabbriche esterne non aventi carattere ed importanza, né funzione urbanistica nei riguardi del monumento. Così ad esempio, il restauro può volgersi a semplici e rozze murature che imprigionano colonne e sbarrano finestre e loggiati, a stucchi, intonachi e stuoie di canna senza pregio decorativo che mascherano pareti e coperture, a case amorfe addossate, di età evidentemente posteriore, che chiudono e nascondono il monumento od una sua parte»115. Risulta ancora una volta evidente come i termini utilizzati per descrivere gli elementi non degni di conservazione siano termini che non appartengono al linguaggio dell’estetica, ma piuttosto stiano ad indicare un giudizio vicino al sentire comune, che vede nella semplicità e nella rozzezza un segno della mancanza di valore storico e, d’altronde, giudica stucchi e soffitti incannucciati come elementi di nessun pregio o, peggio, amorfi. Da qui all’atto di liberazione il passo è breve e non necessita di ulteriori giustificazioni, vista l’autoevidenza del gusto comune. Dunque «Il demolire questi elementi e rimettere in luce le linee del monumento, e così valorizzarlo nel suo carattere d’arte e nella sua funzione cittadina, è cosa veramente felice»116. Vediamo, allora, come i restauratori contemporanei a Giovannoni intendono il “restauro di liberazione”. Luigi Angelini in un articolo del 1940 sui restauri a Bergamo alta scrive: «… venne messo in luce, su tracce che già apparivano da tempo sotto l’intonaco, un ampio arcone medioevale di pietra da taglio, a tutto sesto. Nella demolizione dei soffitti si rintracciarono le travi di legno con grezze mensole appoggiate contro muro su un cordone di pietra a sagoma medievale. Abbattuti i tramezzi e i muri intermedi eretti in epoche più vicine a noi, si mostrò in tutta la sua ampiezza un vasto salone a pianta pressoché quadrata con l’arcone circolare che lo traversa impostato normalmente alla fronte dell’antica basilica. Nella prosecuzione degli assaggi e nello scrostamento degli intonaci sovrapposti, venne in luce, (…) un 115- Gustavo Giovannoni, Il restauro, ... op. cit., pag. 66 116- ibid. 74 ciclo di decorazioni pittoriche ad affresco sulle pareti di levante e di ponente e nella parte formante facciata della Basilica, (…) una bifora con arco in pietra da taglio e i due archetti interni impostati sul pulvino soprastante al capitello intagliato a foglie»117. La liberazione non ci appare quella fase delicata e limitata indicata dalla Carte del 1932, ma viene eseguita frequentemente per riportare alla luce parti di edificio o intere configurazioni passate in edifici che presentino segni che lascino sperare in una integrità di buon livello sotto l’ultima pelle. Così agisce il Barbacci a Verona, nei restauri condotti nel monastero di S. Giorgio in Braida, in cui procede con la «liberazione del campanile, dell’abside e dei chiostri dalle moderne e volgari superfetazioni»118. Il tutto trova testimonianza ulteriore nella mostra sul restauro dei monumenti durante il regime fascista, del ’39, in cui «Si vide tutta l’innumerevole serie di monumenti minori liberati a cura della R. Soprintendenza ai Monumenti di Roma: ripresa delle strutture e liberazioni dei campanili del XII secolo, da quello della Chiesa di San Crisogono, a quello della chiesa Cattedrale di Terracina»119. Ancora è il caso del restauro dell’Ospedale di Santo Spirito, sempre a Roma, curato dal Soprintendente del Lazio Alberto Terenzio, in cui si procedette alla «liberazione dei chiostri ed in particolare di quello più piccolo, detto dei Frati, il quale maggiormente aveva sofferto delle aggiunte posteriori, eseguite in gran parte dal Vespignani nel 1854.»120 dando luogo, in questo caso, ad un vero e proprio de-restauro: «… ordinammo perciò la rimozione delle volte a crociera del porticato, le quali nella ricostruzione [del Vespignani N.d.R.] erano mal riuscite, sia perché non era stato tenuto conto della posizione precisa, degli antichi peducci, sia perché si era adottata una centina di forma semplicisticamente semicircolare.»121 117118119120- Luigi Angelini, Scoperte e restauri di edifici medievali in Bergamo Alta, in «Palladio», n. 1, 1940, pag. 35. Alfredo Barbacci, Il Monastero ,... op. cit., pag. 75. La mostra del restauro dei monumenti in regime fascista, in «Palladio», n. 1, 1939, pag. 29. Guglielmo De Angelis d’Ossat, Roma. Il restauro degli edifici quattrocenteschi dell’Ospedale di Santo Spirito, in «Palladio», n. 5, 1939, pag. 212. 121- Guglielmo De Angelis d’Ossat, Roma,... op. cit., pag. 213. 75 Vediamo dunque che le locuzioni: privi di valore d’arte e non aventi carattere ed importanza vengono applicate ampiamente, ma mai vengono argomentate in modo critico. Il liberare porta però inevitabilmente al ricomporre, data l’impossibilità di accettare l’immagine frammentata che necessariamente consegue alla liberazione dalle parti “incongrue”. E questo ricomporre, pur se nella teoria appare anch’esso come limitato e parziale, nella pratica viene eseguito non certo con parsimonia. Lo vediamo nei lavori di Gino Chierici a Napoli per la Chiesa dell’Incoronata in cui si libera e in seguito si reintegra il portico e il coro, nella Chiesa di Donnaregina che viene sbarocchizzata e a Lomello dove l’architetto procede alla liberazione del Battistero. Ma d’altronde lo stesso Gino Chierici ci offre un esempio di raggiunta maturità rispetto alla necessità di salvaguardare il palinsesto122. Scrive egli, infatti, nel1938: «Non importa se molte parti restano mutile e di altre non si afferra il significato o la destinazione. Ciascun visitatore potrà con la propria fantasia completare la rappresentazione e proverà la gioia di chi riesce ad afferrare un pensiero recondito od a sciogliere un quesito difficile. E se qualcosa gli rimarrà oscuro, ciò lo inciterà a chiedere spiegazioni, a fare ricerche, ad allargare la sua cultura, con il risultato di avvicinarsi spiritualmente sempre più all'opera d'arte che lo interessa. Ma egli deve avere la sicurezza di non essere tratto in inganno da elementi falsi che potrebbero disincantarlo e renderlo scettico anche di fronte a quelli genuini.»123. Nella realtà anche Chierici non rispetterà fino in fondo ciò che afferma, procedendo a numerose integrazioni, anche nel suo restauro più conservativo, quello del fronte ovest di Palazzo Reale a Milano. Egli si trova di fronte ad un esempio tipico di palinsesto nel 122- «Per noi, a parte quelli morti della classificazione fatta dal Giovannoni, i monumenti hanno una loro vita che si manifesta non tanto nella continuità della loro destinazione e nella possibilità di adattamento ad una destinazione nuova, quanto nel segno che l'arte di ogni epoca lascia su di essi. Questi segni, qualora abbiano nobiltà di espressione, debbono essere conservati perché sono tanti capitoli di una storia e spesso tante nuove bellezze che dimostrano, oltre tutto, che quando si tratta di arte vera gli accostamenti degli stili più disparati sono non soltanto possibili, ma capaci di dare nuove e più squisite commozioni estetiche.», Gino Chierici, Il restauro dei monumenti, in Atti del III congresso di Storia dell’Architettura, Roma, Colombo, 1940, pag. 332. 123- Gino Chierici, La Basilica di S. Lorenzo in Milano, Milano, Sestetti, 1938, pag. 24, cit. in Letizia Galli, Il restauro nell’opera di Gino Chierici (1877-1961), Milano, Franco Angeli, 1989, pag. 36. 76 quale la fase trecentesca e quella neoclassica erano sovrapposte, pur intravedendosi grazie al degrado degli intonaci e ad alcuni elementi lasciati in vista già nell’intervento neoclassico. Chierici, dopo aver fatto eseguire dei saggi, decide che il restauro è possibile e decide di portarlo avanti secondo le «…nuove teorie consistenti appunto nel rispettare non solo ciò che appare all’occhio esercitato del saggiatore.»124 I lavori ultimati mostrano un notevole esempio di quello che Giovannoni chiamò unità di linea. Abbiamo come risultato un fronte sul quale appaiono leggibili, contemporaneamente, le due configurazioni. La prima (quella trecentesca) con un piano di bucature ad arco a tutto sesto, un secondo piano di bifore decorate in cotto e una muratura in laterizio. La seconda con tre piani di finestre rettangolari, più piccole, che indicano un sostanziale mantenimento delle quote all’interno del palazzo e un attico che è una sopraelevazione rispetto all’edificio medievale. Tutto questo era visibile con un po’ di attenzione già in precedenza, come mostrano le foto del palazzo fatte prima dei lavori, ma comunque la scelta di Chierici di rifiutare la ricerca a tutti i costi dell’unità trecentesca e il coraggio nel mantenere la sovrapposizione delle bucature appare notevole. Questo nonostante si sia comunque operato un rovesciamento; l’edificio, prima dei lavori, presentava sostanzialmente una facciata neoclassica che lasciava intravedere la facies medievale, dopo i lavori è diventato un edificio medievale che evidenzia le tracce della successiva modificazione. Dunque Chierici opera prendendo atto dell’importanza di mantenere le tracce della storia ma, nell’intervento, il gusto per il medioevo, ancora fortissimo, porta a far retrocedere il settecento a traccia da tollerare e salvaguardare ma mettendo in luce il vero monumento: l’organismo medievale. 124- Gino Chierici, articolo apparso sul quotidiano «Il popolo d’Italia», 26 agosto 1937. Nello stesso articolo Chierici afferma: « Niente quindi lavoro di fantasia sia pure suggerito dal generoso, ma in sostanza ingenuo, desiderio di presentare i monumenti in un aspetto migliore o perlomeno più completi. Cosa sarebbe stato richiudere le sciatte finestre quadrate e ripristinare quelle antiche rifacendo le colonne mancanti e magari completando, nella bifora, le decorazioni della cornice? … Metter su tanto apparecchio, alzar tanti ponti per così poco!… Questo ci sembra di udire o di leggere nel pensiero di molte persone che del restauro hanno una concezione troppo superficiale o perlomeno che non va oltre al centone scenografico. Ed è errore gravissimo.». 77 Questo risultato é ottenuto, in questo caso, con l’eliminazione degli intonaci, considerati allora - come spesso ancora oggi - una semplice pelle che protegge ma, più ancora, nasconde la vera sostanza dell’edificio. Ma, ciononostante, non mancarono le proteste di chi, probabilmente memore di ben più soddisfacenti recuperi, si sentì defraudato della possibilità di riportare la facciata a quel “pristino splendore” di cui ancora oggi si fantastica, pur non essendo in grado di definirne i contorni. Non piacque, dunque, all’anonimo “Ascanio” che «… dietro al cartellone avessero rabberciato alla meglio le poche tracce quattrocentesche che il Palazzo reale offriva su questo lato[…]».125 E manifestò, accorato, la propria protesta contro lo “sconcio” di Palazzo Reale. Vale la pena fare una lunga citazione per leggere come il ”nuovo corso” dei restauri in Italia fosse accolto da chi non riusciva proprio a vedere nelle pietre il segno della storia e continuava a ricercare, al di là di tutto, l’agoniata unità stilistica. «… Diciamo subito che la sua impressione [di chi si trovò a guardare il restauro compiuto N.d.R.] non fu delle più entusiaste e che i suoi occhi […] non riuscirono ad intravedere al di là del povero muro martoriato né quel documento storico eccezionale che altri ha pomposamente lodato, né s’accorsero di trovarsi dinanzi a prove sperimentali di un nuovo concetto di restauro, quasi a dire una svolta dei sistemi dei nostri studiosi. Dicono questi che si possono fare i restauri delle architetture in due maniere: l’una completando, liberando e ricomponendo le tracce ritrovate, fino a ripristinare l’apparenza unitaria ed originale della fabbrica; l’altra conservando assieme tutte le incrostazioni, anche le più minute ed eteroclite, che i tempi hanno accumulato sul monumento, quasi a testimoniare in un grande mosaico i documenti e la storia delle trasformazioni subite. La svolta è tutta qui ma non è lieve. […] ma che questi frammenti possano comporsi dentro un vivo e vitale aspetto di architettura che sopravviva al prossimo congresso archeologico noi dubitiamo molto e 125- «Il Regime Fascista», 9 ottobre 1937, cit. in Letizia Galli, Il restauro nell’opera di Gino Chierici (18771961), Milano, Franco Angeli, 1989, pag. 101. 78 dubiteremo per parecchio. […] Stavolta il cosiddetto restauro è una sconciatura bella e buona, anzi, brutta e cattiva.»126. Al contrario, Chierici nella relazione del lavoro si era sbilanciato nel dichiararsi convinto che proprio questo atteggiamento favorevole alla conservazione dei frammenti superstiti, all’interno della ricerca di una certa unità di linea, potesse soddisfare tutti: «… ci limitammo a restaurare le parti rimaste delle finestre, a riprendere il paramento a mattoni a segnare cornici e ad indicare le loro sezioni. Come abbiamo detto le finestre ottocentesche furono aperte senza tener conto delle antiche, cosicché queste risultano mutilate. Ma nonostante tale mutilazione, e la mancanza e l’incertezza di alcuni particolari la facciata assume una nuova ed austera nobiltà e la sua franca ed onesta rinuncia ad ogni lenocinio pseudo storico finisce col renderla gustosa anche a coloro che amano i rifacimenti.»127. Ma, a quanto pare, la posizione di Chierici è abbastanza solitaria nel panorama del restauro italiano dagli anni ’30 agli anni ’60 come si evince dalla lettura delle riviste che pubblicano regolarmente i resoconti dei lavori. In questi articoli si passa dalla minuta analisi della possibilità di creare un articolato sistema di contrassegni da apporre sulle parti di muratura ripristinate128 alla documentazione di interventi che attuano un’indiscriminata sbarocchizzazione129 e ripristini a volte molto spinti. Questi lavori si situano in un momento di passaggio della riflessione sul restauro in cui, dalle attenzioni per il documento storico proprio dell’approccio del filologismo, espresso dalla Carta italiana del Restauro, si va verso le teorie del restauro critico e 126- «Il Regime Fascista», 9 ottobre 1937, cit. in Letizia Galli, Il restauro nell’opera di Gino Chierici (18771961), Milano, Franco Angeli, 1989, pag. 101. 127- Relazione sul progetto di restauro della facciata di Palazzo reale di Milano prospiciente la via Rastrelli, s. d. fasc. «Palazzo reale» fasc. 1556, Archivio della Soprintendenza ai Beni Ambientali e Architettonici della Lombardia, cit. in Letizia Galli, Il restauro nell’opera di Gino Chierici (1877-1961), Milano, Franco Angeli, 1989, pag. 101. 128- Alfredo Barbacci, Contrassegni sugli edifici monumentali restaurati, in «Bollettino d’Arte» n. 4, 1948, pag. 380. 129- cfr. di A. Barbacci, La chiesa di S. Maria Annunziata in Bologna e il suo restauro, in Bollettino d’Arte, n. 2, 1949, pp. 171-177, di G. Morozzi, Ritrovamenti e restauri in quattro pievi toscane danneggiate dalla guerra, in «Bollettino d’Arte», n. 2, 1950, pp. 156-160, e ancora di M. De Vita, Il restauro della Chiesa di S. Pietro in Tivoli, in «Bollettino d’Arte», n. 2, 1951. 79 creativo di Bonelli e la teoria del restauro di Brandi, che trovano espressione nella Carta di Venezia del 1964 e nella Carta del Restauro del 1972. Un momento che si caratterizza per un passaggio teorico fondamentale: lo spostamento dell’attenzione dal monumento storico-artistico all’opera d’arte. Uno spostamento di prospettiva che riporta in auge un approccio al monumento che richiama in tutta la sua forza il concetto di unità. Unità, in primo luogo, di una visione che immette nuovamente l’oggetto architettonico all’interno di un pensiero che si struttura su categorie di tipo estetico e che, dunque, è attrezzato per il riconoscimento dell’esistenza di un artefatto che presenta caratteristiche peculiari per le quali è definibile opera d’arte. Questo riconoscimento diventa premessa indispensabile per l’atto restaurativo, che consiste nel rimettere in opera un altro tipo di unità, quella dell’immagine del monumento, sia attraverso la categoria della vera forma, sia attraverso quella del ripristino dell’unità potenziale. Non siamo più di fronte al concetto di unità di linea, che appare sempre più un compromesso tendente a riportare nell’alveo del decoro e del buon gusto una visione troppo “brutalista” di un restauro che anelava a sganciarsi dal giudizio estetico. E cercava di farlo tentando di porre l’accento sulla necessità di salvaguardare la concatenazione delle differenti configurazioni, così come apparse nel tempo. Il restauro critico di Renato Bonelli, piuttosto, pretende di riportare alla visibilità e alla perfetta leggibilità estetica l’immagine offuscata dalle modificazioni successive e in questo senso cancella il tempo trascorso, la concatenazione degli eventi, annullando la storia e mettendo da parte l’autenticità dell’oggetto che riceve la propria legittimazione unicamente dal primo atto di folgorazione estetica. Ma qui ci interessa soprattutto l’affermazione di Brandi che se un oggetto non è riconoscibile in quanto opera d’arte va conservato. Posizione ribadita, nella pratica, da Giovanni Carbonara ad esempio quando si occupa del restauro del Palazzo di Bonifacio ad Anagni; in quell’occasione egli ammette di non essere in grado di dare una valutazione in termini artistici sul complesso e, di conseguenza, ne sostiene la prevalente importanza storica 80 affermando che «… se la qualità propria [del monumento N.d.R.] risiede nella sua immagine consolidata, tanto in termini urbanistici e paesistici quanto in termini di stratificazione storica, leggibile nello svolgersi delle fasi costruttive, sarà indispensabile che il restauro assuma un atteggiamento rigorosamente conservativo»130. Infatti, al contrario di quanto pensa Bonelli in quegli anni, Brandi non ha una visione del restauro così potente dal punto di vista operativo: secondo lo studioso non è, infatti, possibile restaurare un’opera d’arte in qualunque stato essa sia, ma unicamente se in essa è riconoscibile l’unità potenziale che funge da guida all’intervento. Dunque il restauro è possibile a patto che l’opera non sia ridotta a “rudero”. Questo è definito da Brandi come «... ciò che testimonia della storia umana, ma in un aspetto assai diverso e quasi irriconoscibile rispetto a quello precedentemente rivestito.»131 Dunque un oggetto nel quale non è più possibile riconoscere l’opera d’arte e che non presenta «... una sua implicita vitalità per adire ad una reintegrazione dell’unità potenziale originiaria.»132. Il tema della reintegrazione in Brandi è pertanto demandato totalmente alla capacità critica soggettiva di chi, trovandosi di fronte all’opera, ne individua l’unità potenziale e cioè «una singolarissima unità per cui [l’opera] non può considerarsi come composta di parti: in secondo luogo, questa unità non può essere equiparata all’unità organico-funzionale della realtà esistenziale.»133 . Il restauro opera sui frammenti superstiti sviluppandone l’unità potenziale limitandosi a «... svolgere i suggerimenti impliciti nei frammenti stessi o reperibili in testimonianze autentiche dello stato originario»134. Andando oltre i suggerimenti propri dei frammenti e operando un’interpolazione tra l’unità potenziale e la nostra cultura e capacità ermeneutica, si compie un falso storico. Non è dunque una posizione semplice, come 130- Giovanni Carbonara, Sul cosiddetto Palazzo di Bonifacio VIII in Anagni. Dalla storia al restauro, in «Palladio», 1989, pp. 44. 131- Cesare Brandi, Teoria del restauro, Torino, Einaudi, 1977, pag. 30. 132- Cesare Brandi, Teoria ... op. cit., pag. 31. 133- Cesare Brandi, Teoria ... op. cit., pag. 16. 134- Cesare Brandi, Teoria ... op. cit., pag. 17 81 farebbe pensare il suo successo presso i restauratori, in quanto è necessario operare in modo tale che si favorisca «… il godimento di quel che resta e si presenta a noi dell’opera d’arte, senza integrazioni analogiche, in modo che non possa nascere il dubbio sull’autenticità di una parte qualsiasi dell’opera d’arte stessa»135. Ma, nonostante il successo di Brandi, la maggior parte dei restauri tra gli anni ‘60 e gli anni ’80 non rendono conto della complessità dell’approccio teorico e non è difficile constatare come, al contrario, essi non abbiano smesso di oscillare tra un filologismo di maniera, che si esaurisce spesso nella produzione di voluminosi apparati storicodescrittivi che accompagnano il progetto, e un impulso mai sedato verso l’atto creativo che ricerca forme nascoste da ripristinare. L’osservazione ulteriore che è possibile fare a questo punto consiste nel fatto che non sempre in questi interventi e nella esplicitazione delle finalità e delle motivazioni culturali, espresse nelle relazioni di progetto e sui saggi pubblicati nelle riviste, è presente l’affermazione critica del riconoscimento dell’opera d’arte. Questa a volte è dato probabilmente per sottintesa, ma più spesso, ci si trova di fronte a palesi contraddizioni. Se, infatti, il richiamo a Cesare Brandi diventa da un certo momento in poi un palese riferimento per restauratori e soprintendenze, questo pare fatto unicamente sulla scorta della lettura del primo capitolo della Teoria del Restauro laddove si enuncia il secondo principio del restauro: «Il restauro deve mirare al ristabilimento dell’unità potenziale dell’opera d’arte». Questa frase, divenuta la vulgata del pensiero di Brandi viene poi ulteriormente semplificata e travisata procedendo all’attribuzione al concetto di unità potenziale del significato proprio del tradizionale concetto di unità stilistica. Questa constatazione rende conto di quanto sia difficoltoso mantenere un parallelo tra le teorie e la prassi del restauro. La prima tesa alla chiarificazione di nodi problematici di grande complessità che non reggono la schematizzazione, la seconda tesa continuamente alla ricerca di una legittimazione teorica che sembra venire, però, continuamente mediata dalla tradizione e dal gusto personale. 135- Cesare Brandi, Teoria ... op. cit., pag. 74. 82 In questo senso è importante riflettere sul fatto se un certo procedimento restaurativo o certi prodotti siano sperimentati e trovino applicazione per una loro intrinseca e rilevante convenienza tecnica o perché vanno incontro a scelte, solitamente formali, compiute dal progettista a prescindere dall’aspetto tecnico e da constatazioni di tipo scientifico136. Certo non è cosa semplice, ma forse due esempi possono aiutare a fornire suggestioni in questo senso: penso allo sviluppo delle tecniche del consolidamento già dal XIX secolo e all’uso invalso, più tardi, di pulire regolarmente i paramenti di facciata dei monumenti. In questo senso è necessaria qualche incursione, nel mondo scientifico che ruota attorno al restauro per indagare in che modo le strade scelte dai chimici, dai fisici e dagli ingegneri per la sperimentazione, sino libere da tutte quelle “idee a priori” sui monumenti che in un certo senso finiscono per instradare la ricerca stessa verso la risoluzione di problemi che sono posti prima e che influenzano la ricerca stessa. Infatti, uno “scienziato del restauro” può scrivere nell’introduzione al proprio libro sulla scienza dei materiali: «… non solo vogliamo opporci al naturale invecchiamento di materiali che non sono stati scelti in funzione della loro curabilità […] ma nella nostra civiltà industriale vogliamo che questi monumenti in pietra all’aperto resistano senza danni alle atmosfere urbane, alle piogge acide, e ai gusti dei tempi. E come se tali requisiti non fossero ancora abbastanza challenging abbiamo aggiunto delle basilari differenze tra la conservazione della nobile patina del tempo che rappresenta l’aura spirituale dell’opera e l’eliminazione delle incrostazioni inquinanti.»137. E un altro importante testo “tecnico” sul restauro così recita: «…è poi opinione diffusa che le orribili e dannosissime croste nere che deturpano le facciate degli edifici siti in centri 136- «Il rischio implicito ai procedimenti tecnici è di attribuire ai consolidamenti e ai presidi fisico chimici una portata ambiguamente taumaturgica, che mette in primo piano gli effetti “pratici” dell’intervento, magari in forza della fiducia nella scienza. (...) Ma dal punto di vista del restauro (e del restauratore) questo non basta. Il rimedio in sé resta pur sempre un mezzo al quale decidiamo di ricorrere per un obiettivo che in ultima analisi ha ben poco di tecnico.» B. Paolo Torsello, Origini concettuali e metodologiche dell’intervento, in B. Paolo Torsello (a cura di), Il Castello di Rapallo. Progetto di restauro, Venezia, Marsilio, 1999, pag. 46. 137- Giovanni G. Amoroso, Mara Camaiti, Scienza dei materiali e restauro, Firenze, Alinea, 1997, pagg. 11-12. Il corsivo è nostro 83 urbani, siano delle patine naturali, addirittura protettive e passivanti nei confronti dell’alterazione. Per cui si tende a non pulire i monumenti, o a conservarvi almeno in parte queste croste per non “sbiancare” troppo, e “farli sembrare troppo nuovi”. […] Tutto ciò ignorando che la pulitura è indispensabile per il godimento e la corretta lettura delle opere d’arte, nonché per la buona conservazione dei materiali che le compongono. Con la pulitura si recuperano, infatti, i valori cromatici e chiaroscurali di una facciata, che non saranno certo quelli originali, ma senz’altro più vicini ad essi […]»138 Vediamo che anche tra i tecnici, e non potrebbe essere altrimenti, esiste una consapevolezza estetica che li fa agire non soltanto per risolvere i problemi posti dai progettisti riguardanti prodotti e tecniche, ma ad assumere in prima persona responsabilità di scelta sul tipo di fine da raggiungere con l’intervento. Questo certamente anche grazie ad un atteggiamento, sempre più presente tra i nostri restauratori, che tendono a demandare la progettazione dell’atto tecnico agli specialisti. Al contrario, ad esempio nelle puliture: «… il cosa togliere non è definibile su un piano esclusivamente tecnico, in quanto quel tal “cosa” possiede qualità proprie che lo rendono più o meno intrinseco oppure estraneo all’architettura, e perciò la sua eliminazione implica un ordine di valutazioni che va ben oltre il semplice fare tecnico. Per sincerarsene è sufficientemente ricordare, fra le tante controversie sulla pulitura, quelle riguardanti il limite di separazione tra crosta e patina o la misteriosa differenza tra gli strati naturali di annerimento e certe antiche pratiche di trattamento artificiali delle superfici.»139 Ma proprio coloro i quali dovrebbero dare risposte tecniche si ritrovano ostacolati da una cultura che non riesce a separare lo studio dei mezzi tecnici dalla riflessione sul fine, che pare comunque imporsi: «Sebbene apparentemente relegata in secondo 138- Lorenzo Lazzarini, Marisa Laurenzi Tabasso, Il restauro della pietra, Padova, CEDAM, 1986, pag. 105. 139- B. Paolo Torsello, La “pulitura delle superfici”: alcune domande e una riflessione, in Guido Biscontin, Guido Driussi (a cura di), La pulitura delle superfici dell’architettura, Atti del convegno Di Studi, Bressanone 3-6 luglio 1995, Padova, Libreria Progetto Editore, 1995, pag. 13. 84 piano dall’urgenza delle motivazioni conservative, la necessità di assicurare una buona leggibilità dell’immagine resta comunque importante e spesso la soluzione di questo problema è quella che determina il successo o l’insuccesso di un restauro agli occhi del pubblico. Nel caso delle superfici architettoniche ci si trova però di fronte a un dilemma che nel caso dei dipinti quasi non si pone: quale è l’immagine che si vorrebbe far leggere all’osservatore? L’immagine deve suggerire l’opera così come l’aveva ideata il suo creatore (che sarebbe il risultato che si vuole raggiungere nel caso dei dipinti, pur con le limitazioni determinate dal problema della “patina”) oppure si desidera presentare l’opera consolidata sì ma con tutti i segni del tempo trascorso (mantenendo ovviamente solo i segni che sono accettabili dal punto di vista conservativo)?»140 Si pensi allo sviluppo di consolidanti e protettivi trasparenti o a quello già accennato, delle puliture più o meno spinte. Entrambi i problemi mi pare trovino la loro prima completa esplicitazione nella letteratura specialistica degli anni sessanta. In particolare il “vezzo” di pulire le facciate dei monumenti, che Cesare Brandi fa risalire al «[…] fanatico sciovinismo di De Gaulle, a cui si deve il bucato generale che ha subito Parigi e, purtroppo, anche la cattedrale di Notre-Dame.»141. Ma già Giuseppe Zander nel 1969, in occasione della pulitura della facciata della Chiesa dei SS. Luca e Martina a Roma, parla di «[…] indiscriminata pulizia che i francesi hanno fatto delle facciate dei palazzi di Parigi»142. La chiesa romana annerita dal tempo fu radicalmente pulita e il travertino venne in seguito stuccato pesantemente. L’opera fu ridata alla città ridotta, secondo Zander, ad un modello in scala uno a uno dell’originaria facciata. Questa prima vicenda ci porta a riflettere su un aspetto del problema: la critica di 140- Giorgio Torraca, Le puliture delle facciate in pietra: necessità della conservazione e immagine del monumento, in Guido Biscontin, Guido Driussi (a cura di), La pulitura delle superfici dell’architettura, Atti del convegno Di Studi, Bressanone 3-6 luglio 1995, Padova, Libreria progetto editore, 1995, pag. 3. 141- Cesare Brandi, Restauro-miracolo per il Duomo di Modena, in «Il Corriere della Sera», 2 settembre 1984, cit. da Cesare Brandi, Il restauro. Teoria e pratica, a cura di Michele Cordaro, Roma, Editori Riuniti, 1994, pag. 230. 142- Giuseppe Zander, Un errore gravissimo nel campo del restauro: riportata come nuova la facciata di SS. Luca e Martina, in «Palladio», n. I-IV, 1969, pag. 163. 85 Zander è una critica al metodo, alla tecnica usata? Il linguaggio che egli usa per dimostrare la negatività dell’azione di restauro è di tipo dimostrativo o persuasivo? Ebbene, ciò che colpisce è comunque l’approssimazione della presa di posizione sia di chi compie il restauro, e questo è forse accettabile trattandosi spesso di tecnici poco avvezzi alla teoria, ma soprattutto da parte di chi lo critica e, nel caso di Zander e di Brandi, che partecipa alla polemica, può sorprendere. In effetti, a parte un accenno defilato e generico alla non pericolosità delle patine presenti sulla chiesa, le affermazioni di Zander sono da far ricadere nell’alveo delle affermazioni generiche legate ad un linguaggio polemico e non certo discendenti da una rigorosa critica legata a posizioni scientifiche o estetiche. Leggiamo infatti: «… il travertino esposto nel centro della città al depositarsi delle particelle incombuste mescolate al fumo […] si annerisce, perde il suo bel colore caldo, quasi più non si riconosce. Ma l’edificio ragguardevole non è il solo ad invecchiare; tutte le meno importanti case che gli sono compagne all’intorno invecchiano in pari modo. L’ambiente, il rione del centro storico è soggetto ad uno stesso fato, con qualche differenza che dipende dai materiali diversi: mentre i capelli degli uomini imbiancano, i monumenti divengono neri.»143. Brandi sullo stesso restauro scrive che «… senza ragione, senza utilità, senza criterio, si procedeva alla chetichella e a tutto vapore alla drastica scartavetratura della splendida facciata di SS. Luca e Martina che aveva nel suo travertino i riflessi di argento brunito e di peltro. […] è l’ultimo e più indecente scempio, dopo la facciata della Minerva e la Torre del Quirinale, dipinta in crema, pistacchio e fragoline di bosco.»144. Ma questo argomentare che punta molto sulla verve polemica di chi scrive, non è più legittimo di quello di chi è a favore della pulitura spinta e invoca la leggibilità dell’immagine. Entrambi si basano, in questo senso, su affermazioni di gusto che si equivalgono se diamo per scontato che nessuno, mai, ha compiuto un restauro 143- ibid. (il corsivo è nostro) 144- Cesare Brandi, La più bella chiesa di Pietro da Cortona. Sfregio al capolavoro., in «Corriere della Sera», 8 febbraio 1970. 86 ottenendo una configurazione finale non rispondente al proprio gusto, a quello del committente e, spesso, della maggioranza delle persone. 87 2.2 LA LACUNA NON REINTEGRATA: IL FRAMMENTO COME RICCHEZZA E IL GUSTO PER LA COMPLESSITÀ 2.2.1 La “conservazione” tra storia e accettazione dell’immagine frammentata «I nostri avi restauravano le statue; noi ne asportiamo i nasi finti e i pezzi di protesi; i nostri discendenti, a loro volta, opereranno senza dubbio in modo diverso. Il nostro punto di vista attuale rappresenta a un tempo un profitto e una perdita. Il bisogno di ricreare una statua completa, dalle membra posticcie, può essere dipeso in parte dall’ingenuo desiderio di possedere e di esibire un oggetto in buono stato, come porta in ogni tempo la semplice vanità dei possessori. […] I grandi collezionisti di cose antiche restauravano per pietà. E per pietà, noi provvediamo a disfare la loro opera.» Marguerite Yourcenar L'articolo 11 della Carta di Venezia recita: «Nel restauro del monumento devono essere rispettati i contributi validi nella costruzione di un monumento, a qualunque epoca appartengano, in quanto l'unità stilistica non è lo scopo di un restauro.» Quello che in apparenza sembra essere un chiaro richiamo al restauro come semplice conservazione si rivela ancora una volta viziato da un atteggiamento che non sa rinunciare, nell'avvicinarsi ad un edificio, ad esprimere giudizi di valore su di esso e sulle parti che lo compongono. In effetti, ciò che va rispettato, per gli estensori della Carta, sono unicamente i contributi “validi”, individuati tramite un giudizio estetico o storico. Non solo, anche il tema della reintegrazione delle lacune non può che passare da questa stessa strada. Già nel '44, infatti, Roberto Pane scriveva: «...è possibile che basti al restauratore avere sensibilità e cultura di critico? Se pensiamo che già la superficie di un intonaco e l'apparente neutralità di un tono di raccordo possano impegnare il gusto creativo e che il più scrupoloso rispetto delle migliori esperienze può portare, malgrado tutto ad un risultato negativo, dobbiamo concludere che non bastano. Per quanto si possa procedere 88 esclusivamente sul cammino tracciato dagli elementi più controllati e sicuri, verrà sempre il momento in cui sarà necessario gettare un ponte, operare una congiunzione, e ciò potrà essere fatto soltanto grazie ad un atto creativo (...) Data l'imprevedibile varietà dei casi particolari, appare chiaro che vi sarà modo di compiere tutte le più diverse esperienze; da quelle del puro consolidamento ... sino all'opera completamente nuova che dovrà sostituire la parte distrutta di una fabbrica, creando un felice contrasto invece che una falsa imitazione.»145. In questo modo Pane offre una definizione, probabilmente la prima, di “restauro critico e creativo” che, nel dopoguerra, sarà ripresa da Renato Bonelli e radicalizzata nel senso di un giudizio estetico come unico atto discriminante di un restauro che si rivolge unicamente alle opere d’arte. Questo atteggiamento, la convinzione profonda che sia necessario per il restauratore, oltre che per il critico e lo storico, esprimere giudizi critici in fase di analisi e in fase operativa, è ciò contro cui si battono i fautori di un'idea differente di restauro che comincia a delinearsi dagli anni '70. L'accento è immediatamente posto proprio sulla necessità di eliminare il giudizio dall'orizzonte del restauro operando, in senso fenomenologico, una epoché che permetta di eliminare, così almeno pare, quell'aporia di fondo che da Giovannoni in poi tutte le carte del restauro si portano dietro. Una delle prime enunciazioni della conservazione integrale la offre Marco Dezzi Bardeschi, nel 1977, con la sua relazione al Convegno Il restauro in Italia e la Carta di Venezia. Dezzi Bardeschi rileva in primo luogo come la cultura storica del momento si caratterizzi per il fatto che «dalla critica qualitativa (selettiva “per valori”) si è passati all'analisi quantitativa sul campo: se tradizionalmente per i monumenti la molla privilegiata che ha reclamato e giustificato l'intervento è consistita nel giudizio estetico (...) e nel riconoscimento del valore (cioè nella maggiore o minore monumentalità della fabbrica), per il costruito diffuso è prevalentemente il processo 145- Roberto Pane, Il restauro dei monumenti, in «Aretusa», n. 1, 1944. 89 di degrado, sia della consistenza materica (cioè della fabbrica come cultura materiale) sia dei valori d'uso intrinsecamente legati l'uno all'altro, a far scattare il campanello d'allarme dell'intervento.»146. In questo senso viene meno l’interesse per l’architettura come esempio della creatività artistica sostituito dall’interesse per l’architettura come testimonianza di civiltà. Il tutto come riflesso, da un lato della crisi dell’estetica definitoria risalente alla prima metà del secolo e, dall’altro, dello sviluppo della storia quantitativa codificata dalla scuola degli “Annales”. Porre l’attenzione sulla cultura materiale, sulla lettura delle tracce che l’uomo ha impresso sul territorio senza limitarsi unicamente a ciò che è rimasto scritto, comporta una modificazione profonda della prospettiva entro cui gli studi storici dell’architettura si muovono, provocando l’incremento e l’allargamento d’orizzonte degli studi archeologici che passano dall’interesse esclusivo per i reperti classici - dunque per lo scavo - all’inclusione a pieno titolo nella disciplina di tutto ciò che è “elevato”, in particolar modo i reperti d’epoca medievale. Ma la componente più interessante di questo cambiamento di prospettiva è la nascita delle nozioni di cultura di massa e di bene culturale147. Già alla fine degli anni ’50 il dibattito sulla cultura di massa è presente ed acceso soprattutto in ambito statunitense148. Del 1964 è il saggio Apocalittici e integrati di Umberto Eco che è quasi un compendio delle posizioni fino ad allora venute alla luce. Il tema è di grande interesse e ci accompagnerà, da quel momento in poi, mettendo in luce due posizioni differenti: chi vede nella cultura di massa, come oggi nella globalizzazione, 146- Marco Dezzi Bardeschi, Modi e tecniche della conservazione, in, AA.VV., Il restauro in Italia e la Carta di Venezia, Atti del Convegno ICOMOS, Napoli-Ravello, 28 settembre-1 ottobre 1977, in «Restauro», n. 33-34, 1977, pag. 87. 147- Sulla situazione in Italia scrive Paolo Torsello: «La nozione di “bene culturale” si diffonde soprattutto agli inizi degli anni settanta e trova concomitanza in due eventi istituzionali: la “Costituzione dell’Istituto per i beni artistici, culturali e naturali della Regione Emilia Romagna” (1974) e l’istituzione del “Ministero per i beni culturali e per l’ambiente (1974)», in La materia del Restauro. Tecniche e teorie analitiche, Venezia, Marsilio, 1988, pag. 33. 148- Sono di questo periodo saggi fondamentali come quello di Marshall McLuhan, The Guttenberg Galaxy, e quello di Dwight McDonald, Against the american Grain, entrambi del 1962, in ambito francese, L’esprit du temps, di Edgar Morin, anch’esso pubblicato nel 1962 e in Italia Le oscillazioni del Gusto, e Il divenire delle arti, entrambi di Gillo Dorfles, del 1958 e 1959. 90 l’origine di ogni male e chi, all’opposto, ne afferma fortemente i vantaggi. Non è possibile in questa sede dare neppure un breve accenno se non generalissimo a questo tema ma ciò che ci interessa, in special modo, è il modo in cui questo dibattito ha influenzato lo sviluppo del secondo concetto quello di bene culturale. Nel testo di Eco, infatti, riprendendo le tesi di Edgar Morin viene schematizzata la formazione di livelli differenti di valori estetici: «… da un lato l’azione di un’arte di avanguardia, che non pretende e non deve pretendere alla immediata comprensibilità, e che svolge azione di sperimentazione sulle forme possibili (…); dall’altro un sistema di “traduzioni” e di “mediazioni”, talora con scarti di decenni, per cui modi di formare (con sistemi di valori connessi) si ritrovano a livelli di più vasta comprensibilità, integrati ormai nella sensibilità comune, in una dialettica di reciproche influenze assai difficili a definire e che tuttavia si instaura attraverso una serie di rapporti culturali di vario genere»149. Riconosciamo il tentativo di dare un’interpretazione del meccanismo tramite il quale si produce la possibilità di fruire esteticamente delle opere d’arte da parte di un’enorme massa di persone, laddove in precedenza tale utilizzo era privilegio di pochi. Anche Françoise Choay, nel suo saggio L’allegoria del patrimonio, riflette su questo tema e sull’avvento del concetto di bene culturale e di patrimonio, considerando i guasti che l’industria della cultura di massa ha provocato sui monumenti. L’industria dei beni culturali ha la sua data di nascita ufficiale negli anni Sessanta con la creazione del Ministère de la Culture e il suo uomo della provvidenza in André Malraux che da avvio alla creazioni delle Case della cultura. Se da un certo punto di vista questa “democratizzazione della cultura” appare positiva ed auspicabile (fermo restando i mille interrogativi sul fatto se sia veramente la Cultura con la maiuscola ad essere divenuta accessibile o unicamente un sottoprodotto creato ad hoc per il palato della middle class), dall’altro ha portato alla creazione di una vera e propria industria basata sulla richiesta crescente, da parte della classe 149- Umberto Eco, Apocalittici e integrati, Torino, Bompiani, 1964, (2001), pag. 54-55. 91 media, di fruire turisticamente delle opere d’arte, dei centri storici e dei beni culturali in genere. Un aspetto preminente della nascita dei beni culturali è dunque legato al loro sfruttamento economico. La vicenda è sinteticamente esposta, nel 1977 da Roberto Di Stefano che afferma che «Dal 1964 ad oggi (…), il concetto di bene culturale si è andato sempre più estendendo con il risultato di comprendere una quantità sempre crescente di oggetti e, in conseguenza, anche di grandi parti del territorio. (…) Con l’aumentare (anche quantitativo) del patrimonio da tutelare, infatti, non basta più che la conservazione sia attiva (cioè esercitata con impegno e partecipazione dei pubblici poteri) ma occorre che sia anche perfettamente integrata nella vita della collettività; vale a dire che l’azione di conservazione non può essere una qualsiasi delle attività che svolge il sistema associato ma, per la sua importanza e dimensione, deve costituire l’azione primaria e vitale della società stessa. (…) In tale ottica, dunque, la conservazione è un’azione finalizzata alla utilizzazione di un bene economico»150. Già nel 1975, tra l’altro, il peso del turismo culturale era tale che l’ICOMOS ritenne necessario studiare i mezzi per evitare il degrado provocato dalle attività turistiche e pubblicare una Carta del Turismo Culturale che, comunque sia, sancisce che «Il turismo è un fatto sociale, umano, economico e culturale irreversibile»151. A questo punto l’industria dei beni culturali appare ormai avviata verso il suo naturale approdo: quello del problema della valorizzazione di quegli stessi beni. È un termine fortunato valorizzazione ma, forse proprio per questo, ambiguo poiché si riferisce ad una serie eterogenea di azioni che vanno dalla salvaguardia alla tutela, dalla conservazione al restauro, dal recupero alla modificazione della destinazione d’uso giungendo ad accettare tutte le manomissioni necessarie allo sfruttamento completo di un monumento in quanto “contenitore culturale”. Dunque, se dal punto di vista 150- Roberto Di Stefano, Sviluppo del concetto di conservazione, in «Restauro», n. 33-34, 1977, pag. 32-33. 151- Carta del Turismo culturale, in «Restauro», n. 36, 1978, pag. 85. 92 etimologico non dovremmo essere di fronte ad un atto teso ad aggiungere valore, bensì, semplicemente, al «dispiegamento, rivelazione, tangibilità e comunicazione del valore dato», ad una concezione del termine valorizzazione come «processo di comunicazione»152, al contrario, nella pratica, si dimostra la forte tendenza a farlo, particolarmente per quel che concerne i valori d’uso153. Tutto questo, associato all’atteggiamento indicato più sopra da Di Stefano, ha portato a coniare termini quale giacimento culturale che poco spazio lasciano alla fantasia e puntano diritto al concetto di sfruttamento economico, facendo sì che «ricostituzioni “storiche” o fantastiche, distruzioni arbitrarie, restauri camuffati, sono divenuti modi di valorizzazione correnti»154. «Ora, però, un po’ da tutte le parti spuntano legioni di “verdi”, associazioni spontanee, soprattutto di giovani, le quali - andando controcorrente - agitano la bandiera della conservazione e della tutela ad oltranza di ciò che è riconosciuto irrinunciabile patrimonio comune»155, spostando l’attenzione «…da una storia stilistica delle (belle e rare) forme d'Arte alla storia economica dell'uso sociale: l'irrompere nella storia del mondo popolare subalterno agli inizi degli anni '50, col trionfo del neorealismo, è parso irreversibile»156. L’architettura, in questa nuova visione delle cose, non appare più il risultato di un atto quasi magico, individuale, ma «il diretto risultato del lavoro materiale dell’uomo, identificandosi quantitativamente con la stessa storia delle classi 152- Franco Borsi, Il restauro: una sfida mondiale?, Roma, Officina edizioni, 1996, pag. 63. 153- «approccio di conoscenza, semplice presa d’atto, contatto anche a livello prettamente turistico di divulgazione con mezzi e tramiti informatici e mediatici. Insomma valorizzazione come, con una orrenda parola si è detto, “fruizione”, cioè godimento, utilizzazione, presenza nel quotidiano e nella vita comune del bene culturale non considerato come oggetto astratto, codificato, distante, lontano, auratico ma come elemento di educazione, conoscenza, partecipazione, vita» in Franco Borsi, Il restauro: una sfida mondiale?, Roma, Officina edizioni, 1996, pag. 63 154- Françoise Choay, L’Allegorie du Patrimoine, Paris, Ed. Seuil, 1992 (trad. it., L’allegoria del patrimonio, Roma, Officina, 1995, pag. 141) 155- Marco Dezzi Bardeschi, Pratica della conservazione e cultura materiale: dalle tecniche di riconoscimento ai cantieri sperimentali, 1978, sta in Restauro punto e da capo: frammenti per una (impossibile) teoria, a cura di V. Locatelli (a cura di ), Milano, Franco Angeli, 1991, pag. 145. 156- Marco Dezzi Bardeschi, Archeologia della fabbrica e cultura materiale: immagine, realtà, destino, in «Restauro», n. 38-39, 1978. 93 popolari, delle classi subalterne, fatta di pietra, calce e mattoni, con quella insomma che Bloch ha chiamato storia dell’umile, silenzioso “lavoro senza gloria” dell'operaio, quella storia che al contrario - finora - è stata "scritta" dalle classi dirigenti, dalle classi aristocratiche, dalle élites al potere, o non è stata scritta affatto»157. La conservazione dunque nasce con una connotazione ideologica che non può essere trascurata158. Principale obiettivo da abbattere è la cultura dominante che nel campo artistico e del restauro, in particolare, significa cultura neo-idealista. I punti salienti di questo primo periodo della cultura della conservazione sono: conflitto con il pensiero “aristocratico”, con i retaggi di idealismo e il tentativo di costruire costruzione una cultura diversa a servizio della massa, cultura democratica159 che deve necessariamente fondersi su una storiografia che colga gli aspetti della realtà fino a quel momento trascurati. Una storia delle classi subalterne ma anche una storia dell'architettura come manufatto che è possibile far risalire non solo alla mente di un «architetto da tavolino [ma] alle maestranze, all'operaio, all'artigiano che all'opera danno corpo e forma»160. L'immagine dell’architettura, in questo periodo, è quasi demonizzata, vista come emblema di uno studio finalizzato unicamente alla formazione del giudizio di valore 157- ibid. 158- Scrive, inoltre, Dezzi Bardeschi: «Una tale rivoluzione della metodologia di lavoro per l'architettura, comporta lo spostamento dell'attenzione dalle singole prestigiose, irripetibili personalità creatrici (...) alle istituzioni, alla committenza, ai supporti e al cantiere: dalla storia, dunque, delle classi e delle ideologie dominanti alla storia delle classi lavoratrici, delle strutture e dei mezzi di produzione, alla storia insomma di quei beni materiali che, pur costituendo spesso le sole tracce residue di sopravvivenza di una cultura, vengono tradizionalmente visti e usati con sufficienza o distrazione come presenze e come testimonianze irrilevanti, come punti deboli dell'armatura morfologica della città e del suo territorio», in Archeologia della fabbrica e cultura materiale: immagine, realtà, destino, in «Restauro», n. 38-39, 1978. 159- «L'architettura così ha cominciato finalmente ad apparire come il diretto risultato del lavoro materiale dell'uomo, identificandosi quantitativamente con la stessa storia delle classi popolari, delle classi subalterne, fatta di pietra, calce e mattoni, con quella insomma che Bloch ha chiamato la storia dell'umile, silenzioso “lavoro senza gloria” dell’operaio, quella storia che al contrario – finora – è stata “scritta” dalle classi dirigenti, dalle classi aristocratiche, dalle élites al potere, o non è stata scritta affatto.», Marco Dezzi Bardeschi, Archeologia della fabbrica e cultura materiale: immagine, realtà, destino, in «Restauro», n. 38-39, 1978. 160- Marco Dezzi Bardeschi, Restauro: costruire, distruggere, conservare, in «Rinascita», n. 39, 1976. 94 che, nel caso del restauro, è usato per individuare il tipo di intervento. L'opposizione è rivolta sia verso l’attività critica dello storico dell’architettura sia verso l’opera del restauratore sentite entrambe come prevaricazione del pensiero del singolo sul molteplice. La posizione anti-idealista si precisa laddove si evidenzia il riconoscimento della dignità di qualunque segno, anche non progettato, lasciato sulla fabbrica. Anzi, proprio questi segni inconsapevoli sono quelli che raccontano l'inedito e cioè qualcosa che non sarà mai possibile rintracciare in alcun archivio tradizionale. In questa prospettiva, ciò che devo tramandare e dunque conservare integralmente è la quantità dei segni tracciati e questi assumono valore non per un’imposizione taumaturgica del critico ma per il solo fatto di essere, hic et nunc. Qualunque modifica progettata sarebbe in ogni caso d'élite e in quanto tale si posizionerebbe in una sfera della storia estranea a quella che in questo momento si vuole tracciare. Ritornerebbe ad essere storia aristocratica che, inoltre, con il suo insistere sull’edificio non può che annullare tracce comunque più significative. In questi anni, fino ai primissimi anni '80, troviamo questi concetti espressi con il linguaggio della polemica e della contrapposizione ma proprio all'esordio del nuovo decennio si assiste alla prima di numerose polemiche che coinvolgeranno importanti studiosi stimolando i conservatori a riflettere sui principi teorici della propria posizione. È proprio del 1980 una serie di articoli che prendono l’avvio dal saggio Ricchi apparati e povere idee pubblicato su «Op. Cit.» da Renato De Fusco161 al quale controbattono Salvatore Boscarino162, Renato Bonelli163 e Amedeo Bellini164 161- Renato De Fusco, Ricchi apparati, povere idee, in «Op. Cit.», n. 49, 1980, pagg. 5-16. Ciò che dà avvio alla polemica è la presa di posizione dello storico per il “restauro attivo”, ossia «una forma di conservazione che esprime al tempo stesso e nel modo più flagrante le idee e le esigenze del nostro tempo». Questa posizione comporta una rifondazione teorica del restauro che metta a fuoco «anzitutto i criteri di individuazione, di causalità e di scelta (operazioni tutte pertinenti alla storia) da adottare in presenza dell’opera da restaurare; (…) In altre parole, penso all’indagine storica come momento primario dell’attività di restauro». Una indagine storica che si potrà sviluppare secondo quattro direttive metodologiche fondamentali: «formalistica, sociologica, iconologica, semiologica o strutturalista». 162- Salvatore Boscarino, Il restauro architettonico tra idee ed apparati, in «Restauro», n. 51, 1980, pag. 9298. Lo studioso accetta l’impostazione metodologica di De Fusco e prende posizione 95 che si confrontano su un concetto centrale della disciplina: il rapporto con la storia e in particolare con il giudizio storico. Ma è nella seconda metà fine degli anni Ottanta che se ne precisano le coordinate culturali. Si può scorgere allora, negli scritti degli studiosi che si occupano di riflettere sulla teoria del restauro165 e della conservazione in particolare, l'esigenza di compiere riflessioni che non siano finalizzate alla risoluzione di problemi o al confezionamento di risposte pericolosamente univoche ma che, piuttosto, diano luogo alla definizione di nuovi e scegliendo una delle direttive: «Personalmente ritengo che (…) quella semiologico-strutturalista sia la più conveniente ai processi operativi di restauro per la capacità di far emergere attraverso lo studio dei segni le parti costituenti, le parole del discorso architettonico, i loro caratteri invarianti che sono poi le “cose” che il Restauro alla fine deve conservare attraverso le operazioni tecniche e quelle di riuso. Occorre una storiografia che non privilegi quello che si vede ma il processo strutturale, che fatalmente si invera in quello costruttivo, quello d’uso e quello delle modificazioni nel tempo». 163- Renato Bonelli, Storiografia e Restauro, in «Op. cit.», n. 50, 1981, ripubblicato in «Restauro», n. 51, 1980, pagg. 83-91. Dopo aver affermato che sia il restauro critico sia gli scritti di Cesare Brandi mettono in primo piano l’importanza dell’indagine storica, Bonelli afferma essere necessario un ulteriore atto critico precedente all’analisi e al giudizio storico, atto che, riferito direttamente all’oggetto da restaurare, lo considera in quanto opera d’arte, «quale immagine figurata e cioè quale configurazione visibile». Bonelli pone in primo piano il prevalere dell’istanza estetica su quella storica e sposta il nodo teorico dell’interpretazione storico-critica sulla ricerca di un «altro metodo idoneo ad assicurare una lettura critico-valutativa per immagini, senza indebite intrusioni da parte di interpretazioni per concetti.» 164- Amedeo Bellini, Ricchi apparati e povere idee, in «Restauro», n. 51, 1980, pagg. 67-82. Lo studioso milanese mette in discussione il principio stesso del ragionamento di De Fusco e in generale di tutti i partecipanti al confronto disciplinare in atto. Finalità dell’indagine storica non deve essere quella di giungere ad un giudizio che funga da retroterra giustificativo all’atto operativo. Al contrario, «primo scopo dell’indagine storica ad hoc è l’esame dei fatti che materialmente hanno prodotto e modificato l’edificio; è l’analisi della somma delle vicende costruttive e d’uso, delle relazioni tra vicende d’uso e trasformazioni. Storia che non deve tradursi in generalizzazioni, astrazioni, fondazioni ideologiche, ma in conoscenza fisica, in provvedimenti tecnici il cui grado di “certezza” è soltanto quello probabilistico che è proprio delle scienze sperimentali ma che proprio la riflessione critica guida». L’argomento verrà poi ripreso dall’autore nel saggio Istanze storiche e selezione nel restauro architettonico, in «Restauro», n. 68-69, 1983, pagg. 147-158. 165- Sono pubblicati in questo periodo: di Amedeo Bellini, Teoria del restauro e conservazione architettonica, che apre il volume Tecniche della conservazione, del 1986, La superficie registra il mutamento perciò deve essere conservata, del 1990, il libro di Paolo Torsello La materia del restauro del 1988, i saggi di Dezzi Bardeschi su «Domus» e su «Recuperare» in cui la parola conservare appare quasi ossessivamente nei titoli: Saper conservare per poter innovare, Conservare, non riprodurre il moderno, Conservare e non manomettere l’esistente, fino alla raccolta del 1991, Restauro punto e da capo: frammenti per una impossibile teoria, lo scritto di Giovanni Carbonara Restauro tra conservazione e ripristino: note sui più attuali orientamenti di metodo, del 1990, i saggi di Francesco La Regina, Restaurare o conservare, la costruzione logica e metodologica del restauro architettonico, del 1984, e Come un ferro rovente, cultura e prassi del restauro architettonico, del 1992. 96 inediti campi di riflessione che dalle domande di partenza facciano sorgere ulteriori domande, in un gioco di rimandi e di infinita acquisizione di conoscenza. Si legge la realtà alla ricerca della sua struttura, dei segni e delle tracce che la denotano, si sviluppano le interpretazioni e si teorizza che queste siano infinite, si percorre la via dei giochi linguistici al fine di scoprire campi inediti e inattesi della riflessione, non ci si pone come obiettivo il giungere a conclusioni definitive, lasciando, al contrario, l'apertura alle possibili repliche, al conflitto, alla partecipazione. Il restauro si configura come un atto strettamente tecnico che salvaguarda il testo su cui continuare l'interpretazione e l'apprendimento166. Un articolo del 1989 di Dezzi Bardeschi167 ci permette di elencare i riferimenti culturali che in quegli anni si sono venuti chiarendo all'interno della conservazione, e in particolare i temi: - della complessità, mutuato dalla riflessione in campo epistemologico; - del "pensiero debole" e in generale della riflessione sul post-modern; - dell'ascolto e della pietas verso il quotidiano e l'esistente; - dell'elogio della diversità; - della morte della scienza classica e della sua razionalità; - della morte dell'estetica; - dell'elogio del sospetto. A questi si accompagnano le fondamentali acquisizioni in campo metodologico che provengono da diverse discipline quali l'archeologia dell'elevato, la storia quantitativa, lo strutturalismo, la semiologia. La posizione conservativa riflette anche sull’ormai tradizionale problema della reintegrazione delle lacune168. L'architettura è vista dalla cultura della conservazione 166- «Il Restauro non è, dunque, materia da concludere, ma momento di ricerca e di aperture». Così B. Paolo Torsello conclude il suo libro La materia del restauro, Venezia, Marsilio, 1988, pag. 202. 167- Marco Dezzi Bardeschi, Semplice/ Complesso/ Irriducibile: verso nuove disciplinarità, in Carolina Di Biase, (a cura di), Nuova complessità e progetto dell’esistente, Milano, Franco Angeli, 1989. 168- Si vedano in particolare gli atti dei due convegni tenutisi nel 1997: Maria Margarita Segarra Lagunes (a cura di), La reintegrazione nel restauro dell’antico. La protezione del patrimonio dal rischio sismico, Atti del seminario di studi Paestum 1997, Roma, Gangemi editore, 1997, e G. 97 come oggetto complesso e stratificato che non contempla la possibilità che si dia una lacuna se non nell'accezione di mancanza. Infatti, in una visione dell'architettura come oggetto che assume valore dai segni che la rendono significante, tutte le tracce appaiono necessarie nella stessa misura e rimandano a un senso di completezza che, tuttavia, non va più intesa nel senso classico ma in quello di compresenza e salvaguardia della loro reciprocità finalizzata alla leggibilità del succedersi cronologico degli eventi. Questo perché la ricostruzione dei possibili testi non è più univocamente fattibile, come si credeva in passato: la comprensione, se è possibile parlare di questo, è destinata ad essere solo parziale e contingente. Dunque giudizio e comprensione si separano poiché non è più immaginabile univocità tra comprensione vera e unica e il giudizio correlato: i giudizi possibili sono infiniti come infinite sono le comprensioni. In quest'ottica la lacuna assume un’ulteriore valenza: non più solo mancanza, ma occasione di conoscenza. Sia nel caso in cui si agisca coscientemente operando distruzioni alla ricerca di configurazioni precedenti, direttamente alla ricerca di ciò che non si vede, sia nel caso in cui questa scoperta avvenga accidentalmente (pensiamo ad una grossa porzione di intonaco che si distacchi da una facciata neoclassica rivelando con la sua mancanza un tratto riconoscibile di quella che era una bifora trecentesca), possiamo parlare di lacuna come “indizio di un percorso”. Siamo di fronte, in questo caso, a un curioso rivolgimento: ciò che nasce come lacuna del testo ultimo si rivela essere segno prorompente, evocativo di un altro testo più antico che ha continuato ad esistere al di sotto della più recente pelle. Da sempre è stato difficile resistere alla tentazione di eliminare la lacuna e completare la facciata medievale, aiutati in questa scelta dalla possibilità di esprimere un giudizio estetico sfavorevole verso il testo ultimo e allo stesso tempo essendo portatori di un Biscontin, G. Driussi (a cura di), Lacune in architettura. Aspetti teorici e operativi, Atti del Convegno di Bressanone, Marghera-Venezia, Arcadia ricerche, 1997. 98 valore storico che, non accompagnato da un problema di autenticità della materia, permetteva di ricostruire la facies medievale del monumento. Il nostro secolo ha usato la lacuna anche come elemento evocativo, come segno che ha il compito di far affiorare alla superficie ciò che si cela dietro l'ultima configurazione. E se questo atteggiamento di presa di coscienza verso l'importanza del “palinsesto” era già chiaro, come si è visto, in Giovannoni, il restauro tipologico giunge fino al punto di ricreare quello stesso palinsesto. In questo caso la lacuna si trasforma in un vero e proprio frammento evocativo che fa scattare il meccanismo dell'immaginazione che rintraccia da quei semplici segni un racconto che testimoni dell'Idea, della verità del restauratore. Non ci si discosta poi molto dalle posizioni ottocentesche: anche in questo caso siamo di fronte ad un concetto di verità sganciata dalla processualità della trasformazione temporale, che si erge a metro di giudizio e che permette la modificazione dello stato di fatto. La verità del restauro tipologico è il Tipo, valore che una volta ricavato con un procedimento critico, è atemporale e può essere usato per rendere vero e significativo un oggetto. «...Caniggia non era (...) disposto a concedere che il singolo atto edilizio, mai ripetuto e dunque estraneo al tempo lungo dei processi tipologici, potesse avere tanto interesse da dover essere conservato; e che qualsiasi oggetto edilizio non potesse essere riprodotto attraverso un atto tecnico analogo»169. Le facciate degli edifici da lui restaurati170 divengono testi stratificati, in cui dalla facies che ci era pervenuta vengono estratti, tramite l'apertura di varchi in punti significativi, quei segni che fanno leggere l'evoluzione tipologica dell'oggetto. Ma la conservazione si fa portatrice di un modo differente di guardare alle lacune, non più soggetto passivo delle costruzioni teoriche altrui ma attivamente 169- Stefano Della Torre, La speranza di un divenire organico del nostro mondo. Gianfranco Caniggia e la città di Como, in “’ΑΝΑΓΚΕ”, n. 9/1995. 170- Ricordiamo che Paolo Maretto nel 1960 scriveva. “... Così quando noi restaureremo una casa veneziana saremo portati a intuirne e a ricrearne l’immagine originaria, comprendendone e reintegrandone quei contenuti distributivo-strutturali che, per i valori spirituali che rappresentano, danno all’immagine estetica pienezza e vitalità di forma artistica ... ” Paolo Maretto, L’edilizia gotica veneziana, in “Palladio”, n. III-IV, 1960 99 disvelatrice di conoscenza. Se, infatti, è possibile, a partire da determinate premesse (verità come conformazione, giudizio e comprensione univoci) manipolare (riprodurre) un oggetto al fine di renderlo “vero”, accade anche che, cadute quelle stesse premesse questa manipolazione non sia più pensabile. Non possedendo un'idea unica e forte a cui conformarsi, si creano infinite idee generali partendo dall'analisi e dall'interpretazione dei singoli particolari che compongono l'oggetto stesso. Questo fa sì che un particolare, discordante rispetto al tutto, non faccia entrare in crisi il sistema generale ma introduca semplicemente un motivo ulteriore di riflessione e induca al ripensamento, invece che all'istinto di omologazione (come avveniva in passato) e alla sua eliminazione in quanto “errore”. Da questo ordine di idee discende la necessità di salvaguardare la presenza, sempre e comunque, di tutti i particolari in quanto, ogni volta, la coscienza ne prende in considerazione solo alcuni tra gli infiniti possibili e, di questi, solo un aspetto tra gli infiniti. Imponendo un unico significato ad un particolare, tramite la riproduzione o comunque con la modificazione portata da un restauro, inevitabilmente si agirebbe sul tutto. La lacuna allora è vista come elemento di infinito auto-disvelamento. Un elemento in ogni caso rimane estraneo alla cultura della conservazione: qualunque riferimento all'immagine e alla configurazione che l'oggetto del proprio intervento viene ad assumere. In effetti, l'aver posto come base del proprio riflettere l'eliminazione del giudizio estetico dall'orizzonte conoscitivo, in apparenza offre garanzie sul fatto che tutto il discorso sulla pelle, sulla superficie percettiva dell'edificio possa essere trascurato. Non ponendolo come punto di partenza dell'operare si pensa sia possibile disinteressarsene del tutto. Rimane però il fatto che l'edificio, comunque trattato, possiede una sua immagine e la mantiene o la vede modificata dall'intervento di restauro. E quell'immagine è ciò che i fruitori, i committenti, gli sponsor, 100 percepiscono in prima battuta di fronte all'edificio; tutto il resto è posteriore e dunque influenzato da questo primo impatto. Questo anche nel caso, improbabile, in cui un edificio dopo il restauro apparisse non modificato. La sua immagine sarebbe in ogni caso percepita come nuova, perché derivante da una scelta, da un progetto (e in effetti così è, la scelta di non modificarla) e dunque verrebbe giudicata secondo i parametri del gusto del momento. In questo senso la frase di Paolo Marconi «... la cura per l'involucro esterno, a causa di un’esasperata tecnicizzazione dei problemi ad essa connessi, rischia di perdere contatto con il problema capitale, che è poi quello del risultato estetico dell'operazione conservativa»171 è vera ma in un senso diverso da quello che intendeva lo studioso romano. Il fatto di non voler riflettere sull'impatto estetico dell'operazione conservativa può provocare una mancata presa di coscienza del problema e dunque un’incapacità di evidenziarne i possibili lati positivi che esso nasconde. 171- Paolo Marconi, Arte e cultura della manutenzione dei monumenti, Roma- Bari, Laterza, 1984. 101 2.2.2 LA FORTUNA DEL FRAMMENTO TRA ROMANTICISMO E POST-MODERNISMO «È come se la verità si riproducesse nei mille frammenti in cui esplode uno specchio» Theodor W. Adorno Abbiamo visto come nella seconda metà del XX secolo, nel dibattito sul restauro, venga portata in primo piano la possibilità del non reintegro delle lacune e, con essa, la caduta della necessità della ricomposizione estetica di un monumento finalizzata all’unità figurale. Ciò significa, almeno in parte, che l’immagine dell’architettura così come è giunta fino a noi, con tutto il suo valore dell’antico, pare incontrare il gusto di alcuni restauratori, di alcuni committenti e di parte del pubblico. Qualcosa si è modificato e questo ha significato, ad esempio, cominciare a proporre il restauro degli intonaci finalizzato al solo consolidamento e reintegrazione locale, piuttosto che al sistematico rifacimento: fino a giungere all’esplicita presa di posizione riguardo al non risarcimento delle lacune. In generale è possibile dire che sia venuta meno la fiducia nella possibilità di rintracciare una unità, sia essa stilistica, scientifica, storica, o ermeneutica. Questo ha provocato nei teorici del restauro l’incapacità di prefigurare letture complessive e deterministiche della realtà, in linea con la condizione che Lyotard chiama postmoderna e, aggiungo, lo svilupparsi di un gusto per i complessi sistemi di segni e di tracce che circondano. Già nel 1966 Robert Venturi iniziò il suo Complessità e contraddizione con la frase: «Io amo gli elementi che sono ibridi piuttosto che “puri”, quelli di compromesso piuttosto che quelli “puliti”, contorti piuttosto che “articolati”, corrotti quanto anonimi, noiosi quanto interessanti, convenzionali piuttosto che disegnati, accomodanti piuttosto che esclusivi, ridondanti piuttosto che semplici, tradizionali quanto innovatori, incoerenti 102 ed equivoci piuttosto che chiari e diretti. Io sono per il disordine pieno di vitalità più che per l'unità ovvia; accetto il non sequitur e proclamo la dualità.»172 Questo è solo un esempio delle profonde modificazioni alle quali abbiamo assistito negli ultimi decenni del XX secolo e che si sono ripercosse su tutti i campi della cultura portando, come già detto, al rifiuto di qualunque costruzione unitaria e globale (come ancora era la visione modernista) e dunque al ripiegamento verso un relativismo, forse un po’ pessimistico, ma che d'altra parte affina la sensibilità verso la diversità e il contrasto delle cose e delle forme. Processo, questo, che porta all'accettazione del non finito, del non omogeneo, del frammentario, della continua interpretazione, della coesistenza, dell'inclusione contro l'esclusione, della giustapposizione e sovrapposizione, del contraddittorio, del caotico e vitale. Una frammentazione che rintracciamo già nel tardo Settecento e che si manifesta in un certo indugiare sul frammento, ma sempre visto come una parte che appartiene ad un tutto e che al tutto fa riferimento in un rimando continuo, di tipo evocativo. Anche quando il frammento assume una sua autonomia estetica, questo avviene sempre in modo patologico, anche se affascinante, mettendo in campo costantemente il sentimento del sublime. Nel Novecento, come abbiamo visto nel primo capitolo il problema della frammentazione coinvolse ogni sfera dell’umano173, e possiamo schematizzarlo nella rottura dell'unità dell'essere (a partire dagli studi psicanalitici di 172- Robert Venturi, Complexity and contradiction in architecture, New York, The Museum of Modern Art, 1966 (trad. it. Complessità e contraddizioni nell’architettura, Bari, Dedalo, 1980). 173- «Ed ecco, allora, la “medicina” necessaria: occorre sbarazzarsi del Tutto, dell’Unità, dell’incondizionato – di tutto ciò che non potrebbe, alla fine, essere detto che “Dio”. “Bisogna mandare il tutto in frantumi. Man muss das All zersplittern” (Frammenti postumi, 1887-88, 11-74). La parte “serva” al Tutto si libera del proprio antico Signore, denunciando l’infondatezza del suo dominio, della sua arché.. La parte non viene “salvata” nell’abbraccio del Tutto, ma imprigionata in esso: occorre riprendere “per le cose prossime e nostre ciò che abbiamo dato all’ignoto e ala tutto” (ibidem). Il Tutto è l’ignoto e la sua “idea” offende la integrità, la bellezza, la salute delle cose concrete, delle parti – cioè il loro essere interi. Mantenere il Tutto è mantenere tutti i grandi ed irrisolvibili problemi, condannarci eternamente al gioco delle antinomie. È necessario guarire totalmente (…) del Tutto. L’incantamento del Tutto, mutila l’esistenza della parte. Perché la parte viva, l’idea del Tutto va ridotta in frantumi.» Massimo Cacciari, I frantumi del tutto, in «Casabella», n. 684-685, 2001, pag. 6. 103 Freud); rottura dell’unità dello spazio; rottura dell’unità del tempo. Questa condizione esistenziale diventa senso comune nell’ambito del pensiero occidentale solo nella seconda metà del XX secolo. A differenza dall’interesse romantico ma sempre angosciato per il frammento, nel Novecento assistiamo ad una accettazione piena che non rimanda ad un “tutto” andato perduto. Il frammento è autonomo e da esso è possibile un rimando ad ulteriori frammenti ma senza necessità di correlazioni. Sovrapposizioni, giustapposizioni, intrecci ed unioni non compongono mai un “completo” ma diversi e sempre implementabili orizzonti di significato. La frammentazione, di conseguenza, viene vissuta come possibilità di continua conoscenza, intesa come interpretazione, di più, come somma di interpretazioni sempre differenti che danno conto della complessità delle cose e delle visioni del mondo di ciascun interprete. In questo senso, dunque, la tendenza alla frammentazione non è più vissuta con senso di angoscia, come patologia del moderno, ma come possibilità ulteriore data all'interprete per individuare non la verità, ma le possibili regioni di verità all'interno delle quali possa darsi un discorso di una certa coerenza. Frammentazione naturalmente significa anche immagine frammentata e non solo frammenti di significati. Vediamo allora come è vissuto, nel restauro, questo ulteriore passaggio che sembra voler abbandonare del tutto la tendenza all’unità. abbiamo visto come la cultura della conservazione in una prima fase (fine anni ’70 e per tutti gli anni ’80) metta in primo piano la chiarificazione del suo interesse per l’aspetto contenutistico e per il portato culturale-sociale dell’architettura, ponendo in secondo piano l’immagine. Su questo sentire si innesta la cultura del postmodernismo che solo negli anni Ottanta comincia ad uscire dalla cerchia degli specialistici diventando, in particolar modo nella cultura architettonica, un importante punto di riferimento. I temi del postmoderno, trasfusi nel pensiero intorno alla conservazione, si accompagnano ad una precedente acquisizione critica che vede lo studio 104 dell’architettura legata strettamente alla metodologia strutturalista e semiologia e alla definizione di architettura come testo (contro un Brandi che la rifiuta174), che allontana, una volta di più, l’approccio formale classicamente inteso, puntando l’attenzione su struttura, langue, parole, sintagmi, segni, tracce, significanti e significati. Parlare dell’edificio diviene fare esercizio ermeneutico, interpretarlo, coinvolgerlo in giochi linguistici che ne permettano la problematizzazione e la risemantizzazione. In questa prima fase, coincidente con i primi anni Ottanta, ancora non troviamo tracce dell’influenza che la cultura della frammentazione e dunque del gusto per il non finito, per il degradato, per il rottame175 che per diverse tendenze artistiche in quegli stessi anni appare portatrice di possibili nuovi valori estetici. Difatti Dezzi Bardeschi proprio per allontanare quello che, probabilmente, sente come un pericolo di deriva estetizzante, dichiara fermamente di essere contrario a: «… questa che poi è la condizione prevalente dell’arte contemporanea, una condizione eccessivamente rapsodica, legata alla poetica personale, disperata del frammento»176 mentre punta l’attenzione sul concetto di particolare, che «reclama sempre continuamente il confronto, non è un’isola felice, rimanda, e non può non rimandare, ad altro o ad altri particolari accanto a sé. È il concetto di evoluzione, di catena di sviluppo, che ha bisogno di non perdere alcun anello.»177. Questa è una tensione che 174- «Se l’essenza del linguaggio sta nella comunicazione, l’essenza dell’architettura non si rivela nella comunicazione. La casa non comunica d’essere una casa, non più di quanto la rosa comunichi di essere una rosa: la casa, il tempio, l’edificio termale si pongono, si rendono astanti o come realtà di fatto o come realtà d’arte, ma non sono tramite di comunicazione: solo in via secondaria trasmetteranno delle informazioni. (…) In secondo luogo è essenziale, perché si abbia una lingua, la doppia articolazione. (…) Se manca la doppia articolazione non c’è analogia fra architettura e lingua. (…) I messaggi che [l’architettura] può convogliare e trasmettere secondariamente non sono sufficienti a indiziare come semiotica la sua essenza». Cesare Brandi, Struttura e architettura, Torino, Einaudi, 1967, pagg. 39-41. 175- cfr. ad esempio, Renato Barilli, L’arte contemporanea. Da Cézanne alle ultime tendenze, Milano, Feltrinelli, 1984, F. Poli, Minimalismo, Arte povera, arte concettuale, Roma-Bari, Laterza, 1995, L. Vergine,(a cura di), Quando i rifiuti diventano arte, Milano, Electa, 1997, Ave Appaino, Estetica del rottame. Consumo del mito e miti del consumo nell’arte, Roma, Maltemi, 1999. 176- Marco Dezzi Bardeschi, Semplice/ Complesso/ Irriproducibile: verso nuove disciplinarità, in Carolina di Biase (a cura di), Nuova complessità e progetto dell’esistente, Milano, Franco Angeli, 1989. 177- ibid. 105 rimarrà in primo piano anche successivamente e continua a caratterizzare la conservazione, come vedremo nel capitolo successivo. Ma la capacità di separare la tensione verso la frammentazione dall’interesse per il particolare risulta sempre più arduo, in particolar modo per la nuova generazione che difficilmente può sottrarsi - in quanto base della propria visione del mondo all’influenza di questo approccio alle cose178. E questo soprattutto in una fase in cui la conservazione ha sostituito la propria spinta ideologica originaria con uno sviluppo forte della ricerca orientata verso la operatività e la messa a punto di norme e codici di comportamento che in qualche modo istituzionalizzino il modus operandi conservativo contro quello restaurativo. Infatti pur giungendo ad accettare e in seguito a proporre alla comunità dei restauratori alcuni dei temi che caratterizzano il problema della frammentazione – in particolar modo l’impossibilità di costruire una teoria sempre valida e il fascinoso argomento delle infinite interpretazioni e delle regioni di verità – la conservazione pare essersi fermata sulla soglia del “cambiamento di paradigma” rappresentato da questa visione caleidoscopica e caotica delle cose, alla quale sembrano essere inevitabilmente sensibili alcuni gli studiosi più giovani, anche solo per essersi formati in questo clima. Esiste allora una differenza tra chi ha sviluppato un interesse teorico rispetto alla lettura della realtà legata al problema della frammentazione e chi, di questa condizione, è figlio. Questi ultimi non usano la frammentazione unicamente come strumento di analisi e di interpretazione del mondo. Essa è un modo di vederlo e dunque di percepirlo e di giudicarlo. In questo modo si è passati dall’interesse per il frammento al 178- Il particolare fa in ogni caso riferimento al concetto di unità, di intero: «“Particolare” è ciò che attiene alla parte. Noi possiamo attribuire alla parte “particolari” qualità. Ma che cos’è la parte? Come definirla? Nel libro V della Metafisica Aristotele ne elenca i seguenti significati: si dice parte (méros) ciò in cui una quantità (posón) viene suddivisa; ciò in cui la forme (eidos) può essere suddivisa, a prescindere dalla quantità; ciò di cui l’intero è composto; ciò in cui il logos, il discorso che esprime una cosa si suddivide (1023b 12-25). (…) La parte non è perciò un “pezzo” , e suddividere in parti è l’opposto di “fare a pezzi”. “Analizzare” un intero nei suoi elementi costitutivi significa piuttosto riconoscerne la “salute” e volerlo in essa “conservare”.» Massimo Cacciari, I frantumi del tutto, in «Casabella», n. 684-685, 2001, pagg. 5. 106 gusto frammentario, all’eclettismo caleidoscopico odierno. Tutto ciò, all’interno della cultura della conservazione, aggiunge alle acquisizioni culturali precedenti un ritorno d’interesse per temi che riguardano la sensazione, la percezione, l’immagine. E oggi infatti è possibile scrivere una frase di questo tipo: «… la città è la stratificazione, è la densità del racconto, tutti i colori le appartengono e la costituiscono. (…) La materia degradata, i colori casualmente sovrapposti possono dare un’emozione che è un privilegio saper cogliere»179. Vi si ragiona di emozioni date dall’edificio degradato, si descrive ciò che si prova in seguito ad una esperienza di tipo percettivo, visivo, si descrive un sentimento provocato dall’immagine dell’edificio. L’immagine rivendica nuovamente la sua presenza e l’impossibilità di essere negata e messa da parte; la nostra necessità di inserirla tra le variabili da considerare non ci permette di esercitare, con essa, quella epoché di cui è possibile valersi per evitare di esprimere giudizi estetici o storici. Della Torre va oltre, e si chiede come mai «la comune sensibilità non fatica più ad accettare, forse anche ad apprezzare, gli elementi in pietra corrosi e lacunosi, mentre non accetta di vedere gli intonaci fissati, comunque precariamente, in una immagine composta di scrostature, dilavamenti, rappezzi. Perché? Qual è la differenza tra i due materiali?»180 Lo studioso cerca di dare una risposta a questi quesiti inseguendo spiegazioni razionali che migrano dal campo del giudizio di gusto, dall’apprezzamento del «mi piace, non mi piace» a quello del pensiero rigoroso, inserendo nel discorso il tema dell’autenticità. Laddove alla pietra si riconosce valore di autenticità, anche se degradata, «all’intonaco invece questo valore di solito non viene riconosciuto, a meno che si tratti di un affresco, o comunque che sia decorato»181. Ma questa risposta non 179- Stefano Della Torre, Colore o spessore, in Donatella Fiorani (a cura di) Il colore dell’edilizia storica, Roma, Gangemi editore, 2000. 180- ibid. 181- ibid. 107 soddisfa Della Torre che infatti si chiede: «eppure un vecchio intonaco tradizionale col degrado acquista nuovi valori di colore e di texture: anche gli intonaci antichi hanno uno spessore, che potrebbe consentire loro di invecchiare fascinosamente»182. Continua il salto logico dal piano del gusto a quello razionale. Questo argomentare non può portare risposte definitive: si provano dei sentimenti, si danno giudizi di gusto, si parla di colore, texture, fascino e poi si cerca legittimazione non in un discorso che si occupa di immagine e di gusto bensì di contenuti veritativi, e di autenticità. Una cosa appare, in ogni caso, chiara: l’approccio al costruito non può più disconoscere «le attenzioni di ordine percettivo e critico» che sono dovuti al monumento ma soprattutto alla comunità che ne fruisce e questo deve far riflettere sul progetto di conservazione che deve assumersi la responsabilità oltre che della permanenza dei segni e delle tracce storiche, dell’aspetto finale dell’edificio, del suo decoro. Della Torre cerca una via per perseguire tutto ciò facendola «….coincidere anche soltanto con una esibizione della cura»183. Questa riflessione ci porta direttamente al secondo corno del problema, altrettanto affascinante, che riguarda come il concetto di non-restauro, la conservazione integrale, sia stata accolta dal pubblico e, altresì, quali siano le influenze che ne hanno permesso la accettazione, almeno parziale. Certamente questa accettazione(che nell'ultimo decennio comincia faticosamente ad aumentare) proviene dall’esterno, dai canali chepiù facilmente modellano e modificano il gusto dominante, dalla pubblicità, dai rotocalchi, anche dalle scenografie degli spettacoli televisivi o dei set cinematografici. Dalla diffusione di mode come quella del minimalismo dell'arredamento "finto degradato" (lo shabby chic new yorkese), del revival nell'abbigliamento e nella musica. Riflettiamo, a questo proposito, su ciò che vediamo tutti i giorni sulle pagine delle riviste. L'atteggiamento prevalente è quello di creare un’esperienza estetica fondata sui 182- ibid. 183- ibid. 108 segni del tempo. Il fatto curioso è che questo, nella maggior parte dei casi, avviene creando questi segni ad hoc e non partendo dalla reale situazione di degrado che è stata trovata dal progettista. Dunque ci si trova nella paradossale situazione in cui non si accettano gli autentici segni della storia che sono “riparati”, “restaurati” per poi creare dei nuovi segni finto storico. Questo è certamente un atteggiamento sintomatico, da un lato della diffusa tendenza, sviluppatasi negli ultimi decenni, a fruire esteticamente non solo le opere d’arte ma qualunque oggetto, anche comune, sviluppandone il design; dall’altro dalla necessità di allargare questo utilizzo alla massa dei cittadini e non più unicamente agli esperti o agli amatori. Questo secondo fattore porta alla necessità di creare una sorta di surrogato molto semplificato della realtà, uno schema che metta in evidenza in modo chiaro il valore prevalente che in quel momento si vuole far spiccare sugli altri. Ecco allora, dopo il restauro, la velatura per attenuare i toni della pulitura e ricordare la patina, ecco i brani di archi in mattoni stonacati e sabbiati in modo tale da rendere evidente la loro “dignitosa” e “ordinata” storicità. Il tutto per evitare qualunque ambiguità nella lettura, per evitare che sia possibile un’interpretazione dell’oggetto che potrebbe far pensare non alla cura ma all’abbandono. Mettendo in primo piano, o meglio, creando falsi “segni del tempo” che siano inequivocabilmente tali e non confondibili con degrado e decadenza. Un’immagine che, in ogni caso, si avvicina molto a quella che percepiamo di fronte ad un edificio sottoposto ad un restauro di tipo conservativo. Ma proprio questo problema, quello della immagine finale dell’edificio è l’aspetto, ad oggi, più trascurato. 109 La necessità di disinteressarsi dell’immagine, per evitare che le decisioni operative vengano prese in funzione di essa, è un problema che può essere posto in modo differente. In primis, in linea teorica non è possibile non modificare un edificio, o una parte di esso, anche se si opera unicamente tramite i dettami della più attenta conservazione. Nel migliore dei modi saremmo di fronte a quella «esibizione della cura» di cui parla Stefano Della Torre184. Ma, soprattutto, non ci troviamo mai ad agire nei confronti di una immagine indifferente che dunque può, dopo l’intervento, tornare ad essere indifferente. Sarebbe indifferente per chi? Forse con uno sforzo enorme di razionalizzazione lo può essere per il restauratore, allenato come è da anni di forzata mancanza d'interesse per l’aspetto formale dell’architettura, ma non di certo per il resto del mondo che esprime continuamente giudizi su quella stessa immagine: bello! brutto! O, almeno, è proprio malconcio, cade a pezzi, è tutto scolorito! E queste tre ultime esclamazioni non sono constatazioni di fatto, sorta di analisi del degrado un po’ naïf. Sono veri e propri giudizi di valore che esprimono disagio rispetto a come si presenta l’attuale configurazione. Giudizi che esprimono chiaramente una volontà d’opposizione al degrado percepito unicamente come negatività, venir meno di qualità. Se agisco sull’edificio, in quest’ambito, sono di fronte a due sole possibilità: o 184- cfr. nota 182 110 operare per far riacquistare qualità all’edificio (se penso che le abbia perse e sia in mio potere il fargliele riavere) o nel senso di affermare che l’edificio stesso non ha mai perso qualità, semmai ha trasformato quelle originarie. In entrambi i casi faccio affermazioni non indifferenti all’immagine che l’edificio presenta. Si tratta in ogni modo di proporre una configurazione dell’edificio che il fruitore percepirà come immagine, forma, aspetto. 111 2.3 ALCUNE RIFLESSIONI SULLA SITUAZIONE ATTUALE «... non dimenticherò mai la storia di una bellissima casetta, color rosa chiaro. Era davvero una graziosa casetta, di pietra, e mi guardava con tanta affabilità, e con tanto orgoglio fissava le sue goffe vicine, che il mio cuore si rallegrava quando mi capitava di passarle vicino. La settimana scorsa attraverso la strada guardando la mia amica, quand'ecco d'un tratto un grido lamentoso: "Mi tingono di giallo!" Scellerati! Barbari! Non hanno risparmiato nulla, né le colonne né i cornicioni e la mia amica è diventata gialla come un canarino. Sono stato preso quasi da un attacco di bile, e non ho avuto ancora la forza di rivedere quella poveretta, sfigurata, tinta col colore del celeste impero.» Fëdor Dostoevski Il restauro come e, forse, ancor più che l'esercizio della critica e della storiografia dell'architettura, è estrinsecazione del compromesso tra visioni del passato personali e collettive, alla luce di una più generale visione del mondo. Un passato che, proprio perché legato a questa pre-visione contingente al momento in cui viviamo, non è mai autentico fino in fondo se, per “autentico”, intendiamo ciò che la parola etimologicamente significa: discendente direttamente dall’autore, immerso nel fluire del tempo. Questo passato, al contrario, scaturisce sempre e in ogni caso dal nostro oggi, subisce continuamente la nostra personale interpretazione che si costruisce a partire dalle modalità in cui lo cogliamo visivamente in quanto la percezione è influenzata dal nostro vissuto e dalle nostre esperienze. Nel restauro è lo stesso; il passato su cui agiamo non esiste in senso assoluto. Ogni nostra azione, fosse anche unicamente quella finalizzata alla rigorosa conservazione dello status quo, non ha come esito la conservazione del “monumento” o, almeno, non più di quanto non lo abbia il restauro stilistico. Il nostro agire sull’opera o sulla sua materia, infatti, si limita ad essere conseguenza di quella pre-visione dalla quale discende l’accettazione o meno della conformazione attuale ma è, in ogni caso, intervento che si attua unicamente, e non potrebbe essere altrimenti, sulla contemporaneità e non sul passato dell'oggetto. Dunque non sulla sua storia, sulla sua identità, sul suo valore, sulla sua artisticità, ma sempre e necessariamente sulle nostre che si rispecchiano su di esso. L’edificio, anche solo nel momento in cui lo guardiamo, è continuamente attualizzato e ciò che esso è per noi 112 oggi, ha poco o niente a che vedere, dal punto di vista del godimento estetico, con ciò che esso era per chi lo percepiva anche solo trenta anni fa. Così si afferma un concetto assolutamente dinamico di conoscenza che si modifica con il modificarsi del retroterra di assunzioni teoriche e culturali proprie di una comunità. Infatti, sempre più frequentemente l’epistemologia stessa riflette su come «le teorie scientifiche siano influenzate dal pensiero culturale e sociale circostante, e che a loro volta influiscono su di esso».185 Tutto ciò porta naturalmente a entrare in contrasto con la teoria classica della tabula rasa, cioè di una coscienza “vergine” che come una tavoletta di cera viene segnata dalla conoscenza. «Non c’è una tabula rasa mentale con la quale si arriva al mondo naturale; piuttosto [...] noi “costruiamo” il mondo naturale attraverso un complesso processo di feedback in cui i modelli teorici e gli input sensori sono assimilati e accomodati in una sequenza automodificantesi di predizione e di controllo. Similmente non possiamo accostarci a testi e azioni umane con la mente depurata dai nostri interessi, preconcetti e valori locali. [...] I tentativi delle persone di mettersi nei panni di altri sono notoriamente dipendenti dalle loro circostanze e dalla loro cultura»186 Un’affermazione di questo genere è assolutamente inconcepibile per un tipo di conoscenza “metafisica” classica nella quale l’oggetto è assolutamente autonomo dal soggetto pensante che lo può avvicinare unicamente attraverso la giustificazione della verità delle affermazioni che su di esso fa. Ma oggi ci troviamo in un momento, nello sviluppo della cultura occidentale, in cui si è giunti a decretare la morte dell’epistemologia, come fa Rorty che vuole «... minare la fiducia nella “conoscenza”come qualcosa intorno a cui dovrebbe darsi una “teoria” e che ha dei “fondamenti”»187. 185- Arbib Michael A., Hesse, Mary B., The Construction of Reality, Cambridge, Cambridge university Press, 1986, (trad. it., La costruzione della realtà, Bologna, Il Mulino, 1992, pagg. 27). 186- Arbib Michael A., Hesse, Mary B, La costruzione … op. cit., pag. 270. 187- Richard Rorty, Philosophy and the mirror of nature, Oxford, Basil Blackwell, 1980, (trad. it. La filosofia e lo specchio della natura, Milano, Bompiani, 1986, pag. 10). 113 Il restauro ha a che fare con oggetti che riassumono in se il mondo naturale e quello culturale e soprattutto negli ultimi anni, ha fatto uso del termine “conoscenza” in modi a volte un po’ semplicistici e strumentali. Ma se, come abbiamo visto, “conoscenza” è un termine in fin dei conti troppo generico e i procedimenti gnoseologici di cui ci si serve sono inevitabilmente legati alla contingenza storica e culturale, non è più possibile avallare il proprio lavoro analitico sull’oggetto “architettura” con un semplice rimando al “progetto di conoscenza”. Questo perché è necessario avere contezza del fatto che tutti i metodi, le tecnologie, le finalità che porrò in campo saranno solo quelle che la situazione mi permetterà di utilizzare. Alla fine, è possibile osservare ed analizzare solo ciò che la mia odierna visione delle cose mi impone. La nostra attuale attenzione ai materiali dell’architettura e ai segni su di essi impressi, ha fatto dell'archeologia dell'elevato, uno dei pilastri fondativi della conservazione. Questo interesse ha un curioso riscontro con uno dei concetti centrali del decostruzionismo, che usa proprio il termine archeologia per indicare l'interesse e la necessità di pensare ed agire per strati sovrapposti, per tracce, per segni, per différance. Questo è quello che tenta di fare l’architettura di Eisenman o di Tshumi188. Ma mentre il progetto del nuovo deve riuscire a produrre tutto ciò dal nulla, l’edificio antico possiede naturalmente queste caratteristiche e l'archeologia permette di analizzarle e chiarire ogni relazione esistente tra questi elementi. La conservazione si è proposta come finalità primaria proprio la difesa di queste tracce e non ritiene possibile agire per colmare una lacuna e dare la possibilità di reintegrare un apparato decorativo o una pittura murale che appena si intravede su una facciata. Il fatto di non conservarla - e conservare in questo caso equivarrebbe a riprodurre, come già è accaduto in alcuni periodi della storia del restauro - può significare, fra cento anni, o solo 188- «L’idea dello scavo si trasforma in una nozione molto interessante [...]. Ora tu prendi pietre e costruisci un progetto. Qualcun altro prenderà le pietre del nostro progetto e costruirà qualcos’altro ... iniziamo dal palinsesto che deriva dalla sovrapposizione di due cose ... che poi viene scavato e tu sottrai dal palinsesto lasciando la traccia della precedente sovrapposizione, ma anche lasciando la traccia della sottrazione», Interview Peter Eisenman-Lyn Breslin, in «Space Design», marzo 1986. 114 fra venti, non avere più alcun elemento materiale, se non qualche fotografia, per ricostruirla189. La conservazione, come opposizione all’azione distruttrice del tempo, infatti, non ha mai come scopo quello di fermare degrado, tutt'al più di attenuarlo, di eliminarne le cause contingenti e, dunque, non impedisce la cancellazione, anche in breve tempo, di segni e tracce190. Una questione rimane, in questo senso, elusa: sembrerebbe che tutto questo alla fine sacrifichi ciò che l’architettura è sempre stata (al di là della soluzione dei problemi funzionali) e cioè un oggetto godibile esteticamente. Nel passato questo problema era risolto riproducendo le forme necessarie a ripristinare i presupposti necessari al godimento estetico dell’opera che erano andate perdute o erano attenuate dal degrado. La conservazione ha invece posto in primo piano proprio la negazione della possibilità di valutare l’edificio, in vista del restauro, con parametri estetici. Ma “giudicare” ed “esperire” non sono la medesima cosa. In un caso si agisce ponendo in campo differenziazioni razionali tra le forme, che sono rapportate ad un ideale di bellezza. Nel secondo caso si tratta di un sentimento che ci fa fare esperienza di un edificio non dal punto di vista della razionalità ma del piacere che si prova guardandolo. Se dunque la conservazione può negare il giudizio estetico non può fare lo stesso con la possibilità di provare sentimenti di piacevolezza o di non piacevolezza. E questo è un sentimento che si produce ad ogni atto percettivo che compiamo, di fronte a qualunque oggetto191. Se 189- «... da un punto di vista storico, se, da una parte, il deperimento stesso è, a sua volta, pur sempre un accadimento, esso cagiona un inesorabile affievolimento documentario e, insomma, un’obiettiva, a seconda dei casi, più o meno consistente, manomissione dell’integrità della fonte» Paolo Fancelli, Il restauro dei monumenti, Fiesole, Nardini, 1998, pag. 122. 190- «Un ulteriore modo di atteggiarsi verso il manufatto degradato consiste nel perseguire una attenuazione dei fenomeni, rallentandone il più possibile lo svolgimento», modo differente sia dalla cancellazione degli effetti «quasi riconoscendo caratteri di reversibilità ai fenomeni», sia dall’arresto dell’azione che comporterebbe «in una visione radicalizzata, la eliminazione di tutte le cause di aggressività, per raggiungere un recupero dell’opera ad un certo stadio del suo invecchiamento» B. Paolo Torsello, La materia del restauro. Tecniche e teorie analitiche, Venezia, Marsilio, 1988, pagg. 24-28. 191- «Anzi, l’iniziale impatto con l’oggetto è primariamente questo. In un certo senso, in vero, uno dei filoni principali dell’indagine sull’opera, preventivamente ad un oculato intervento su di essa, dovrebbe consistere in uno studio storico-ricostruttivo della percezione che, nel tempo, si è avuta di quell’opera in parola. E questo anche in relazione con la storia della percezione visiva in generale e, soprattutto, in quel dato ambito culturale.» Paolo Fancelli, Il restauro, ... op. cit., pag. 118. 115 dunque la conservazione, giustamente, non accetta il giudizio estetico discriminatorio, non può però sottrarsi al sentimento di piacevolezza e non piacevolezza che qualunque forma o materiale suscita e di conseguenza al suo potere operativo. Non si può allora negare che qualunque scelta conservativa sia il risultato anche di una scelta di gusto che affianca le scelte razionali (architettura come cultura materiale, come complesso di segni, tracce, ecc.) e permette l’accettazione della conformazione che queste scelte vengono a creare. In altre parole non è possibile che il risultato di un restauro sia qualcosa che non piace a chi lo ha compiuto. Detto questo, la conservazione non può non prendersi carico della configurazione che produce con il suo intervento. Se non si vuole arrivare a negare che il progettista possa provare sentimenti di tipo estetico di fronte all’architettura e che questi sentimenti, non del tutto consci e razionalizzabili, possano influenzarlo nell’atto decisionale, deve accettare, gioco forza, che con l’intervento anche l’esteticità dell’opera sia messa in gioco e non possa essere messa tra parentesi. In altre parole è probabile che attualmente chi opera su un edificio, all’interno della visione conservativa, lo faccia anche per preservarne l’aspetto che trova esteticamente gratificante e sia convinto che il proprio lavoro contribuisca a mantenere quelle caratteristiche che lo fanno essere tale. E’ necessario, allora, portare allo scoperto questo atteggiamento, cominciare a riflettere sulla carica estetica di alcuni elementi che fino ad oggi non sono stati messi in evidenza e non negare il fatto che, salvaguardandoli, si mantiene in essere l’esperibilità estetica dell’oggetto, secondo parametri che non sono certamente quelli dell’estetica tradizionale ma non possono non dirsi estetici. E’ da chiarire che quando parliamo di esperibilità estetica non ci riferiamo unicamente ad opere d’arte. Basti pensare, in questo senso, al fenomeno dell’estetizzazione del reale, che ha attraversato tutto il XX secolo, portando ad ampliare smisuratamente il novero degli oggetti che consideriamo portatori di valori estetici. Gli studi hanno subito una modificazione del loro specifico campo d’interesse: dalle categorie 116 estetiche oggi metafisicamente indeterminabili192 e dai meccanismi di individuazione, in un oggetto, dell’opera d’arte (tramite l’esercizio del giudizio), all’individuazione del particolare carattere estetico insito in qualunque oggetto. Infatti ciò che interessa l’estetica dagli anni trenta in poi è soprattutto quello che lo strutturalismo, e Mukarowskij193 in particolare, chiama “funzione estetica” degli oggetti. Si riconosce dunque l’esistenza di una funzione estetica in qualunque oggetto, anche il più utilitario, come una tra le tante funzioni che l’oggetto possiede. Il problema estetico dunque si sposta: esso «non è più se esista una bellezza indipendente dall’uomo (quindi soprastorica) nell’universo come tutto, ma invece come si manifesti l’estetico nel comportamento umano e nei prodotti della creazione umana» 194 . Questa concezione dell’estetica come studio dell’esteticità insita nella natura dell’uomo e che lo fa agire e scegliere permette, sganciando l’analisi da un binario puramente metafisico, di rintracciare aporie e atteggiamenti contraddittori. In effetti, l’esteticità delle scelte pare annidarsi in territori che ne sembravano esenti per definizione, un esempio per tutti il territorio dell’analisi scientifica. La nostra cultura ha, in un certo senso, democratizzato l’arte, eliminando l’aura di soprannaturale del gesto artistico ma, allo stesso tempo, finito per sacralizzare il gesto comune, la mano, la produzione di oggetti, purché avvenuti nella storia. Questo non ha significato debellare il giudizio estetico, ma averlo allargato a dismisura, in una sorta di 192- Molto significativa, in questo senso, una delle prime prese di posizione contro l’estetica definitoria da parte di C. K: Ogden e I. A. Richards nel capitolo The meaning of Beauty, in The meaning of meaning del 1930, dove i due autori per mettere in evidenza l’estrema variabilità del concetto di bello, ne danno bel quindici definizioni, raccolte tra quelle offerte dall’estetica dei secoli precedenti. Nessuna di quelle definizioni può dirsi vera o falsa e ciò deriva dalla natura stessa dello studio estetico. «In realtà le definizioni estetiche non sono asserzioni (statements), neppure false asserzioni; per Ogden e Richards espressioni come “Urrah!”, oppure “la poesia è un’anima”, oppure “l’uomo è un verme” sono dello stesso genere: sono cioè espressioni puramente evocative, non mai asserzioni scientifiche». Armando Plebe, Processo all’estetica, Firenze, 1959, pag. 99. 193- J. Mukarowskij, Il significato dell’estetica. La funzione estetica in rapporto alla realtà sociale, alle sceinze, all’arte, Torino, Einaudi, 1973, pag. 102. 194- A tale proposito si vedano gli studi di Kubler in The Shape of Time, 1972, tradotto da Einaudi, La forma del tempo. La storia dell’arte e la storia delle cose, 1976. 117 ipertrofia del gusto che ci porta alla ricerca di un “bel tappo per il serbatoio della benzina” o di un “bello schiaccianoci”. Allo stesso modo, alcuni di noi pensano che un muro scrostato sia “bello” prima che interessante e portatore di conoscenza. In alcuni casi che sia addirittura più bello di un muro ridipinto di fresco. In questo senso possiamo allora affermare che continuiamo a mettere in campo la godibilità estetica dell’edificio, anche se questa non passa più necessariamente per le categorie classiche della bellezza, dell’unità e della completezza. Vediamo allora di analizzare quali possono essere gli spunti estetici che alcuni elementi apparentemente non estetici ci suggeriscono. Riflettiamo sul nostro modo di guardare alla materia segnata dalla mano dell’uomo, al tempo e alle sue tracce più evidenti, il degrado. Siamo qui di fronte ad una doppia estetizzazione, quella dei segni della cultura umana e quella dei segni del tempo. Cominciamo con il chiederci come mai interessa, in un edificio l'effetto distruttore del tempo195. I segni del tempo e le tracce sono elementi che possiedono fisicità, forma e colore e sono, di conseguenza, percepibili e per questo giudicabili immediatamente attraverso la facoltà del gusto. In effetti, l'autenticità di cui oggi spesso si discute, sembra essersi rivolta quasi esclusivamente alla traccia che il tempo lascia su un oggetto. Nonostante ciò, in senso assoluto, è sicuramente possibile affermare che esiste un’autenticità non legata al tempo. Qual è l'autenticità di una pietra? Il suo essere ente, essere dura, essere bianca o grigia, essere una roccia metamorfica o sedimentaria, essere composta da determinati elementi chimici. Un geologo che si ponesse domande sull’autenticità della roccia che analizza, cercherebbe la risposta in queste caratteristiche identificative. Quando l’architetto riflette sull’autenticità di quella stessa pietra, sposta il discorso sull’autenticità della materia lavorata. Dunque sull’autenticità dei segni del lavoro 195- «... si tratta di porsi, di fronte alla percezione, i due problemi restaurativi principali a questa inerenti. Essi sono in primissima approssimazione così delineabili: 1) il senso conformativo della ricezione dell’opera degradata, lacunosa, manomessa rispetto a quella del manufatto più o meno integro; 2) l’impatto sulla percezione visiva dei mutamenti cromatici intervenuti sull’opera dal momento della sua formulazione.» Paolo Fancelli, Il restauro ... op. cit., pag. 120. 118 dell'uomo che porta incisi su di sé. Ciò che ci preme possedere non è una semplice roccia, ma quella roccia divenuta materia trasformata. Si badi, non materia formata; in questo senso il tempo trascorso dal momento dell’atto formativo (a-storico) non avrebbe alcuna importanza. Ciò che acquista valore è proprio la trasformazione in successione a partire da una originaria pietra messa in opera, la permanenza della catena delle modificazioni subite. Al centro dell’interesse c’è il tempo che agisce sulla materia. Ed è proprio il suo passaggio che conferisce alla materia quel sovrappiù che la rende interessante. Ma a questo si aggiunge un sentimento, abbastanza diffuso, di apprezzamento dei segni del degrado che sono spesso associati all’immagine dell’invecchiamento umano, alle rughe, segni del tempo che sono espressione di storia e di esperienza. Se allora i manufatti ci trasmettono sensazioni attraverso la loro matericità, i loro decori, i loro colori, profumi e sapori, e, solo in un secondo tempo ci portano a pensieri di tipo differente, che mettono in gioco coloro che hanno agito per trasformare un materiale in opera, dobbiamo analizzare anche questo secondo momento. Infatti proprio in questo contesto rintracciamo la ”funzione estetica” anomala: guardando un manufatto non più per puro godimento sensoriale, ma all’interno di una visione che pone le trasformazioni al centro della nostra attenzione, ciò che ci affascina è la trasformazione stessa. Dunque non è semplicemente il tempo che si posa sulle cose che ci muove sensazioni estetiche, questo era già del pittoresco e venne teorizzato da Ruskin, ma l’esplicitazione delle trasformazioni che il tempo ha provocato, siano esse naturali o antropiche. È nella manifestazione della trasformazione che rintraccio la funzione estetica del segno, della traccia. Il nostro gusto per le trasformazioni dunque non si ferma a quelle culturali ma va oltre, interessandosi dei segni del degrado. Siamo infatti giunti a teorizzare la non cancellazione di questi segni. Dunque alla estetizzazionesacralizzazione non più solo del generico atto umano che induce una trasformazione, ma di quella indotta dai fenomeni naturali. In effetti, perché tanto ardore nel difendere la permanenza dei segni del degrado sul monumento? Queste sono tracce che, nella 119 maggioranza dei casi rimandano solo a se stesse e alla loro azione sulla materia dell'opera. Che cosa ci trasmettono? Se ho un edificio antico, posso individuare su di esso infinite tracce di configurazioni passate, segni di alcuni eventi di causa antropica ed altri di causa naturale. L'archeologia si occupa di ricostruire proprio attraverso questi elementi la storia dell'edificio, di dare una sequenza cronologica degli avvenimenti. Una volta fatto questo, il progetto si occupa di come conservare l'oggetto e tramandarlo ai posteri. Ma in tutto ciò quale motivo ha la conservazione dei segni che il degrado ha lasciato sul monumento? Se lo scopo della conservazione è tutelare il “bene”, questo significa che anche il degrado fa parte del bene196. Ma se questo è un fatto acquisito da tempo per quanto riguarda le patine, la consunzione, l’usura, l’invecchiamento, meno convenzionale appare l’inclusione, nel concetto di bene, dei veri e propri segni del degrado (ruggine, patine biologiche, lacune, lesioni, distacchi, ecc.). Ma se guardiamo il tutto dal punto di vista della categoria della trasformazione, ecco che il degrado ci appare il più prezioso fenomeno da osservare. Esso agisce sulla materia direttamente, modificandola continuamente e attraverso i segni che lascia, permette di assistere alla manifestazione fisica della stessa trasformazione. Allora in questo senso conservo il segno di un'azione disgregatrice dei sali, dell'erosione del vento, di un evento accidentale e non espressione della cultura umana semplicemente perché ciò che interessa è la “l’immagine della trasformazione”. L'attenzione per questo tipo di segni è comunque tipica del mondo in cui viviamo, della cultura postmoderna che ci pervade. Una cultura in cui differenti gradi e piani di lettura convivono: il monumento come opera d'arte, come bene culturale, come bene economico-turistico, come oggetto archeologico, come oggetto naturale, come bene storico, come specchio delle nostre radici comuni e 196- «… ciò che distingue il conservare i beni architettonici sta, nel riconoscere che gli stessi segni dell’invecchiamento, dell’usura e della degradazione sono parte integrante del bene, e anzi partecipano in modo insostituibile a definirne la nozione», B. Paolo Torsello, La materia ,... op. cit., pag. 87. 120 come specchio dell'identità nazionale, come reperto geologico, come fonte di conoscenza di antichi mestieri e tecnologie. Tutto questo senza che si senta la necessità di unità di configurazione, anzi, più i piani di lettura sono intrecciati e sovrapposti, più “complessa” appare la lettura, più il monumento acquisisce valore ai nostri occhi. Se ci interessasse unicamente preservare la complessità della lettura per l'accavallarsi e l'intrecciarsi dei significati che si celano dietro a segni e tracce, al fine di avere un quadro dell'approccio culturale che sta dietro alla materia, in questo senso il lichene o la disgregazione di un intonaco non ci porterebbero a nulla. Se non ad aumentare il nostro godimento estetico, che deriva proprio dall'aumento di complessità e di frammentazione che questi elementi provocano. Gran parte dei “conservatori” confermerebbe il fascino che si prova di fronte ad un vecchio muro e non si può negare che un apprezzamento di questo tipo, profondamente legato al gusto di una certa cerchia di persone che si appassiona alla configurazione attuale della fabbrica sia un segnale da prendere in considerazione, in quanto è la spia che ci fa considerare l'approccio conservativo (solo l'approccio, sia chiaro, che però condiziona tutto il resto) al di là di quella patina di oggettività scientifica rendendo giustizia di quel lato della faccenda che è diventato quasi tabù ma è ineliminabile. Dobbiamo dunque concludere che la scelta di conservare è primariamente una scelta etica influenzata però dal sentimento e dal gusto. Si conserva certamente anche per tutelare un’immagine dell'edificio che evoca sentimenti di piacere che vogliamo a tutti i costi mantenere, sentimenti che un restauro di altro tipo elimina nel momento in cui va ad alterare le caratteristiche dell'oggetto “autentico” (i segni manifestazione delle trasformazioni) che garantiscono il ripetersi di quella fruizione estetica. Un restauro diverso fa si che alla patina del tempo, alla consunzione, alla sovrapposizione delle forme, ai segni del degrado si sostituiscano l'ordine, la omogeneità, la semplicità, i colori brillanti, le forme ben definite e delimitate, gli spigoli vivi, il materiale nuovo. Categorie che appartengono a gusti opposti. 121 Il restauro “kitsch” e il restauro “puzzle” Sembrerebbe, a questo punto, d’aver descritto una situazione abbastanza chiara nella quale in un mondo dominato dal gusto per la frammentazione e per la complessità, prevale un atteggiamento attento ai segni della storia, e alla loro conservazione e valorizzazione. Niente di più lontano da ciò che in realtà accade. Nella stragrande maggioranza dei casi, infatti, i restauri si fanno andando alla ricerca dell'unità, della completezza, del pristino splendore, della semplificazione, in alcuni casi disarmante. E ciò ci appare in aperta contraddizione rispetto a quanto detto finora. Ma non lo è fino in fondo. I restauratori non sono al di fuori della cultura odierna che proprio in quanto luogo della frammentazione è di conseguenza luogo della contraddizione: abbiamo dunque accanto alla “conservazione” un atteggiamento differente e che dà come risultato un restauro da villaggio turistico, una serie di Venice di Las Vegas, che esprime la necessità di ripristinare un intero passato con una configurazione che si presenti con una configurazione tranquillizzante e consolatoria. Un restauro che ci riporta le nostre radici - vere o verosimili - così ricche di tracce che, a detta di alcuni, è possibile poterle riprodurre a piacimento così come riproduciamo le feste di piazza, il Palio di Siena, e i villaggi rurali. Anche in questo tipo di approccio sono banditi, apparentemente, i giudizi sull'esito estetico dell'operazione. Questo aspetto non pare interessare (e i risultati sono spesso, se non sempre, sgradevoli); il fine dell’operazione (e questo è stato perfettamente recepito) è la possibilità di fruizione turistica di questi beni culturali, attraverso la loro valorizzazione sia in senso “pop” sia “kitsch”. Dunque conservazione e ripristino, due facce della stessa medaglia; da una parte il complesso e il disarmante, l'eterogeneo, il collage formatosi in modo naturale sui nostri edifici storici, dall'altro la necessità di produrre il catalogo completo, gli esempi del passato tutti qui e ora, secondo il gusto postmoderno per la citazione eclettica e per la costruzione di un musée imaginaire. 122 Sembra inevitabile oggi, quando si tratta di restauro, assistere alla messa in campo di una sorta di eclettismo che, non so quanto consciamente, pesca da tutto il catalogo della teoria del restauro e a seconda dei casi produce restauri stilistici e conservazione integrale, restauri filologici e tipologici, a volte operando all'interno dello stesso edificio. Se con l’Eclettismo ciò avveniva perché era venuta meno la necessità di una unità formale e stilistica, oggi è venuta meno la possibilità di un pensiero teorico sul restauro, dunque anche la possibilità della contrapposizione, se non a livello di polemica. In effetti questo è uno degli aspetti più eclatanti degli anni che stiamo vivendo: il recupero continuo di elementi del passato recente o remoto e la loro riproposizione in un perpetuo revival. Proprio questa frequentazione continua con il revival fa si che «la celebrata frammentazione dell'arte non [sia N.d.R.] più una scelta estetica: è semplicemente un aspetto culturale del tessuto economico sociale»197. Non è dunque una scelta da fare razionalmente, ma un substrato comune a tutti noi e che innegabilmente influenza il comune senso del restauro. Questo impone che “gli oggetti del passato, vadano conservati e riportati al primitivo splendore”. Ma cosa si intenda con il termine conservare non è facile dire. Senza alcun dubbio si allude alla loro valorizzazione finalizzata allo sfruttamento turistico, piuttosto che alla loro considerazione in quanto oggetti indispensabili per una crescita culturale. Dall’orizzonte del conservare viene meno, sempre di più, l’autenticità della ricerca, la volontà di lavorare per approfondire una conoscenza, per modificare il proprio atteggiamento verso le cose. Il monumento, l’architettura del passato, non serve più alla progettazione, gli è d'ingombro, è un'altra cosa. Ed ecco allora perché restauro kitsch. Una definizione del termine recita così: «...arte intesa non come istanza conoscitiva o come forma autonoma d'esperienza, ma come semplice produzione di effetti estetici, frutto pertanto non di una domanda di senso, ma di convenzioni stilistiche che lasciano al 197- C. Newman, The postmodern aura: the act of fiction in an age of inflation, in «Salmagundi», n. 63-64, 1984, cit. in David Harvey, The Condition of Postmodernity, Basil Blackwell, 1990, (trad. it., La crisi della modernità, Milano, Il Saggiatore, 1993, pag. 84). 123 soggetto una libertà paragonabile all'arbitrio»198. Il restauro è ora in balia del gusto che detta alcune regole che possiamo desumere facilmente osservando ciò che quotidianamente accade negli edifici storici, ritenuti non monumentali, che ci circondano: - il medioevo si conserva perché pittoresco; - i monumenti barocchi, neoclassici e l'edilizia ottocentesca vanno restituiti alla loro completezza; - gli apparati decorativi in materiale povero - stucco, pietra artificiale, ecc. - vanno reintegrati; - le pitture murali, (quando non cadono nel campo del restauro pittorico), vanno reintegrate e laddove sono andate perse vanno ripristinate; - tutto ciò che è antico va posto in evidenza, anche se si tratta di elementi che mai in passato lo erano stati; e così via, in un elenco di prescrizioni che non hanno origine in una teoria - l'impossibilità di creare teorie generali è un altro topos dell'attuale cultura - ma derivano dal senso comune, da un gusto che, come già detto, predilige l'antico ordinato, il decoroso, il pulito, il pittoresco. Meglio se il tutto è abbinato ad una riutilizzazione turistica dell'oggetto. E, in effetti, le operazioni che hanno portato ai grandi restauri degli ultimi decenni, sempre abbinati ad avvenimenti politici, sportivi o religiosi - si pensi al Giubileo, ai mondiali di calcio o al recente G8 a Genova - sono spesso unicamente un mezzo per rilanciare il turismo in un determinato luogo, per fare pubblicità agli sponsor. E questo è sottolineato dal fatto che non sempre, forse quasi mai, gli edifici o le opere d'arte restaurate ne avevano un effettivo bisogno, mentre altre molto meno simboliche e conosciute ne avrebbero più necessità.199 198- voce Kitsch in G. Carchia, P. D’Angelo, Dizionario di estetica, Roma-Bari, 1999. 199- cfr le polemiche di James Beck sui restauri di alcune opere d’arte italiane tra le quali gli affreschi di Michelangelo nella Cappella Sistina e la scultura di Ilaria del Carretto a Lucca. 124 La scelta dell'oggetto da restaurare non è più fatta partendo dal riconoscimento dell’emblematicità dell’edificio dal punto di vista della conoscenza, in quanto modello che va salvaguardato perché in pericolo o perché da studiare approfonditamente. Solitamente la scelta è fatta direttamente dagli sponsor che lo riconoscono affine all’immagine di sé che vogliono veicolare. Un enorme spot pubblicitario, insomma. Come scrive Hewison «Il postmodernismo e l'industria del patrimonio artistico sono legati, in quanto entrambi cospirano per creare uno schermo sottile che si frappone tra le nostre vite attuali e la nostra storia. La storia si trasforma in una creazione contemporanea, più dramma in costume e nuova messa in scena che discorso critico»200. D'altronde un altro studioso anglosassone del postmodernismo afferma: «Siamo condannati a cercare la Storia con le nostre immagini pop e con i simulacri di quella storia che rimane per sempre fuori dalla nostra portata»201. Ma, per finire, «presa in senso lato l'arte è sempre il ritratto dell'uomo del tempo (...) il kitsch non potrebbe infatti né sorgere né prosperare se non esistesse l'Uomodel-Kitsch, l'amatore del Kitsch, colui che come produttore d'arte produce il Kitsch e come consumatore d'arte è disposto ad acquistarlo e perfino a pagarlo assai bene.»202 Noi tutti, oggi, siamo uomini del Kitsch; quando ci vestiamo alla moda, quando tifiamo per una contrada al Palio di Siena, quando ci rechiamo ad una delle numerosissime sagre in costume che ogni sera imperversano nelle nostre città. Siamo uomini del kitsch anche quando visitiamo i villaggi rurali ricostruiti a bella posta in un luogo facilmente raggiungibile e attrezzato, quando visitiamo i musei dell'artigianato, le mostre d’arte super sponsorizzate, quando partecipiamo agli eventi mediatici, al Capodanno 2000, quando ci rechiamo nei villaggi turistici. E lo siamo anche rispetto all'attenzione che mostriamo per 200- R. Hewison, The Heritage Industry, London, 1987, cit. in David Harvey, The Condition of Postmodernity, Basil Blackwell, 1990 (trad. it., La crisi della modernità, Milano, Il Saggiatore, 1993, pag. 85). 201- F. Jameson, Postmodernism or the cultural logic of late capitalism, in «New Left Review», n. 146, 1984, cit. in David Harvey, The Condition of Postmodernity, Basil Blackwell, 1990 (trad. it., La crisi della modernità, Milano, Il Saggiatore, 1993). 202- Herman Broch, Einige Bemerkungen zur Problem des Kitsches, Conferenza tenuta nell’autunno del 1950 al German Club della Yale University (trad. it. Note sul problema del Kitsch, in H. Broch, Il Kitsch, Torino, Einaudi, 1990, pag. 179). 125 alcuni elementi, ormai caratteristici della quotidianità nelle nostre città: pensiamo all'illuminazione dei monumenti e all’annosa questione dei piani del colore. La vicenda dell’illuminazione dei monumenti è particolarmente significativa e si accompagna al boom dell’arredo urbano tipico degli anni Ottanta. La necessità di fruire dei nostri monumenti anche durante le ore notturne nasce negli anni '30, ma solo negli anni Ottanta assistiamo ad un vero e proprio boom. E negli anni questa moda ha avuto delle fasi: all'inizio prevaleva una ricerca, forse la più genuina, indirizzata verso l'accentuazione della teatralità del monumento, in un secondo tempo le luci assunsero un ruolo a sé, vere e proprie installazioni artistiche che ci portarono e ancora ci portano ad assistere a giochi di luce colorati, campanili con interni a luce verde o fucsia, facciate a colori cangianti. Oggi l'atteggiamento è quello di chi vuole eliminare la notte, illuminando a giorno solo il monumento creando un curioso effetto di straniamento, di decontestualizzazione, anch'esso molto pop, ma certamente affascinante. Ritornando al restauro uno degli elementi che maggiormente mettono in luce la contraddizione contemporanea è l’atteggiamento che si ha di fronte agli apparati decorativi siano essi stucchi o dipinti murali. Nella quasi totalità dei casi si applica, infatti, una diffusa reintegrazione. Dunque di fronte ad un edificio barocco degradato o ad un edifico con facciate dipinte ormai scomparse, quasi all’unanimità viene ancora richiesta la reintegrazione delle parti perdute e lacunose, il loro completamento. Sembra quasi che questo atteggiamento sia solo un riproporsi, rispetto a configurazioni che da poco vengono considerate degne di una tutela, di quel percorso che và dall’unità alla frammentazione che abbiamo visto esistere in generale per il restauro. Nella percezione di un oggetto sconosciuto, non familiare, normalmente se ne colgono gli aspetti generali, ad esempio l’effetto spaziale, le geometrie essenziali, mentre solo più tardi si colgono quelli legati ai particolari, che a lungo andare portano ad apprezzare quella potenzialità che, secondo Brandi, si racchiude anche nel singolo frammento. Forse una configurazione formale da 126 poco accettata dalla critica e dal gusto comune non sopporta di essere toccata dall’aura del tempo? Se così fosse, il tempo piuttosto che arricchire quelle forme, dando loro un valore aggiunto, le annichilirebbe togliendo leggibilità e dunque valore. Forse il vero problema soprattutto per gli stucchi - sta nel nostro rapporto con uno stile, quello Barocco, di relativamente recente accettazione storiografica. E’ allora proponibile vedere in questo caso specifico un modello del più generale comportamento della coscienza dei restauratori? Voglio dire che forse è possibile usare l’esempio degli stucchi barocchi come esemplare di un percorso che si compie sempre e comunque quando ci si trova di fronte ad un edificio, che non è solo struttura e materia, ma è anche forma e, in quanto tale, portatore di valori artistici che vanno indagati perché, consciamente o inconsciamente, incidono sul giudizio globale che dell’edificio viene dato. Lo stesso fenomeno tocca anche i monumenti del movimento moderno che vengono normalmente reintegrati, procedendo nei casi più eclatanti a veri e propri restauri stilistici (come nel caso della Casa Steiner di Adolf Loos). Anche in questo caso si tratta, rispetto a queste opere, di una recente acquisizione nel novero dei monumenti storico-artistici. Di fronte al Barocco e al movimento moderno sembrerebbe allora che la nostra capacità di accettare il frammento si arresti improvvisamente e la mente vada alla ricerca della completezza e del decoro che, nell’apprezzamento dell’architettura medioevale l’influenza del gusto pittoresco e dell’atteggiamento romantico ha messo in secondo piano. In questo senso è possibile tracciare un percorso che va dall’accettazione di una determinata forma in quanto “bella” (aggettivo usato qui nell’accezione comune e generalizzata, non come categoria estetica), accettazione dalla quale discende poi la necessità della sua salvaguardia. Questa, attraversa diversi stadi: in primo luogo, quando valore primario è considerata l’unità stilistica (e dunque una unità che investe l’organismo edilizio nella sua totalità), si assiste alla necessità della completezza che serve per meglio comprendere e trasmettere i valori stilistici ed formali. Quando l’unità stilistica è superata da quella che, usando il 127 linguaggio brandiano, possiamo chiamare unità come intero, si passa alla negazione della possibilità di effettuare ripristini spinti. Solo in un terzo momento, quando il valore primario diventa l’autenticità della materia, con tutte le sue trasformazioni, e il gusto si affina sino a giungere all’accettazione di una configurazione non unitaria e non completa, solo allora è possibile parlare di possibilità della conservazione. Mentre di fronte a una parte dell’architettura, e in particolare di fronte a quella medievale, siamo giunti a riconoscere la valenza formale del frammento e la necessità della sua permanenza hic et nunc, di fronte al barocco e al moderno siamo ancora allo stadio dell’unità stilistica, caratterizzato dall’accettazione dell’immagine solo nel caso in cui essa si presenti completa in tutte le sue parti. E’ come se fosse impossibile (o possibile solo agli addetti ai lavori), altrimenti, riuscire a farne cogliere, alla massa dei fruitori (e tra questi ci sono anche molti restauratori), le qualità che ne fanno un oggetto apprezzabile e da salvaguardare. In questo stadio la completezza formale sovrasta l’autenticità del frammento che è sacrificata in modo alquanto disinvolto. Ma sia che si tratti di completare sia che si tratti di valorizzare i frammenti, spesso si agisce creando dei poveri simulacri semplificati della realtà da gettare in pasto all’industria “culturale”. Pensiamo al modo di arredare molti negozi delle nostre città. Vi troviamo, in ambienti del tutto rinnovati, la citazione storica, il pezzo antico, la volta in mattoni stonacata, il pilastro in pietra messo a vista, le travi del solaio in legno anch’esse private del controsoffitto che le ha sempre celate agli occhi. Questa attenzione per i segni del passato non significa che siamo di fronte ad una presa di coscienza dell’importanza di quegli stessi segni e della necessità di una loro conservazione. In questo caso gli edifici sarebbero lasciati come sono. Ma, lo stesso, questa moda deve far riflettere, perché si tratta della diffusione di un gusto che porta a far accettare anzi ad auspicare la presenza del frammento che rompe l’unità di un intonaco perfettamente liscio, alla ricerca della variazione, della sovrapposizione di colori e di forme. 128 Ma l’accettazione del frammento è davvero stata una svolta copernicana che ha cambiato profondamente l’accostarsi al problema della conservazione delle preesistenze? Forse non del tutto. Soprattutto perché questa accettazione non è avvenuta del tutto e inoltre è utilizzata come stimolo conoscitivo più che come strumento operativo. In effetti, l’essenza della cultura della frammentazione risiede nel basarsi su elementi minimi di significato che non rimandano ad un tutto andato perduto ma che si evidenziano per la propria autonomia rispetto al significato generale del contesto in cui si trovano e che possono, anzi, modificarlo in ogni momento. Il frammento di volta in volta crea le proprie connessioni con ciò che lo circonda costruendo nuovi orizzonti di significato per l’interprete che vi si accosta. La conservazione ha spostato l’interesse del restauratore dal recupero di una unità stilistica o figurale alla tutela delle connessioni che esistono tra i frammenti, le interrelazioni fra i segni. Il restauro è dunque visto come quella serie di interventi necessari a tutelare la catena dei segni impressi sul monumento. In questo senso allora la conservazione combatte la frammentazione e non la accetta fino in fondo. Infatti un intervento di questo tipo è possibile solo in seguito ad una lettura sistematica che porti ad individuare tali connessioni. Una tale lettura nello spirito della frammentazione è invece impossibile, nel senso che si ridurrebbe ad essere anch’essa frammentaria e senza potersi basare su alcuna idea ordinativa pregressa. La conservazione, al contrario, ha spostato l’interesse dal momento del giudizio a quello dell’analisi, della cosiddetta “conoscenza”, alla ricerca di un ordine tra le connessioni e i legami di quei frammenti ai quali si riconosce enorme importanza gnoseologica ma per i quali si cerca in tutti i modi di ricostruire una coerenza e una verità comune e relazionale. La lettura stratigrafica è uno dei più potenti mezzi messi a disposizione di questa ricerca. Mentre l’angoscia postmoderna sta proprio nel non possedere le chiavi, o almeno non tutte, per individuare le connessioni tra gli eventi e dunque apre la strada alle infinite interpretazioni, la conservazione fonda la propria 129 riflessione sulla possibilità che si dia una lettura dello status quo e sia possibile individuare i rapporti tra le parti. Questo significa, ancora una volta, abbracciare solo una delle interpretazioni possibili e di conseguenza far rientrare nel restauro il tema dell’unità, sotto diversa forma, ma ancora una volta come sistema ordinatore primario. Essa mette in campo sistemi di lettura che tentano di mettere ordine nel caos della realtà perseguendo una lettura che, lasciando aperta la via dell’interrogazione ulteriore203, tradisce inevitabilmente l’ansia da unità. E’ come se di fronte al collage che la realtà propone e cioè un insieme di frammenti accostati senza alcuna legge o, forse, con leggi troppo complesse, io tentassi di trasformarla in un puzzle. Questo, sì, con leggi ferree che guidano il modo di fabbricarlo. Allora ecco l’importanza dei bordi, delle connessioni, delle forme, dei segni. Il restauro conservativo confeziona con i suoi interventi di pulitura, consolidamento, stuccatura e protezione un perfetto puzzle che ha come scopo dichiarato quello di poter essere rimesso insieme in qualunque momento. Ma resta il fatto che il punto di partenza era un collage. La tendenza all’unità che a questo punto forse è quasi irrinunciabile, ha fatto sì che, ancora una volta, il monumento sia stato trasformato in qualcosa di differente da ciò che era. La frammentazione richiederebbe l’abbandono e il conseguente potenziamento della frammentarietà, oppure un atto che operi un’aggiunta di ulteriori elementi, siano essi unitari o frammentari, ma senza alcun tentativo di una previa lettura dell’inintelligibile. La realtà probabilmente sta nel fatto che siamo in un momento culturale in cui unità e frammentazione convivono e raggiungono la massima espressione proprio nel momento in cui sono presenti contemporaneamente: quando cioè si parte da un’accettazione del frammento ma poi si cerca di conservarlo sovrapponendogli una griglia razionale che ne 203- «... uno degli esiti registrati già nel corso delle analisi e dello svolgimento progettuale sta nell’allargamento dell’orizzonte degli interrogativi che il monumento ha via via proposto, quasi sottraendosi ad ogni tentativo di rinchiuderlo in una cornice di “conoscenze” conclusive. Un’esperienza che ha spinto a difendere quella sorta di disponibilità della fabbrica a darsi come enigma, ad essere perennemente interrogabile, a proporsi come provocazione inesauribile di domande piuttosto che luogo di risposte definitive e irrevocabili.» B. Paolo Torsello, Origini concettuali ... op. cit., pag. 53. 130 permetta la decodificazione e dunque la trasformazione della frammentazione in unità relazionale. Si è spostato dunque l’interesse dall’autoreferenzialità spaventosa del frammento allo studio dei suoi bordi che ci parlano di connessioni e di legami con altri frammenti. In questo senso, credendo di conservare, ulteriormente trasformiamo. Non possiamo però illuderci che il nostro costruire i pezzi del puzzle che altri in seguito rimetteranno insieme lasci aperte le infinite possibilità del collage perché: «malgrado le apparenze non si tratta di un gioco solitario: ogni gesto che compie l’attore del puzzle, il suo autore lo ha compiuto prima di lui; ogni pezzo che prende e riprende, esamina, accarezza, ogni combinazione che prova e riprova ancora, ogni suo brancolare, intuire, sperare, tutti i suoi scoramenti, sono già stati decisi, calcolati, studiati dall’altro.»204 204- Georges Perec, La vie mode d’emploi, Paris, Librairie Hachette, 1978 (trad. it. La vita istruzioni per l’uso, Milano, Rizzoli, 1984, pag. 207.) 131 TESTI CONSULTATI I. IL TEMA DEL GUSTO Abbagnano Nicola, voce Gusto in Dizionario London, 1757, (trad. it. Inchiesta sul Bello e il di Filosofia, Torino, Utet, 1971. Sublime, Palermo, Aesthetica, 1992). 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