POLITECNICO DI MILANO
DOTTORATO DI RICERCA IN
CONSERVAZIONE DEI BENI ARCHITETTONICI
- XIII CICLO -
L’immagine del restauro
Percezione gusto e operatività tra unità e frammento
Coordinatore: Prof. ssa Tatiana Kirova
Tutor:
Prof. Amedeo Bellini
Candidata:
Dott. ssa Lucina Napoleone
INDICE
PREMESSA
1.
pag.
3
IL TEMA DELL’UNITA’
1.1 REVIVALS E ARCHITETTURA ECLETTICA: LA PERDITA DEL GUSTO
PER LA PUREZZA STILISTICA
1.1.1 I temi dell’unità e della mimesi
1.1.2 La ricerca dello Stile
1.1.3 Garnier, la generazione di metà secolo e la rottura dell’unità
1.2 TEMPO E VERITA’ ALLA FINE DEL XIX SECOLO
1.2.1 La riflessione sulla Storia
1.2.2 Il modificarsi del tempo alla fine del XIX secolo
1.2.3 Verità-Autenticità
2.
pag. 13
pag. 15
pag. 24
pag. 30
pag. 43
pag. 48
pag. 52
IL RESTAURO TRA UNITA’ E FRAMMENTAZIONE
2.1 LA REINTEGRAZIONE DELLE LACUNE: ABBANDONO DELLA PUREZZA
STILISTICA E MANTENIMENTO DELL’UNITÀ RELATIVA
2.1.1. La reintegrazione nel restauro: unità e completezza.
pag. 60
2.1.2 Gli interventi: scelte di gusto o problemi tecnici?
pag. 72
2.2 LA LACUNA NON REINTEGRATA: IL FRAMMENTO COME RICCHEZZA
E IL GUSTO PER LA COMPLESSITÀ
2.2.1 La “conservazione” tra storia e accettazione dell’immagine
frammentata
2.2.2 La fortuna del frammento tra romanticismo e post-modernismo
2.3 ALCUNE RIFLESSIONI SULLA SITUAZIONE ATTUALE
2.3.1 Il restauro kitsch e il restauro puzzle
Testi consultati
pag. 88
pag. 102
pag. 111
pag. 121
pag. 132
PREMESSA
«...Perché un'opera notevole dell'ingegno riesca a produrre lì
per lì un effetto ampio e profondo, deve esistere un'affinità
segreta, o persino una concordanza, tra il destino personale
del suo autore e quello comune della generazione
contemporanea. Gli uomini non lo sanno perché
attribuiscono fama a un'opera d'arte. Ben lontani dalla
competenza credono di scoprirvi cento virtù, per giustificare
tanto interesse; ma la ragione vera del loro plauso è una cosa
imponderabile, è simpatia.»
Thomas Mann
L’attuale approccio dei restauratori e dei teorici del restauro all’architettura del
passato fa volentieri uso di un tipo di linguaggio in cui compaiono parole come
traccia e segno. Su quest’uso ha senz’altro influito il successo della metodologia di
analisi dell’architettura semiotico-strutturalista che, sin dagli anni 60, tanta fortuna
ha avuto fra critici e storici dell’architettura e, più di recente, l’influenza delle
riflessioni in dei filosofi “continentali” che si avvalgono del metodo ermeneutico (da
Heidegger al pensiero debole, anche se tarda a venir recepito lo sviluppo
problematico di questo approccio che negli anni novanta ha coinvolto esponenti
soprattutto italiani, da Eco a Vattimo a Ferraris).
Ma, cominciando dal significato dei termini, non possiamo dimenticare che traccia
significa: impronta, percorso, indizio, ricordo, testimonianza, documentazione,
vestigia. A ben guardare una doppia significazione: una che si rifà alla fisicità
dell’impronta lasciata sul terreno e dunque, per estensione, della impronta su un
manufatto, e un’altra che riveste immediatamente il termine di contenuti simbolici,
rinviando al mondo culturale che si cela e guida la mano che consciamente o
inconsciamente lascia dei segni. Questi hanno la caratteristica fondamentale di
essere, prima di qualunque altra cosa, oggetto di percezione. Unicamente con la
vista e dunque in modo sensibile possiamo fare esperienza di una traccia. Da qui,
per meglio inquadrare il discorso sulla conservazione dei segni dell’architettura
nasce la necessità di approfondire, o almeno di tratteggiare, il panorama delle
vertenze che queste considerazioni pongono in campo.
Per fare questo è necessario confrontarsi con temi complessi come quello della
percezione, del gusto, accertarsi del modo in cui questi influiscono nello sviluppo della
storiografia e della critica architettonica, fino a giungere al tema generalissimo e dunque
fondativo di tutti gli altri: quello della conoscenza. Sarebbe necessario, per fare ciò,
essere storici, filosofi, critici e psicologi, e non solo studiosi di temi che riguardano il
restauro architettonico. Ma forse, cercando di identificare nodi tematici e alcuni
periodi significativi della storia della disciplina - non pretendendo di tracciare teorie
onnicomprensive - può essere possibile individuare spunti di riflessione che
servendosi degli studi portati avanti in altri ambiti disciplinari contribuiscano a
chiarire la nostra, indicando quei territori di confine in cui avvengono ibridazioni
lasciando intravedere influenze di grande interesse.
In questo senso il passaggio decisivo sta nell’individuazione di una serie di temi
chiave che permettano una trattazione degli argomenti che non rimanga nella
pericolosa generalità dei principi e che ricerchi in vicende scelte ad hoc, il senso e la
conferma dell’enunciato concettuale.
La prima fase di studio è stata dedicata, pertanto, alla messa a fuoco di un doppio
problema: la definizione dei termini usati per enunciare il tema e la individuazione degli
strumenti di ricerca da utilizzare per riempire di contenuti le ipotesi formulate nel tema
stesso. La riflessione è partita dalla messa a fuoco della questione, in principio
generalissima, della “influenza tra estetica e restauro” che si è immediatamente
tramutata in “influenza tra gusto e restauro”. Vediamo perché.
Abitualmente, si intende per estetica la filosofia dell’arte, una disciplina che restringe
il suo campo di interesse ad un particolare prodotto dell’attività umana che presenta
specifiche caratteristiche: l’opera d’arte. Questa concezione dell’estetica non può
servire a questo tipo di ricerca, mentre il discorso cambia se si pensa all’accezione
settecentesca del termine estetica: filosofia del gusto. Perché allora non parlare
direttamente di gusto? Il tema si sposta in questo modo sull’influenza del gusto nel
restauro, laddove si consideri gusto una facoltà, ma anche un «insieme di
4
inclinazioni estetiche che caratterizzano un periodo»1 Il gusto, in questo senso, si
segnala come atteggiamento eminentemente storico che si modifica nel tempo e
modifica a sua volta le manifestazioni esteriori della cultura. Passare dalla riflessione
sul concetto di gusto a quella sull’immagine è naturale, ma non per questo meno
complesso.
Il termine immagine, infatti, può essere letto anch’esso con una doppia valenza: quella
di immagine mentale - prodotto dell’immaginazione- e quella di “eidelon”, forma,
aspetto, configurazione. La prima accezione richiama aspetti fondamentali della
ricerca attorno all’atto gnoseologico: partendo dalla percezione, dalla ritenzione,
dalla definizione di coscienza, fino ad arrivare al pensiero come riproduzione o
produzione ex-novo, all’atto poietico, a quello ermeneutico. Argomenti che,
volendo approfondire il problema del gusto, devono essere necessariamente
affrontati. Se consideriamo infatti la percezione -atto che alcuni riconoscono già
come atto estetico2- come primo atto della conoscenza che produce l’iscrizione nella
coscienza di una traccia3 che servirà poi all’atto del rammemoramento e dunque alla
formazione del pensiero, ecco che diventa estremamente interessante individuare i
possibili intrecci tra l’atto di percezione, l’atto di rammemorazione, il prodursi di
immagini mentali e la facoltà del gusto che, come scrive Bozal, è «immediato e ha
pretesa di universalità nei suoi giudizi»4. Prendiamo nota per il momento di come la
parola traccia sia comparsa in un contesto in cui è luogo di intreccio tra percezione,
memoria, gusto. Ma se il gusto è giudizio immediato esso può arrivare ad influire sul
momento in cui percepisco un ente e dunque lo iscrivo nella mia memoria. È
possibile che insieme a dati empirici come grandezza, forma, peso, colore, io ritenga
anche una sensazione e dunque un sentimento di piacere o dispiacere strettamente
legato a quell’oggetto e che contribuisce a qualificarlo. In altre parole, oltre alla
1234-
voce gusto, Grande Dizionario Garzanti della lingua italiana, Milano, Garzanti, 1987
cfr. Maurizio Ferrarsi, Estetica Razionale, Milano, Raffaello Cortina, 1997.
Già Cartesio dava della memoria l’immagine di una tavoletta di cera sulla quale era incisa
l’impronta della sensazione percepita.
Valeriano Bozal, Il gusto, Bologna, Il Mulino, 1996, pag. 11.
5
forma quadrata, al colore rosso, alla ruvidezza e alla grandezza io iscriva nella mia
memoria, immediatamente, anche “mi è piaciuto!”? Se così fosse, nel momento in
cui, attraverso la rammemorazione e quella che alcuni chiamano immaginazione
attiva, io prendessi l'avvio da questo tipo di immagini mentali per riflettere sulla
realtà o per agire su di essa, sarei in partenza influenzato dalla qualità impressa in
quelle percezioni che ho iscritto nella mia coscienza, e dunque non potrei
prescinderne, esse sarebbero gli elementi che costruiscono il mio “modo di vedere”
il mondo (la mia visione del mondo), e di conseguenza il mio “modo di costruire” e
di trasformare il mondo stesso5.
Pensiamo al restauro: pur avendo eliminato dall’orizzonte degli strumenti
decisionali, agli inizi del XX secolo, il giudizio estetico, è rimasto un problema
ancora più grande da affrontare: quello della reazione immediata ad un oggetto
causata dal giudizio di gusto che, non essendo razionale, non è passibile di una
dimostrazione che lo delegittimi. Non è possibile tralasciare questo iniziale giudizio
di gusto che scaturisce dal fare parte di un momento storico, dall’essere totalmente
immerso e imbevuto in un certo tipo di cultura, espressa, per dirlo con Dilthey6.,
dalle weltanschauungen filosofica, artistica e religiosa. Ma se così è, analizzare le
manifestazioni artistiche e le idee filosofiche di un certo periodo e di una certa
cultura non può che aiutare a renderci coscienti di ciò che influenza le scelte e ad
individuare una sorta di tavola del “gusto del tempo” entro la quale individuare
quelle forme della percezione che hanno dato vita alle immagini mentali e tra queste
a quelle del restauro. O, perlomeno, deve spingerci una volta di più a ragionare sul
fatto che riflettere sul restauro e sulla sua storia restando nell’ambito chiuso dei
5-
6-
«La memoria è una sinfonia in quattro movimenti: acquisizione, conservazione, trasformazione
ed espressione. (…) Fin dal momento in cui le sensazioni vengono registrate, la personalità di
ogni singolo individuo interviene per modificarne la percezione: La conservazione delle
impressioni e delle idee non solo non è né immutabile né garantita, ma viene anche modificata:
L’atto di memoria va quindi dall’acquisizione personalizzata alla trasformazione,
all’attualizzazione immaginaria.» Jean-Yves Tadié, Marc Tadié, Le sens de la mémoire, Paris,
Gallimard, 1999 (trad. it., Il senso della memoria, Bari, Dedalo, 2000, pag. 9.)
Wilhelm Dilthey, Das Wesen der Philosophie, 1907, (trad. it. a cura di Giancarlo Penati, L’essenza
della filosofia, Milano, Rusconi, 1998).
6
saperi espressi dai restauratori non può bastare. Limitarci a questo significherebbe
non poter guardare di là dei giudizi espressi all’interno del gruppo e non poter
individuare l’origine dalla quale questi giudizi hanno preso forma, per valutare
quanto essi siano stati influenzati dal pensiero e dal gusto dominante.
Da qui e’ partita l’ulteriore riflessione sul problema del gusto e del rapporto
esistente tra la percezione e il gusto stesso. E’, infatti, proprio a livello di percezione
che possono avvenire le cose più interessanti dal nostro punto di vista.
Possiamo pensare che il gusto, intrecciato profondamente alla percezione, la
influenzi in qualche maniera e dunque modifichi nel tempo il modo con cui
percepiamo, guardiamo, vediamo, le cose?
Cerchiamo di definire il gusto. Esso è, come la percezione, immediato, è enunciato
sotto forma di giudizio e non è espresso dalla ragione. È storico perché muta con il
mutare delle mode, del trascorrere del tempo e si diversifica grazie ai diversi tipi di
contatti che si hanno con l'esterno. Ha un ruolo fondamentale: contribuisce a
costruire un modo di vedere le cose. Ma, abbiamo detto, il modo di vedere il mondo, a
sua volta, modifica la percezione. Studiando il gusto non è possibile allora capire
perché sono state fatte determinate scelte?
A questo punto formuliamo un’ipotesi: il giudizio di gusto deriva dal gradimento (o
non gradimento) immediato suscitato da una percezione. I passaggi che portano a
questa ipotesi sono: la percezione di un oggetto è sempre accompagnata da un
sentimento di piacere o dispiacere che fa si che al momento stesso della percezione
io dia all'oggetto percepito una connotazione qualitativa, mi piace non mi piace. Il
sentimento è il riflesso soggettivo che accompagna ogni nostra esperienza e che
rappresenta il gradimento di una percezione, gradimento immediato e che da adito
al giudizio di gusto7.
7-
Interessante la definizione di Scheler che parla di sentimento come reazione del soggetto alla
situazione emotiva che produce il manifestarsi di valori: prima di qualunque giustificazione
metafisica, morale o religiosa il sentimento istituisce autonomamente i valori.
7
In questo modo e’ possibile affermare che il sentimento, attività primaria dello
spirito umano, si inserisce temporalmente accanto all'atto di percezione che è puro e
solo successivamente cadrà sotto il dominio della ragione o della volontà, attraverso
la conoscenza e il giudizio di convenienza. Ma se il sentimento è il riflesso
immediato che si ha di fronte ad un oggetto allora il piacere o il dispiacere
rimangono per sempre legati a quell'oggetto qualificandolo. A questo punto
affermare che il gusto è storico, significa unicamente che il giudizio cambia con il
cambiare delle mode, con il modificarsi delle relazioni tra le persone, oppure ci si
vuole riferire a modificazioni più profonde che coinvolgono i sentimenti che
proviamo di fronte alle cose e perfino il livello della percezione? E allora la
percezione delle cose, il sentimento che esse suscitano sono storiche come il
giudizio di gusto?
Facciamo un ulteriore passo: si è detto che alla percezione fa seguito la trascrizione
dell'oggetto nella memoria. La facoltà che presiede a questo atto è l'immaginazione.
Cosa trascrivo, cosa trattengo nella coscienza? Probabilmente una rappresentazione
formale ma legata strettamente a ciò che ha pregnanza sentimentale, esattamente ciò
che ha suscitato piacere. La coscienza è modificata da questa iscrizione che a sua
volta influenzerà le percezioni successive (in questo senso la percezione di un
oggetto e’ storica). Ciò significa, compiendo un vertiginoso salto dal mondo
teoretico a quello empirico, che se il sentimento suscitato da un oggetto percepito è
stato di piacere nel momento in cui dovrò io, in prima persona, produrre un oggetto
dello stesso genere o decidere quale oggetto restaurare o tutelare, tenderò a partire
da quell'oggetto per riprodurre quel sentimento.
Ricapitolando si è passati dall'estetica, al gusto, al sentimento, alla percezione
approdando in particolare al tema centrale del rapporto tra percezione e "forma" del
pensiero: se la percezione è legata al gusto può dare origine a "forme" che
influenzano il successivo atto percettivo. In questo caso il semplice guardare il
8
mondo è già influenzato da forme a priori che ne condizionano la ritenzione e
l'apprendimento8.
La seconda parte del lavoro, si è concentrata sull’individuazione dei campi in cui
portare avanti una lettura, parallela alla formulazione delle ipotesi teoriche, per
indagare i rapporti tra il gusto e l’atto del restaurare. Per ipotizzare l’influenza
percezione/gusto/restauro è necessario individuare momenti storici in cui si è
assistito ad una modificazione del gusto legato a un contemporaneo cambiamento
nella percezione del mondo. Un evento di questo genere, ampiamente studiato, si è
verificato nel XVII secolo nel momento in cui la natura comincia ad essere
percepita come possibile deposito di bellezza, cosa in precedenza inconcepibile. Un
altro esempio è il cambiamento di gusto avvenuto in Europa nel 700, con il
pittoresco, e in Francia dalla fine del Settecento, momento in cui si comincia a
studiare l’architettura gotica.
Credo sia possibile considerare allo stesso modo, come segno di una profonda
modificazione del gusto e dunque della percezione delle cose, la caduta, nella
seconda metà del XIX secolo, dell'importanza dell'unità stilistica.
Il tema dell’unità di stile era venuta in primo piano nel XVIII secolo con il
neoclassicismo, imperversa per tutto il XIX secolo tramontando solo quando l’unità
stilistica propria dei revivals si disperderà nella “babele” dell'eclettismo. Accade che,
ad un certo punto del XIX secolo, la purezza e la coerenza stilistica non appare più
necessaria, e questo coincide grosso modo con la più generale presa di posizione
nichilista e relativista. Il bello non è più assoluto ma si trasforma in concetto
variabile e contingente: esistono tante bellezze che dipendono dalle culture e dai
tempi. Chiunque può produrre arte e bellezza. Proprio in questi anni, il dibattito
intorno al restauro dei monumenti si arricchisce degli apporti della storiografia
architettonica che allarga i confini della bellezza architettonica (si pensi alla scuola di
Vienna, a Wickhoff piuttosto che a Riegl o a Dvorak, alla riscoperta del tardoantico
8-
Si pensi, in questo senso ai paradigmi kuhniani che influenzano lo sviluppo delle scienze e ne
condizionano i percorsi.
9
e del barocco) e si pone il problema del giudizio sugli stili contemporaneamente
presenti sul monumento. Si comincia a pensare che sia possibile conservare ogni
vestigia in quanto testimonianza storico-artistica, al di là dell'unità stilistica. Questa
posizione è sintomo del fatto che si è prodotto un cambiamento che ha permesso
che la percezione e la ritenzione nella memoria, associato ad un sentimento
piacevole, non si rivolga più unicamente al semplice, al puro, all'ordinato e all'unitario,
ma si apra al vario, all'eterogeneo, al capriccioso, al complicato, al ridondante, fino a giungere
ad oggi (attraverso vere e proprie rivoluzioni del gusto) al rifiuto per il troppo pulito, il
troppo nuovo, il troppo ordinato, il troppo semplice.
Qualcosa è dunque accaduto che ha reso accettabile e anzi gradevole l'immagine del
monumento non più puro stilisticamente. Probabilmente una qualche influenza
dell'atteggiamento ruskiniano arriva nell’Austria di Riegl o nella Francia dei primi del
Novecento (vedremo l’atteggiamento di Proust, ma soprattutto gli articoli della
rivista “Pierre de France”, che si scaglia contro i restauri di Viollet-le-Duc, rei di
aver intaccato l’autenticità del monumento9), ma basta questo a spiegare un
fenomeno così importante?
Questo lavoro si pone come un primo tentativo di indagare questo aspetto della
questione mettendo a sistema il cambiamento di atteggiamento operativo nel
restauro con il precedente cambiamento di gusto più generalizzato che e’
rappresentato dall’eclettismo. E' possibile, ad esempio, che i restauratori abbiano
affinato il proprio gusto in conseguenza alla miriade di edifici dei più disparati stili
(o che addirittura racchiudevano in se diversi stili) che dal 1850 vengono costruiti in
tutto il territorio europeo. Ricordiamo che molti restauratori sono anche architetti e
lo studio approfondito, all'interno delle accademie, degli stili greco, romano,
bizantino ma anche rinascimentale e barocco - per non parlare degli stili orientali ed
esotici - potrebbe aver modificato il gusto per i segni del passato portando ad un
loro apprezzamento anche quando presenti “naturalmente” sul monumento. Il
9-
Cfr. Le comble de l'impudence. Le travestissement de Notre-Dame de Paris par Viollet-le-Duc, in «Les
Pierres de France», n.1, 1937.
10
restauro storico, ma soprattutto quello filologico, segnano il passaggio ad una
concezione che non mette più in primo piano l'unità stilistica per evidenziare invece
tutti i segni della storia, una sorta di fotografia del volto della storia, la cattura del
tempo passato e la sua rappresentazione sul monumento.
Ma è necessario mettere in evidenza che il poter fare a meno dell’unità stilistica, per
il restauro della prima metà del XX secolo, non significa rinunciare alla completezza.
La percezione e la rappresentazione dei segni della storia proposta dal restauro
filologico liberatosi dal dogma dell’unità stilistica, segue in ogni modo una regola
non meno rigida, quella della finitezza. Il monumento restaurato deve essere
comunque finito, ogni singola storia che racconta deve essere completa. Potremmo
dire che il monumento non è più chiamato ad essere testimone di un'unica epoca e
di una sola bellezza, ma i diversi racconti che permette di leggere devono essere
comunque completi. Questa completezza si raggiunge per mezzo della
reintegrazione delle parti mancanti o lacunose. Da questa considerazione si evince
che l'Ottocento ha portato alla relativizzazione del bello e dunque alla rinuncia
dell'unità stilistica, ma non dell'unità tout-court. Siamo, al contrario, di fronte a un
nuovo proporsi dell'unità come unità figurale del monumento: esso può presentare tutti i
segni del passaggio della storia, senza discriminazioni (o meglio con discriminazioni
non più di tipo stilistico ma storico), ma l’immagine finale del monumento deve
essere comunque unitaria. A tale proposito basti leggere il giudizio di Alfredo
Barbacci, sul restauro del monastero di S. Giorgio in Braida a Verona, pubblicata su
un numero di Palladio del 1940. A proposito dell’eterogeneo gruppo di fabbricati
che compongono il monumento, Barbacci scrive che il monastero “... composta la
varietà delle forme e delle masse in una armoniosa unità di sentimento, ha ripreso in
pieno la sua funzione d’arte in uno degli ambienti paesisticamente e
architettonicamente più cospicui della città”10. Ci troviamo pertanto di fronte ad una
differente interpretazione della categoria classica della varietà nell’unità.
10- Alfredo Barbacci, Il monastero ... op. cit.,
11
Ma sono gli ultimi decenni del XX secolo che segneranno un mutamento più
profondo, che sembra portare la novità più significativa: l’accettazione del
frammento.
Il lavoro dunque evidenzia una continua oscillazione tra tendenza all’unità e al
frammento indipendentemente dai tempi e dai luoghi; e proprio questi i concetti sono
stati assunti come guida per individuare, almeno in parte, l’influenza del gusto nelle
scelte operative.
12
CAPITOLO 1
IL TEMA DELL’UNITA’
1.1 REVIVALS E ARCHITETTURA ECLETTICA: VERSO LA PERDITA DEL GUSTO
PER LA PUREZZA STILISTICA
«Per dare un’idea dello stato in cui si trovava allora il mio spirito,
non vi è niente di meglio a cui lo possa paragonare di uno di quegli
appartamenti come se ne vedono oggi, dove si trovano confusi
insieme mobili di tutti i tempi e di tutti i paesi. Il nostro secolo non
ha forme. Noi non abbiamo impresso il suggello del nostro tempo
né alle nostre case né ai nostri giardini, né a qualsiasi altra cosa.
[…] Anche gli appartamenti dei ricchi sono bazar di curiosità:
l’antico, il gotico, il gusto del rinascimento, quello di Luigi XIII,
tutto vi è mescolato alla rinfusa. Insomma abbiamo impronte di
tutti i secoli, salvo il nostro, cosa mai vista in nessun’altra epoca:
l’eclettismo è il nostro gusto; noi prendiamo tutto ciò che
troviamo, questo per la sua bellezza, quello per la sua comodità,
tale cosa per la sua antichità, talaltra per la sua stessa bruttezza; di
modo che noi non viviamo che di rimasugli, come se la fine del
mondo fosse vicina.»
Alfred De Musset
Se si considerano le parole dei simboli che, tramite il rimando ad un significato,
individuano il senso del messaggio che con il linguaggio intendiamo inviare, ci si
rende conto di quanto importante sia avere la sicurezza della precisione semantica di
un termine, soprattutto quando si tratta di espressioni di cui normalmente si abusa,
“banali”, che si rischia per questo di assumere senza alcuna attenzione rispetto alla
loro storia e, di conseguenza, alle modificazioni di significato che hanno subito11. In
questo senso, qualunque studio che usi come struttura argomentativa parole chiave
come, nel nostro caso, storia, verità, autenticità, gusto, immagine cercando di definire un
11 - Per meglio chiarire questo concetto basti riferirsi all’importanza posta da Martin Heidegger nel
mostrare la modificazione che subì il significato della parola ϕυσιζ, nel passaggio dal mondo
greco a quello della latinità.Il filosofo ne parla in Introduzione alla Metafisica, del 1953. Se nella
cultura greca con ϕυσιζ si intendeva propriamente “essere”, i latini tradussero il termine con
“natura” «… e con ciò smarrirono il senso di quel linguaggio originario che vive in prossimità
del senso dell’essere» cit. in Umberto Galimberti, Invito al pensiero di Martin Heidegger, Milano,
Mursia, 1986, pag. 79. Questa “dimenticanza” condizionò fortemente lo sviluppo della cultura
occidentale rispetto a quella greca. Non tenere conto di ciò, spiega il filosofo, produce
necessariamente un travisamento di qualunque interpretazione storica che non tenga conto di
questo diverso contenuto a cui fare riferimento.
percorso logico-storico coerente, necessita il porre in chiaro il senso a cui noi, qui e
ora, facciamo riferimento.
Per molti termini che usiamo quotidianamente, infatti, esiste un insieme di significati
che può variare a volte notevolmente nel giro di pochi decenni. Da questo punto di
vista, allora, riflettere su un avvenimento o su un pensiero lontano nella storia
comporta, la necessità della contestualizzazione, per riuscire ad usare quelle parole
che sono state adoperate per descriverlo con il significato più aderente al periodo in
cui sono state pronunciate. Per fare questo è necessario cercare di individuare la
differenza tra la odierna modalità d’uso di un termine e quella propria del periodo di
cui ci si occupa.
Data questa premessa, cominciamo con un gruppo di termini che individuano
categorie di pensiero che appartengono all’ambito del gusto e che ci sono parse
efficaci per riconoscere alcuni atteggiamenti importanti, nel mondo del restauro, che
altrimenti sarebbero rimasti sullo sfondo. In questo senso individuare nelle
teorizzazioni e nelle realizzazioni del restauro l’influenza del gusto è possibile solo
munendosi di una griglia interpretativa, una sorta di strumento che permetta di
rintracciare atteggiamenti che acquistano senso solo alla luce di questa lettura. Solo
in questo modo è possibile individuare alcuni “elementi spia” che aiutano a cogliere
atteggiamenti che evidenziano un attaccamento a categorie di tipo “formale”.
Questo, anche in un periodo in cui erano già accettate altre categorie che facevano
riferimento alla relatività del giudizio storico ed estetico. I termini che compongono
questa griglia sono unità, bellezza, varietà, simmetria, proporzione e lo stesso termine
gusto. Ad essi riaccompagnano altri termini come storia, stile, verità e autenticità.
La prima di queste parole chiave, che attraversa tutta la storia dell’architettura e, di
conseguenza del restauro, è unità che viene solitamente opposta alla frammentazione
vista come pericoloso elemento di degradazione del monumento12.
12 - «Il restauro di reintegrazione compiuto nel chiostro della Cattedrale di Bayonne, in Francia,
14
Parlare di unità e di frammentazione necessita incontrovertibilmente di quel lavoro di
contestualizzazione di cui si è detto. In effetti l’unità nel restauro dell’ottocento, non
è stessa cosa rispetto al concetto di unità che si afferma nel XX secolo. Ne è
esempio il fatto che, nel periodo di tempo che va dai primi del Novecento13 al
secondo dopoguerra, in diverse occasioni ritroviamo questo termine ma con
significati leggermente differenti fino a che, anche linguisticamente, si consuma la
trasformazione da unità stilistica in unità architettonica. Proprio quest’ultima locuzione é
indicata dalla “Carta di Atene” come fine da raggiungere nella reintegrazione del
monumento. Capire la differenza tra queste due espressioni permette dunque di
capire che non si tratta del medesimo concetto di unità che viene messo in gioco.
Vedremo come si arriverà a questo cambiamento nei prossimi paragrafi.
1.1.1
I temi dell’Unità e della Mimesi
Per riflettere sui termini Unità e Mimesi è necessario collegarli ad un terzo termine,
quello di Stile che dai primi due dipende. E’ necessario inoltre tornare indietro nel
tempo fino agli inizi del XIX secolo quando la questione della ricerca dello Stile
esplode e dunque caratterizza semanticamente il termine.
La ricerca di un nuovo Stile, per la progettazione del nuovo, è infatti uno dei temi
ricorrenti nei testi dei teorici dell’architettura del XIX secolo. Possiamo anzi
affermare che tutto il riflettere sull’architettura, dal 1750 al Movimento Moderno, si
gioca su questo tema come è possibile verificare dando una scorsa ai più importanti
testi di storia dell’architettura moderna.
valse a salvare il monumento da un progressivo deperimento, e ad affrancarlo dallo squallore che gli
imponeva l’eccessiva sua frammentarietà…», cit. in Carlo Perogalli, La progettazione del restauro
monumentale, Milano, Tamburini, 1955, pag. 65.
13 - Alois Riegl, Der moderne Denkmalkultus, sein wesen und seine entstehung, Wien und Leipzig, in
Verlage von W. Braunmüller, 1903 (trad.it., Il culto moderno dei monumenti. Il suo carattere e i suoi
inizi, in «Chiesa, città campagna», Bologna, Alfa, 1981)
15
Chiarire cosa s’intenda per Stile, unità e mimesi, a maggior ragione, è presupposto
necessario per condurre una riflessione su quel periodo della storia dell’architettura
denominato Eclettismo. Si tratta, infatti, di un momento in cui proprio partendo
dalla necessità di risolvere l’annoso problema della mancanza di uno Stile per il
proprio tempo, adotterà delle soluzioni che paleseranno una profonda rottura
rispetto al classicismo Beaux-Arts degli anni ’30 dell’Ottocento riscontrabile, in
particolare, nell’allontanamento dai precetti dell’unità stilistica e della mimesi. Proprio
in relazione a questi due concetti è possibile riflettere inoltre sulla differenza tra
Revivals – come il Neoclassico o il Neogotico – ed Eclettismo14 e, ai fini della nostra
ricerca, indagare intorno all’esistenza di una caduta della tensione verso l’unità a
favore di una libertà compositiva che legittimerà ogni stile storico. Infatti tale
legittimazione non proverrà più unicamente dalle regole di un classicismo
improntato ad un forte razionalismo, ma unicamente dalla sua storicità che non si
palesa unicamente in una forma ma nel complesso delle regole compositive e nel
rapporto con i volumi e gli spazi.
Ma gli stili storici, pur studiati con passione, non vengono più riproposti
filologicamente e archeologicamente ma sono sempre punto di partenza per creare
14- differenza già chiara nel XIX secolo, se nel 1899 leggiamo:« (…) se per eclettismo, nel campo
architettonico, intendessimo solo la facoltà di usare da parte dei costruttori,
contemporaneamente, o successivamente, vari stili, fra gli eclettici noi dovremmo porre, a mò
di esempio, il Canina, che usò forme egizie, greche e romane, il Valadier, che fu palladiano, ma
s’adattò anche a forme neoclassiche e intese, nel restauro del Duomo di Orvieto, i valori
dell’arte gotica, lo Jappelli, puro neoclassico nel Pedrocchi, lodoliano nella villa del parco di
Soanara, neogotico e imitatore dello stile moresco in altre sue costruzioni; […] Ma negli
architetti che abbiamo ora nominato, […] dominava sempre una mentalità storicistica. Cioè
mentre attraverso le aspirazioni alla libertà d’espressione già affermata dal Wackenroder – per
cui l’arte era esaltata quale libera attività spirituale dell’individuo, perché non esiste un unico
tipo di bellezza – e le teorie estetiche dei postkantiani – che chiariscono sempre meglio il
concetto di originalità e libertà dell’arte – quegli architetti agivano individualmente legati ad un
determinato stile storico, gli eclettici della seconda metà del secolo sono pronti ad esprimersi
usando un vario numero di stili a seconda delle circostanze o delle funzioni dell’edificio è
destinato, e quel che è peggio, a sommare elementi caratterizzatori degli stili diversi in una
stessa costruzione.» Alfredo Melani, Manuale di Architettura italiana antica e moderna,
capitolo Architettura del secolo XIX. Neoclassico ed eclettismo, Milano, Hoepli, 1899, pp.
568-604.
16
ciò che Charles Garnier chiama «style actuel», uno stile cioè prodotto da una società e
da una cultura necessariamente differente da quelle che hanno prodotto gli stili
storici. E questa differenza si deve palesare anche nella decorazione: lo stile
Napoleone III, allora, può presentare nel suo apparato decorativo numerosi
frammenti dei precedenti stili Luigi (XIV, XV, XVI, …), alcuni elementi
rinascimentali ed altri barocchi, ricomposti però in una unità, differente da quella
classica, data non più dall’uso dell’ordine ma unicamente dalla capacità compositiva
del singolo artista. Questa capacità non è più regolata da leggi universali naturali ma
va rintracciata all’interno di una visione del fenomeno architettonico come prodotto
culturale dunque storico, relativo e variabile.
Cominceremo dunque con il trattare dei concetti di unità, mimesi e stile nel periodo
che precede la metà dell’Ottocento, per poi indagare il fenomeno che più ci
interessa, quello della rottura, della crisi del classicismo, spia della più complessa
crisi di una visione del mondo fortemente unitaria che il Settecento, e parte
dell’Ottocento propugnano fortemente.
«Quello di purezza stilistica era un concetto affatto nuovo. (…) Durante il Barocco
non si era contrari a collocare altari, baldacchini e statue nelle chiese gotiche. Il
nuovo purismo non consentiva tali commistioni. Laugier fece una pregnante
asserzione affermando, a proposito delle aggiunte decorative a Notre-Dame de
Paris, che “le siystème d’architecture a été dénaturé”»15
Questo brano di Kaufmann pone l’accento proprio sul tema della purezza, dunque
dell’unità stilistica, che, come abbiamo accennato, è legato profondamente al
concetto di Stile in voga tra la fine del Settecento e nella prima metà dell’Ottocento.
Il tema della purezza stilistica non può essere trattata separatamente dal tema più
generale della ricerca dell’unità. Infatti questa visione è legata alla convinzione
15- Emil Kaufmann, Three Revolutionary Architects, Boullée, Ledoux, and Lequeu, Philadenphia, The
American Philosophical Society, 1952 (trad. it., Tre architetti rivoluzionari. Boullée Ledoux Lequeu,
Milano, Franco Angeli, 1976, pag. 120).
17
profondamente illuminista della possibilità che la ragione possa dare una risposta
unica ad ogni quesito posto, ma è possibile ritrovarla ancora prima in tutta la
cultura metafisica occidentale che si fonda proprio su questa ricerca senza sosta di
principi primi. Da sempre, infatti, si è concepito il mondo come formato da due
realtà, quella dell’arte e quella della scienza, ma non sempre queste due realtà sono
state pensate come campi di indagine separati, retti da leggi diverse, da indagare in
modo differente. Il principio dell’unità del sapere ha, in effetti, costruito per secoli
visioni complessive del mondo, tendendo a racchiudere il reale all’interno di una
logica totalizzante che individuasse un’unica legge alla base sia del sentimento sia
della ragione. La tendenza all’unificazione dei saperi è risultato di un sistema che si
occupa con la medesima disinvoltura sia i prodotti della cultura umanistica sia quelli
della riflessione sulla scienza. Non esiste dunque separazione netta, come oggi
conosciamo e pratichiamo, tra arte e scienza, tra scienza e filosofia, tra filosofia e
religione; tutte le discipline si richiamano a principi metafisici unici e possono essere
descritte come rami appartenenti ad un unico tronco che presenta differenti
diramazioni. Le enciclopedie seicentesche tendevano alla costruzione di sistemi
cristallizzati onnicomprensivi, finalizzati all’appropriazione, al possesso della totalità
del mondo alla «ricerca della mathesis universalis come scienza generale dell’ordine e
della misura e quella di una clavis universalis considerata quale strumento in grado di
cogliere l’essenza e la trama ideale della realtà»12, il metodo empirico, e dunque
l’analisi contrapposta alla sintesi, tende a raggiungere una conoscenza della realtà
attraverso l’indagine in mancanza di aprioristiche posizioni di partenza. Un sistema
di conoscenza descritto dagli arbor scientiarum, prodotti per tutto il XVII e XVIII
secolo16, vere e proprie organizzazioni logiche del sapere in cui le differenti
12- Walter Tega, Arbor Scientiarum. Enciclopedie e sistemi in Francia da Diderot a Comte,Bologna, Il
Mulino, 1984 pag. 5.
16- Ad esempio quello di Alsted del 1630, Cfr. Walter Tega, Arbor Scientiarum. Enciclopedia e sistemi
in Francia da Diderot a Comte, Il Mulino, Bologna, 1984, pag. 18 e segg.
18
discipline venivano ordinate per importanza mettendone in luce le dipendenze e i
rapporti. Essi avevano lo scopo di porre ordine nel reale e fungere da guida alla
conoscenza del mondo per i loro ideatori, ma per noi rappresentano la chiara
esemplificazione di come, in questa visione fortemente unitaria, vi fosse una
dipendenza forte della scienza o dell’arte dalla metafisica. Era a quest’ultima, infatti,
demandato il compito di proporre orizzonti conoscitivi entro i quali muoversi dati
dal suo domandare e dal suo affermare filosoficamente. All’arte o alla scienza è
riservato l’atto poietico e l’atto conoscitivo e descrittivo delle leggi naturali, sempre
però rimanendo all’interno di quell’orizzonte di senso dato dalla metafisica. La
scienza compirà un vero e proprio balzo in avanti verso la totale autonomia solo
con il distacco dalla metafisica che la porterà a definire autonomamente i campi di
indagine e i limiti da porsi, dandosi non più regole di comportamento generali di
tipo metafisico bensì etico.
Questo deciso distacco avverrà a metà del XIX secolo, con Auguste Comte che
lavorerà per eliminare qualunque scoria metafisica dalla sua filosofia positiva. Ma
otterrà un risultato che andrà oltre le sue aspettative. Difatti pur continuando ad
affermare la necessità di una unità del sapere, proprio il suo metodo contribuirà a
provocare la cesura che si consumerà a fine secolo tra Naturwissenschaft e
Geisteswissenschaft. Egli, infatti, propugnando un unico metodo nell’approccio alle
due regioni dello spirito (che noi, oggi, intendiamo separate) e stigmatizzando la
metafisica finisce per pretendere di far ricadere tutto il reale all’interno di una lettura
scientifica, che diventerà alla fine scientista. Questo causerà la dura reazione di
coloro i quali, lontani dalla cultura positiva francese, sentiranno come prioritario il
mantenimento di un metodo metafisico-ermeneutico per le scienze dello spirito,
metodo che si esplicherà nello Storicismo tedesco di fine secolo.
Infatti tutta la storia della storiografia europea del XIX secolo è cronaca di conflitti
tra due differenti visioni. L’una vede la storia come: «… la scienza delle società
19
umane. Essa cerca da quale forza queste sono governate, cioè quale forza ha
mantenuta la coesione e l’unità di ognuna di quelle società. (…) Essa studia gli
organi di cui le società hanno vissuto, cioè a dire il loro diritto, la loro economia
pubblica, le loro abitudini spirituali e materiali, tutte le loro concezioni dell’esistenza.
Ogni società fu un essere vivente; lo storico deve descriverne la vita.»17. Dunque una
visione positivista che si occupa di fatti storici come fossero fatti naturali da studiare
secondo il metodo scientifico.
L’altra visione, quella cosiddetta della “prospettiva gnoseologica”, vede la realtà
come il sistema dei fatti ma fatti dati nella coscienza e dunque nell’esperienza
interna. La storia, e più in generale le scienze dello spirito, studia questi fatti con un
metodo che si pone come oggetto «individuali unità viventi reciprocamente legare in
senso sociale, ed innanzitutto le singole persone, delle quali sono manifestazioni i
moti espressivi, le parole, le azioni. Il compito delle scienze dello spirito è di farle
rivivere e comprenderle a fondo col pensiero.»18 Dunque una contrapposizione
evidente tra la descrizione finalizzata alla spiegazione del metodo scientifico e la
comprensione della gnoseologia.
Tornando al XVIII secolo, il postulato di unità, assieme a quello di semplicità, e
continuità dei fenomeni è uno dei capisaldi anche della cultura espressa
dall’Encyclopédie. Condillac nel suo Origine delle conoscenze umane, del 1746, cerca il
“principio unico” a cui fosse possibile ricondurre tutti i fatti psichici. D’altronde
anche l’istituzione dell’École Polytéchnique pur introducendo il «principio della
specializzazione e l’applicazione delle capacità dei ricercatori a settori di indagine
distinti [… manteneva la] preoccupazione sistematica e unitaria [che si] spostava
verso i dipartimenti del sapere»19
17- N. D. Fustel de Coulanges, L’Alleu et le domaine rural pendant l’époque mérovingienne, Paris, 1889,
pag. IV.
18- Wilhelm Dilthey, Das Wesen, ... op. cit., (cit. tratta da W. Dilthey, L’essenza della filosofia, Milano,
Rusconi, 1999, pag. 55.)
19- Walter Tega, Arbor Scientiarum … op. cit., pag. 64-65.
20
Si pensi inoltre alla caparbietà con cui la Francia, in quest’epoca cercò di mettere
ordine nelle unità di misura al fine di rendere unitario un mondo in cui esistevano
ancora once, pinte, caraffe, pollici e tese e come, proprio durante gli anni della
rivoluzione si arrivò alla determinazione del metro come misura lineare di
riferimento. Non è possibile pensare che tutto ciò abbia un significato unicamente
strumentale: è segno di una civiltà che sente la forte necessità di mettere ordine,
classificare, nominare, dunque normare la cultura (così come avvenne con la
creazione delle Académie Royales prima e con l’École des Beaux Arts dopo).
L’unità del sapere d’altronde è molto forte anche nel campo dell’estetica, disciplina
figlia del XVIII secolo. Uno dei testi fondativi della materia, pubblicato nel 1746 da
Charles Batteaux, porta come titolo Le Belle arti ricondotte ad unico principio. Il principio
unificante è la mimesi, l’imitazione della belle nature, che diviene il punto di partenza e
di arrivo per ogni successiva riflessione. La riflessione sulla neonata disciplina va
dunque verso la definizione di un principio unico, universale, in accordo con i più
generali precetti metafisici, che dia alla “filosofia della sensibilità”, da una lato la
forza di proporsi come autonoma rispetto all’etica e, dall’altro, lo strumento
operativo per esprimere il giudizio. Scrive Batteaux: «Ci lamentiamo sempre della
moltitudine delle regole: esse ostacolano nello stesso modo sia l’autore che vuol
comporre, sia l’amatore che vuol giudicare. (…) Le regole si sono moltiplicate
mediante le osservazioni fatte sulle opere; esse devono semplificarsi riconducendo
queste stesse osservazioni a dei principi comuni. Imitiamo i veri fisici, che
accumulano esperienze e poi fondano su queste un sistema che le riconduce ad un
principio. (…) Tutte le regole sono rami che provengono da uno stesso tronco. Se
risalissimo alla loro origine, scopriremmo un principio abbastanza semplice per
essere colto con immediatezza, e abbastanza ampio per assorbire tutte le regole
particolari, che è sufficiente conoscere mediante il sentimento e la cui teoria non fa
21
altro che turbare lo spirito, senza illuminarlo.»20 Il principio della mimesi soddisfa
queste caratteristiche.
L’Unità inoltre è principio che informa di sé anche la categoria sulla quale si fonda
l’estetica normativa: quella della bellezza, definita da diversi autori come unità nella
varietà21. Questa categoria tende a comprendere tutto ciò che, pur presentando
caratteri di mutevolezza, movimento, eterogeneità, alla fine si subordina ai principi
superiori di simmetria, proporzione, equilibrio dei pesi, elementi che conferiscono
all’opera l’unità necessaria per apparire gradevole. Il principio della mimesi e la
categoria di bellezza definiti nell’estetica di Batteaux definiscono a loro volta il primo
sistema delle Belle Arti nel quale la vicinanza dell’opera al modello immutabile ed
eterno, individuato nella belle nature22 rappresenta il fondamento del giudizio di gusto
e dunque regolano l’accesso nel sistema di ogni manifestazione artistica23.
20- Charles Batteaux, Les Beaux-Arts réduits à un même principe, Paris, Durand, 1746 (trad. it. a cura di
Ermanno Migliorini Le belle arti ricondotte ad unico principio, Palermo, Aesthetica, 1983, pagg. 3132.)
21- Anche J.-B. Lassus che, con Viollet-le-Duc, è il restauratore di Notre Dame di Paris, afferma,
ancora nel 1845, che la bellezza consiste nella varieté dans l’unité.
Cfr Jean-Baptiste Lassus, De l’art et l’archéologie, in «Annales Archéologiques», aprile 1845, pag.
203.
22- La Belle Nature è la fonte di «... tutti i piani delle opere regolari e i disegni di tutti gli ornamenti
che ci possono piacere». Charles Batteaux, Les Beaux-Arts réduits à un même principe, Paris,
Durand, 1746 (trad. it. a cura di Ermanno Migliorini Le belle arti ricondotte ad unico principio,
Palermo, Aesthetica, 1983, pag. 38)
23- La nascita dell’estetica si colloca, per tradizione storiografica, nei primi decenni del XVIII
secolo con gli studi di Du Bos, André, Hutcheson, Crousaz. Giunge a maturità con Batteaux
che per primo adotta un sistema delle Belle arti. Questo primo sistema, in una prima stesura, non
vede l’Architettura tra le belle arti. Mimesi, infatti, per Batteaux si rifà al concetto platonico del
copiare un modello immutabile ed eterno, al quale è necessario riferirsi per non cadere
nell’errore del soggettivismo: «Tutte le arti [...] non sono che delle cose immaginarie, degli enti
finti, copiati e imitati secondo quelli veri. E’ per questo che arti sono poste senza cessa in
opposizione alla natura; che non si ode che questo appello: che bisogna imitare la natura, che
l’arte è perfetta quando la rappresenta perfettamente e, finalmente che i capolavori dell’arte
sono quelli che imitano la natura così bene che li si prende per la natura stessa.» La Natura è
dunque fonte ispiratrice delle arti che devono esprimerla per aspirare a raggiungere la
perfezione. L’architettura pone da subito un problema di individuazione del referente:
dimostrare che la Natura sia l’ente a cui essa si ispira e a cui aspira. A differenza di quanto
accade alla Musica per i suoni, alla Pittura per i colori e alla Scultura per le forme, l’Architettura
non può far risalire le sue colonne, i suoi archi e le sue scale direttamente dalla Natura. Questa
aporia è il fattore che scatena la riflessione che, intorno a questi temi, si dispiega per tutta la
seconda metà del XVIII secolo. Si cerca, in sostanza, di giustificare il riconoscimento
22
Il problema della mimesi è importante soprattutto rispetto al ruolo che gioca nella
riflessione intorno alla nascita del nuovo Stile. Soprattutto. è interessante il modo
con cui si passa dall’attribuzione del significato molto vicino a quello di copia ad una
definizione diversa, lontana, che finirà per mettere in il sistema neoclassico. Già con
Blondel, infatti, la mimesi non è più proposta come mera copia dell’oggetto
naturale, ma come un adeguamento delle forme dell’opera agli scopi per cui essa è
stata ideata. Dunque il principio a cui ridursi è comunque l’imitazione ma non più di
una forma bensì di un processo: quello che la natura segue nel conformare i suoi
prodotti. Con Quatremère de Quincy si giunge alla piena separazione teorica tra
copia ed imitazione. Il copiare diviene una operazione esclusivamente formale,
didattica, l’imitare è un agire secondo le leggi naturali. Quatremère dedica ai due
concetti differenti voci del suo Dictionnaire24. Copiare è «ripetere» un oggetto in un
altro che ne diviene l’immagine; è ammesso farlo solo perché atto propedeutico
all’imitazione, in ragione del fatto che ciò che si copia - l’opera d’arte - rappresenta
una sorta di natura semplificata. D’altro canto l’atto del copiare, eliminando la
possibilità dell’invenzione, deve essere esercitato per il tempo strettamente
indispensabile all’esplicazione della sua funzione didattica, senza farne abuso.
Nella seconda voce Quatremère precisa ciò che intende con imitazione. Per farlo
ciò deve ulteriormente chiarire cosa intenda con il termine Natura. Essa non è vista
unicamente come “il mondo naturale”, l’insieme dei prodotti, ma, secondo un
cammino di progressiva astrazione, giunge, alla fine del XVIII secolo a coincidere
con l’insieme delle leggi che la regolano. La conseguenza di questa astrazione è un
dell’Architettura in quanto “Bella Arte”, operazione che deve approdare necessariamente
all’individuazione di un modello, ispiratore e referente, che sia altro dalla Natura ma ad essa
assimilabile. Questo modello è individuato, dall’abate Laugier, nella capanna, archetipo
dell’architettura: «La piccola capanna primitiva (...) costituisce il modello a partire dal quale ogni
magnificenza architettonica è stata concepita».
24- A. Quatremère de Quincy, Dictionnaire historique d'architecture, comprenant dans son plan les notions
historiques, descriptives, archaeologiques, biographiques, théoriques didactiques et pratiques de cet art, Paris,
Librairie d'Adrien le Clère et c. ie, 1832, 2 tomes, (trad. it. Dizionario storico di architettura, a cura
di V. Farinoti e G. Teyssot, Venezia, Marsilio, 1985)
23
sensibile cambiamento del problema mimetico, che elimina la necessità di doversi
riferire ad un preciso oggetto, o complesso di oggetti, considerati come unica fonte
e modello di bellezza ma tende a riferisi piuttosto alle leggi che ne regolano il
funzionamento.
Viollet-le-Duc raccoglie direttamente l’eredità di Quatremère de Quincy in fatto di
mimesi. Ne esalta la funzione didattica intendendola non come ripetizione ma come
approccio conoscitivo ad un’opera e mezzo di apprendimento dei principi universali
da essa espressi. Il suo lavoro consiste nel rintracciare all’interno dell’architettura
quei principi che si rifanno alle leggi naturali e che divengono, una volta portati alla
luce, categorie di giudizio.
Attraverso questo percorso egli fonda, ad esempio, la sua convinzione che il XV
secolo produsse una cattiva architettura, basando il proprio giudizio sulla
constatazione che, pur rifacendosi alle forme classiche romane, questo secolo
rimase estraneo ai principi - il legame al territorio, ai materiali, al clima - operando
perciò in modo ideologico ed astratto25.
1.1.2
La ricerca dello Stile
Viollet-le-Duc nei suoi Entretien afferma che in architettura c’è lo Stile e ci sono gli
stili. Questa affermazione non è innocua come si potrebbe pensare, in quanto
rappresenta la spia di un pensiero molto diffuso nella prima metà dell’Ottocento e
che tende a distinguere il semplicistico ricopiare le forme del passato e dunque
riproporre colonne, capitelli e decorazioni, dal più nobile imitare queste stesse
architetture rintracciando in esse i principi dello Stile, principi formali, strutturali,
25- «Ce qui doit surtout attirer notre attention dans l'architecture antique, qu'elle appartienne à
l'Orient, aux Grecs ou aux Romain, c'est la parfaite concordance de sa composition avec les
moeurs, les habitudes des populations, avec les procédés de construction». Eugène E. Violletle-Duc, Entretiens sur l'architecture, Paris, A. Morel et C. Éditeurs, rue Bonaparte 13,
MDCCCLXIII (tome premier) - MDCCCLXXII (tome deuxième), tome I pag. 331.
24
compositivi, che dovrebbero andare a costruire quell’idea di unità a cui tendere per
giungere al nuovo stile.
Categorie come la purezza stilistica, la solidità, la verità strutturale, la rispondenza
all’uso, il soddisfacimento del programma esecutivo, la coerenza costruttiva e
l’economicità dei mezzi, sono assurti, da questa parte della cultura Ottocentesca,
allo stesso livello delle categorie più strettamente estetiche: bellezza, proporzione e
simmetria. L’insieme di queste categorie produce il giudizio circa l’appartenenza
dell’oggetto di architettura al novero delle opere d’arte, che dunque non può più
ignorare il rapporto con i materiali, con la razionalità della disposizione delle piante,
con l’economia e la semplicità della decorazione che deve sempre e comunque
essere necessaria. Viollet-le-Duc mostra chiaramente attraverso il Dictionnaire e poi
gli Entretiens questo passaggio che trasforma lo Stile, prima una categoria di giudizio
strettamente formale, in una categoria che implica la considerazione anche di questi
aspetti peculiari dell’architettura e, in questo senso, egli si presenta come sintesi del
pensiero classicista dei primi quaranta anni del XIX secolo.
Vediamo allora più in dettaglio cosa intende Viollet per Stile, tenendo conto che la
sua idea influenzerà fortemente quella di tutti i teorici successivi non solo francesi.
Procedendo in modo cronologico nell’analisi degli scritti del francese incontriamo
in primis la voce Stile all’interno del Dictionnaire26. In questo scritto egli afferma che
l’artista «non riceve direttamente da una scena, da un oggetto o dalla natura una
sensazione atta a trasformarsi in opera d’arte.»27. L’opera dunque nasce dall’uomo
stesso, dalla sua immaginazione, e dalla facoltà di ragionare; non presenta, in questo
senso, alcun referente meramente naturalistico. Solo se l’architetto è realmente
artista tutte le suggestioni esterne a cui egli attinge si fondono in una concezione
26- Eugène E. Viollet-le-Duc, Eugène Viollet-le-Duc, Dictionnaire raisonnée de l’architecture française du
XII au XVI siècle, Paris, Ernest Grund, 1854-1868. (trad.it. parz. a cura di M. Antonietta
Crippa, L’architettura Ragionata. Estratti dal Dizionario, Milano, Jaka Book, 1981).
27- Eugène Viollet-le-Duc, Dictionnaire … op. cit., voce Stile pag. 303
25
unitaria e inedita; «se non lo è, la sua opera è solo un ammasso di prestiti di cui è
facile riconoscere l’origine: essa manca di stile»28. Ciò rende lo Stile categoria
estetica indispensabile per l’individuazione, nella “costruzione”, dell’opera d’arte.
Nel Dictionnaire risulta però ancora confuso il carattere irrinunciabile dello Stile in
questo riconoscimento. Lo Stile è ancora categoria molto, troppo, ampia che può
investire di sé oggetti di vario tipo. Ma gli Entretiens, diventano il modo per Violletle-Duc di precisare il suo pensiero. Lo Stile «est un des éléments essentiels de la
beauté, mais ne constitue pas la beauté à lui seul»29. La bellezza dunque è costituita
da molti attributi, ai quali va aggiunto, rispetto a quelli tradizionali, quello di Stile.
Esso è condizione sine qua non: nessun edificio può essere considerato bello se
non lo possiede. É un passaggio importante che permette di spiegare la posizione di
Viollet-le-Duc su alcune questioni fondamentali: il suo rapporto con il classico, la
rivalutazione dell’architettura gotica, l’atteggiamento verso il restauro. Lo Stile
infatti introduce, all’interno del Bello, una sfumatura diversa da quella tradizionale,
perché porta a riconoscere il carattere di bellezza in un’opera solo quando «la forma
indica nettamente l’oggetto e ne fa comprendere a qual fine questo oggetto è
prodotto»30. Viene dunque incluso, nella bellezza, un carattere che dipende
dall’espressione dei fini dell’oggetto, e assume un carattere essenziale l’approccio
funzionale rispetto a quello formale, coinvolgendo e condizionando il giudizio sulla
bellezza.
Questo non significa, come potrebbe apparire, un immiserimento del fronte
strettamente artistico dell’architettura: per Viollet forma e struttura sono un’unica
cosa. Esse non possono essere separate una dall’altra poiché l’una emanazione
dell’altra.; cambiando il materiale o la struttura è necessario modificare le forme31.
28293031-
Eugène Viollet-le-Duc, Dictionnaire … op. cit, voce Stile pag. 303
Eugène Viollet-le-Duc, Entretiens … op. cit., I, pag. 180.
Eugène Viollet-le-Duc, Entretiens … op. cit., I, pag. 314
Questo atteggiamento ha un riscontro importante nell’opera di Cuvier, il famoso naturalista
francese. Scrive Foucault: a questo proposito: «Nell’analisi dei classici, l’organo era definito, a un
26
Ma, ancora, questa consequenzialità non comporta che la forma sia subordinata alla
struttura e al materiale e, per questo, sia meno “autonoma”; se la forma
dell’architettura non è coerente, non si sposa con la materia formando un tutt’uno,
non si ha opera d’arte. Al massimo avremo – ed è il caso dell’architettura romana un fulgido esempio di ingegneria, una costruzione che ha Stile ma questo non basta
all’opera per essere opera d’arte.
Il ruolo che lo Stile gioca nel giudizio dell’architetto francese, si evince chiaramente
dall’insieme degli scritti in cui egli analizza l’architettura rispetto alla sua
rispondenza ad un programma iniziale, alla fusione con i costumi del popolo che
l’ha creata, alla scelta delle materie da usare, al modo di metterle in opera e alla
deduzione logica dei particolari dall’insieme. Seguendo questo approccio Viollet
giunge a formulare un giudizio positivo sull’architettura medievale che soddisfa
pienamente quei requisiti. Per questo è possibile giudicarla bella e accostata a quella
classica.
Viollet-le-Duc
in
questo
modo
costruisce
le
basi
per
una
“legittimizzazione” del gotico che diventa architettura da studiare anche per il suo
essere bella arte. Ma lo Stile diventa parametro unificante che lega lo studio
dell’architettura, il suo restauro e la sua progettazione. Solo con l’uso di questa
guida è possibile avvertire la mancanza di gusto nel passato e nel presente. È
possibile dunque lavorare, con il restauro, per correggere un passato che deve
servire da esempio e da sprone per il presente e adoperare i medesimi strumenti per
creare la propria nuova architettura. Lo Stile si rivela essere per Viollet – ma lo sarà
tempo, in base alla sua struttura e alla sua funzione; era come un sistema a doppia entrata che
poteva esser letto esaustivamente o a partire dal compito che svolgeva (ad es. la riproduzione),
o a partire dalle sue variabili morfologiche (forma, grandezza, disposizione o numero). I due
modi di decifrazione coincidevano con la massima esattezza, ma erano indipendenti l’uno
dall’altro, dal momento che il primo enunciava l’utilizzabile, il secondo l’identificabile». Cuvier
dunque elimina l’indipendenza tra forma e funzione e mette in primo piano il ruolo di
quest’ultima che «assoggetta la disposizione dell’organo alla sovranità della funzione». Le
citazioni sono tratte da: Michel Foucault, Les mots et les choses, Paris, Editions Gallimard, 1966
(trad. it. di Emilio Panaitescu, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, Milano, Rizzoli,
1994, pag. 286).
27
per molti teorici per tutto l’Ottocento – quel principio universale unitario al quale
ricondurre le arti.
Anche Semper tratta del tema dello Stile legandolo a quello dell’Unità e, in
particolar modo, al concetto vitruviano di autorità. Questo termine designa
«qualcosa per cui la lingua tedesca non ha il vocabolo equivalente: cioè l’emergere in
una figura di certe componenti formali dalla serie delle altre, per cui tali componenti
diventano come le prime voci di un coro e le rappresentanti ufficiali di un principio
unificatore»32. In questa frase è possibile sentir riecheggiare il tema del bello come
unità nella varietà. Semper individua tre autorità che guidano il giudizio e la
creazione artistica: l’autorità simmetrico-euritmica, l’autorità di proporzione, l’autorità di
direzione. Queste sono a loro volta destinate a ricomporsi in nome di un ulteriore
principio unitario: l’unità di fine o di contenuto che «in base al grado di perfezione
ammesso dalla natura e dall’arte, si manifesta come regolarità, come tipo, come
carattere, e, alla massima potenza, si spinge fino al livello dell’espressione»33.
Rimanendo all’interno di una visione che pone l’idea a fondamento dell’arte,
Semper si avvicina molto allo stesso Viollet quando, andando ancora di più a
ritroso nella ricerca di un principio primo estraneo alla contingenza dell’operare
artistico del momento, si richiama alle leggi naturali. Egli infatti afferma che:
«nell’arte come nella natura, ora con la regolarità del cristallo, ora con il predominio
della simmetria, ora con un particolare sviluppo della proporzione, ora infine con
una speciale accentuazione della direzionalità, l’idea si rivela nella forma in modo
chiaro e significativo. In certe costruzioni si ritrova la perfezione euritmica del
cristallo e di altre forme naturali assolutamente regolari: per esempio i tumuli, le
piramidi egizie e monumenti consimili, sviluppati ugualmente da ogni parte e privi
32- Gottfried Semper, Der Stil in den technischen und tektonischen Kunsten oder praktische Asthetik. Ein
Handbuch fur Techniker, Kunstler und Kunstfreunde, Frankfurt am Main, Verlag fur Kunst und
Wissenschaft, 1860 (trad. it., Lo Stile nelle arti tecniche e tettoniche o estetica pratica. Manuale per tecnici,
artisti e amatori, Roma-Bari, Laterza, 1992, pagg. 32)
33- idem
28
di una vera articolazione proporzionale o direzionale»34. È curioso che anche il
teorico francese indichi il cristallo come principio unificante dal quale partire per
applicare nell’arte le stesse leggi che regolano la natura. Ma se ripensiamo a quella
visione unitaria del sapere, di cui si è trattato sopra, si può immaginare come fosse
diffusa la conoscenza delle discipline scientifiche (d’altronde più accessibili in
quanto non avevano ancora adottato il linguaggio matematico come elemento,
ancora una volta, unificatore) e in particolare della geologia che faceva parte del
bagaglio culturale di molti uomini che oggi conosciamo soprattutto per la loro
attività artistica, basti pensare a Goethe. Viollet-le-Duc non è dunque il primo a
portare alla ribalta questi temi. Già nel 1835 J. Metzger35 metteva in relazione la
geometria delle cellule e dei cristalli con le forme dell’architettura gotica e l’idea di
un rapporto stretto tra architettura e legge naturale era considerata, tra gli anni ’30 e
’50 del XIX secolo, una certezza scientifica.
Spiegazione scientifica e giudizio estetico dunque si uniscono e l’una diviene
fondamento dell’altro. In un passo della voce «Rose» del Dictionnaire egli scrive, a
proposito del rosone della Sainte-Chapelle di Parigi: «En observant, par exemple, la
contexture des plantes, on remarque que les réseaux que forment les feuilles, la
pulpe de certains fruits, présentent un système cellulaire très résistant, si l’on tient
compte de la ténuité des filaments et de la mollesse de ces organes. C’est un
principe analogue qui dirige les maîtres dans les tracé des roses du XVème siècle. Ils
conservent quelques rayons, et remplissent les coins laisses entre eux par une
véritable arcature cellulaire, assez semblable à celle des organes végétaux»36.
La logica della cristallizzazione è usata da Semper e, soprattutto, da Viollet per
spiegare non solo i principi del fare architettura ma anche la storia del suo evolversi
34- idem
35- J. Metzger, Gesetze der Pflantzen und Mineralienbildung angemenet auf altdeutschen Bausyl, Stuttgart,
1835.
36- Eugène Viollet-le-Duc, Dictionnaire, vol. VIII (1866), article «Rose», pag. 62.
29
nel tempo. Inoltre, la cristallografia permette allo studioso francese di studiare le
leggi che guidano il mondo inorganico, quelle stesse pietre che, lavorate dall’uomo,
danno forma all’architettura. Anche in questo caso Viollet non è il primo, giacché lo
stesso fecero Ledoux e Durand.
1.1.3
Garnier, la generazione di metà secolo e la rottura dell’unità
In varie occasioni nella storia dell’arte si è assistito alla rottura di una visione
unitaria e al sorgere di un periodo in cui esplode il conflitto, tra differenti stilemi,
poetiche o addirittura tra differenti visioni del ruolo e del significato complessivo
del fare arte.
Uno di questi periodi è descritto con maestria da Mario Manieri Elia e ci riporta alla
costruzione dell’Arco di Costantino nel IV secolo d.C.
Ci troviamo di fronte ad un’opera che accosta frammenti di rilievi di diverse epoche
provenienti da monumenti demoliti. «Si tratta di qualcosa di assolutamente diverso,
ormai, dalla organica contaminazione di elementi eterogenei del Pantheon. È una
“antologia” (Becatti, 1951), o, forse un “archivio” […] delle glorie imperiali: un
richiamo sincronico - e quindi soprastorico – ancorché fatto di pezzi di storia,
all’unità del mito di Roma»37
Siamo di fronte sicuramente ad una composizione eclettica, pur alla ricerca di una
unità generale che però risulta essere definitivamente lontana dalla sintesi classica.
Un secondo esempio, che individua nella frammentazione un momento di crisi e di
presa di distanza dalla tensione all’unità, è individuabile nelle conseguenze, sul gusto
dell’epoca, della fortuna dell’archeologia nel XVIII secolo. Già dal Seicento si era
cominciato a formare un mercato dei reperti e delle vestigia che si alimentava di
37- Mario Manieri Elia, Architettura e mentalità dal Classico al Neoclassico, Roma-Bari, Laterza, 1989,
pag. 32-33.
30
frammenti, di prodotti bizzarri ed esotici. «… la spinta verso l’assortimento e
l’originalità dei prodotti tende ad allargare la ricerca a periodi e ambienti storici
meno studiati»38. Il gusto si rivolse allora, alla fine del Settecento, verso l’etrusco e
l’egizio. Il fenomeno è sintetizzato, per la moda degli oggetti “à la grec” da una
lettera del 1763 dell’Abate Galiani: «Vedermi tutto il giorno accarezzato, festeggiato,
onorato da gente che non mi chiede altra grazia se non che a qualunque prezzo e
spesa far ottenere loro gli ercolani [le pitture di Ercolano N.d.R.],[…]
hanno
prodotto nel gusto dei francesi una incredibile crisi e rivoluzione. Dato il bando ai
cartocci, fogliami e alle linee curve tanto care agli architetti, si sono di botto rivolti
al gusto dell’antico con tanta precipitazione che è già passato in eccesso. Ci sono già
tutti i mobili “à la greque”, tabacchiere, ventagli, oriuoli e perfino insegne di
botteghe.»39 In questo senso, l’abbandono del rococò settecentesco sembra quasi
più facilmente attribuibile alla moda che alle teorizzazioni dei razionalisti classici!
Siamo, in ogni caso, di fronte al nascere di quell’atteggiamento chiamato Revival dai
critici che si sviluppa tra la fine del XVIII e la prima metà del XIX sec. e che vede
alternarsi la moda per il Neoegizio, il Neoetrusco, il Neoclassico, il Neogotico, il
Rundbogenstil. Esistono allora almeno due accezioni del termine eclettismo, usato per la
prima volta probabilmente da Thomas Hope nel suo Saggio storico sull’Architettura, del
1835, nel quale si lamenta della varietà degli stili in voga in Inghilterra: «Sembra che
nessuno abbia ancora concepito il più piccolo desiderio o d’idea di prendere solo in
prestito da ogni passato stile architettonico qualsiasi cosa si presenti di utile o di
ornamentale, di scientifico o di dotato di gusto; o di aggiungere d’ora in poi
qualunque altra nuova forma a disposizione che possa permettere opportunità ed
eleganze finora mai raggiunte […]»40. Una si riferisce genericamente all’uso, in una
38- Mario Manieri Elia, Architettura… op. cit., pag. 155-57.
39- ibid.
40- Thomas Hope, Saggio storico sull’Architettura, 1835, cit. in Peter Collins, Changing ideals in modern
architecture, London, Faber and Faber, 1965, (trad. it., I mutevoli ideali dell’architettura moderna,
Milano, Il Saggiatore, 1972, pagg. 149-150).
31
stessa epoca, di stili storici, atteggiamento che non si può limitare ad un unico
periodo storico. Come abbiamo visto sopra, ne abbiamo esempi nel periodo
tardoantico così come dalla seconda metà del Settecento in poi. Un'altra accezione
di eclettismo è invece quella proposta da Roberto Gabetti in cui «… l’aggettivo
eclettico [è] usato solo a proposito di un edificio che sia fatto di più stili scelti
dall’autore, a gusto suo ricomposti e accostati»41. È a questo concetto di eclettismo
che ci riferiamo nelle pagine che seguono in quanto è nostro intento il riuscire ad
individuare in questo atteggiamento la rottura dell’unità stilistica nella progettazione
e metterla in relazione con il cambiamento che questo provoca anche nella
riflessione intorno ai temi del restauro.
Solitamente si fa succedere ai Revivals l’Eclettismo. I due termini non sono
sinonimi, anche se fanno entrambi riferimento ad un modo di fare architettura
fortemente legato ed ispirato ai modelli del passato. Ma è proprio nell’evidenziarsi
delle differenze tra l’atteggiamento revivalista ed eclettico che si consuma la rottura
del XIX secolo con la visione unitaria dell’architettura, rottura che andandosi ad
affiancare con le altre che via via si verificheranno nella seconda metà del secolo,
porterà a quella crisi di fine secolo in cui, per la prima volta in modo così profondo,
si metterà in discussione l’intera episteme occidentale fondata sulla metafisica e
dunque sulla ricerca di verità assolute e di risposte univoche ai dubbi dell’uomo.
Proprio questo ci interessa: individuare nell’architettura i segni di questa debolezza
che impedirà sempre più di pensare all’esistenza di un principio primo, di un ordine
supremo, di una bellezza assoluta, di un periodo storico di splendore, in poche
parole in tutto ciò che solo un secolo prima Winckelmann.
Cosa è accaduto dunque in questo secolo che ha minato alla base l’intero sistema?
Non vi è dubbio che la crisi è tutta interna al classicismo e, in quanto tale, ancora
più devastante perché matura all’interno delle istituzioni che esso aveva creato per
41- Roberto Gabetti, Da Torino a Milano, in «La Casa», n. 6, 1958, pag. 23.
32
proteggersi e auto rigenerarsi, dunque l’Accademia e l’École des Beaux-Arts.
Proprio la Francia, dopo essere stata la patria del Razionalismo classico
settecentesco e del Neoclassicismo Ottocentesco, si ritrova, ancora una volta ad
essere protagonista, per questo ci siamo finora occupati e ci occuperemo, in
particolare, della vicenda in atto in questo paese credendo che sia emblematica e
fondativa di tutto ciò che accadde negli altri, in particolare in Italia.
È leggendo ciò che scrisse Camillo Boito nel 1880 che troviamo una sintesi chiara
sul fenomeno dell’eclettismo: «Il gran malanno dell’arte decorativa oggi e delle arti
industriali sta nella confusione, nel rimpasticciamento delle forme, le quali tolte da
varii stili, non s’accomodano insieme con ingenua armonia. […] Ci affaccendiamo in
un lavoro veramente da farmacisti: si manipola e si lambicca. E l’eclettismo, bisogna
rendersene conto, può riescire di due specie, o un accozzamento o un decotto. È un
accozzamento quando, a mo’ d’esempio, in un palazzo signorile si fa il gabinetto
moresco e l’oratorio gotico, la sala da ballo rococò e la sala da pranzo svizzera; è un
decotto quando si mettono a bollire insieme più stili, e di uno rimane dentro nella
broda una sagoma, dell’altro una fregiatura, di questo una foglia, di quello un
cartoccio, come chi parlasse con i verbi in italiano, i nomi in francese, le
congiunzioni in tedesco e gli aggettivi in turco.»42
L’Eclettismo fu dunque aspramente criticato dai propri contemporanei, nonostante
che alcuni suoi esponenti, primo fra tutti Garnier, avessero conquistato fortuna e
fama. E si continuò a criticarlo per decenni escludendolo in sostanza da ogni
indagine sullo sviluppo dell’architettura dell’Ottocento, nelle quali si passava dai
Revival direttamente a Morris, all’Art Nouveau e alla Secessione viennese. Come se
trent’anni almeno non fossero trascorsi o nulla avessero lasciato. Ancora oggi è
difficile trovare sui testi di storia dell’architettura una rassegna esaustiva
dell’Eclettismo, almeno quanto quella dedicata al periodo immediatamente
42- Camillo Boito, Ornamenti di tutti gli stili, Milano, 1880.
33
precedente, e senza dubbio è un’epoca che ancora è comunemente vista come
profondamente decadente. Cerchiamo di capire perché questo accanimento.
Probabilmente è dovuto ad un duplice motivo: in primis il profondo sentimento di
ribellione verso l’unità classicista e il razionalismo che subordina la decorazione al
materiale e alla struttura. Questa prima rottura è provoca l’ostracismo di coloro i
quali mantengono come primaria la ricerca del principio unitario e universale dello
Stile. Ma un secondo momento di rottura penso possa essere indicato nel momento
in cui, agli inizi del XX secolo, coloro i quali erano diventati i depositari della
tradizione Beaux-Arts (proprio gli eclettici) vengono contestati da artisti che si
richiamano ai principi unitari e razionali del periodo dei Revivals. La storia, si sa, è
scritta dai vincitori, dunque la legittimazione degli architetti moderni si gioca con la
individuazione di pionieri e di regole che fanno individuare una tradizione a cui
rifarsi. Questo processo di legittimazione cancella del tutto quello che già i
contemporanei del XIX secolo stentavano a riconoscere: un qualche interesse verso
un’architettura troppo libera e spregiudicata. Eppure proprio l’Eclettismo, con il suo
aver separato la decorazione dalla struttura e la costruzione dalle proporzioni
costrittive dell’ordine, apre alla possibilità che si sviluppi da una parte un’architettura
legata più alla progettazione di spazi e volumi e dall’altra permette concettualmente
che sia dia, portando all’estremo un ragionamento su una decorazione figlia del
proprio tempo, l’annullamento della decorazione stessa, cosa che sarà invece
teorizzata, di frequente, in contrapposizione all’Eclettismo.
Spesso si mette in parallelo questo atteggiamento nel campo dell’architettura con
quello, nel campo della filosofia, di Victor Cousin, propugnatore dell’Eclettismo
filosofico. Nel testo Del vero, del bello e del bene del 1836, ma pubblicato nel 1853,
Cousin spiega cosa intende per metodo eclettico. Esso consiste nel considerare lo
sviluppo della filosofia dal punto di vista evoluzionista e di costruire un pensiero
attraverso l’assunzione di punti di vista scelti (εχλεγο) dai metodi adottati nel
34
passato. Lo sviluppo è tutto teso a provare l’esistenza di un ideale; il criterio
evoluzionista dà voce alla convinzione che ogni secolo che succede al precedente si
avvicini sempre più a questo ideale. Dunque Cousin rimane in ogni caso un filosofo
alla ricerca di un principio universale a-storico, pur se cerca di afferrarlo nella storia,
e dunque è vicino all’ideale propugnato sia dai classicisti sia, ad esempio, da Violletle-Duc, i quali pongono alla base dei loro studi proprio l’individuazione dei principi.
Per costoro, la storia era unicamente un archivio entro cui rintracciare il
materializzarsi dei principi. Solo attraverso le opere era possibile studiare e
analizzare il principio per poi passare al giudizio alla luce dell’idea. Nel caso, era
accettabile modificare l’opera per riportarla alla verità tradita da un difetto di
interpretazione dell’idea.
L’uso del metodo eclettico da trasferire nell’architettura era sostenuto dal Direttore
della Revue Générale de l’Architecture come mezzo per riuscire a superare il
conflitto tra gli stili. «L’eclettismo, egli scrisse in un articolo poi tradotto in inglese
(…), potrebbe non creare una nuova arte, ma essere almeno un elemento di
transizione tra il revivalismo e l’architettura del futuro. Finora, gli artisti creativi si
sono limitati a progetti eterogenei, perché i loro sforzi non erano animati da alcun
principio. Ciò è avvenuto perché facevano parte di una società che non aveva essa
stessa alcun principio di valore universale. Sia gli architetti che la società in generale
sono andati verso il futuro appesantiti da una confusa massa di elementi presi a
prestito da tutte le società antecedenti. La confusione che sarebbe risultata da un
amalgama eclettico di tutti gli “stili” era essa stessa viziata; ma era una delle
condizioni necessarie al progresso dell’architettura.»43 In ogni nuovo progetto
sarebbe stato corretto combinare elementi moderni con frammenti antichi «… onde
esercitare un’azione salutare, che sarebbe diventata ogni giorno più evidente. Per
43- Peter Collins, Changing ideals in modern architecture, London, Faber and Faber, 1965, (trad. it., I
mutevoli ideali dell’architettura moderna, Milano, Il Saggiatore, 1972, pagg. 147-152).
35
quanto la risultante confusione delle forme non sarebbe stata buona in se stessa (nel
senso che ogni determinato edificio sarebbe stato in qualche modo difettoso),
avrebbe invece avuto vantaggi dal punto di vista della ricerca, della sperimentazione
e del progresso.»44 Diverso appare dunque l’atteggiamento, rispetto la storia, degli
architetti della generazione di metà secolo. Essi, infatti, usavano lo strumento
dell’archeologia come avevano imparato all’École, ma lo facevano in modo critico
rispetto la selezione a priori operata dai classicisti: «Certes, l’archéologie est une
science utile, et tout architecte doit étudier et tous les ages et tous les styles; il n’y a
pas d’exclusion dans ses études, il ne doit pas y avoir d’exclusion dans l’admiration.
Chaque architecture a son caractère, chaque époque a ses beautés; la cathédrale
gothique vaut les monuments grecs; tout ce qui est vrai, tout ce qui est beau doit
parler a l’âme; et, si l’éclectisme doit être repoussé complètement lorsqu’il s’agit de
produire, il faut être éclectique pour admirer»45 Dunque l’idea di storia, viene rivista
completamente da Garnier mettendo in evidenza, in primo luogo, che le forme
architettoniche si evolvono storicamente, che il progresso dell’architettura necessita
lo studio archeologico eclettico del passato e infine, che l’architetto può essere
definito come uno storico che scrive la storia direttamente nei suoi edifici. In questo
modo egli legittima ogni architettura che sia mai stata fatta, in quanto «Un
monument, quel qu’il soit, ne doit jamais être considéré comme l’expression d’une
évolution artistique passagère; il doit, au contraire, se présenter à nous comme une
manifestation permanente du temps dans lequel il a été élevé; c’est une page
d’histoire qui doit se classer à sa place, et qu’il ne doit être permis à personne de supprimer
ou falsifier.»46
44- idem
45- Charles Garnier, A travers les arts. Causeries et mélanges, Paris, 1869, cit. in Christopher Curtis
Mead, Charles Garnier’s Paris Opera. Architectural Empathy and the Renaissance of French Classicism,
Cambridge, The MIT Press, 1991, pag. 206.
46- Charles Garnier, La reconstruction des monuments de Paris, in «Le Temps», 7 sept. 1871, cit in
Christopher Curtis Mead, Charles Garnier’s Paris Opera. Architectural Empathy and the Renaissance of
French Classicism, Cambridge, The MIT Press, 1991, pag. 207.
36
Siamo nel
1871, mentre Viollet-le-Duc restaura Pierrefond, Carcassonne e St.
Sernin a Tolosa, Victor Baltard procede al restauro delle chiese di St. Eustache e St.
Etienne du Mont di Parigi, chiese del XVI secolo, dichiarando in questo modo un
interesse verso un periodo di transizione dell’architettura francese considerato di
decadenza. Mead nel suo esauriente libro su Garnier afferma che l’architetto
francese dava un’interpretazione della storia che stava tra quella Neoclassica e quella
Romantica: «La sua accettazione dell’idea romantica della storia lo allontana dal
credo Neoclassico di un’architettura generata dall’imitazione di un ideale naturale e
di un ordine immutabile. Ma di contro la sua opposizione al razionalismo strutturale
lo riporta su posizioni neoclassiche quando afferma che l’architettura dipende dalla
realizzazione di forme ideali, piuttosto che dallo sviluppo progressivo delle
strutture.»47
Garnier punta allo smantellamento di una sorta di unità di secondo grado: i
Neoclassici, come abbiamo visto, oltre a concepire un principio primo unitario
affermano l’importanza di sottoprincipi come la mimesi ed il bello come “unità
nella varietà”, Garnier mantenendo il principio primo consistente nel
raggiungimento di un ideale, non accetta quelli secondari, più legati, da una parte al
giudizio sulle opere del passato e dall’altra alla normativa progettuale.
Garnier è Prix de Rome nel 1848 pertanto qualunque sua riflessione è maturata a
partire dagli insegnamenti e dai principi impartitigli dall’Accademia. Ciò significa che
negli anni quaranta – quando seguì i corsi all’Ècole – era già percepibile una crisi del
modello neoclassico che egli assimilò ed esasperò fino alla vincita, vent’anni dopo,
del concorso per l’Opera, con un’architettura assolutamente lontana dagli schemi
47- Christopher Curtis Mead, Charles Garnier’s Paris Opera …, op. cit., pag. 208. «Garnier’s
interpretation of architecture falls between the Neoclassical and Romantic positions. His
acceptance of the Romantic idea of history precluded the Neoclassical belief that architecture
originated in an imitation of nature’s ideal and unchanging order. Yet his rejection of
Romanticism’s structural rationalism returned him to the Neoclassical premise that the art of
architecture depended upon the realization of ideal forms, rather than upon the progressive
science of structures.»
37
della tradizione accademica. La rottura dunque non è certo attribuibile al solo
Garnier, pur se è possibile dire che egli sia stato l’elemento catalizzatore delle
differenti sollecitazioni che provenivano da varie direzioni. Vediamo di chiarire
questo passaggio. Il periodo purista dell’Accademia toccò il suo culmine sotto il
segretariato di Quatremère de Quincy, tra il 1816 e il 1839. Egli, infatti, fu fautore di
un’architettura di stile strettamente greco-romana48 legata allo studio archeologico.
Ma per Quatremère archeologia significa soprattutto studio filologico dei
documenti. L’oggetto, nella sua materialità, è meno importante, è visto unicamente
come manifestazione dell’idea e solo questa è il fine da raggiungere attraverso
l’imitazione. L’archeologia serve all’architetto per entrare in contatto con l’idea (o,
come si esprimerebbe Viollet-le-Duc, con i principi) così come si è manifestata
nell’edificio costruito. Ma l’idea e il principio sono in ogni modo raggiungibili solo
razionalmente e non discendono da alcuna analisi empirica; sono dati a priori.
Proprio per questo motivo sono in grado di esprimere un giudizio sull’opera storica.
Questo atteggiamento è messo in discussione in due modi dalla generazione
successiva: dal punto di vista del metodo e dal punto di vista della scelta stilistica.
La purezza stilistica fu messa da parte, immediatamente dopo la sua morte, dal suo
successore a Segretario perpetuo all’Accademia, Raoul-Rochette, che propugnava lo
stile rinascimentale. A questo avevano guardato, già con grande interesse, architetti
precedenti come Percier e Fontaine, e Charlies Pierre Normand. D’altronde la
famosa polemica tra Classicisti e Goticisti, era, in effetti, a tre e coinvolgeva anche
gli Eclettici rinascimentali49 anzi proprio contro questi ultimi erano indirizzate le
48- «Notre architecture est celle des anciens Grecs et Romans, en un mot, l’architecture antique»,
Antoine-Chrysostome Quatremère de Quincy, voce Moderne in Dictionnaire historique de
l’architecture …, op. cit., II.
49- «Quoi! Le gothique serait notre art national! Et nous devrions répudier toutes les conquêtes
qui ont été faites depuis! Quoi! Telles seraient les bornes imposées au génie français, et depuis
le quinzième siècle notre art aurait perdu toute originalité, tout caractère! Nous ne pouvons le
croire; l’art en général et l’architecture particulièrement, sont soumis à l’impulsion des idées qui
dominent à l’époque de leur production.» Leon Vaudoyer, Etudes d’architecture, in «Le Magasin
pittoresque», XII, 1844, pag. 262.
38
critiche più feroci dai primi due, coalizzati. In effetti, ciò che più spaventava, era
proprio l’abbandono della difesa del principio di unità: «… to translate the veiled
terms used by Lassus and Viollet-le-Duc, these Gothicists were less opposed to the
Neoclassiciss, who looked upon the Renaissance as the revival of Greek principles
of art, than they were to the Romantics, who looked upon the Renaissance,
especially in its French form, as an essential lesson in historical evolution.»50. Ma si
andrà oltre l’allargamento degli studi, prima al Rinascimento e poi a tutti gli stili in
modo indistinto. Ciò che provocherà la vera e propria rottura, e che farà indignare
Boito nel modo che abbiamo visto sopra, sarà l’abbandono dell’ordine classico nella
sua funzione di elemento unificante e di norma. Si arriverà in altre parole ad usare
gli ordini semplicemente come decorazione e a ignorare la suddivisione tradizionale
tra dorico, ionico e corinzio per giungere ad una progettazione libera che usi, sì, la
colonna o la trabeazione, ma le decori con due o più stili insieme e vi aggiunga altri
elementi assolutamente inediti. Questo passaggio deriva dall’opposizione forte della
generazione di Garnier rispetto alla regola razionalista del principio di verità
strutturale che affermava la necessità di far corrispondere anche visivamente la
composizione degli esterni con le strutture interne, l’uso dei materiali alla
progettazione delle strutture, e infine la decorazione ai materiali e alle strutture.
Un’esigenza di palesare un rapporto stretto tra struttura, materiale, decorazione che
non lasciava spazio alla creazione libera a certi materiali come lo stucco, in una
parola, l’immaginazione di barocca memoria, contro la quale si erano scagliati i
primi razionalisti classici alla metà del Settecento. Garnier compie questo passo
verso la emancipazione della decorazione dal materiale criticando il principio primo
di Quatremère, la capanna vitruviana, riconosciuta dai tempi di Laugier come
archetipo naturale per l’architettura. Da questa scelta discendeva, infatti, la necessità
della chiarezza di lettura tra aspetto e struttura, come accade nella capanna, ma
50- Christopher Curtis Mead, Charles Garnier’s Paris Opera …, op. cit., pag. 224.
39
anche in tutto ciò che è guidato dalle leggi naturali (anche Viollet-le-Duc dunque
ragiona nel medesimo modo). Garnier sostituisce alla capanna il richiamo ad un
archetipo sentimentale, umano: il rapporto con lo spazio, con i volumi Questo
rapporto diventa per il francese la vera materia di studio per individuare la legge che
regola l’idea prima. Questo provoca inevitabilmente la caduta dell’ordine classico
visto «as the realization of architecture’s general character in precise stylistic forms.
Where Quatremère de Quincy archetype defined the form of architecture, Garnier’s
archetype shaped only the relationships of space within an indeterminate form.»51
Già Felix Duban nel suo progetto per l’Ècole des Beaux-Arts del 1832-40 era
andato oltre la visione che concepiva in modo unitario costruzione e decorazione.
Lo aveva palesato tramite l’uso non ortodosso di lesene, palesemente non portanti,
che fungevano da decorazione di una struttura composta di archi a tutto sesto. Il
culmine tuttavia giunse con il Vestibule d’Harlay, al Palazzo di Giustizia di Parigi di
Louis Duc, del 1852-68. In questo edificio infatti il ruolo della struttura è
assolutamente sganciato da quello della decorazione. Abbiamo, anzi, una
sovrapposizione di questi due piani in cui si legge chiaramente che lo scheletro
strutturale è formato da archi ribassati e pilastri, mentre le semicolonne che danno
vita all’apparato decorativo della facciata portano unicamente le parti aggettanti
della trabeazione. Allo stesso modo nel progettare l’Opéra, Garnier usa l’ordine
come decorazione applicata alla costruzione vera e propria, trasformando la
«prosaic structure into a poetic and figurative language, which orders the facade into
a stylistic form»52. Scrive Mead, che l’esperienza di Duc fu per Garnier doppiamente
rilevante: in primo luogo, considerando l’ordine come insieme di
forme
51- «Questo archetipo umano, imbeve la progettazione Beaux-Arts con significati universali e
contemporaneamente risponde alle esigenze di realtà storica del Romanticismo. Esso inoltre
spazza via il concetto di ordine classico in quanto realizzazione attraverso precise forme
stilistiche del carattere generale. Dove l’archetipo di Quatremère de Quincy definisce una forma,
l’archetipo di Garnier da forma unicamente a relazioni spaziali senza una forma determinata»
in Christopher Curtis Mead, Charles Garnier’s Paris Opera …, op. cit., pag. 222.
52- Christopher Curtis Mead, Charles Garnier’s Paris Opera …, op. cit., pag. 232.
40
immaginarie (fictive forms), è salvata la subordinazione neoclassica tra vero e
verosimile; ma non rinnegando l’uso dell’ordine stesso, è negata sia l’unità tra
decorazione e struttura, sia l’idea di un’origine degli ordini dall’imitazione di un
ideale naturale53.
L’ultimo passaggio in questa rottura dell’unità neoclassica è dato dall’interpretazione
che l’architetto francese fornisce dell’uso degli ordini nel suo progetto per l’Opéra.
A suo dire: «On appelle ordre l’ensemble de dispositions particulières et
caractéristiques, découlant de règles et de donnés fondamentales, et servant à la
décoration des édifice.» Garnier è insoddisfatto del modo in cui nei secoli gli ordini
sono stati classificati, non gli basta l’individuazione dei tradizionali cinque ordini e,
infatti, ne riconosce almeno otto (tre greci e cinque romani). A suo parere si tratta
comunque di un linguaggio limitato che soprattutto non può dare, da solo, carattere
ad un’architettura: «Que se soit un palais, un musée ou un théâtre, si l’on emploie
dans ces divers édifices des colonnes, des arcades, des entablements, des chapiteaux
ou des panneaux, le caractère particulier des éléments de décoration ne change
guère, et le chapiteau corinthien, je suppose, d’une salle de bal, s’il se compose
seulement de feuillages, ne sera guère plus typique que le chapiteau corinthien d’une
salle du trône.»54 È necessario invece che proprio la decorazione, vista come
l’elemento “artistico”, immaginativo dell’architettura, sia il veicolo attraverso cui
dare carattere e dare vita ad uno stile attuale liberamente composto.
53- «The orders used by Duc e Garnier are at once historically resonant and compositionally
specific to their building: while the Vestibule d’Harlay might refer to the Egyptian temple of
Hathor at Denderah and the Greek temples at Agrigentum, and the Opéra might refer to the
Louvre and the Garde Meuble, their respective colonnades cannot be detached from the
structure they express. They are products of their building, rather than being interchangeable
of selfsufficient forms, and they participate in a composition that equates the Opéra order with
its facade sculpture as much as the Vestibule d’Harlay’s order is equivalent to its row of figural
reliefs.» Christopher Curtis Mead, Charles Garnier’s Paris Opera …, op. cit., pag. 232.
54- Charles Garnier, Des ordres de l’architecture, in «Musée des Sciences», I, 1857, pagg. 78-79, cit. in
Christopher Curtis Mead, Charles Garnier’s Paris Opera …, op. cit., pag. 235.
41
Di conseguenza, proprio nel disegnare i capitelli dell’Opéra Garnier rompe con
qualunque norma classica. Credendo che l’architettura sia comunque una
manifestazione contingente al periodo in cui viene creata, Garnier avalla la
possibilità di uno sviluppo evolutivo dell’architettura stessa. Pensa dunque che
«stylistic heterogeneity could be overcome and homogeneity achieved only if form
were freed from imitation and allowed to act as its own self-determining principle»55
Assistiamo allora alla nascita di quello che Garnier stesso chiamerà Stile Napoleone
III, in cui la decorazione, sia essa strettamente architettonica, scultorea o pittorica,
gioca un ruolo essenziale che si stacca da quella classica proprio nel liberarla dalle
strette norme stilistiche e proporzionali. Il progetto non è determinato a priori dalle
proporzioni, ma esse derivano dalla logica seguita nella disposizione degli spazi e dei
volumi. La decorazione, dunque, trae sviluppo da questi elementi e si evolve
autonomamente. È allora possibile fondere insieme in un unico capitello l’ordine
ionico e quello composito e aggiungere a questi altri elementi decorativi che lo
rendono totalmente inedito.
55-
Christopher Curtis Mead, Charles Garnier’s Paris Opera …, op. cit., pag. 237.
42
1.2
SPAZIO E TEMPO ALLA FINE DEL XIX SECOLO
«Man muss das All zersplittern.
Bisogna mandare il tutto in frantumi»
Friedrich Nietzsche
1.2.1 La riflessione sulla Storia
La riflessione storica tocca da vicino il restauro dal momento in cui i temi, che
abbiamo finora trattato, sono assunti dal dibattito di fine ottocento che assume una
visione della storia che non è più “ricerca storica”, intesa come cronologia degli
eventi riguardanti l’oggetto, ma riflessione intorno al tema della storicizzazione. Essa
è atto critico che, di fronte ad un fatto o ad un oggetto, cerca di spiegarlo calandolo
nel contesto in cui è nato o si è verificato, spostandolo in questo modo in un campo
semantico diverso da quello della contemporaneità. Gli oggetti appartenenti a
questo passato concluso assumono caratteristiche che quelli del nostro presente non
hanno: divengono intoccabili, inalienabili, irriproducibili.
I concetti di valore storico e di storicizzazione seppur presenti in alcuni aspetti già nella
cultura rinascimentale, e ne è testimonianza la sensibilità verso la cura dei
monumenti antichi di alcune norme emanate già nel XVI secolo, vedono il loro
sviluppo solo nel XVIII secolo e la loro piena affermazione nell’Ottocento. Ma solo
nel momento in cui la storia si afferma in quanto storia dell’uomo e delle sue
manifestazioni, appare in tutta la sua urgenza la necessità di «storicizzare tutto, di
scrivere a proposito di ogni cosa una storia generale.»56.
Ma facciamo un passo indietro. Nell’articolo “Idée” del Dizionario filosofico,
Voltaire scrive che l’idea è un’immagine che ci si rappresenta nel cervello e che è il
56- Michel Foucault, Les mots et les choses, Paris, Editions Gallimard, 1996 (trad. it. di Emilio
Panaitescu, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, Milano, Rizzoli, 1994 pag. 396).
43
risultato di «tutti gli oggetti che ho percepito»57. Negli Essai sur les mœurs et l’esprit des
nations58 afferma esser chiaro che «tutta una matematica dirige la natura e causa ogni
nascondimento»59 e che Dio, che ha creato il mondo, può essere visto come «eterno
geometra»60. Questa frase, che mette in evidenza la razionalità della natura e dunque
dell’essere umano, ci permette di focalizzare l’elemento che, attraverso Voltaire,
porta al cambiamento della storiografia Settecentesca. Esso è racchiuso nella
consapevolezza della capacità riproduttiva del pensiero. La conoscenza non proviene dal
mondo sensibile, la verità risiede nella ragione. Se risaliamo a Isaac Newton,
troviamo un elemento ancor più incisivo per la nostra storia: l’universalizzazione del
reale che permette di rintracciare leggi tramite le quali dominare una Natura fino a
quel momento regno dell’inconoscibile. Questa affermazione produce la presa di
coscienza, da parte dell’uomo del Settecento, della possibilità di indagare,
comprendere e riprodurre le leggi su cui si basa il mondo. Di più, il mondo stesso
diventa gestibile dal pensiero umano non essendo più necessario fare affidamento
su dogmi religiosi o su spiegazioni che affondano le loro radici nel mito. Questa
consapevolezza libera l’uomo dal peso dell’inconoscibile e diviene un’arma che
permette di porre in atto meccanismi di ordinamento del mondo che ne
permetteranno il dominio. Questo cambiamento nel porsi di fronte al reale è una
delle idee “direttrici” che W. Dilthey, nel suo studio sulla storiografia del XVIII
secolo, individua come caratterizzanti della nuova epoca: «l’autonomia della ragione,
il dominio dello spirito umano sulla terra mediante la conoscenza, la solidarietà delle
nazioni pure in mezzo ai loro conflitti di potenza e la fiducia in un continuo
progredire derivante dalla validità universale delle verità scientifiche, che consente di
57- Voltaire, La raison par alphabet, s.l., 1769 (trad. it. a cura di M. Bonfantin, Dizionario filosofico, voce
Idea, Torino, Einaudi, 1950 pag. 244)
58- edito nel 1769.
59- F. Meinecke, Die Entstehung des Historismus, Munchen, 1936, (trad. it., Le origini dello storicismo,
Sansoni, Firenze, 1954, pag. 58).
60- ibid.
44
fondarle l’una sull’altra»61. Dilthey giudica di eccezionale importanza il fatto che si
sia compresa la efficacia di un percorso che «dalla conoscenza delle leggi naturali si
estende fino al dominio della realtà mediante la potenza del pensiero, e da qui alle
idee supreme che determinano tutti noi»62. La ragione si rende autonoma e questo
significa che tende a separarsi dalla religione e dal mito, al fine di «formarsi un
concetto generale dei popoli che avevano abitata e devastata la terra, imparare a
conoscere lo spirito, gli usi e i costumi delle più grandi nazioni, fondandosi su quei
fatti che si dovevano necessariamente conoscere.»63
Molto diverso dunque da quel modello di racconto storico ben rappresentato dal
Bossuet che scrive nel 1681 una storia universale il cui primo capitolo è titolato
Adamo, ovvero la creazione64 per poi risalire a Noè, Abramo, Mosé e su, su, fino a Carlo
Magno, in un esempio di storia universale che appare essere un racconto in cui
totale è la sovrapposizione tra la storia documentaria e la storia biblica, dunque tra
storia mito e racconto religioso. E’ storia, dunque, che non è finalizzata ad alcuna
dimostrazione ma alla semplice legittimazione di uno status che si attua mediante la
descrizione genealogica, tramite il risalire all’indietro in modo tale da far derivare la
legittimità direttamente al “collaudo” del tempo. Anche in architettura era forte
l’idea che la propria legittimità dipendesse direttamente dal tempo passato e in
questo senso Chateaubriand, nella sua opera Genio del Cristianesimo, esalta la
cattedrale gotica, messa a confronto con i templi moderni: «Dio è la legge eterna; la
sua origine e tutto ciò che si riferisce al suo culto deve perdersi nella notte dei
61- Wilhelm Dilthey, Das achtzehnte Jahrhundert und die geschichtliche Welt, in Deutsche Rundschaun,
ag.- sett. 1901 (trad. it., Il secolo XVIII e il mondo storico, s.l., Edizioni Comunità, 1967, pag. 46 ).
62- ibid.
63- F. Meinecke, Le origini …, op. cit., pag. 55.
64- Jacopo Benigno Bossuet, Discorso sopra la storia universale. Per dilucidare la Continuazione della
Religione e le Mutazioni degl’Imperj, dal principio del Mondo fino all’imperio di Carlo Magno, Stamperia
Baglioni, Venezia, MDCCXCVI, pag. 9.
45
tempi»65. Dunque la cattedrale non trae legittimità dal suo essere “casa di Dio”, ma
dal suo risalire ad un tempo remoto e dunque direttamente a Dio.
È con Voltaire che fare storia diviene altro ma soprattutto la cultura del XIX secolo
esprimerà la necessità che il suo studio serva a rintracciare nel passato la propria
giustificazione, il proprio fondamento e non più la semplice legittimazione ad esistere.
La storia è diventata, in questo modo, processo, concatenamento di fatti, che nel suo
svolgersi giustifica, questa volta, l’odierno status. Dunque se la storia come
legittimazione era mera constatazione, la storia come giustificazione è dimostrazione di
una sorta di ipotesi di partenza. In questo modo essa assume aspetto fondativo
perché tramite il concetto di processo rintraccia, per qualunque ipotesi espressa e
che può essere racchiusa nel tempo presente o nel futuro, una origine e prefigura un
possibile divenire. Una visione teleologica della storia che è tesa a dimostrare il
raggiungimento di un determinato stato che si esplicita «nell’indipendenza della
ricerca scientifica, nella tolleranza, nell’illuminismo religioso, nell’arte stilisticamente
compiuta e nella nuova libertà dell’uomo di dispiegare la sua personalità»66.
Tra i tanti studiosi che definiscono l’Ottocento come secolo della Storia, troviamo
anche Riegl, che ne parla come del «secolo storico perché in un grado più alto di
prima (...) trovò il suo piacere nel rintracciare ed esaminare accuratamente i fatti
particolari, cioè i singoli atti umani nella loro nitida formazione originaria»67 e,
aggiungiamo, a fondare sul loro esempio l’azione presente e futura. Gli uomini del
XIX secolo ritengono indispensabile rivolgere lo sguardo al passato per riuscire a
comprendere il presente e Nietzsche, che proprio per questo li chiama «uomini
65- René de Chateaubriand, Genie du christianisme, (trad. it. Genio del cristianesimo, Torino, UTET,
1941, trad. it. parziale Il Genio del Cristianesimo, Padova, Messaggero, 1982, pag. 162).
66- Wilhelm Dilthey, Das achtzehnte jahrhundert und die geschichte Welt, in “Deutsche Rundschau”,
agosto-settembre 1901. (trad. it., Il secolo XVIII e il mondo storico, Roma, Edizioni di Comunità,
1967, pag. 55).
67- Alois Riegl, Der Moderne, ... op. cit., (trad. it. a cura di Sandro Scarrocchia, Alois Riegl: teoria
e prassi della conservazione dei monumenti, Accademia Albertina, Bologna, Clueb, 1995, pag. 181).
46
storici»68, giudica questo atteggiamento il più delle volte fine a se stesso arrivando ad
una visione di condanna della storia che finisce per arrecare danno alla vita. Per il
filosofo tedesco, la storia così concepita «ha solo la possibilità di conservare la vita e
non di generarla»69. Questa sorta di ipertrofia del valore storico finisce per far
considerare veneranda ogni cosa solo per il fatto di essere antica e passata,
rifiutando tutto ciò che è «nuovo o in divenire»70.
Alla fine del XIX secolo questo grande sviluppo del valore storico, associato al
relativizzarsi della bellezza estetica, finisce per influenzare fortemente il giudizio
sull’architettura che si arricchisce, anche al di fuori della sfera di influenza del
“pittoresco”, di categorie che contemplano il tempo e i suoi segni. Dunque il gusto
per i segni della storia, segni che hanno una forma che influisce sull’immagine
complessiva del monumento.
Mentre fino ad un certo punto della storia questi segni provocavano unicamente una
percezione che rimandava all’idea di degrado, di oblio, da un certo momento in poi
divengono rimandi ad una nuova idea di bellezza. Questo significa che il giudizio ha
inglobato in sé il tempo e ha sviluppato la «convinzione (…) dell’insostituibilità
anche del più piccolo fatto nel processo di sviluppo...»71 e, nel medesimo tempo, un
“gusto per i segni della storia” che, contrariamente a quanto accadrà con l’estetica
neo-idealista, permetterà, in prospettiva, la comprensione della complessità
dell’architettura frammentaria e “autentica”. Questo nuovo atteggiamento, mette in
campo argomenti importanti: il tema della verità, dell’autenticità, della
68- Friedrich W. Nietzsche, Unzeitgemâsse Betrachtungen, Zweiterstûk. Vom Nutzen und Nachteil der
Historie fûr dal Leben, 1874 (trad,. it. di Ferruccio Masini, Sull’utilità e il danno della storia per la vita.
Considerazioni inattuali, II, Newton Compton editori, Roma, 1978, 1988, pag. 42).
69 - Friedrich Nietzsche, Betrachtungen, Zweiterstuck, Vom Nutzen und Nachteil der Historie für das Leben,
1874, (trad. it. Considerazioni Inattuali II. Sull’utilità e il danno della storia per la vita, Roma, Newton
Compton, 1978, pag. 53).
70- Friedrich W. Nietzsche, Sull’utilità e il danno …, op. cit., pag. 52.
71- Alois Riegl, Der Moderne, ... op. cit., (trad. it. in Sandro Scarrocchia, Alois Riegl: teoria e prassi
della conservazione dei monumenti, Accademia Albertina, Bologna, Clueb, 1995, pag. 181).
47
“intoccabilità” dell’oggetto storico e non ultimo quello del gusto. Il valore storico si
sostituisce alla tradizione artistica classica che legittimava tramite la regola, l’ordine.
Esso lo fa puntando l’attenzione sul passaggio del tempo che diviene la
manifestazione di una storia concepita finalmente come processo e concatenazione
di eventi. Tutto ciò ha una duplice ricaduta: da un lato l’assunzione di importanza di
ogni singolo evento e di ogni singola traccia, dall’altro l’esplosione, la nietzschiana
paralizzante inondazione di fatti storici che suscita angoscia e spinge
paradossalmente al relativismo e alla sospensione chi si rende conto dello
sterminato passato che c’è dietro alle proprie spalle.
1.2.2 Il modificarsi del tempo alla fine del XIX secolo
Dunque lo Stile si frantuma, la Storia si frantuma, moltiplicando all’infinito i suoi
oggetti, ma anche il tempo non è da meno.
«Il problema del tempo occupa una posizione particolare nella riflessione teorica
dell’uomo»72. Così si legge in un interessante saggio sulla visione del tempo
nell’ambito delle scienze che continua affermando che: «Nei diversi modi di
affrontarlo si esprime infatti la diversità delle culture e delle epoche storiche. E si
esprime anche la diversità dei saperi che in contesti diversi hanno considerato se
stessi in rapporto alla episteme piuttosto che al mito, alla favola o all’opinione. Si può
dire che ognuno di essi ha posto a fondamento delle proprie teorie e delle proprie
pratiche scientifiche una qualche elaborazione di quello che molti hanno definito il
“mistero del tempo”»73. Uno dei momenti della storia della cultura in cui balza in
primo piano, in modo cosciente, il problema del tempo e della sua influenza sulla
vita è il periodo tra la fine del XIX secolo e la prima guerra mondiale. È, questo, un
72- Antonio di Meo, Circulus Aeterni motus. Tempo ciclico e tempo lineare nella filosofia chimica della natura,
Torino, Einaudi, 1996, pag. VII.
73- ibid.
48
momento in cui l’accelerazione del tempo sociale impressa da alcune scoperte come
il telefono, la radiotelegrafia, i raggi X, il cinema, la bicicletta, l’automobile e
l’aeroplano, dal diffondersi dei viaggi in treno e dalla diffusione dei quotidiani,
finisce con l’influire anche sul tempo individuale, personale, dunque sulla percezione
che ognuno ha del trascorrere, della durata.
I primi effetti di queste modificazioni naturalmente sono di tipo pratico ma, ad
osservarli oggi, è possibile rendersi conto di quanto possano avere influito anche
sulla introiezione del concetto di tempo nella vita delle persone. Pensiamo solo al
fatto che fino al 1888 non esisteva nel mondo un’ora ufficiale. Essa non era
necessaria in un mondo in cui gli spostamenti erano talmente lenti che, per la quasi
totalità, una collettività basava la propria esistenza sul rispecchiamento di se stessa
nel locale, nello spazio più prossimo. Stephen Kern, nel libro Il tempo e lo spazio. La
percezione del mondo tra Otto e Novecento, afferma che solo con lo svilupparsi dei traffici
ferroviari si sente sempre più la necessità di trovare una soluzione al problema
dell’ora ufficiale. Infatti in ogni città, anche se molto vicine tra loro, vigeva un’ora
personale ed era possibile, negli Stati Uniti del 1870, dover avere a che fare con
circa 80 differenti ore ferroviarie. Solo nel 1888 si decise di prendere come comune
riferimento il meridiano di Greenwich e non prima del 1913 si iniziò calcolare l’ora
in un punto preciso del globo - l’osservatorio di Parigi - e trasmetterla in tutto il
mondo via radio dall’antenna della Tour Eiffel.
Solo nel XX secolo, pertanto, comincia a diffondersi l’idea che il tempo sia qualcosa
di gestibile, di ordinabile e, soprattutto, di uguale per tutti. Ma questa che può
apparire come una rivincita dell’unità dell’ora ufficiale sulla frammentazione delle
ore locali, in realtà provoca un terremoto che dal cosiddetto tempo sociale si
trasmette al tempo individuale. Nella stessa epoca, infatti, si avvia una riflessione sul
modo, da parte del singolo, di accostarsi al tempo e soprattutto alla velocità, al
trascorrere e alla durata. E’ un’appassionata ricerca che impressiona per la quantità
49
e la qualità delle elaborazioni prodotte. Ecco allora, in letteratura, tutta una serie di
romanzi che pongono al centro del loro interesse il trascorrere del tempo e la crisi
che questo induce nei personaggi: Il ritratto di Dorian Gray, di Wilde del 1890,
L’agente segreto di Conrad del 1907, La recherche di Proust del 1923-22, Il processo di F.
Kafka del 1914-15, l’Ulisse di Joyce del 1922. Ma tutto il mondo artistico, negli
stessi anni, è scosso dal Futurismo e soprattutto dal Cubismo che hanno come
punto centrale delle proprie riflessioni il rapporto con il tempo e segnano
l’irrompere del trascorrere in un’arte relegata fino ad allora alla staticità della tela,
della superficie bidimensionale. E non dimentichiamo l’importanza, nella
psicanalisi, della ricostruzione del passato e del ricordo rimosso e, uno per tutti,
dell’Uno, nessuno e centomila di Pirandello.
«In un’annotazione di diario del 1922, Kafka commentava sulla discordanza
disperante
tra tempo pubblico e personale: “… l’impossibilità di dormire,
impossibilità di vegliare, impossibilità di sopportare la vita o più esattamente la
successione nella vita. Gli orologi non vanno d’accordo, quello interiore corre a
precipizio in un modo diabolico e demoniaco, in ogni caso disumano, mentre quello
esterno segue faticosamente il solito ritmo”»74. Ancora Kern annota che questa
riflessione sul passato si incentrò su quattro temi essenziali: «l’età della terra,
l’influenza del passato sul presente, il valore di questa influenza e il modo più
efficace di ritrovare un passato che è stato dimenticato»75. Proprio gli ultimi tre
punti ci interessano in modo particolare, soprattutto perché la “scoperta del tempo”,
accostato agli oggetti del passato, in particolar modo a quelli architettonici, fanno
comprendere il successo degli scritti di Ruskin anche fuori dall’Inghilterra e
coniugato con il tema della verità porta direttamente all’altro tema principe del XX
74- Stephen Kern, The Culture of Time and Space 1880-1918, Cambridge, Harvard University Press,
1983 (trad. it., Il tempo e lo spazio. La percezione del mondo tra Ottocento e Novecento, Bologna, Il
Mulino, 1988, pag. 24).
75- Stephen Kern, Il tempo e lo spazio … op. cit., pag. 54.
50
secolo, quello dell’autenticità. E’ un momento in cui il passato è sentito come
fondamento del presente non solo tra gli addetti ai lavori. La conservazione
dell’architettura esce dagli atelier degli artisti e dei cultori e diventa tema di
emergenza nazionale. Non più solo passaggio necessario per concepire di un nuovo
Stile, ma elaborazione fine a se stessa, legata alla vita culturale globale dell’uomo. A
tale proposito è emblematica la posizione di due intellettuali dell’epoca: Proust e
Simmel, la prima desumibile da alcuni passi della Recherche, la seconda dal saggio Die
Ruine.
«La descrizione di un’antica chiesa di Marcel Proust e il saggio sociologico di
Simmel su La Rovina rivelano la sensibilità della alta cultura per la funzione
dell’architettura nel preservare il passato in forma solida»76 Proust descrive la chiesa
del paese come l’incarnazione nella pietra della fede: egli guarda gli angoli del suo
antico portico e vede che sono levigati e scavati «come se la tenue carezza dei
cappotti delle contadine che entravano in chiesa e delle loro dita timide che
prendevano l’acqua santa, ripetuto per secoli, avesse potuto acquistare una forza
distruttiva, inflettere la pietra e intaccarla di solchi, simili ai solchi che vien
formando la ruota dei carretti sui paracarri urtandovi ogni giorno»77. La chiesa di
Combray evoca lontani e preziosi ricordi dell’infanzia e rende palpabile la storia:
«… un edificio che occupava, se così si può dire, uno spazio di quattro dimensioni –
la quarta era quella del tempo – che spiegava attraverso i secoli la sua nave, che, di
galleria in galleria, di cappella in cappella, pareva oltrepassare e superare non pochi
metri soltanto, ma epoche successive, donde usciva vittoriosa.» 78.
Simmel nella rovina vede il materializzarsi della vita stessa. La rovina «… crea la
forma presente di una vita passata, non in base ai suoi contenuti e ai suoi resti,
76- ibid.
77- Marcel Proust, Du côté de chez Swann, 1913 (trad. it., La strada di Swann, Torino, Einaudi, 1991,
vol. I, pag. 64).
78- Marcel Proust, La strada di Swann … op. cit., pag. 67.
51
bensì in base al suo passato in quanto tale»79. Simmel aggiunge una annotazione
preziosa per quel che riguarda la necessità di conservazione che nasce dal rapporto
tempo oggetto architettonico. Egli infatti evidenzia quanto sia affatto ingenuo
pensare che di fronte alle antichità «una imitazione assolutamente precisa possa
giungerebbe ad eguagliarle nel valore estetico.» 80
A queste riflessioni, d’altronde, potrebbero aggiungersi, quelle di Freud del 1915 in
Caducità e di Hugo Von Hofmannsthal in Le statue, del 1917, come fa Marco Biraghi
in un suo saggio su Ananke81.
1.2.3
Verità - autenticità
Si legge, nei testi di storia dell’estetica, che esiste un momento importante e fecondo
nella storia dell’estetica: il momento in cui la verità migra fino all’interno dell’opera
d’arte. Questo avviene agli inizi del XIX secolo. Nel Settecento le prime estetiche
sistematiche si erano poste come compito primario l’emancipazione della sensibilità,
vista come capacità umana disgiunta da altre e dunque bisognosa di una propria
filosofia, dall’etica e dalla logica. Ma solo con Schelling il punto di vista si sposta
dalle sensazioni umane all’oggetto artistico, trasformando dunque l’estetica in filosofia
dell’arte, una disciplina che si occupa delle opere e del giudizio su di esse. Schelling in
questo modo, pochi anni dopo la Critica del Giudizio di Kant, stravolge le basi
settecentesche della disciplina ponendosi come compito di fare dell’opera d’arte
l’oggetto dell’estetica e distinguere questa dalla semplice teoria dell’arte tipica dei
trattatisti e che discende dalla prima. Peter Szondi afferma che «Schelling distingue
la filosofia dell’arte che egli stesso si propone di sviluppare, sia dall’estetica
79 - Georg Simmel, Die Ruine, in Philosophische Kultur. Gesammelte Essais, Leipzig, 1911, (trad. it. in
«Ananke», n. 1, 1993, pag. 34).
80 - ibid.
81- Marco Biraghi, Alle radici della conservazione: Simmel, Freud, Von Hofmannsthal, in «Ananke», n. 1,
1993, pag. 25-30.
52
dell’effetto, che cerca di spiegare il bello con una psicologia empirica, sia dalle
poetiche precettistiche che - come egli scrive - sono “in un certo senso dei ricettari o
dei libri di cucina, dove la ricetta per la tragedia suona così: molto spavento, ma non
troppo; tanta compassione quanta è possibile, e lacrime innumerevoli”»82 In poche
parole ciò che Schelling fa è portare la riflessione sulla verità all’interno di quella
sull’opera d’arte. Se nel Settecento il bello era indagato per ricercarne le forme e le
caratteristiche normative come la simmetria, l’armonia, la semplicità, la varietà, ecc.
andando al contempo alla sua ricerca nei più differenti campi del fare e del pensare
umano,
nell’Ottocento la bellezza diviene una categoria astratta e razionale
pertanto, come afferma Pigafetta, «diviene la forma di più piena evidenza e
automanifestazione del vero»83. Ma questo significa che, se la verità è nel Bello e il bello
è nell’Arte, il Vero è entrato negli oggetti artistici che sono la messa in opera del Bello.
La verità è dunque entrata nelle cose, è custodita da esse. L’Arte è produttrice di
principi e norme ma è, essa stessa, metro per il giudizio del bello. Dunque la verità
non è più solamente un concetto metafisico, e dunque astratto, ma si incarna nelle
cose ed è possibile giudicarne gli effetti. Una conseguenza importantissima di ciò si
evidenzia nello sviluppo dell’atteggiamento conservativo nel restauro. Se davvero
l’opera custodisce la verità, è possibile continuare ad accettarne la perdita quando
questa comporta anche, e soprattutto, la scomparsa della materializzazione del Bello
e dunque della Verità stessa?
Vediamo che solo da questo momento è possibile iniziare a pensare al restauro
come disciplina che ha trovato il proprio oggetto scientifico. Il primo ad
evidenziarlo in tutta la sua novità è Viollet-le-Duc.
82- Peter Szondi, Hegels Lehre von der Dichtung Schellings Gattungspoetik, in Poetik und
Geschichtsphilosophie I e II, Frankfurt sur Main, Suhrkamp, 1974 (trad. it., La Poetica di Hegel e
Schelling, Torino, Einaudi, 1986, pag. 257).
83- Giorgio Pigafetta, La verità di Dedalo, Firenze, Alinea, 1986 pag. 19 (il corsivo è nostro).
53
Il Francese negli Entretiens afferma che «l’art est (...) la forme donnée à une
pensée»84. L’arte è materializzazione di ciò che egli chiama “principi razionali”. Ma la
verità che egli insegue è la verità che si esplicita nella coerenza dell’opera con questi
principi ed è insita in ogni singolo edificio che soddisfi, pur in modo sempre
diverso, i principi. Partendo da questa affermazione il passaggio seguente pone il
problema della possibilità di individuare questo principio. Individuazione che
avviene, per Viollet, attraverso un’indagine critica che ha come finalità il
riconoscimento del Bello, dello Stile.
Questo procedere ci conduce direttamente ad un altro punto fondamentale del
pensiero sette-ottocentesco e cioè quello di verità come conformazione. Questa
locuzione esprime non solo la visione del Vero propria dell’Architetto francese ma
di tutta la cultura occidentale. È ad esempio, la definizione di verità che Aristotele
desume dal Sofista di Platone: verità è il dire di ciò che è che è e di ciò che non è che
non è. La verità è identificata come proprietà di enunciati che presentano una
corrispondenza con la realtà che descrivono. Appare, in questo caso, fondamentale
la dipendenza verso un referente che sta al di fuori del cerchio stretto dell’enunciato
linguistico e proprio questo ci pone alla presenza di quella che è normalmente
indicata come teoria corrispondentista della verità. Trasponendo questa posizione nel
discorso sull’arte è possibile far risalire la verità alla necessità di una conformazione
dell’opera ad un elemento esterno riconosciuto vero: un modello, un canone, la
Natura, la Classicità. Questo atteggiamento porta alla riflessione sulla mimesi che
abbiamo affrontato nel primo paragrafo. La crisi dell’estetica della seconda metà del
XIX secolo ha come conseguenza la caduta dei modelli classici e il superamento,
anche nell’arte, della verità come conformazione. A questa si sostituisce una forte
spinta alla ricerca di coerenza interna a ciascuna opera che sfocia spesso nella
creazione di poetiche personali, non esistendo più alcun riferimento ad un ente
84- Eugene E. Viollet-le-Duc, Entretiens …op. cit., pag. 24.
54
veritativo esterno all’arte stessa. L’artista non sente l’imperativo categorico della
mimesi, un tempo unico percorso che gli assicurasse il possesso di una verità da
riprodurre in modo univoco e universalmente riconoscibile nell’opera d’arte.
L’opera d’arte, al contrario, diviene manifestazione di una verità propria che da essa
è racchiusa e per la quale diviene custodente, referente e legittimante.
Dunque l’Arte diviene autoreferente e l’opera manifestante una verità che è
semplicemente l’espressione della coerenza ad una propria logica interna che non si
rifà a nulla di esterno. In questo modo la verità si è frantumata, in quanto è possibile
riconoscere un vero per ogni opera che prendo in considerazione; non possiedo più
un concetto universale, immutabile ed indeformabile di Vero. Dunque: «Il pensiero
architettonico non è un mero ritrovare e combinare, neppure un formare e costruire
secondo leggi date, ma un processo che ha in se stesso la propria legge universale in
quanto esso deve considerarsi come pensiero, deve consistere in uno sforzo di
elaborare il proprio materiale in un sempre più puro prodotto spirituale»85.
Un altro elemento ci interessa riflettendo sulla verità: ad un certo punto essa assume
un forte contenuto temporale, che caratterizza il Vero come originario, come non
manomesso dunque come autentico86. Fino a quando il Vero è conformarsi ad un
modello, però, non assumere alcun valore il fatto che la conformazione avvenga
anche diversi secoli dopo la prima ideazione dell’opera: dunque se l’analisi critica di
un’opera vi individua elementi spuri, superfetazioni, anomalie, errori, esiste la
possibilità di ricondurla alla verità. Il problema della temporalità è del tutto
inesistente poiché la conformazione non ha carattere storico. Questa è la posizione
di tutto il restauro stilistico, ma anche del restauro storico, analogico e critico. Ogni volta,
85- K. Fiedler, Aphorismen, (1887), pubblicato postumo in Konrad Fiedler Schriften über Kunst,
Munchen, 1914 (trad. it. di Rossana Bossaglia, Aforismi sull’arte, Milano, Editori associati, 1994).
86- «Rispondente a verità, valido, regolare. Vero, genuino, schietto. Attribuito in modo irrefutabile a
un autore, non imitato né falsificato. Dal latino tardo authenticus, che è dal greco authentikós,
authéntes “signore, autore”» lemma autentico in Giacomo Devoto, Giancarlo Oli, Il Dizionario
della lingua italiana, Firenze, Le Monnier, 1990.
55
dunque, che si individua un valore all’esterno dell’opera al quale far riferimento, sia
esso estetico o storico.
Viollet-le-Duc, ad esempio, si situa certamente in una fase in cui la verità non è
strettamente legata al tempo: il suo agire sull’opera è finalizzato a completarne il
messaggio e renderlo conforme al principio veritativo che secondo la sua lettura è
stato falsato o che è andato perduto. L’opera gli appare certamente custode della
verità, ma di una verità che non appartiene di un tempo diverso e incommensurabile
al proprio. Il suo atto restaurativo che modifica l’opera è vissuto come una legittima
ri-conformazione di quelle opere che egli giudica essersi allontanate dal modello.
Ma alla fine del secolo, quando il relativizzarsi dei valori elimina la possibilità
dell’esistenza di un principio cui conformarsi, altri elementi assumono importanza:
ad esempio quello della temporalità che porta con sé quello dell’irriproducibilità.
Temi che attraversano tutto il Novecento e ancora dividono. Massimo Cacciari
assume la riproducibilità non come mero problema tecnico, ma in quanto problema:
«… [essa è N.d.R.] qualcosa che attiene alla natura stessa della nostra memoria. E’ la
nostra memoria che riproduce, ma tale riprodurre non è mai un imitare statico, è un
riprodurre immaginativo, trasformante; non vi è mai una pietas, rivolta ad un oggetto
dato, che possa in quanto tale trasportarlo da un luogo ad un altro»87. Riprodurre è
interpretare nuovamente, stravolgere e perciò, inevitabilmente, trasformare in altro
da sé il monumento riprodotto. Alla luce di questo appare chiara nella cultura
ottocentesca un atteggiamento che sembra contraddittorio. Da un lato esso sente
fortemente la necessità della storicizzazione, ma in seguito la nega attraverso la
modificazione dell’oggetto storicizzato. Si attribuisce allora valore storico agli
oggetti mentre si teorizza la loro modificazione. E la coerenza di questo
atteggiamento regge fino a quando si mantengano separate storicità e verità. Queste,
alla fine del XIX secolo si congiungeranno nel concetto di autenticità e da quel
87- Massimo Cacciari, La metamorfosi dell’autenticità, in «Ananke», n. 2, 1993, pag. 13.
56
momento, nel restauro, storia e verità viaggeranno di pari passo, ponendo sempre
più in primo piano la necessità di non compiere, con i propri atti, falsi storici, di
distinguere l’intervento odierno dall’originale e così via. L’opera è concepita sempre
più come composta di tutto ciò che è stata, che è, e che diviene. E’ ciò che è grazie
al tempo trascorso, alle trasformazioni accumulate, alle diverse risemantizzazioni che
ha subito. Un intervento che venga ad intaccare questo divenire, ad interromperlo, a
modificarlo in un certo punto, compie un’operazione arbitraria, che ne manomette
l’essenza stessa e dunque la verità.
Il salto concettuale attraverso il quale il tempo o meglio la durata entra in rapporto
stretto con la verità e la conoscenza dell’oggetto, attraverso l’intuizione, è ben
rappresentato, nella cultura francese, dal pensiero del filosofo Henri Bergson,
secondo il quale non attraverso il metodo analitico, proprio delle scienze, ma
unicamente tramite l’intuizione è possibile raggiungere la conoscenza degli assoluti.
Tute le discipline, se condotte scientificamente e dunque tramite: «descrizione,
storia e analisi lasciano, quindi, nel relativo»88. Per dimostrare ciò, Bergson fa esempi
che ci sembrano particolarmente utili al ostro discorso. Porta ad esempio una città:
noi possiamo fotografarla da tutti gli infiniti punti di vista ma essa non potrà mai
essere restituita alla coscienza come nel momento in cui la si vive passeggiando nelle
sue vie. «Nel desiderio, eternamente insoddisfatto, di abbracciare l’oggetto intorno a
cui è condannata a girare, l’analisi si moltiplica senza fine i punti di vista per
completare una rappresentazione sempre incompleta.»89. Il sogno di Viollet, di
un’analisi così spinta da poter far rivivere l’antico artefice dell’architettura gotica è, a
questo punto, assolutamente lontano.
Per agire nel tempo, al contrario, è necessaria l’intuizione. Mentre il metodo
analitico, infatti, opera su un “immobile” l’intuizione «si colloca sulla mobilità o, ciò
88- Henri Bergson, Introduction à la méthaphisique, in «Revue de méthaphisique et de morale», 1903,
(trad. it., Introduzione alla metafisica, Bari, Laterza, 1987, pag. 44).
89- ibid.
57
che è lo stesso, nella durata»90. Dunque mentre il reale è «riconoscibile per il fatto di
essere la variabilità stessa»91, l’elemento che estraiamo per poterlo analizzare è
l’invariabile per eccellenza: invariabile in quanto schema, ricostruzione semplificata,
veduta colta sulla realtà che scorre via. E’ in errore chi pensa che una realtà possa
essere ridotta a semplici schemi e che attraverso lo studio di questi si possa
nuovamente risalire alla conoscenza della complessità della realtà. Si pensi ad un
artista schizza la torre di Notre-Dame: «La torre è legata inseparabilmente
all’edificio che, non meno inseparabilmente è legato al suolo, alle cose che lo
circondano, a Parigi tutta intera, ecc.(...) la torre è costituita, in realtà di pietre, il cui
accostamento particolare è ciò che dà alla torre la forma sua propria: ma il
disegnatore non si interessa delle pietre; nota soltanto la sagoma della torre.
Sostituisce, dunque all’organizzazione reale ed interna della cosa, una ricostruzione
esteriore e schematica...» Essendo stato a Parigi e avendola intuita originariamente
interamente, egli riuscirà a ricondurvi gli schizzi collegandoli insieme. Ma non si può,
partendo dagli schizzi giungere all’intuizione dell’insieme. Tutto ciò perché l’essenza
di Parigi non può essere vista come costituita di parti. Al contrario, ogni singola
parte che estraggo diventa elemento astratto come le lettere dell’alfabeto che non
sono più parti di un poema, ma “espressioni parziali”. Solo avendo a che fare con la
cosa stessa e non con la sua riduzione a parti, secondo Bergson, posso giungere alla
conoscenza.
Abbiamo visto, nel paragrafo precedente gli esempi di Simmel e di Proust rispetto al
tema del rapporto tra l’architettura e il tempo. Ancor più pregnante rispetto a questi
temi è il pensiero dello scultore Auguste Rodin che, nel 1914, pubblica lo scritto Les
Cathédrales de France. Questo
saggio denuncia chiaramente come il problema
dell’autenticità si sia oramai diffuso nel campo del restauro dei monumenti anche in
90- ibid.
91- ibid.
58
Francia. Sostiene Rodin: «Voyez, (…) au fronton de Reims, le pignon de droit. Il n’a
pas été retouché. De cet amas puissant sortent des fragments de torse, des draperies,
des chefs-d’oeuvre massifs. Un simple, sans même bien comprendre, peut, s’il est
sensible, connaître ici le frisson de l’enthousiasme. Ces morceaux, cassés par places
comme ceux du British Museum, sont comme eaux admirables en tout. – Mais
regardez l’autre pignon, qu’on a restauré, refait: il est déshonoré. Les plans n’existent
plus. C’est lourd, fait de face, sans profils, sans équilibre de volumes. Pour l’église,
penché en avant, c’est un poids énorme sans contrepoids. (…)»92, e ancora «Oh! Je
vous supplie, au nom de nos ancêtres et dans l’intérêt de nos enfants, ne cassez et ne
restaurez plus! Passants, qui êtes indifférents mais qui comprendrez et vous
passionnerez peut-être un jour, ne vous privez pas vos enfants ! Songez que des
générations d’artistes, des siècles d’amour et de pensée aboutissent là, s’expriment
là, que ces pierres signifient toute l’âme de notre nation, que vous ne saurez rien de
cette âme si vous détruisez ces pierres, qu’elle sera morte, tuée par vous, et que
vous aurez du même coup dilapidé la fortune de la patrie, car les voilà les vraies
pierres précieuse»93. Questa attenzione verso l’autenticità dell’architettura, che
richiama alla mente gli anatemi di Hugo e di Didron contro il vandalismo dei primi
del XIX secolo, è fortemente ripreso dalla rivista Les pierres de France, pubblicata negli
anni ’30 e che rappresenta il culmine del rifiuto contro il restauro “alla Viollet-leDuc” e introduce, quasi come un intercalare, il termine “authenticité”. Nel primo
numero è pubblicato un lungo articolo dedicato alle “manomissioni” di Viollet-leDuc, in cui leggiamo: «Quel nom donner à toutes ces choses, sinon ceux de
falsification et e travestissement ? Et quant à leur auteur, comment ne pas dire qu’il est
au rang des hommes les plus néfastes qui aient jamais ruiné le patrimoine le plus
92- Auguste Rodin, Les Cathédrales de France, Paris, Armand Colin, 1914, rist. parziale, Les Cathédrales
de France, Reims, Editions de l’Atelier, 1996, pag. 14 .
93- Auguste Rodin, Les cathédrales …, op. cit., 17.
59
précieux de leur pays ? Cet homme-là, il eut été infiniment préférable, pour les
Cathédrales de France, qu’il ne fut pas né»94.
94- Le comble de l’Impudence … op. cit., pag. 64.
60
CAPITOLO 2
IL RESTAURO TRA UNITA’ E FRAMMENTO
2.1 LA REINTEGRAZIONE DELLE LACUNE: PERDITA DELLA PUREZZA STILISTICA,
MANTENIMENTO DELL’UNITÀ RELATIVA
«Soglia: oh, pensa che è, per due che
si amano
logorare un po’ la propria soglia di casa
già alquanto consunta,
anche loro, dopo dei tanti di prima,
e prima di quelli di dopo … leggermente.»
Rainer Maria Rilke
2.1.1 La reintegrazione nel restauro: unità o completezza
Abbiamo visto che la seconda metà dell’Ottocento può essere letta come un
progressivo spostarsi, nell’ambito della cultura europea, dalla ricerca di una mitica
unità verso la consapevolezza angosciata dell’inevitabile frammentazione. Sarebbe
possibile ingrandire la galleria di esempi in cui questo passaggio è chiaro, ma ciò che
ci interessava porre in evidenza era, in particolar modo, il complesso delle
sollecitazioni affinché si configurasse una sorta di scenario in cui far muovere, ora, i
protagonisti della riflessione sul restauro.
L’aver superato il concetto di unità stilistica sicuramente ha ridotto quantitativamente
un atteggiamento che in passato aveva portato a pericolose generalizzazioni, legate ad
una visione dello Stile come universale a-temporale. Conseguenza di ciò erano state
61
scelte a priori che spesso avevano avallavano una visione del restauro teso alla
esaltazione di un tipo particolare di bellezza (che si riduceva spesso ad uno stile). Ma
l’abbandono dell’unità stilistica, da sola, non elimina dall’orizzonte la valutazione e il
giudizio sul singolo edificio o sulla singola porzione di edificio. In questo senso
mentre non è più sentita la necessità di ricondurre il monumento nell’alveo di uno
Stile che dia legittimità all’esistenza stessa del monumento95, é ancora forte la
necessità di rendere comunque unitario ciò che ho di fronte.
Questo appare evidente nella prima metà del XX secolo in cui lo sforzo teorico è
concentrato nell’affermazione della relatività del giudizio storico e dell’unità
combinate insieme. Questo tentativo può essere letto in filigrana nelle riflessioni e
nelle realizzazioni di restauri che rientrano nei giovannoniani restauri di reintegrazione. É
proprio questa categoria che diviene emblematica per il nostro percorso. Se infatti in
questo periodo le frange più avanzate della cultura del restauro non ritengono più
ammissibile il restauro storico, quello analogico e soprattutto quello stilistico, allo stesso
modo però non tollerano lasciare il monumento mutilo, incompleto, almeno laddove
sia possibile rintracciare le “prove certe” di una completezza precedente. La soluzione
progettuale che permette di ottenere questo risultato consiste nella idea, non nuova,
di intervenire puntando alla ricostruzione di una certa unità nella percezione
dell’intero monumento da lontano, mantenendo la certezza del riconoscimento del
pezzo autentico da vicino96. Vedremo come questo atteggiamento sia differente
rispetto a quello ottocentesco.
95- In quanto il monumento puro stilisticamente diventa veicolo didattico, portatore di un messaggio
artistico incorrotto che il presente ha perduto.
96- Posizione d’altronde già espressa da Camillo Boito in occasione del III Congresso Internazionale degli
ingegneri e degli architetti tenutosi a Roma nel 1883: «... Bisogna che i compimenti, se sono
indispensabili, e le aggiunte se non si possono scansare, mostrino di non essere opere antiche, ma
di essere opere di oggi».
E in seguito, in Questioni pratiche di Belle arti: «[Ella] ... trova i brani di un brano latino e greco; (...)
s'accorge che compongono l'opera intiera o qualche capitolo di essa e li riordina, li ricopia l'un
sotto l'altro, astenendosi dall'aggiungere di suo capo una sola parola, e, dove riscontra una lacuna,
mette i puntini o si inserisce una nota, sicuramente, modestamente, da uomo che non ama che il
vero (...). Posto che quel che manca sia necessario a tenere in sesto quel che c'è, aggiungo una
costruzione laterizia, un pilone in pietra, un fusto, un architrave, accompagno una cornice,
62
In questo senso il tema della reintegrazione delle lacune è stato scelto in quanto
emblematico dello svolgersi del dibattito intorno al restauro architettonico. E’ chiaro,
infatti, il suo ruolo di punto di convergenza e di necessario compromesso operativo
tra questioni, di tipo tecnico e storico-formale, proprie del rapporto tra l’operatore e il
monumento. Di fatto, nell’atto stesso del porsi di fronte ad una lacuna per decidere
come operare, si determina l’esplicitarsi del conflitto tra tendenza al completamento e
attenzione per l’autenticità dell’opera che fa emergere, tra l’altro, l’influenza profonda
del gusto per l’unità o per il frammento. Tali distinti sentimenti non sono legati
necessariamente a tempi, epoche o culture differenti; ambedue sono sempre presenti
nella cultura artistica e in quella del restauro sin dalla nascita della disciplina ma
sembra che tendano di volta in volta a prevalere l’una sull’altra. Basti pensare che
Hegel e Novalis apprezzano il frammento poetico e Schopenhauer arriva a
rivendicare «…“il gusto dell’abbozzo”, contro quello delle opere definite e contro il
riempimento delle lacune»97, e lo stesso fa la cultura inglese legata alla poetica del
sublime e delle rovine. Al contrario, negli stessi anni, nel cerchio stretto della cultura
del restauro architettonico prevale la voglia di unità stilistica, che va alla ricerca di una
“compiutezza che potrebbe non essere mai esistita” e finisce, a volte, per ridursi
unicamente ad un completamento semplicistico e banale che oltretutto annulla intere
fasi storiche del monumento originale.
Le due visioni appena viste, sembrano convivere soprattutto nel periodo che dalla
fine XIX secolo giunge al secondo dopoguerra. In questo intervallo di tempo sono,
difatti, individuabili forti slanci verso il rifiuto dell’unità di stile che veniva vista come
una intollerabile reductio di tutti gli stili presenti ad uno unico, ma nel contempo
rimane alta la necessità della ricerca di una nuova unità, seppure di grado minore
rinnovo un capitello, incastro dei cunei negli archi (...) ma sopprimendo gli intagli nelle sagome,
contentandomi delle sole squadrature, eseguendo le opere in materiali o con metodi diversi dagli
antichi. Far io devo così che ognuno discerna essere l'aggiunta un'opera moderna.»
97 - cfr Stefano Gizzi, Giovanni Secco Suardo. La cultura del restauro tra tutela e conservazione dell’opera d’arte,
in «Ricerche di storia dell’arte», n. 60, 1996, pag. 84.
63
rispetto a quella stilistica, che Giovannoni definirà unità di linea98. Questa unità
consiste nel riproporre una certa completezza figurativa dell’opera, evitando però di
compiere una scelta tra i differenti stili presenti, scelta improponibile in un momento
in cui l’indipendenza del valore storico dal giudizio estetico permette di considerare le
tracce delle trasformazioni sul monumento come altrettanti segni della sua storicità,
che va tutelata. Questa restituzione dell’unità all’opera si persegue tramite cauti
“ripristini” che permettano di rendere leggibile l’immagine complessiva del
monumento.
Atteggiamento, questo, che riprende le indicazioni che quasi cinquanta anni prima
erano state del Boito99. Tra l’altro per definire il monumento nella configurazione che
mantiene ogni traccia del suo passaggio nel tempo (il valore dell’antico riegliano),
Giovannoni usa il termine palinsesto100 e questo far riferimento ad un antico codice
manoscritto sul quale è stato raschiato il primo testo per scriverne un secondo,
denota, da un lato un forte richiamo ad una delle discipline, la filologia, che per lo
studioso è fondativa per il restauro e, da un altro, rende bene l’immagine di una
superficie in cui leggo una stratificazione di segni che vanno interpretati ma
soprattutto conservati. Giovannoni inoltre intende in accezione negativa la locuzione
“monumenti artistici e storici” che a suo dire «…aveva provocato una selezione
aristocratica, che non ha più ragione di esistere dal momento in cui si considera
98 - «… il concetto architettonico che intende riportare il monumento ad una funzione d’arte e,
quando sia possibile, ad una unità di linea (da non confondersi con la unità di stile) …» in La
mostra del restauro dei monumenti in regime fascista, in «Palladio», n. 1, 1939, pag. 32
99 - «Nel caso che le (…) aggiunte o rinnovazioni tornino assolutamente indispensabili per la solidità o
per altre cause invincibili, e nel caso che riguardino parti non mai esistite o non più esistenti e per
le quali manchi la conoscenza sicura della forma primitiva, le aggiunte o rinnovazioni si devono
compiere con carattere diverso da quello del monumento, avvertendo che, possibilmente,
nell’apparenza prospettica le nuove forme non urtino troppo con il suo aspetto artistico.»
Camillo Boito, I restauri in architettura. Dialogo primo, in Questioni pratiche di Belle Arti, Milano,
Hoepli, 1893, pagg. 31.
100 - «Quasi tutti i monumenti d’Italia ci presentano, nella loro lunga vita, esempi delle due tendenze,
o della sovrapposizione spregiudicata, o rispetto, che quasi può dirsi mimetismo. E questi
procedimenti di continuazione ci interessano per due ragioni: perché ci mostrano la complessa
formazione, fatta di varie fasi, come in un palinsesto in cui gli strati si sovrappongono, e con
questo individuano i quesiti del restauro; e perché ci espongono sperimentalmente i precedenti
del restauro moderno». Gustavo Giovannoni, Il restauro dei monumenti, Roma, Tipografia editrice
Italia, 1945, pag. 24
64
essenzialmente l'antichità del monumento. Ciò che importa in esso sono i segni
evidenti dell'età ed una sufficiente compiutezza individuale, grazie alla quale esso si
definisce nei confronti dell'ambiente e del resto del mondo»101. La “compiutezza
individuale” è in altre parole il risultato che è necessario perseguire tramite l’unità di
linea.
La forte esigenza di ottenere un risultato formale di questo tipo, non può però farsi
derivare da una posizione “estetica” nei riguardi del monumento. Se infatti
intendiamo per estetica (almeno nella sua concezione tradizionale, propria del XIX
secolo) un insieme di riflessioni - che si sviluppa intorno a un oggetto particolare che
è l’opera d’arte - sistematizzate in una teoria che definisce i modi per il
riconoscimento dell’opera (che cosa è l’opera d’arte?) e individua alcune categorie che
la determinano (come quella della bellezza), non mi pare possibile affermare che la
ricerca di una completezza per il monumento storico sia un risultato che rientri nell’ambito
delle possibili finalità dell’estetica (non siamo di fronte all’atto creativo bonelliano).
In effetti, il concetto di unità è un termine che rientra nelle categorie estetiche, è uno
dei parametri con i quali dare un giudizio sull’opera d’arte, ma non è in alcun modo
assimilabile al semplice concetto di completezza. Se infatti intendiamo l’unità in
ambito estetico come «armonica corrispondenza d’ispirazione e forma in ogni singola
parte e delle parti tra loro in un tutto organico»102 e consideriamo una definizione
generica di unità come «configurazione di una molteplicità in un complesso
omogeneo e organico», individuiamo alcune importanti differenze. Mentre nella
definizione “estetica” l’unità si riferisce ad una corrispondenza di ispirazione e forma,
riferibile direttamente all’opera dell’artista o di colui che comunque pensa di poter
rintracciare questa ispirazione e operare una sorta di “creazione differita”,
la
definizione generica di unità si riferisce unicamente al tentativo di mettere in atto
degli accorgimenti che di fronte ad una configurazione frammentaria e eterogenea
101 - ibid.
102 - voce Unità in Giacomo Devoto, Giancarlo Oli, Il dizionario della lingua italiana, Firenze, Le
Monnier, 1995.
65
(dal punto di vista artistico e storico) rendano possibile, in un certo grado (da lontano
ad esempio) una lettura omogenea. Questo significa che l’atto di liberazione e
ripristino dell’opera sono diretti a rendere possibile, previa la conservazione delle
diverse parti, una lettura immediata delle forme principali del monumento. In altri
termini quando Giovannoni parla di unità di linea e, ancor prima, quando sente la
necessario risarcire una lacuna, non lo fa ponendosi in un orizzonte di pensiero che
propone il ripristino dell’unità come via che permetta di far riacquistare al
monumento qualità estetiche perdute - tant’è vero che, comunque, la differenziazione
tra originale e aggiunta deve essere perseguita senza eccezioni. Egli ha dunque, in
parte, eliminato l’estetica da suo orizzonte: usa ancora il giudizio estetico per
individuare le parti che vanno conservate e quelle che possono essere sacrificate (ha
solo ampliato il numero delle opere riconosciute come opere d’arte rispetto ai suoi
predecessori, e questo probabilmente grazie alle conquiste della nuova storiografia
artistica di fine XIX secolo), ma non lo utilizza per compiere un’azione di tipo
creativo sull’opera da restaurare. Il suo scopo non consiste nel riaffermare la bellezza
del monumento. Essa sussiste, anche se offuscata, e difatti il restauro «ha (…) per
movente di conservare e porre in valore i segnacoli d’arte delle nostre città, interessanti
anche se mutili e completati dalla fantasia e dai ricordi»103. A ben vedere i resoconti dei
restauri dell’epoca usano solitamente espressioni che vedono il restauro come
«dignitoso ripristino della facciata», come ricerca di misure «semplici, logiche ed estetiche»104,
«rimessa in maggior valore»105, termini alquanto dimessi che individuano dunque semplici
operazioni, nell’intento dei restauratori addirittura neutrali, che in alcun modo
vogliono intervenire in modo dialettico con l’artisticità dell’opera. Se Giovannoni
dunque non tende, tramite il ripristino dell’unità di linea, a ricomporre l’artisticità
dell’opera d’arte, persegue invece un modello diffuso nel “senso comune” e che vuole
che un’architettura sia unitaria nel senso di ordinata, completa. Se così è, siamo di fronte
103 - Gustavo Giovannoni, Il restauro ...op. cit., pag. 20.
104- Alfredo Barbacci, Il monastero ... op. cit., pag. 80.
105- Ferdinando Forlati, La Pieve di S. Andrea a Sommacampagna, in «Palladio», n. 5-6, 1942, pag. 184.
66
ad una necessità legata al gusto che è a sua volta strettamente legato sia al senso
comune, sia alla visione del mondo di un’epoca e di una cultura. Si ricerca la
piacevolezza nella visione del monumento a seguito dell’intervento del restauratore.
Esso dovrà possedere determinate caratteristiche, contingenti ma universali, in
quanto appartenenti sia all’operatore che al pubblico. E in quel momento, nell’Italia
della prima metà del ‘900, il gusto spinge verso il completamento, verso qualcosa che
non se non è più unità di stile è, almeno, unità di presentazione al pubblico. Questa
necessità non si lega più, come nel XIX secolo, alla finalità didattica che conduceva
alla produzione di un oggetto che avesse uno scopo che andava comunque oltre
quello della conservazione. Il monumento allora diveniva oggetto simbolico, mezzo
per la creazione di un nuovo stile. Proprio con Giovannoni, infatti, il restauro perde
questo essere un mezzo per la progettazione del nuovo. Venendo meno questa
finalità, diventa possibile abbandonare l’unità stilistica, sorta di forzatura ideologica, e
ciò che rimane è la genuina necessità al decoro, all’ordine, alla semplicità. E’ d’altro canto
questo l’atteggiamento che si desume dalla Carta italiana del restauro in cui leggiamo
che: «…nell’opera di restauro debbano unirsi e non elidersi, neanche in parte, vari
criteri di diverso ordine: cioè le ragioni storiche che non vogliono cancellata nessuna
delle fasi attraverso cui si è imposto il monumento, né falsata la sua conoscenza con
aggiunte che inducano in errore gli studiosi, né disperso il materiale che le ricerche
analitiche pongono in luce; il concetto architettonico che intende riportare il
monumento ad una funzione d’arte e, quando sia possibile, ad un’unità di linea (da non
confondersi con l’unità di stile); il criterio che deriva dal sentimento stesso dei cittadini,
dallo spirito della città, con i suoi ricordi e con le sue nostalgie…»106. Trent’anni prima
Alois Riegl aveva posto fortemente l’accento proprio sul tema del sentimento del
popolo e su un particolare impulso che giocava un ruolo primario nell’apprezzamento
dei monumenti storici: la Stimmung. Essa è una sensazione contraria a quella
106- Carta italiana del restauro, Roma, 1932, in Giuseppe Rocchi, Istituzioni di Restauro dei Beni
Architettonici e Ambientali. Cause – accertamenti – diagnostica, Milano, Hoepli, 1985, pag. 330.
67
settecentesca del sublime, anche perché, come quella si basava sulla forza sconosciuta
e paralizzante della natura, questa elimina questa forza che non è più ignota ma
riconducibile a «un principio di causalità [che] percorre tutto il creato; ogni divenire
causa un trascorrere, ogni vita chiede la morte, ogni movimento avviene carico di un
altro movimento. È l’infinita lotta per l’esistenza che fa soffrire l’uomo – altamente
dotato di intelletto e di sensibilità – infinitamente più degli esseri viventi semplici, che
può annientare a centinaia con un solo movimento. Da millenni tutte le intenzioni
culturali dell’uomo si sforzano di bandire la legge naturale brutale del più forte e
sostituirla con un ordine mondiale liberatore. Oggi, dopo tanti sforzi il nostro destino
ci sembra inevitabile, senza via d’uscita. Al posto di quiete, pace ed armonia, c’è lotta
senza fine, distruzione e dissonanza ovunque giungano vita e moto. Su quella vetta di
montagna per il contemplatore solitario si realizza ciò che l’anima dell’uomo
moderno, coscientemente o incoscientemente, desidera. Non è la pace da
camposanto che lo circonda lassù, (…) ma ciò che da vicino gli sembra una lotta
spietata, da lontano gli pare una pacifica coesistenza, concordia ed armonia. (…)
Questa idea dell’ordine e della legalità al di sopra del caos, dell’armonia al di sopra
delle dissonanze, della quiete al di sopra dei moti, la chiamiamo Stimmung, atmosfera. I
suoi elementi sono la quiete e la veduta da lontano.»107. La Stimmung dunque è un
sentimento che dona quiete e serenità in quanto deriva dalla contemplazione degli
oggetti e della natura umana da lontano, nel suo complesso, sorvolando sui contrasti
particolari e sulla lotta tra le sue parti. Essa è parte importante del gusto, secondo
Riegl, e dunque componente di quel kunstwollen contemporaneo che è alla base
dell’affinità per il valore dell’antico. In uno scritto sulla Porta gigante di Santo Stefano del
Duomo di Vienna lo studioso viennese dà conto di questo rapporto tra Stimmung e valore
dell’antico. Riegl, infatti, si chiede quanto la porta possa piacere - e in che modo - a i
107- Alois Riegl, Die Stimmung als Inhalt der modernen Kunst, in «Graphische Kunste», XXII, 1899. (trad.
it. La Stimmung come contenuto dell’arte moderna, in Sandro Scarrocchia, Alois Riegl: teoria e prassi della
conservazione dei monumenti. Antologia di scritti, discorsi, rapporti 1898-1905, con una scelta di saggi critici,
Bologna, CLUEB, 1995, pagg. 135-136).
68
suoi contemporanei. Riferendosi a questo dubbio lo studioso individua due differenti
modi di guardare e giudicare quest’opera romanico-gotica: l’uno si rifà all’estetica che
la giudica confrontandola con i parametri rigidi della bellezza moderna. In questo
caso il manufatto risulterà tanto più bello quanto più si avvicinerà ai moderni canoni.
Il secondo metodo, per noi molto più interessante riprende i principi della Stimmung:
«È un modo di considerare che osserva le cose da più lontano possibile, le spoglia
della loro limitata e palpabile corporeità e le riduce a semplici reticoli di colori, che
poi integra e trasforma in essenze precise, partendo dalla coscienza dell’esperienza e
per mezzo di un lavoro mentale; (…) La vita che dai vecchi edifici promana verso un
simile osservatore è una vita storica, da molto tempo ormai trascorsa; ma
nell’immaginazione dell’osservatore essa risorge possente allorché egli si trova
dinnanzi le sue immediate testimonianze.»108. Dunque un sentimento che permette di
apprezzare l’opera antica anche se non rispondente ai canoni estetici vigenti. In
effetti, questi ultimi sono comunque parametri razionali e vengono normalmente
sistematizzati in una teoria estetica che fonda il giudizio, mentre in questo brano
vediamo come Riegl immetta nel discorso un elemento di irrazionalità che risale
direttamente alla percezione delle cose e alle sensazioni che questa percezione dà.
Questo elemento è fondamentale nella trattazione del valore in quanto memoria nel suo
Culto moderno dei monumenti; da questo punto di vista, infatti, il monumento appare
totalmente trasfigurato e sublimato. Scrive ancora Riegl: «Il monumento rimane solo
un sostrato percettibile e necessario per creare nel suo contemplatore quello stato
d’animo che nell’uomo moderno produce la concezione del naturale corso circolare
del divenire e del trascorrere, dell’emergere dell’individuale dal generale e della
necessità naturale, per quest’ultimo, di rivivere a poco a poco nel generale. Questo
stato d’animo, non presupponendo nessuna esperienza scientifica109, crede di poter
108 - Alois Riegl, Das Riesentor zu St. Stephan,, in «Neue Freie Presse», 1 febbraio 1902. (trad. it. La porta
gigante di Santo Stefano, in Sandro Scarrocchia, Alois Riegl: teoria e prassi della conservazione dei
monumenti. Antologia di scritti, discorsi, rapporti 1898-1905, con una scelta di saggi critici, Bologna,
CLUEB, 1995, pagg. 166).
109- «(dato che non sembra richiedere in particolare nessuna delle conoscenze acquisite con
69
avanzare la pretesa di diffondersi non solo tra gli specialisti, ai quali la conservazione
storica dei monumenti necessariamente deve rimanere ristretta, ma tra le masse, tra
tutti gli uomini senza distinzione di formazione culturale.»110
Nel 1912, al I convegno degli Ispettori Onorari dei Monumenti, Giacomo Boni e
Gustavo Giovannoni teorizzano il metodo del sottosquadro, che consiste nel colmare le
lacune tramite una risarcitura muraria tenuta un paio di centimetri al di sotto del filo
della muratura originaria. Questa metodica nasce sicuramente da un’esigenza di tipo
“etico” che privilegia l’autentico sulla reintegrazione e che, come già visto, si può far
risalire al Boito delle Raccomandazioni, ma inevitabilmente, come tutti i metodi
impiegati per risarcire le lacune in architettura, risulta essere un atto che influisce
fortemente sull’immagine finale del monumento. Nei decenni successivi, difatti,
diverse scuole di pensiero si susseguono nel tentativo di modificare quelle tecniche
che, a parità di conservazione delle parti autentiche, affermavano una volontà di
recuperar quella configurazione del monumento che con il tempo andava
modificandosi. È indubbio, in effetti, che «L’integrazione muraria (…) oltre a rivestire
una funzione di carattere protettivo nei confronti del sottostante nucleo antico,
doveva servire anche a facilitare la lettura della configurazione architettonica dei
ruderi.»111. Nell’ambito della legge generale della unità di linea, il sottosquadro dava
libertà di usare, per ricomporre le lacune, materiali uguali a quelli del monumento che
si stava integrando permettendo di abbandonare la pratica dell’uso di differenziarli
giocando sul contrasto spinto, come nel caso delle reintegrazioni con laterizi delle
colonne di marmo nei Fori romani. Seguire lo sviluppo del dibattito sulla
l’erudizione storica come necessarie per il suo soddisfacimento; anzi, viene suscitato dalla percezione
squisitamente sensitiva, motivo per cui si esterna subito come sentimento)» Alois Riegl, Entwurf einer
Gesentzlichen Organisation der Denkmalpflege, in Osterreich, Vienna, 1903. (trad. it. Progetto di riforma –
Il culto moderno dei monumenti, in Sandro Scarrocchia, Alois Riegl,... op. cit., pagg. 177).
110- Alois Riegl, Entwurf einer Gesentzlichen Organisation der Denkmalpflege, in Osterreich, Vienna, 1903.
(trad. it. Progetto di riforma – Il culto moderno dei monumenti , in Sandro Scarrocchia, Alois Riegl,... op.
cit., pagg. 177).
111- Elisabetta Pallottino, I modi costruttivi nel restauro dell’antico: obiettivi, criteri di valutazione e precedenti
storici nell’area romana, in Segarra Lagunes, Maria Margarita (a cura di), La reintegrazione nel restauro
dell’antico. La protezione del patrimonio dal rischio sismico, Atti del seminario di studi Paestum, 11-12
aprile 1997, Roma, Gangemi, 1997, pag. 160.
70
reintegrazione nel restauro archeologico è dunque fruttuoso in quanto rappresenta
una sorta di estremizzazione del più generale dibattito sul restauro architettonico,
ponendo in primo piano (come accade anche nel restauro pittorico) istanze che sono
ben presenti anche nella riflessione sulla conservazione architettonica e che non
fanno i conti con il problema funzionale (e il conseguente gusto per il decoro e per
quella che oggi chiameremmo la prestazione, due termini che non sempre sono legati
unicamente ad esigenze di tipo strettamente tecnico).
Assistiamo allora alla diffusione e, poi, al declino di numerose soluzioni che vanno
appunto dal sottosquadro all’uso di lavorare il materiale in modo differente
dall’originale, fino all’uso di materiali riconoscibili come il calcestruzzo, giungendo al
rifiuto, negli anni ’60, dell’idea stessa di reintegrazione e che porta ad assemblaggi
“brutalisti” che paiono riaffermare un trionfo di quel frammento che duecento anni
prima aveva immaginato Piranesi in una delle tavole delle sue Rovine nella quale
rappresentava una composizione casuale di antiche lapidi marmoree. Certamente, nel
caso delle reintegrazioni, ci si scontra con la urgente necessità di individuare un modo
tecnicamente valido per perseguire il mito della completezza, ma spesso esso va al di
là della necessità strettamente statica, arrivando nei casi estremi all’uso del
monumento come mezzo di propaganda, come accade negli anni del Governatorato
in cui la strumentalizzazione politica si spinge fino a fare uso di architetture restaurate
come esplicitazione materiale della forza dell’Impero. Il monumento così concepito
deve mostrare inevitabilmente una unità che, in questo caso, è sinonimo di forza,
contro la debolezza e il senso di precarietà del frammento. In casi limite come questo
il monumento è più che mai ricordo, simbolo e ammonimento e, in quanto tale, deve
presentarsi completo per poter essere efficace.
Si è parlato finora di reintegrazioni, e questo è termine che ci appare sicuramente
familiare, ma è necessario riflettere su un particolare linguistico: Giovannoni e i suoi
contemporanei si riferiscono a questa operazione usando il termine ripristino. Perogalli
annota questa distinzione: «[Giovannoni N.d.R.] pone l’accento sulla preventiva
71
valutazione della convenienza di procedere alla reintegrazione (o ripristino, com’essa dice
…»112. Le due espressioni non significano la medesima cosa.
Reintegrare, deriva dal latino integro e significa «ricollocare qualcosa nella posizione
precedentemente occupata facendo cessare gli effetti dannosi di avvenimenti
sopraggiunti che ne avevano determinato l’allontanamento. Ritornare intero»
Ripristinare, da Ri-pristinus che significa ‘primitivo’, indica il ri-stabilire, ri-mettere in
funzione, in uso.
Dunque in un caso restituire una condizione di interezza, completezza e nell’altro
riportare ad una situazione precedente. Nel primo caso agendo per aggiunta del
nuovo sulla falsa riga dell’esistente per riottenere l’intero, nel secondo caso andando a
levare per tornare indietro ammettendo unicamente piccole aggiunte.
2.1.2
Gli interventi: scelte di gusto o problemi tecnici?
Trattando di reintegrazioni nel restauro è necessario occuparsi, in effetti, di due
distinte operazioni che nella terminologia giovannoniana sono individuate con i
termini di liberazione e di ripristino. Spesso non c’è l’una senza l’altra. E, infatti, sia
Giovannoni nel suo Il restauro dei monumenti sia, in seguito, Carlo Perogalli in La
progettazione del restauro monumentale dovendo individuare delle categorie in cui fosse
possibile catalogare le operazioni di restauro, parlano sia quella di liberazione sia
quella di ripristino. La successione di queste operazioni, in questo momento del
dibattito, appartiene intimamente al processo mentale e poi operativo che porta al
restauro di un edificio.
A differenza delle teorie precedenti, però, notiamo una maggiore attenzione nel
suddividere l’operazione generica di “restauro” in diverse sotto-operazioni parziali e a
112- Carlo Perogalli, La progettazione del restauro monumentale, Milano, Libreria politecnica Tamburini,
1955, pag. 59.
72
studiare, da un lato l’impatto che queste hanno sull’opera, dall’altro il rapporto
reciproco, tra loro esistente.
Questo è possibile solo dal momento in cui l’edificio non venga più visto come una
unità da considerare globalmente, ma dal momento in cui balza in primo piano il
problema dell’autenticità dei segni storici che su di esso si trovano. Solo da queste
premesse è possibile partire per comprendere l’approfondimento dedicato dagli
studiosi dei primi decenni del Novecento al tema della liberazione e delle sue
implicazioni riguardo la perdita di materiale e sul conseguente ripristino, legato a sua
volta al tema dell’autenticità dell’aggiunta. Questa attenzione deriva direttamente dalla
presa di coscienza, oramai imprescindibile negli anni ‘40-‘50, che: «Non v’è […] forse
monumento che risponda ad unità di concetto e di attuazione, senza alterazioni, e
senza sovrapposizioni di varie fasi. Queste vicende occorre quindi, per quanto è
possibile, conoscere quando ci si accinge ad un restauro; e viceversa il restauro, con la
osservazione diretta, offre una preziosa occasione, che non deve lasciarsi disperdere,
per lo studio del monumento e per la cognizione di queste sue vicende costruttive ed
artistiche.»113.
Il definirsi della categoria giovannoniana di palinsesto è inoltre un grande passo
avanti nella considerazione del portato storico del monumento, ma nonostante ciò
all’interno della teoria e soprattutto della pratica del restauro negli anni della guerra e
del dopoguerra si nasconde ancora un’insidia. Scrive Giovannoni: «L'opera del
restauratore deve mettere in evidenza ciò che appartiene ai vari periodi e merita di
essere conservato»114. Siamo nuovamente di fronte ad un giudizio che, come abbiamo
visto nel capitolo precedente, non potendo fondarsi su un’estetica metafisica si riduce
di fatto ad essere giudizio di gusto. Infatti, proseguendo nella lettura del brano
vediamo quali sono i casi, le eccezioni i cui è possibile per l’architetto romano
procedere con le liberazioni: «La teoria ora vigente limita questo significato [restauro
113- Gustavo Giovannoni, Il restauro, ... op. cit., pag. 7.
114- ibid.
73
di liberazione, N.d.R.] per la parte negativa agli elementi privi di ogni valore d’arte od
alle fabbriche esterne non aventi carattere ed importanza, né funzione urbanistica nei
riguardi del monumento. Così ad esempio, il restauro può volgersi a semplici e rozze
murature che imprigionano colonne e sbarrano finestre e loggiati, a stucchi, intonachi
e stuoie di canna senza pregio decorativo che mascherano pareti e coperture, a case
amorfe addossate, di età evidentemente posteriore, che chiudono e nascondono il
monumento od una sua parte»115. Risulta ancora una volta evidente come i termini
utilizzati per descrivere gli elementi non degni di conservazione siano termini che
non appartengono al linguaggio dell’estetica, ma piuttosto stiano ad indicare un
giudizio vicino al sentire comune, che vede nella semplicità e nella rozzezza un
segno della mancanza di valore storico e, d’altronde, giudica stucchi e soffitti
incannucciati come elementi di nessun pregio o, peggio, amorfi. Da qui all’atto di
liberazione il passo è breve e non necessita di ulteriori giustificazioni, vista
l’autoevidenza del gusto comune. Dunque «Il demolire questi elementi e rimettere in
luce le linee del monumento, e così valorizzarlo nel suo carattere d’arte e nella sua
funzione cittadina, è cosa veramente felice»116.
Vediamo, allora, come i restauratori contemporanei a Giovannoni intendono il
“restauro di liberazione”. Luigi Angelini in un articolo del 1940 sui restauri a
Bergamo alta scrive: «… venne messo in luce, su tracce che già apparivano da tempo
sotto l’intonaco, un ampio arcone medioevale di pietra da taglio, a tutto sesto. Nella
demolizione dei soffitti si rintracciarono le travi di legno con grezze mensole
appoggiate contro muro su un cordone di pietra a sagoma medievale. Abbattuti i
tramezzi e i muri intermedi eretti in epoche più vicine a noi, si mostrò in tutta la sua
ampiezza un vasto salone a pianta pressoché quadrata con l’arcone circolare che lo
traversa impostato normalmente alla fronte dell’antica basilica. Nella prosecuzione
degli assaggi e nello scrostamento degli intonaci sovrapposti, venne in luce, (…) un
115- Gustavo Giovannoni, Il restauro, ... op. cit., pag. 66
116- ibid.
74
ciclo di decorazioni pittoriche ad affresco sulle pareti di levante e di ponente e nella
parte formante facciata della Basilica, (…) una bifora con arco in pietra da taglio e i
due archetti interni impostati sul pulvino soprastante
al capitello intagliato a
foglie»117.
La liberazione non ci appare quella fase delicata e limitata indicata dalla Carte del
1932, ma viene eseguita frequentemente per riportare alla luce parti di edificio o
intere configurazioni passate in edifici che presentino segni che lascino sperare in una
integrità di buon livello sotto l’ultima pelle. Così agisce il Barbacci a Verona, nei
restauri condotti nel monastero di S. Giorgio in Braida, in cui procede con la
«liberazione del campanile, dell’abside e dei chiostri dalle moderne e volgari
superfetazioni»118. Il tutto trova testimonianza ulteriore nella mostra sul restauro dei
monumenti durante il regime fascista, del ’39, in cui «Si vide tutta l’innumerevole
serie di monumenti minori liberati a cura della R. Soprintendenza ai Monumenti di
Roma: ripresa delle strutture e liberazioni dei campanili del XII secolo, da quello della
Chiesa di San Crisogono, a quello della chiesa Cattedrale di Terracina»119. Ancora è il
caso del restauro dell’Ospedale di Santo Spirito, sempre a Roma, curato dal
Soprintendente del Lazio Alberto Terenzio, in cui si procedette alla «liberazione dei
chiostri ed in particolare di quello più piccolo, detto dei Frati, il quale maggiormente
aveva sofferto delle aggiunte posteriori, eseguite in gran parte dal Vespignani nel
1854.»120 dando luogo, in questo caso, ad un vero e proprio de-restauro: «…
ordinammo perciò la rimozione delle volte a crociera del porticato, le quali nella
ricostruzione [del Vespignani N.d.R.] erano mal riuscite, sia perché non era stato
tenuto conto della posizione precisa, degli antichi peducci, sia perché si era adottata
una centina di forma semplicisticamente semicircolare.»121
117118119120-
Luigi Angelini, Scoperte e restauri di edifici medievali in Bergamo Alta, in «Palladio», n. 1, 1940, pag. 35.
Alfredo Barbacci, Il Monastero ,... op. cit., pag. 75.
La mostra del restauro dei monumenti in regime fascista, in «Palladio», n. 1, 1939, pag. 29.
Guglielmo De Angelis d’Ossat, Roma. Il restauro degli edifici quattrocenteschi dell’Ospedale di Santo
Spirito, in «Palladio», n. 5, 1939, pag. 212.
121- Guglielmo De Angelis d’Ossat, Roma,... op. cit., pag. 213.
75
Vediamo dunque che le locuzioni: privi di valore d’arte e non aventi carattere ed importanza
vengono applicate ampiamente, ma mai vengono argomentate in modo critico. Il
liberare porta però inevitabilmente al ricomporre, data l’impossibilità di accettare
l’immagine frammentata che necessariamente consegue alla liberazione dalle parti
“incongrue”. E questo ricomporre, pur se nella teoria appare anch’esso come limitato
e parziale, nella pratica viene eseguito non certo con parsimonia. Lo vediamo nei
lavori di Gino Chierici a Napoli per la Chiesa dell’Incoronata in cui si libera e in
seguito si reintegra il portico e il coro, nella Chiesa di Donnaregina che viene
sbarocchizzata e a Lomello dove l’architetto procede alla liberazione del Battistero.
Ma d’altronde lo stesso Gino Chierici ci offre un esempio di raggiunta maturità
rispetto alla necessità di salvaguardare il palinsesto122. Scrive egli, infatti, nel1938:
«Non importa se molte parti restano mutile e di altre non si afferra il significato o la
destinazione. Ciascun visitatore potrà con la propria fantasia completare la
rappresentazione e proverà la gioia di chi riesce ad afferrare un pensiero recondito od
a sciogliere un quesito difficile. E se qualcosa gli rimarrà oscuro, ciò lo inciterà a
chiedere spiegazioni, a fare ricerche, ad allargare la sua cultura, con il risultato di
avvicinarsi spiritualmente sempre più all'opera d'arte che lo interessa. Ma egli deve
avere la sicurezza di non essere tratto in inganno da elementi falsi che potrebbero
disincantarlo e renderlo scettico anche di fronte a quelli genuini.»123. Nella realtà
anche Chierici non rispetterà fino in fondo ciò che afferma, procedendo a numerose
integrazioni, anche nel suo restauro più conservativo, quello del fronte ovest di
Palazzo Reale a Milano. Egli si trova di fronte ad un esempio tipico di palinsesto nel
122- «Per noi, a parte quelli morti della classificazione fatta dal Giovannoni, i monumenti hanno una
loro vita che si manifesta non tanto nella continuità della loro destinazione e nella possibilità di
adattamento ad una destinazione nuova, quanto nel segno che l'arte di ogni epoca lascia su di
essi. Questi segni, qualora abbiano nobiltà di espressione, debbono essere conservati perché sono
tanti capitoli di una storia e spesso tante nuove bellezze che dimostrano, oltre tutto, che quando
si tratta di arte vera gli accostamenti degli stili più disparati sono non soltanto possibili, ma capaci
di dare nuove e più squisite commozioni estetiche.», Gino Chierici, Il restauro dei monumenti, in Atti
del III congresso di Storia dell’Architettura, Roma, Colombo, 1940, pag. 332.
123- Gino Chierici, La Basilica di S. Lorenzo in Milano, Milano, Sestetti, 1938, pag. 24, cit. in Letizia
Galli, Il restauro nell’opera di Gino Chierici (1877-1961), Milano, Franco Angeli, 1989, pag. 36.
76
quale la fase trecentesca e quella neoclassica erano sovrapposte, pur intravedendosi
grazie al degrado degli intonaci e ad alcuni elementi lasciati in vista già nell’intervento
neoclassico. Chierici, dopo aver fatto eseguire dei saggi, decide che il restauro è
possibile e decide di portarlo avanti secondo le «…nuove teorie consistenti appunto
nel rispettare non solo ciò che appare all’occhio esercitato del saggiatore.»124
I lavori ultimati mostrano un notevole esempio di quello che Giovannoni chiamò
unità di linea. Abbiamo come risultato un fronte sul quale appaiono leggibili,
contemporaneamente, le due configurazioni. La prima (quella trecentesca) con un
piano di bucature ad arco a tutto sesto, un secondo piano di bifore decorate in cotto
e una muratura in laterizio. La seconda con tre piani di finestre rettangolari, più
piccole, che indicano un sostanziale mantenimento delle quote all’interno del palazzo
e un attico che è una sopraelevazione rispetto all’edificio medievale. Tutto questo era
visibile con un po’ di attenzione già in precedenza, come mostrano le foto del
palazzo fatte prima dei lavori, ma comunque la scelta di Chierici di rifiutare la ricerca
a tutti i costi dell’unità trecentesca e il coraggio nel mantenere la sovrapposizione
delle bucature appare notevole.
Questo nonostante si sia comunque operato un rovesciamento; l’edificio, prima dei
lavori, presentava sostanzialmente una facciata neoclassica che lasciava intravedere la
facies medievale, dopo i lavori è diventato un edificio medievale che evidenzia le
tracce della successiva modificazione. Dunque Chierici opera prendendo atto
dell’importanza di mantenere le tracce della storia ma, nell’intervento, il gusto per il
medioevo, ancora fortissimo, porta a far retrocedere il settecento a traccia da tollerare
e salvaguardare ma mettendo in luce il vero monumento: l’organismo medievale.
124- Gino Chierici, articolo apparso sul quotidiano «Il popolo d’Italia», 26 agosto 1937. Nello stesso
articolo Chierici afferma: « Niente quindi lavoro di fantasia sia pure suggerito dal generoso, ma in
sostanza ingenuo, desiderio di presentare i monumenti in un aspetto migliore o perlomeno più
completi. Cosa sarebbe stato richiudere le sciatte finestre quadrate e ripristinare quelle antiche
rifacendo le colonne mancanti e magari completando, nella bifora, le decorazioni della cornice?
… Metter su tanto apparecchio, alzar tanti ponti per così poco!… Questo ci sembra di udire o di
leggere nel pensiero di molte persone che del restauro hanno una concezione troppo superficiale
o perlomeno che non va oltre al centone scenografico. Ed è errore gravissimo.».
77
Questo risultato é ottenuto, in questo caso, con l’eliminazione degli intonaci,
considerati allora - come spesso ancora oggi - una semplice pelle che protegge ma,
più ancora, nasconde la vera sostanza dell’edificio.
Ma, ciononostante, non mancarono le proteste di chi, probabilmente memore di ben
più soddisfacenti recuperi, si sentì defraudato della possibilità di riportare la facciata a
quel “pristino splendore” di cui ancora oggi si fantastica, pur non essendo in grado di
definirne i contorni. Non piacque, dunque, all’anonimo “Ascanio” che «… dietro al
cartellone avessero rabberciato alla meglio le poche tracce quattrocentesche che il
Palazzo reale offriva su questo lato[…]».125 E manifestò, accorato, la propria protesta
contro lo “sconcio” di Palazzo Reale. Vale la pena fare una lunga citazione per
leggere come il ”nuovo corso” dei restauri in Italia fosse accolto da chi non riusciva
proprio a vedere nelle pietre il segno della storia e continuava a ricercare, al di là di
tutto, l’agoniata unità stilistica.
«… Diciamo subito che la sua impressione [di chi si trovò a guardare il restauro
compiuto N.d.R.] non fu delle più entusiaste e che i suoi occhi […] non riuscirono ad
intravedere al di là del povero muro martoriato né quel documento storico
eccezionale che altri ha pomposamente lodato, né s’accorsero di trovarsi dinanzi a
prove sperimentali di un nuovo concetto di restauro, quasi a dire una svolta dei
sistemi dei nostri studiosi. Dicono questi che si possono fare i restauri delle
architetture in due maniere: l’una completando, liberando e ricomponendo le tracce
ritrovate, fino a ripristinare l’apparenza unitaria ed originale della fabbrica; l’altra conservando
assieme tutte le incrostazioni, anche le più minute ed eteroclite, che i tempi hanno
accumulato sul monumento, quasi a testimoniare in un grande mosaico i documenti e
la storia delle trasformazioni subite. La svolta è tutta qui ma non è lieve. […] ma che
questi frammenti possano comporsi dentro un vivo e vitale aspetto di architettura
che sopravviva al prossimo congresso archeologico noi dubitiamo molto e
125- «Il Regime Fascista», 9 ottobre 1937, cit. in Letizia Galli, Il restauro nell’opera di Gino Chierici (18771961), Milano, Franco Angeli, 1989, pag. 101.
78
dubiteremo per parecchio. […] Stavolta il cosiddetto restauro è una sconciatura bella
e buona, anzi, brutta e cattiva.»126.
Al contrario, Chierici nella relazione del lavoro si era sbilanciato nel dichiararsi
convinto che proprio questo atteggiamento favorevole alla
conservazione dei
frammenti superstiti, all’interno della ricerca di una certa unità di linea, potesse
soddisfare tutti: «… ci limitammo a restaurare le parti rimaste delle finestre, a
riprendere il paramento a mattoni a segnare cornici e ad indicare le loro sezioni.
Come abbiamo detto le finestre ottocentesche furono aperte senza tener conto delle
antiche, cosicché queste risultano mutilate. Ma nonostante tale mutilazione, e la
mancanza e l’incertezza di alcuni particolari la facciata assume una nuova ed austera
nobiltà e la sua franca ed onesta rinuncia ad ogni lenocinio pseudo storico finisce col
renderla gustosa anche a coloro che amano i rifacimenti.»127.
Ma, a quanto pare, la posizione di Chierici è abbastanza solitaria nel panorama del
restauro italiano dagli anni ’30 agli anni ’60 come si evince dalla lettura delle riviste
che pubblicano regolarmente i resoconti dei lavori. In questi articoli si passa dalla
minuta analisi della possibilità di creare un articolato sistema di contrassegni da
apporre sulle parti di muratura ripristinate128 alla documentazione di interventi che
attuano un’indiscriminata sbarocchizzazione129 e ripristini a volte molto spinti.
Questi lavori si situano in un momento di passaggio della riflessione sul restauro in
cui, dalle attenzioni per il documento storico proprio dell’approccio del filologismo,
espresso dalla Carta italiana del Restauro, si va verso le teorie del restauro critico e
126- «Il Regime Fascista», 9 ottobre 1937, cit. in Letizia Galli, Il restauro nell’opera di Gino Chierici (18771961), Milano, Franco Angeli, 1989, pag. 101.
127- Relazione sul progetto di restauro della facciata di Palazzo reale di Milano prospiciente la via Rastrelli, s. d.
fasc. «Palazzo reale» fasc. 1556, Archivio della Soprintendenza ai Beni Ambientali e
Architettonici della Lombardia, cit. in Letizia Galli, Il restauro nell’opera di Gino Chierici (1877-1961),
Milano, Franco Angeli, 1989, pag. 101.
128- Alfredo Barbacci, Contrassegni sugli edifici monumentali restaurati, in «Bollettino d’Arte» n. 4, 1948,
pag. 380.
129- cfr. di A. Barbacci, La chiesa di S. Maria Annunziata in Bologna e il suo restauro, in Bollettino d’Arte,
n. 2, 1949, pp. 171-177, di G. Morozzi, Ritrovamenti e restauri in quattro pievi toscane danneggiate dalla
guerra, in «Bollettino d’Arte», n. 2, 1950, pp. 156-160, e ancora di M. De Vita, Il restauro della
Chiesa di S. Pietro in Tivoli, in «Bollettino d’Arte», n. 2, 1951.
79
creativo di Bonelli e la teoria del restauro di Brandi, che trovano espressione nella
Carta di Venezia del 1964 e nella Carta del Restauro del 1972. Un momento che si
caratterizza per un passaggio teorico fondamentale: lo spostamento dell’attenzione
dal monumento storico-artistico all’opera d’arte.
Uno spostamento di prospettiva che riporta in auge un approccio al monumento che
richiama in tutta la sua forza il concetto di unità. Unità, in primo luogo, di una
visione che immette nuovamente l’oggetto architettonico all’interno di un pensiero
che si struttura su categorie di tipo estetico e che, dunque, è attrezzato per il
riconoscimento dell’esistenza di un artefatto che presenta caratteristiche peculiari per
le quali è definibile opera d’arte. Questo riconoscimento diventa premessa
indispensabile per l’atto restaurativo, che consiste nel rimettere in opera un altro tipo
di unità, quella dell’immagine del monumento, sia attraverso la categoria della vera
forma, sia attraverso quella del ripristino dell’unità potenziale. Non siamo più di fronte al
concetto di unità di linea, che appare sempre più un compromesso tendente a riportare
nell’alveo del decoro e del buon gusto una visione troppo “brutalista” di un restauro
che anelava a sganciarsi dal giudizio estetico. E cercava di farlo tentando di porre
l’accento sulla necessità di salvaguardare la concatenazione delle differenti
configurazioni, così come apparse nel tempo.
Il restauro critico di Renato Bonelli, piuttosto, pretende di riportare alla visibilità e alla
perfetta leggibilità estetica l’immagine offuscata dalle modificazioni successive e in
questo senso cancella il tempo trascorso, la concatenazione degli eventi, annullando
la storia e mettendo da parte l’autenticità dell’oggetto che riceve la propria
legittimazione unicamente dal primo atto di folgorazione estetica. Ma qui ci interessa
soprattutto l’affermazione di Brandi che se un oggetto non è riconoscibile in quanto
opera d’arte va conservato. Posizione ribadita, nella pratica, da Giovanni Carbonara
ad esempio quando si occupa del restauro del Palazzo di Bonifacio ad Anagni; in
quell’occasione egli ammette di non essere in grado di dare una valutazione in termini
artistici sul complesso e, di conseguenza, ne sostiene la prevalente importanza storica
80
affermando che «… se la qualità propria [del monumento N.d.R.] risiede nella sua
immagine consolidata, tanto in termini urbanistici e paesistici quanto in termini di
stratificazione storica, leggibile nello svolgersi delle fasi costruttive, sarà
indispensabile
che
il
restauro
assuma
un
atteggiamento
rigorosamente
conservativo»130.
Infatti, al contrario di quanto pensa Bonelli in quegli anni, Brandi non ha una visione
del restauro così potente dal punto di vista operativo: secondo lo studioso non è,
infatti, possibile restaurare un’opera d’arte in qualunque stato essa sia, ma unicamente
se in essa è riconoscibile l’unità potenziale che funge da guida all’intervento. Dunque il
restauro è possibile a patto che l’opera non sia ridotta a “rudero”. Questo è definito
da Brandi come «... ciò che testimonia della storia umana, ma in un aspetto assai
diverso e quasi irriconoscibile rispetto a quello precedentemente rivestito.»131 Dunque
un oggetto nel quale non è più possibile riconoscere l’opera d’arte e che non presenta
«... una sua implicita vitalità per adire ad una reintegrazione dell’unità potenziale
originiaria.»132. Il tema della reintegrazione in Brandi è pertanto demandato
totalmente alla capacità critica soggettiva di chi, trovandosi di fronte all’opera, ne
individua l’unità potenziale e cioè «una singolarissima unità per cui [l’opera] non può
considerarsi come composta di parti: in secondo luogo, questa unità non può essere
equiparata all’unità organico-funzionale della realtà esistenziale.»133 . Il restauro opera
sui frammenti superstiti sviluppandone l’unità potenziale limitandosi a «... svolgere i
suggerimenti impliciti nei frammenti stessi o reperibili in testimonianze autentiche
dello stato originario»134. Andando oltre i suggerimenti propri dei frammenti e
operando un’interpolazione tra l’unità potenziale e la nostra cultura e capacità
ermeneutica, si compie un falso storico. Non è dunque una posizione semplice, come
130- Giovanni Carbonara, Sul cosiddetto Palazzo di Bonifacio VIII in Anagni. Dalla storia al restauro, in
«Palladio», 1989, pp. 44.
131- Cesare Brandi, Teoria del restauro, Torino, Einaudi, 1977, pag. 30.
132- Cesare Brandi, Teoria ... op. cit., pag. 31.
133- Cesare Brandi, Teoria ... op. cit., pag. 16.
134- Cesare Brandi, Teoria ... op. cit., pag. 17
81
farebbe pensare il suo successo presso i restauratori, in quanto è necessario operare
in modo tale che si favorisca «… il godimento di quel che resta e si presenta a noi
dell’opera d’arte, senza integrazioni analogiche, in modo che non possa nascere il
dubbio sull’autenticità di una parte qualsiasi dell’opera d’arte stessa»135.
Ma, nonostante il successo di Brandi, la maggior parte dei restauri tra gli anni ‘60 e gli
anni ’80 non rendono conto della complessità dell’approccio teorico e non è difficile
constatare come, al contrario, essi non abbiano smesso di oscillare tra un filologismo
di maniera, che si esaurisce spesso nella produzione di voluminosi apparati storicodescrittivi che accompagnano il progetto, e un impulso mai sedato verso l’atto
creativo che ricerca forme nascoste da ripristinare. L’osservazione ulteriore che è
possibile fare a questo punto consiste nel fatto che non sempre in questi interventi e
nella esplicitazione delle finalità e delle motivazioni culturali, espresse nelle relazioni
di progetto e sui saggi pubblicati nelle riviste, è presente l’affermazione critica del
riconoscimento dell’opera d’arte. Questa a volte è dato probabilmente per sottintesa,
ma più spesso, ci si trova di fronte a palesi contraddizioni. Se, infatti, il richiamo a
Cesare Brandi diventa da un certo momento in poi un palese riferimento per
restauratori e soprintendenze, questo pare fatto unicamente sulla scorta della lettura
del primo capitolo della Teoria del Restauro laddove si enuncia il secondo principio del
restauro: «Il restauro deve mirare al ristabilimento dell’unità potenziale dell’opera d’arte». Questa
frase, divenuta la vulgata del pensiero di Brandi viene poi ulteriormente semplificata e
travisata procedendo all’attribuzione al concetto di unità potenziale del significato
proprio del tradizionale concetto di unità stilistica.
Questa constatazione rende conto di quanto sia difficoltoso mantenere un parallelo
tra le teorie e la prassi del restauro. La prima tesa alla chiarificazione di nodi
problematici di grande complessità che non reggono la schematizzazione, la seconda
tesa continuamente alla ricerca di una legittimazione teorica che sembra venire, però,
continuamente mediata dalla tradizione e dal gusto personale.
135- Cesare Brandi, Teoria ... op. cit., pag. 74.
82
In questo senso è importante riflettere sul fatto se un certo procedimento
restaurativo o certi prodotti siano sperimentati e trovino applicazione per una loro
intrinseca e rilevante convenienza tecnica o perché vanno incontro a scelte,
solitamente formali, compiute dal progettista a prescindere dall’aspetto tecnico e da
constatazioni di tipo scientifico136. Certo non è cosa semplice, ma forse due esempi
possono aiutare a fornire suggestioni in questo senso: penso allo sviluppo delle
tecniche del consolidamento già dal XIX secolo e all’uso invalso, più tardi, di pulire
regolarmente i paramenti di facciata dei monumenti.
In questo senso è necessaria qualche incursione, nel mondo scientifico che ruota
attorno al restauro per indagare in che modo le strade scelte dai chimici, dai fisici e
dagli ingegneri per la sperimentazione, sino libere da tutte quelle “idee a priori” sui
monumenti che in un certo senso finiscono per instradare la ricerca stessa verso la
risoluzione di problemi che sono posti prima e che influenzano la ricerca stessa.
Infatti, uno “scienziato del restauro” può scrivere nell’introduzione al proprio libro
sulla scienza dei materiali: «… non solo vogliamo opporci al naturale invecchiamento
di materiali che non sono stati scelti in funzione della loro curabilità […] ma nella
nostra civiltà industriale vogliamo che questi monumenti in pietra all’aperto resistano
senza danni alle atmosfere urbane, alle piogge acide, e ai gusti dei tempi. E come se tali
requisiti non fossero ancora abbastanza challenging abbiamo aggiunto delle basilari
differenze tra la conservazione della nobile patina del tempo che rappresenta l’aura
spirituale dell’opera e l’eliminazione delle incrostazioni inquinanti.»137. E un altro
importante testo “tecnico” sul restauro così recita: «…è poi opinione diffusa che le
orribili e dannosissime croste nere che deturpano le facciate degli edifici siti in centri
136- «Il rischio implicito ai procedimenti tecnici è di attribuire ai consolidamenti e ai presidi fisico
chimici una portata ambiguamente taumaturgica, che mette in primo piano gli effetti “pratici”
dell’intervento, magari in forza della fiducia nella scienza. (...) Ma dal punto di vista del restauro
(e del restauratore) questo non basta. Il rimedio in sé resta pur sempre un mezzo al quale
decidiamo di ricorrere per un obiettivo che in ultima analisi ha ben poco di tecnico.» B. Paolo
Torsello, Origini concettuali e metodologiche dell’intervento, in B. Paolo Torsello (a cura di), Il Castello di
Rapallo. Progetto di restauro, Venezia, Marsilio, 1999, pag. 46.
137- Giovanni G. Amoroso, Mara Camaiti, Scienza dei materiali e restauro, Firenze, Alinea, 1997, pagg.
11-12. Il corsivo è nostro
83
urbani, siano delle patine naturali, addirittura protettive e passivanti nei confronti
dell’alterazione. Per cui si tende a non pulire i monumenti, o a conservarvi almeno in
parte queste croste per non “sbiancare” troppo, e “farli sembrare troppo nuovi”.
[…] Tutto ciò ignorando che la pulitura è indispensabile per il godimento e la
corretta lettura delle opere d’arte, nonché per la buona conservazione dei materiali
che le compongono. Con la pulitura si recuperano, infatti, i valori cromatici e
chiaroscurali di una facciata, che non saranno certo quelli originali, ma senz’altro più
vicini ad essi […]»138
Vediamo che anche tra i tecnici, e non potrebbe essere altrimenti, esiste una
consapevolezza estetica che li fa agire non soltanto per risolvere i problemi posti dai
progettisti riguardanti prodotti e tecniche, ma ad assumere in prima persona
responsabilità di scelta sul tipo di fine da raggiungere con l’intervento. Questo
certamente anche grazie ad un atteggiamento, sempre più presente tra i nostri
restauratori, che tendono a demandare la progettazione dell’atto tecnico agli
specialisti. Al contrario, ad esempio nelle puliture: «… il cosa togliere non è definibile
su un piano esclusivamente tecnico, in quanto quel tal “cosa” possiede qualità
proprie che lo rendono più o meno intrinseco oppure estraneo all’architettura, e
perciò la sua eliminazione implica un ordine di valutazioni che va ben oltre il
semplice fare tecnico. Per sincerarsene è sufficientemente ricordare, fra le tante
controversie sulla pulitura, quelle riguardanti il limite di separazione tra crosta e
patina o la misteriosa differenza tra gli strati naturali di annerimento e certe antiche
pratiche di trattamento artificiali delle superfici.»139
Ma proprio coloro i quali dovrebbero dare risposte tecniche si ritrovano ostacolati da
una cultura che non riesce a separare lo studio dei mezzi tecnici dalla riflessione sul
fine, che pare comunque imporsi: «Sebbene apparentemente relegata in secondo
138- Lorenzo Lazzarini, Marisa Laurenzi Tabasso, Il restauro della pietra, Padova, CEDAM, 1986, pag.
105.
139- B. Paolo Torsello, La “pulitura delle superfici”: alcune domande e una riflessione, in Guido Biscontin,
Guido Driussi (a cura di), La pulitura delle superfici dell’architettura, Atti del convegno Di Studi,
Bressanone 3-6 luglio 1995, Padova, Libreria Progetto Editore, 1995, pag. 13.
84
piano dall’urgenza delle motivazioni conservative, la necessità di assicurare una
buona leggibilità dell’immagine resta comunque importante e spesso la soluzione di
questo problema è quella che determina il successo o l’insuccesso di un restauro agli
occhi del pubblico. Nel caso delle superfici architettoniche ci si trova però di fronte a
un dilemma che nel caso dei dipinti quasi non si pone: quale è l’immagine che si
vorrebbe far leggere all’osservatore? L’immagine deve suggerire l’opera così come
l’aveva ideata il suo creatore (che sarebbe il risultato che si vuole raggiungere nel caso
dei dipinti, pur con le limitazioni determinate dal problema della “patina”) oppure si
desidera presentare l’opera consolidata sì ma con tutti i segni del tempo trascorso
(mantenendo ovviamente solo i segni che sono accettabili dal punto di vista
conservativo)?»140
Si pensi allo sviluppo di consolidanti e protettivi trasparenti o a quello già accennato,
delle puliture più o meno spinte. Entrambi i problemi mi pare trovino la loro prima
completa esplicitazione nella letteratura specialistica degli anni sessanta. In particolare
il “vezzo” di pulire le facciate dei monumenti, che Cesare Brandi fa risalire al «[…]
fanatico sciovinismo di De Gaulle, a cui si deve il bucato generale che ha subito
Parigi e, purtroppo, anche la cattedrale di Notre-Dame.»141. Ma già Giuseppe Zander
nel 1969, in occasione della pulitura della facciata della Chiesa dei SS. Luca e Martina
a Roma, parla di «[…] indiscriminata pulizia che i francesi hanno fatto delle facciate
dei palazzi di Parigi»142. La chiesa romana annerita dal tempo fu radicalmente pulita e
il travertino venne in seguito stuccato pesantemente. L’opera fu ridata alla città
ridotta, secondo Zander, ad un modello in scala uno a uno dell’originaria facciata.
Questa prima vicenda ci porta a riflettere su un aspetto del problema: la critica di
140- Giorgio Torraca, Le puliture delle facciate in pietra: necessità della conservazione e immagine del monumento,
in Guido Biscontin, Guido Driussi (a cura di), La pulitura delle superfici dell’architettura, Atti del
convegno Di Studi, Bressanone 3-6 luglio 1995, Padova, Libreria progetto editore, 1995, pag. 3.
141- Cesare Brandi, Restauro-miracolo per il Duomo di Modena, in «Il Corriere della Sera», 2 settembre
1984, cit. da Cesare Brandi, Il restauro. Teoria e pratica, a cura di Michele Cordaro, Roma,
Editori Riuniti, 1994, pag. 230.
142- Giuseppe Zander, Un errore gravissimo nel campo del restauro: riportata come nuova la facciata di SS. Luca e
Martina, in «Palladio», n. I-IV, 1969, pag. 163.
85
Zander è una critica al metodo, alla tecnica usata? Il linguaggio che egli usa per
dimostrare la negatività dell’azione di restauro è di tipo dimostrativo o persuasivo?
Ebbene, ciò che colpisce è comunque l’approssimazione della presa di posizione sia
di chi compie il restauro, e questo è forse accettabile trattandosi spesso di tecnici
poco avvezzi alla teoria, ma soprattutto da parte di chi lo critica e, nel caso di Zander
e di Brandi, che partecipa alla polemica, può sorprendere. In effetti, a parte un
accenno defilato e generico alla non pericolosità delle patine presenti sulla chiesa, le
affermazioni di Zander sono da far ricadere nell’alveo delle affermazioni generiche
legate ad un linguaggio polemico e non certo discendenti da una rigorosa critica
legata a posizioni scientifiche o estetiche.
Leggiamo infatti: «… il travertino esposto nel centro della città al depositarsi delle
particelle incombuste mescolate al fumo […] si annerisce, perde il suo bel colore
caldo, quasi più non si riconosce. Ma l’edificio ragguardevole non è il solo ad
invecchiare; tutte le meno importanti case che gli sono compagne all’intorno
invecchiano in pari modo. L’ambiente, il rione del centro storico è soggetto ad uno
stesso fato, con qualche differenza che dipende dai materiali diversi: mentre i capelli
degli uomini imbiancano, i monumenti divengono neri.»143. Brandi sullo stesso restauro scrive
che «… senza ragione, senza utilità, senza criterio, si procedeva alla chetichella e a
tutto vapore alla drastica scartavetratura della splendida facciata di SS. Luca e Martina
che aveva nel suo travertino i riflessi di argento brunito e di peltro. […] è l’ultimo e
più indecente scempio, dopo la facciata della Minerva e la Torre del Quirinale, dipinta
in crema, pistacchio e fragoline di bosco.»144.
Ma questo argomentare che punta molto sulla verve polemica di chi scrive, non è più
legittimo di quello di chi è a favore della pulitura spinta e invoca la leggibilità
dell’immagine. Entrambi si basano, in questo senso, su affermazioni di gusto che si
equivalgono se diamo per scontato che nessuno, mai, ha compiuto un restauro
143- ibid. (il corsivo è nostro)
144- Cesare Brandi, La più bella chiesa di Pietro da Cortona. Sfregio al capolavoro., in «Corriere della Sera», 8
febbraio 1970.
86
ottenendo una configurazione finale non rispondente al proprio gusto, a quello del
committente e, spesso, della maggioranza delle persone.
87
2.2 LA
LACUNA NON REINTEGRATA: IL FRAMMENTO COME RICCHEZZA E IL
GUSTO PER LA COMPLESSITÀ
2.2.1 La “conservazione” tra storia e accettazione dell’immagine frammentata
«I nostri avi restauravano le statue; noi ne asportiamo i nasi finti e i
pezzi di protesi; i nostri discendenti, a loro volta, opereranno senza
dubbio in modo diverso. Il nostro punto di vista attuale rappresenta
a un tempo un profitto e una perdita. Il bisogno di ricreare una
statua completa, dalle membra posticcie, può essere dipeso in parte
dall’ingenuo desiderio di possedere e di esibire un oggetto in buono
stato, come porta in ogni tempo la semplice vanità dei possessori.
[…] I grandi collezionisti di cose antiche restauravano per pietà. E
per pietà, noi provvediamo a disfare la loro opera.»
Marguerite Yourcenar
L'articolo 11 della Carta di Venezia recita: «Nel restauro del monumento devono
essere rispettati i contributi validi nella costruzione di un monumento, a qualunque
epoca appartengano, in quanto l'unità stilistica non è lo scopo di un restauro.»
Quello che in apparenza sembra essere un chiaro richiamo al restauro come
semplice conservazione si rivela ancora una volta viziato da un atteggiamento che
non sa rinunciare, nell'avvicinarsi ad un edificio, ad esprimere giudizi di valore su di
esso e sulle parti che lo compongono. In effetti, ciò che va rispettato, per gli
estensori della Carta, sono unicamente i contributi “validi”, individuati tramite un
giudizio estetico o storico. Non solo, anche il tema della reintegrazione delle lacune
non può che passare da questa stessa strada. Già nel '44, infatti, Roberto Pane
scriveva: «...è possibile che basti al restauratore avere sensibilità e cultura di critico?
Se pensiamo che già la superficie di un intonaco e l'apparente neutralità di un tono
di raccordo possano impegnare il gusto creativo e che il più scrupoloso rispetto
delle migliori esperienze può portare, malgrado tutto ad un risultato negativo,
dobbiamo concludere che non bastano. Per quanto si possa procedere
88
esclusivamente sul cammino tracciato dagli elementi più controllati e sicuri, verrà
sempre il momento in cui sarà necessario gettare un ponte, operare una
congiunzione, e ciò potrà essere fatto soltanto grazie ad un atto creativo (...) Data
l'imprevedibile varietà dei casi particolari, appare chiaro che vi sarà modo di
compiere tutte le più diverse esperienze; da quelle del puro consolidamento ... sino
all'opera completamente nuova che dovrà sostituire la parte distrutta di una
fabbrica, creando un felice contrasto invece che una falsa imitazione.»145. In questo
modo Pane offre una definizione, probabilmente la prima, di “restauro critico e
creativo” che, nel dopoguerra, sarà ripresa da Renato Bonelli e radicalizzata nel
senso di un giudizio estetico come unico atto discriminante di un restauro che si
rivolge unicamente alle opere d’arte. Questo atteggiamento, la convinzione
profonda che sia necessario per il restauratore, oltre che per il critico e lo storico,
esprimere giudizi critici in fase di analisi e in fase operativa, è ciò contro cui si
battono i fautori di un'idea differente di restauro che comincia a delinearsi dagli
anni '70.
L'accento è immediatamente posto proprio sulla necessità di eliminare il giudizio
dall'orizzonte del restauro operando, in senso fenomenologico, una epoché che
permetta di eliminare, così almeno pare, quell'aporia di fondo che da Giovannoni in
poi tutte le carte del restauro si portano dietro.
Una delle prime enunciazioni della conservazione integrale la offre Marco Dezzi
Bardeschi, nel 1977, con la sua relazione al Convegno Il restauro in Italia e la Carta di
Venezia. Dezzi Bardeschi rileva in primo luogo come la cultura storica del momento
si caratterizzi per il fatto che «dalla critica qualitativa (selettiva “per valori”) si è
passati all'analisi quantitativa sul campo: se tradizionalmente per i monumenti la
molla privilegiata che ha reclamato e giustificato l'intervento è consistita nel giudizio
estetico (...) e nel riconoscimento del valore (cioè nella maggiore o minore
monumentalità della fabbrica), per il costruito diffuso è prevalentemente il processo
145- Roberto Pane, Il restauro dei monumenti, in «Aretusa», n. 1, 1944.
89
di degrado, sia della consistenza materica (cioè della fabbrica come cultura
materiale) sia dei valori d'uso intrinsecamente legati l'uno all'altro, a far scattare il
campanello d'allarme dell'intervento.»146. In questo senso viene meno l’interesse per
l’architettura come esempio della creatività artistica sostituito dall’interesse per
l’architettura come testimonianza di civiltà. Il tutto come riflesso, da un lato della
crisi dell’estetica definitoria risalente alla prima metà del secolo e, dall’altro, dello
sviluppo della storia quantitativa codificata dalla scuola degli “Annales”. Porre
l’attenzione sulla cultura materiale, sulla lettura delle tracce che l’uomo ha impresso
sul territorio senza limitarsi unicamente a ciò che è rimasto scritto, comporta una
modificazione profonda della prospettiva entro cui gli studi storici dell’architettura
si muovono, provocando l’incremento e l’allargamento d’orizzonte degli studi
archeologici che passano dall’interesse esclusivo per i reperti classici - dunque per lo
scavo - all’inclusione a pieno titolo nella disciplina di tutto ciò che è “elevato”, in
particolar modo i reperti d’epoca medievale.
Ma la componente più interessante di questo cambiamento di prospettiva è la
nascita delle nozioni di cultura di massa e di bene culturale147. Già alla fine degli anni ’50
il dibattito sulla cultura di massa è presente ed acceso soprattutto in ambito
statunitense148. Del 1964 è il saggio Apocalittici e integrati di Umberto Eco che è quasi
un compendio delle posizioni fino ad allora venute alla luce. Il tema è di grande
interesse e ci accompagnerà, da quel momento in poi, mettendo in luce due
posizioni differenti: chi vede nella cultura di massa, come oggi nella globalizzazione,
146- Marco Dezzi Bardeschi, Modi e tecniche della conservazione, in, AA.VV., Il restauro in Italia e la Carta
di Venezia, Atti del Convegno ICOMOS, Napoli-Ravello, 28 settembre-1 ottobre 1977, in
«Restauro», n. 33-34, 1977, pag. 87.
147- Sulla situazione in Italia scrive Paolo Torsello: «La nozione di “bene culturale” si diffonde
soprattutto agli inizi degli anni settanta e trova concomitanza in due eventi istituzionali: la
“Costituzione dell’Istituto per i beni artistici, culturali e naturali della Regione Emilia
Romagna” (1974) e l’istituzione del “Ministero per i beni culturali e per l’ambiente (1974)», in
La materia del Restauro. Tecniche e teorie analitiche, Venezia, Marsilio, 1988, pag. 33.
148- Sono di questo periodo saggi fondamentali come quello di Marshall McLuhan, The Guttenberg
Galaxy, e quello di Dwight McDonald, Against the american Grain, entrambi del 1962, in ambito
francese, L’esprit du temps, di Edgar Morin, anch’esso pubblicato nel 1962 e in Italia Le
oscillazioni del Gusto, e Il divenire delle arti, entrambi di Gillo Dorfles, del 1958 e 1959.
90
l’origine di ogni male e chi, all’opposto, ne afferma fortemente i vantaggi. Non è
possibile in questa sede dare neppure un breve accenno se non generalissimo a
questo tema ma ciò che ci interessa, in special modo, è il modo in cui questo
dibattito ha influenzato lo sviluppo del secondo concetto quello di bene culturale. Nel
testo di Eco, infatti, riprendendo le tesi di Edgar Morin viene schematizzata la
formazione di livelli differenti di valori estetici: «… da un lato l’azione di un’arte di
avanguardia, che non pretende e non deve pretendere alla immediata
comprensibilità, e che svolge azione di sperimentazione sulle forme possibili (…);
dall’altro un sistema di “traduzioni” e di “mediazioni”, talora con scarti di decenni,
per cui modi di formare (con sistemi di valori connessi) si ritrovano a livelli di più
vasta comprensibilità, integrati ormai nella sensibilità comune, in una dialettica di
reciproche influenze assai difficili a definire e che tuttavia si instaura attraverso una
serie di rapporti culturali di vario genere»149.
Riconosciamo il tentativo di dare un’interpretazione del meccanismo tramite il
quale si produce la possibilità di fruire esteticamente delle opere d’arte da parte di
un’enorme massa di persone, laddove in precedenza tale utilizzo era privilegio di
pochi. Anche Françoise Choay, nel suo saggio L’allegoria del patrimonio, riflette su
questo tema e sull’avvento del concetto di bene culturale e di patrimonio,
considerando i guasti che l’industria della cultura di massa ha provocato sui
monumenti. L’industria dei beni culturali ha la sua data di nascita ufficiale negli anni
Sessanta con la creazione del Ministère de la Culture e il suo uomo della provvidenza in
André Malraux che da avvio alla creazioni delle Case della cultura. Se da un certo
punto di vista questa “democratizzazione della cultura” appare positiva ed
auspicabile (fermo restando i mille interrogativi sul fatto se sia veramente la Cultura
con la maiuscola ad essere divenuta accessibile o unicamente un sottoprodotto
creato ad hoc per il palato della middle class), dall’altro ha portato alla creazione di
una vera e propria industria basata sulla richiesta crescente, da parte della classe
149- Umberto Eco, Apocalittici e integrati, Torino, Bompiani, 1964, (2001), pag. 54-55.
91
media, di fruire turisticamente delle opere d’arte, dei centri storici e dei beni culturali in
genere.
Un aspetto preminente della nascita dei beni culturali è dunque legato al loro
sfruttamento economico. La vicenda è sinteticamente esposta, nel 1977 da Roberto
Di Stefano che afferma che «Dal 1964 ad oggi (…), il concetto di bene culturale si è
andato sempre più estendendo con il risultato di comprendere una quantità sempre
crescente di oggetti e, in conseguenza, anche di grandi parti del territorio. (…) Con
l’aumentare (anche quantitativo) del patrimonio da tutelare, infatti, non basta più
che la conservazione sia attiva (cioè esercitata con impegno e partecipazione dei
pubblici poteri) ma occorre che sia anche perfettamente integrata nella vita della
collettività; vale a dire che l’azione di conservazione non può essere una qualsiasi
delle attività che svolge il sistema associato ma, per la sua importanza e dimensione,
deve costituire l’azione primaria e vitale della società stessa. (…) In tale ottica,
dunque, la conservazione è un’azione finalizzata alla utilizzazione di un bene
economico»150.
Già nel 1975, tra l’altro, il peso del turismo culturale era tale che l’ICOMOS ritenne
necessario studiare i mezzi per evitare il degrado provocato dalle attività turistiche e
pubblicare una Carta del Turismo Culturale che, comunque sia, sancisce che «Il
turismo è un fatto sociale, umano, economico e culturale irreversibile»151. A questo
punto l’industria dei beni culturali appare ormai avviata verso il suo naturale
approdo: quello del problema della valorizzazione di quegli stessi beni. È un termine
fortunato valorizzazione ma, forse proprio per questo, ambiguo poiché si riferisce ad
una serie eterogenea di azioni che vanno dalla salvaguardia alla tutela, dalla
conservazione al restauro, dal recupero alla modificazione della destinazione d’uso
giungendo ad accettare tutte le manomissioni necessarie allo sfruttamento completo
di un monumento in quanto “contenitore culturale”. Dunque, se dal punto di vista
150- Roberto Di Stefano, Sviluppo del concetto di conservazione, in «Restauro», n. 33-34, 1977, pag. 32-33.
151- Carta del Turismo culturale, in «Restauro», n. 36, 1978, pag. 85.
92
etimologico non dovremmo essere di fronte ad un atto teso ad aggiungere valore,
bensì, semplicemente, al «dispiegamento, rivelazione, tangibilità e comunicazione
del valore dato», ad una concezione del termine valorizzazione come «processo di
comunicazione»152, al contrario, nella pratica, si dimostra la forte tendenza a farlo,
particolarmente per quel che concerne i valori d’uso153. Tutto questo, associato
all’atteggiamento indicato più sopra da Di Stefano, ha portato a coniare termini
quale giacimento culturale che poco spazio lasciano alla fantasia e puntano diritto al
concetto di sfruttamento economico, facendo sì che «ricostituzioni “storiche” o
fantastiche, distruzioni arbitrarie, restauri camuffati, sono divenuti modi di
valorizzazione correnti»154.
«Ora, però, un po’ da tutte le parti spuntano legioni di “verdi”, associazioni
spontanee, soprattutto di giovani, le quali - andando controcorrente - agitano la
bandiera della conservazione e della tutela ad oltranza di ciò che è riconosciuto
irrinunciabile patrimonio comune»155, spostando l’attenzione «…da una storia
stilistica delle (belle e rare) forme d'Arte alla storia economica dell'uso sociale:
l'irrompere nella storia del mondo popolare subalterno agli inizi degli anni '50, col
trionfo del neorealismo, è parso irreversibile»156.
L’architettura, in questa nuova visione delle cose, non appare più il risultato di un
atto quasi magico, individuale, ma «il diretto risultato del lavoro materiale
dell’uomo, identificandosi quantitativamente con la stessa storia delle classi
152- Franco Borsi, Il restauro: una sfida mondiale?, Roma, Officina edizioni, 1996, pag. 63.
153- «approccio di conoscenza, semplice presa d’atto, contatto anche a livello prettamente turistico
di divulgazione con mezzi e tramiti informatici e mediatici. Insomma valorizzazione come, con
una orrenda parola si è detto, “fruizione”, cioè godimento, utilizzazione, presenza nel
quotidiano e nella vita comune del bene culturale non considerato come oggetto astratto,
codificato, distante, lontano, auratico ma come elemento di educazione, conoscenza,
partecipazione, vita» in Franco Borsi, Il restauro: una sfida mondiale?, Roma, Officina edizioni,
1996, pag. 63
154- Françoise Choay, L’Allegorie du Patrimoine, Paris, Ed. Seuil, 1992 (trad. it., L’allegoria del
patrimonio, Roma, Officina, 1995, pag. 141)
155- Marco Dezzi Bardeschi, Pratica della conservazione e cultura materiale: dalle tecniche di riconoscimento ai
cantieri sperimentali, 1978, sta in Restauro punto e da capo: frammenti per una (impossibile) teoria, a cura
di V. Locatelli (a cura di ), Milano, Franco Angeli, 1991, pag. 145.
156- Marco Dezzi Bardeschi, Archeologia della fabbrica e cultura materiale: immagine, realtà, destino, in
«Restauro», n. 38-39, 1978.
93
popolari, delle classi subalterne, fatta di pietra, calce e mattoni, con quella insomma
che Bloch ha chiamato storia dell’umile, silenzioso “lavoro senza gloria”
dell'operaio, quella storia che al contrario - finora - è stata "scritta" dalle classi
dirigenti, dalle classi aristocratiche, dalle élites al potere, o non è stata scritta
affatto»157.
La conservazione dunque nasce con una connotazione ideologica che non può
essere trascurata158. Principale obiettivo da abbattere è la cultura dominante che nel
campo artistico e del restauro, in particolare, significa cultura neo-idealista. I punti
salienti di questo primo periodo della cultura della conservazione sono: conflitto
con il pensiero “aristocratico”, con i retaggi di idealismo e il tentativo di costruire
costruzione una cultura diversa a servizio della massa, cultura democratica159 che
deve necessariamente fondersi su una storiografia che colga gli aspetti della realtà
fino a quel momento trascurati. Una storia delle classi subalterne ma anche una
storia dell'architettura come manufatto che è possibile far risalire non solo alla mente
di un «architetto da tavolino [ma] alle maestranze, all'operaio, all'artigiano che
all'opera danno corpo e forma»160.
L'immagine dell’architettura, in questo periodo, è quasi demonizzata, vista come
emblema di uno studio finalizzato unicamente alla formazione del giudizio di valore
157- ibid.
158- Scrive, inoltre, Dezzi Bardeschi: «Una tale rivoluzione della metodologia di lavoro per
l'architettura, comporta lo spostamento dell'attenzione dalle singole prestigiose, irripetibili
personalità creatrici (...) alle istituzioni, alla committenza, ai supporti e al cantiere: dalla storia,
dunque, delle classi e delle ideologie dominanti alla storia delle classi lavoratrici, delle strutture e dei mezzi
di produzione, alla storia insomma di quei beni materiali che, pur costituendo spesso le sole
tracce residue di sopravvivenza di una cultura, vengono tradizionalmente visti e usati con
sufficienza o distrazione come presenze e come testimonianze irrilevanti, come punti deboli
dell'armatura morfologica della città e del suo territorio», in Archeologia della fabbrica e cultura
materiale: immagine, realtà, destino, in «Restauro», n. 38-39, 1978.
159- «L'architettura così ha cominciato finalmente ad apparire come il diretto risultato del lavoro
materiale dell'uomo, identificandosi quantitativamente con la stessa storia delle classi popolari,
delle classi subalterne, fatta di pietra, calce e mattoni, con quella insomma che Bloch ha
chiamato la storia dell'umile, silenzioso “lavoro senza gloria” dell’operaio, quella storia che al
contrario – finora – è stata “scritta” dalle classi dirigenti, dalle classi aristocratiche, dalle élites al
potere, o non è stata scritta affatto.», Marco Dezzi Bardeschi, Archeologia della fabbrica e cultura
materiale: immagine, realtà, destino, in «Restauro», n. 38-39, 1978.
160- Marco Dezzi Bardeschi, Restauro: costruire, distruggere, conservare, in «Rinascita», n. 39, 1976.
94
che, nel caso del restauro, è usato per individuare il tipo di intervento.
L'opposizione è rivolta sia verso l’attività critica dello storico dell’architettura sia
verso l’opera del restauratore sentite entrambe come prevaricazione del pensiero del
singolo sul molteplice.
La posizione anti-idealista si precisa laddove si evidenzia il riconoscimento della
dignità di qualunque segno, anche non progettato, lasciato sulla fabbrica. Anzi,
proprio questi segni inconsapevoli sono quelli che raccontano l'inedito e cioè
qualcosa che non sarà mai possibile rintracciare in alcun archivio tradizionale. In
questa prospettiva, ciò che devo tramandare e dunque conservare integralmente è la
quantità dei segni tracciati e questi assumono valore non per un’imposizione
taumaturgica del critico ma per il solo fatto di essere, hic et nunc. Qualunque
modifica progettata sarebbe in ogni caso d'élite e in quanto tale si posizionerebbe in
una sfera della storia estranea a quella che in questo momento si vuole tracciare.
Ritornerebbe ad essere storia aristocratica che, inoltre, con il suo insistere
sull’edificio non può che annullare tracce comunque più significative.
In questi anni, fino ai primissimi anni '80, troviamo questi concetti espressi con il
linguaggio della polemica e della contrapposizione ma proprio all'esordio del nuovo
decennio si assiste alla prima di numerose polemiche che coinvolgeranno
importanti studiosi stimolando i conservatori a riflettere sui principi teorici della
propria posizione. È proprio del 1980 una serie di articoli che prendono l’avvio dal
saggio Ricchi apparati e povere idee pubblicato su «Op. Cit.» da Renato De Fusco161 al
quale controbattono Salvatore Boscarino162, Renato Bonelli163 e Amedeo Bellini164
161- Renato De Fusco, Ricchi apparati, povere idee, in «Op. Cit.», n. 49, 1980, pagg. 5-16.
Ciò che dà avvio alla polemica è la presa di posizione dello storico per il “restauro attivo”, ossia
«una forma di conservazione che esprime al tempo stesso e nel modo più flagrante le idee e le
esigenze del nostro tempo». Questa posizione comporta una rifondazione teorica del restauro
che metta a fuoco «anzitutto i criteri di individuazione, di causalità e di scelta (operazioni tutte
pertinenti alla storia) da adottare in presenza dell’opera da restaurare; (…) In altre parole,
penso all’indagine storica come momento primario dell’attività di restauro». Una indagine
storica che si potrà sviluppare secondo quattro direttive metodologiche fondamentali:
«formalistica, sociologica, iconologica, semiologica o strutturalista».
162- Salvatore Boscarino, Il restauro architettonico tra idee ed apparati, in «Restauro», n. 51, 1980, pag. 9298. Lo studioso accetta l’impostazione metodologica di De Fusco e prende posizione
95
che si confrontano su un concetto centrale della disciplina: il rapporto con la storia
e in particolare con il giudizio storico. Ma è nella seconda metà fine degli anni
Ottanta che se ne precisano le coordinate culturali. Si può scorgere allora, negli
scritti degli studiosi che si occupano di riflettere sulla teoria del restauro165 e della
conservazione in particolare, l'esigenza
di compiere riflessioni che non siano
finalizzate alla risoluzione di problemi o al confezionamento di risposte
pericolosamente univoche ma che, piuttosto, diano luogo alla definizione di nuovi e
scegliendo una delle direttive: «Personalmente ritengo che (…) quella semiologico-strutturalista
sia la più conveniente ai processi operativi di restauro per la capacità di far emergere attraverso
lo studio dei segni le parti costituenti, le parole del discorso architettonico, i loro caratteri
invarianti che sono poi le “cose” che il Restauro alla fine deve conservare attraverso le
operazioni tecniche e quelle di riuso. Occorre una storiografia che non privilegi quello che si
vede ma il processo strutturale, che fatalmente si invera in quello costruttivo, quello d’uso e
quello delle modificazioni nel tempo».
163- Renato Bonelli, Storiografia e Restauro, in «Op. cit.», n. 50, 1981, ripubblicato in «Restauro», n. 51,
1980, pagg. 83-91.
Dopo aver affermato che sia il restauro critico sia gli scritti di Cesare Brandi mettono in primo
piano l’importanza dell’indagine storica, Bonelli afferma essere necessario un ulteriore atto
critico precedente all’analisi e al giudizio storico, atto che, riferito direttamente all’oggetto da
restaurare, lo considera in quanto opera d’arte, «quale immagine figurata e cioè quale
configurazione visibile». Bonelli pone in primo piano il prevalere dell’istanza estetica su quella
storica e sposta il nodo teorico dell’interpretazione storico-critica sulla ricerca di un «altro
metodo idoneo ad assicurare una lettura critico-valutativa per immagini, senza indebite
intrusioni da parte di interpretazioni per concetti.»
164- Amedeo Bellini, Ricchi apparati e povere idee, in «Restauro», n. 51, 1980, pagg. 67-82. Lo studioso
milanese mette in discussione il principio stesso del ragionamento di De Fusco e in generale di
tutti i partecipanti al confronto disciplinare in atto. Finalità dell’indagine storica non deve
essere quella di giungere ad un giudizio che funga da retroterra giustificativo all’atto operativo.
Al contrario, «primo scopo dell’indagine storica ad hoc è l’esame dei fatti che materialmente
hanno prodotto e modificato l’edificio; è l’analisi della somma delle vicende costruttive e d’uso,
delle relazioni tra vicende d’uso e trasformazioni. Storia che non deve tradursi in
generalizzazioni, astrazioni, fondazioni ideologiche, ma in conoscenza fisica, in provvedimenti
tecnici il cui grado di “certezza” è soltanto quello probabilistico che è proprio delle scienze
sperimentali ma che proprio la riflessione critica guida».
L’argomento verrà poi ripreso dall’autore nel saggio Istanze storiche e selezione nel restauro
architettonico, in «Restauro», n. 68-69, 1983, pagg. 147-158.
165- Sono pubblicati in questo periodo: di Amedeo Bellini, Teoria del restauro e conservazione
architettonica, che apre il volume Tecniche della conservazione, del 1986, La superficie registra il
mutamento perciò deve essere conservata, del 1990, il libro di Paolo Torsello La materia del restauro del
1988, i saggi di Dezzi Bardeschi su «Domus» e su «Recuperare» in cui la parola conservare
appare quasi ossessivamente nei titoli: Saper conservare per poter innovare, Conservare, non riprodurre il
moderno, Conservare e non manomettere l’esistente, fino alla raccolta del 1991, Restauro punto e da capo:
frammenti per una impossibile teoria, lo scritto di Giovanni Carbonara Restauro tra conservazione e
ripristino: note sui più attuali orientamenti di metodo, del 1990, i saggi di Francesco La Regina,
Restaurare o conservare, la costruzione logica e metodologica del restauro architettonico, del 1984, e Come un
ferro rovente, cultura e prassi del restauro architettonico, del 1992.
96
inediti campi di riflessione che dalle domande di partenza facciano sorgere ulteriori
domande, in un gioco di rimandi e di infinita acquisizione di conoscenza. Si legge la
realtà alla ricerca della sua struttura, dei segni e delle tracce che la denotano, si
sviluppano le interpretazioni e si teorizza che queste siano infinite, si percorre la via
dei giochi linguistici al fine di scoprire campi inediti e inattesi della riflessione, non
ci si pone come obiettivo il giungere a conclusioni definitive, lasciando, al contrario,
l'apertura alle possibili repliche, al conflitto, alla partecipazione. Il restauro si
configura come un atto strettamente tecnico che salvaguarda il testo su cui
continuare l'interpretazione e l'apprendimento166.
Un articolo del 1989 di Dezzi Bardeschi167 ci permette di elencare i riferimenti
culturali che in quegli anni si sono venuti chiarendo all'interno della conservazione,
e in particolare i temi:
- della complessità, mutuato dalla riflessione in campo epistemologico;
- del "pensiero debole" e in generale della riflessione sul post-modern;
- dell'ascolto e della pietas verso il quotidiano e l'esistente;
- dell'elogio della diversità;
- della morte della scienza classica e della sua razionalità;
- della morte dell'estetica;
- dell'elogio del sospetto.
A questi si accompagnano le fondamentali acquisizioni in campo metodologico che
provengono da diverse discipline quali l'archeologia dell'elevato, la storia
quantitativa, lo strutturalismo, la semiologia.
La posizione conservativa riflette anche sull’ormai tradizionale problema della
reintegrazione delle lacune168. L'architettura è vista dalla cultura della conservazione
166- «Il Restauro non è, dunque, materia da concludere, ma momento di ricerca e di aperture». Così
B. Paolo Torsello conclude il suo libro La materia del restauro, Venezia, Marsilio, 1988, pag. 202.
167- Marco Dezzi Bardeschi, Semplice/ Complesso/ Irriducibile: verso nuove disciplinarità, in Carolina Di
Biase, (a cura di), Nuova complessità e progetto dell’esistente, Milano, Franco Angeli, 1989.
168- Si vedano in particolare gli atti dei due convegni tenutisi nel 1997: Maria Margarita Segarra
Lagunes (a cura di), La reintegrazione nel restauro dell’antico. La protezione del patrimonio dal rischio
sismico, Atti del seminario di studi Paestum 1997, Roma, Gangemi editore, 1997, e G.
97
come oggetto complesso e stratificato che non contempla la possibilità che si dia
una lacuna se non nell'accezione di mancanza. Infatti, in una visione dell'architettura
come oggetto che assume valore dai segni che la rendono significante, tutte le tracce
appaiono necessarie nella stessa misura e rimandano a un senso di completezza che,
tuttavia, non va più intesa nel senso classico ma in quello di compresenza e
salvaguardia della loro reciprocità finalizzata alla leggibilità del succedersi cronologico
degli eventi. Questo perché la ricostruzione dei possibili testi non è più
univocamente fattibile, come si credeva in passato: la comprensione, se è possibile
parlare di questo, è destinata ad essere solo parziale e contingente. Dunque giudizio
e comprensione si separano poiché non è più immaginabile univocità tra
comprensione vera e unica e il giudizio correlato: i giudizi possibili sono infiniti come
infinite sono le comprensioni.
In quest'ottica la lacuna assume un’ulteriore valenza: non più solo mancanza, ma
occasione di conoscenza. Sia nel caso in cui si agisca coscientemente operando
distruzioni alla ricerca di configurazioni precedenti, direttamente alla ricerca di ciò
che non si vede, sia nel caso in cui questa scoperta avvenga accidentalmente
(pensiamo ad una grossa porzione di intonaco che si distacchi da una facciata
neoclassica rivelando con la sua mancanza un tratto riconoscibile di quella che era
una bifora trecentesca), possiamo parlare di lacuna come “indizio di un percorso”.
Siamo di fronte, in questo caso, a un curioso rivolgimento: ciò che nasce come
lacuna del testo ultimo si rivela essere segno prorompente, evocativo di un altro
testo più antico che ha continuato ad esistere al di sotto della più recente pelle. Da
sempre è stato difficile resistere alla tentazione di eliminare la lacuna e completare la
facciata medievale, aiutati in questa scelta dalla possibilità di esprimere un giudizio
estetico sfavorevole verso il testo ultimo e allo stesso tempo essendo portatori di un
Biscontin, G. Driussi (a cura di), Lacune in architettura. Aspetti teorici e operativi, Atti del Convegno
di Bressanone, Marghera-Venezia, Arcadia ricerche, 1997.
98
valore storico che, non accompagnato da un problema di autenticità della materia,
permetteva di ricostruire la facies medievale del monumento.
Il nostro secolo ha usato la lacuna anche come elemento evocativo, come segno che
ha il compito di far affiorare alla superficie ciò che si cela dietro l'ultima
configurazione. E se questo atteggiamento di presa di coscienza verso l'importanza
del “palinsesto” era già chiaro, come si è visto, in Giovannoni, il restauro tipologico
giunge fino al punto di ricreare quello stesso palinsesto. In questo caso la lacuna si
trasforma in un vero e proprio frammento evocativo che fa scattare il meccanismo
dell'immaginazione che rintraccia da quei semplici segni un racconto che testimoni
dell'Idea, della verità del restauratore. Non ci si discosta poi molto dalle posizioni
ottocentesche: anche in questo caso siamo di fronte ad un concetto di verità
sganciata dalla processualità della trasformazione temporale, che si erge a metro di
giudizio e che permette la modificazione dello stato di fatto. La verità del restauro
tipologico è il Tipo, valore che una volta ricavato con un procedimento critico, è atemporale e può essere usato per rendere vero e significativo un oggetto.
«...Caniggia non era (...) disposto a concedere che il singolo atto edilizio, mai
ripetuto e dunque estraneo al tempo lungo dei processi tipologici, potesse avere
tanto interesse da dover essere conservato; e che qualsiasi oggetto edilizio non
potesse essere riprodotto attraverso un atto tecnico analogo»169. Le facciate degli
edifici da lui restaurati170 divengono testi stratificati, in cui dalla facies che ci era
pervenuta vengono estratti, tramite l'apertura di varchi in punti significativi, quei
segni che fanno leggere l'evoluzione tipologica dell'oggetto.
Ma la conservazione si fa portatrice di un modo differente di guardare alle lacune,
non più soggetto passivo delle costruzioni teoriche altrui ma attivamente
169- Stefano Della Torre, La speranza di un divenire organico del nostro mondo. Gianfranco Caniggia e la città
di Como, in “’ΑΝΑΓΚΕ”, n. 9/1995.
170- Ricordiamo che Paolo Maretto nel 1960 scriveva. “... Così quando noi restaureremo una casa
veneziana saremo portati a intuirne e a ricrearne l’immagine originaria, comprendendone e
reintegrandone quei contenuti distributivo-strutturali che, per i valori spirituali che
rappresentano, danno all’immagine estetica pienezza e vitalità di forma artistica ... ” Paolo
Maretto, L’edilizia gotica veneziana, in “Palladio”, n. III-IV, 1960
99
disvelatrice di conoscenza. Se, infatti, è possibile, a partire da determinate premesse
(verità come conformazione, giudizio e comprensione univoci) manipolare (riprodurre) un
oggetto al fine di renderlo “vero”, accade anche che, cadute quelle stesse premesse
questa manipolazione non sia più pensabile.
Non possedendo un'idea unica e forte a cui conformarsi, si creano infinite idee
generali partendo dall'analisi e dall'interpretazione dei singoli particolari che
compongono l'oggetto stesso. Questo fa sì che un particolare, discordante rispetto
al tutto, non faccia entrare in crisi il sistema generale ma introduca semplicemente
un motivo ulteriore di riflessione e induca al ripensamento, invece che all'istinto di
omologazione (come avveniva in passato) e alla sua eliminazione in quanto
“errore”. Da questo ordine di idee discende la necessità di salvaguardare la
presenza, sempre e comunque, di tutti i particolari in quanto, ogni volta, la
coscienza ne prende in considerazione solo alcuni tra gli infiniti possibili e, di
questi, solo un aspetto tra gli infiniti. Imponendo un unico significato ad un
particolare, tramite la riproduzione o comunque con la modificazione portata da un
restauro, inevitabilmente si agirebbe sul tutto. La lacuna allora è vista come
elemento di infinito auto-disvelamento.
Un elemento in ogni caso rimane estraneo alla cultura della conservazione:
qualunque riferimento all'immagine e alla configurazione che l'oggetto del proprio
intervento viene ad assumere.
In effetti, l'aver posto come base del proprio riflettere l'eliminazione del giudizio
estetico dall'orizzonte conoscitivo, in apparenza offre garanzie sul fatto che tutto il
discorso sulla pelle, sulla superficie percettiva dell'edificio possa essere trascurato.
Non ponendolo come punto di partenza dell'operare si pensa sia possibile
disinteressarsene del tutto. Rimane però il fatto che l'edificio, comunque trattato,
possiede una sua immagine e la mantiene o la vede modificata dall'intervento di
restauro. E quell'immagine è ciò che i fruitori, i committenti, gli sponsor,
100
percepiscono in prima battuta di fronte all'edificio; tutto il resto è posteriore e
dunque influenzato da questo primo impatto.
Questo anche nel caso, improbabile, in cui un edificio dopo il restauro apparisse
non modificato. La sua immagine sarebbe in ogni caso percepita come nuova,
perché derivante da una scelta, da un progetto (e in effetti così è, la scelta di non
modificarla) e dunque verrebbe giudicata secondo i parametri del gusto del
momento. In questo senso la frase di Paolo Marconi «... la cura per l'involucro
esterno, a causa di un’esasperata tecnicizzazione dei problemi ad essa connessi,
rischia di perdere contatto con il problema capitale, che è poi quello del risultato
estetico dell'operazione conservativa»171 è vera ma in un senso diverso da quello che
intendeva lo studioso romano. Il fatto di non voler riflettere sull'impatto estetico
dell'operazione conservativa può provocare una mancata presa di coscienza del
problema e dunque un’incapacità di evidenziarne i possibili lati positivi che esso
nasconde.
171- Paolo Marconi, Arte e cultura della manutenzione dei monumenti, Roma- Bari, Laterza, 1984.
101
2.2.2 LA FORTUNA DEL FRAMMENTO TRA ROMANTICISMO E POST-MODERNISMO
«È come se la verità si riproducesse nei mille frammenti
in cui esplode uno specchio»
Theodor W. Adorno
Abbiamo visto come nella seconda metà del XX secolo, nel dibattito sul restauro,
venga portata in primo piano la possibilità del non reintegro delle lacune e, con essa, la
caduta della necessità della ricomposizione estetica di un monumento finalizzata
all’unità figurale. Ciò significa, almeno in parte, che l’immagine dell’architettura così
come è giunta fino a noi, con tutto il suo valore dell’antico, pare incontrare il gusto di
alcuni restauratori, di alcuni committenti e di parte del pubblico. Qualcosa si è
modificato e questo ha significato, ad esempio, cominciare a proporre il restauro degli
intonaci finalizzato al solo consolidamento e reintegrazione locale, piuttosto che al
sistematico rifacimento: fino a giungere all’esplicita presa di posizione riguardo al non
risarcimento delle lacune.
In generale è possibile dire che sia venuta meno la fiducia nella possibilità di
rintracciare una unità, sia essa stilistica, scientifica, storica, o ermeneutica. Questo ha
provocato nei teorici del restauro l’incapacità di prefigurare letture complessive e
deterministiche della realtà, in linea con la condizione che Lyotard chiama postmoderna
e, aggiungo, lo svilupparsi di un gusto per i complessi sistemi di segni e di tracce che
circondano.
Già nel 1966 Robert Venturi iniziò il suo Complessità e contraddizione con la frase: «Io
amo gli elementi che sono ibridi piuttosto che “puri”, quelli di compromesso piuttosto
che quelli “puliti”, contorti piuttosto che “articolati”, corrotti quanto anonimi, noiosi
quanto interessanti, convenzionali piuttosto che disegnati, accomodanti piuttosto che
esclusivi, ridondanti piuttosto che semplici, tradizionali quanto innovatori, incoerenti
102
ed equivoci piuttosto che chiari e diretti. Io sono per il disordine pieno di vitalità più
che per l'unità ovvia; accetto il non sequitur e proclamo la dualità.»172
Questo è solo un esempio delle profonde modificazioni alle quali abbiamo assistito
negli ultimi decenni del XX secolo e che si sono ripercosse su tutti i campi della
cultura portando, come già detto, al rifiuto di qualunque costruzione unitaria e globale
(come ancora era la visione modernista) e dunque al ripiegamento verso un
relativismo, forse un po’ pessimistico, ma che d'altra parte affina la sensibilità verso la
diversità e il contrasto delle cose e delle forme. Processo, questo, che porta
all'accettazione del non finito, del non omogeneo, del frammentario, della continua
interpretazione,
della
coesistenza,
dell'inclusione
contro
l'esclusione,
della
giustapposizione e sovrapposizione, del contraddittorio, del caotico e vitale.
Una frammentazione che rintracciamo già nel tardo Settecento e che si manifesta in
un certo indugiare sul frammento, ma sempre visto come una parte che appartiene ad
un tutto e che al tutto fa riferimento in un rimando continuo, di tipo evocativo. Anche
quando il frammento assume una sua autonomia estetica, questo avviene sempre in
modo patologico, anche se affascinante, mettendo in campo costantemente il
sentimento del sublime. Nel Novecento, come abbiamo visto nel primo capitolo il
problema della frammentazione coinvolse ogni sfera dell’umano173, e possiamo
schematizzarlo nella rottura dell'unità dell'essere (a partire dagli studi psicanalitici di
172- Robert Venturi, Complexity and contradiction in architecture, New York, The Museum of Modern Art,
1966 (trad. it. Complessità e contraddizioni nell’architettura, Bari, Dedalo, 1980).
173- «Ed ecco, allora, la “medicina” necessaria: occorre sbarazzarsi del Tutto, dell’Unità,
dell’incondizionato – di tutto ciò che non potrebbe, alla fine, essere detto che “Dio”. “Bisogna
mandare il tutto in frantumi. Man muss das All zersplittern” (Frammenti postumi, 1887-88, 11-74).
La parte “serva” al Tutto si libera del proprio antico Signore, denunciando l’infondatezza del suo
dominio, della sua arché.. La parte non viene “salvata” nell’abbraccio del Tutto, ma imprigionata in
esso: occorre riprendere “per le cose prossime e nostre ciò che abbiamo dato all’ignoto e ala
tutto” (ibidem). Il Tutto è l’ignoto e la sua “idea” offende la integrità, la bellezza, la salute delle cose
concrete, delle parti – cioè il loro essere interi. Mantenere il Tutto è mantenere tutti i grandi ed
irrisolvibili problemi, condannarci eternamente al gioco delle antinomie. È necessario guarire
totalmente (…) del Tutto. L’incantamento del Tutto, mutila l’esistenza della parte. Perché la parte
viva, l’idea del Tutto va ridotta in frantumi.» Massimo Cacciari, I frantumi del tutto, in «Casabella», n.
684-685, 2001, pag. 6.
103
Freud); rottura dell’unità dello spazio; rottura dell’unità del tempo. Questa condizione
esistenziale diventa senso comune nell’ambito del pensiero occidentale solo nella
seconda metà del XX secolo. A differenza dall’interesse romantico ma sempre
angosciato per il frammento, nel Novecento assistiamo ad una accettazione piena che
non rimanda ad un “tutto” andato perduto. Il frammento è autonomo e da esso è
possibile un rimando ad ulteriori frammenti ma senza necessità di correlazioni.
Sovrapposizioni, giustapposizioni, intrecci ed unioni non compongono mai un
“completo” ma diversi e sempre implementabili orizzonti di significato. La
frammentazione, di conseguenza, viene vissuta come possibilità di continua
conoscenza, intesa come interpretazione, di più, come somma di interpretazioni
sempre differenti che danno conto della complessità delle cose e delle visioni del
mondo di ciascun interprete. In questo senso, dunque, la tendenza alla
frammentazione non è più vissuta con senso di angoscia, come patologia del
moderno, ma come possibilità ulteriore data all'interprete per individuare non la verità,
ma le possibili regioni di verità all'interno delle quali possa darsi un discorso di una
certa coerenza. Frammentazione naturalmente significa anche immagine frammentata
e non solo frammenti di significati. Vediamo allora come è vissuto, nel restauro,
questo ulteriore passaggio che sembra voler abbandonare del tutto la tendenza
all’unità.
abbiamo visto come la cultura della conservazione in una prima fase (fine anni ’70 e
per tutti gli anni ’80) metta in primo piano la chiarificazione del suo interesse per
l’aspetto contenutistico e per il portato culturale-sociale dell’architettura, ponendo in
secondo piano l’immagine. Su questo sentire si innesta la cultura del postmodernismo
che solo negli anni Ottanta comincia ad uscire dalla cerchia degli specialistici
diventando, in particolar modo nella cultura architettonica, un importante punto di
riferimento. I temi del postmoderno, trasfusi nel pensiero intorno alla conservazione,
si accompagnano ad una precedente acquisizione critica che vede lo studio
104
dell’architettura legata strettamente alla metodologia strutturalista e semiologia e alla
definizione di architettura come testo (contro un Brandi che la rifiuta174), che allontana,
una volta di più, l’approccio formale classicamente inteso, puntando l’attenzione su
struttura, langue, parole, sintagmi, segni, tracce, significanti e significati. Parlare dell’edificio
diviene fare esercizio ermeneutico, interpretarlo, coinvolgerlo in giochi linguistici che
ne permettano la problematizzazione e la risemantizzazione. In questa prima fase,
coincidente con i primi anni Ottanta, ancora non troviamo tracce dell’influenza che la
cultura della frammentazione e dunque del gusto per il non finito, per il degradato, per il
rottame175 che per diverse tendenze artistiche in quegli stessi anni appare portatrice di
possibili nuovi valori estetici.
Difatti Dezzi Bardeschi proprio per allontanare quello che, probabilmente, sente come
un pericolo di deriva estetizzante, dichiara fermamente di essere contrario a: «…
questa che poi è la condizione prevalente dell’arte contemporanea, una condizione
eccessivamente rapsodica, legata alla poetica personale, disperata del frammento»176
mentre punta l’attenzione sul concetto di particolare, che «reclama sempre
continuamente il confronto, non è un’isola felice, rimanda, e non può non rimandare,
ad altro o ad altri particolari accanto a sé. È il concetto di evoluzione, di catena di
sviluppo, che ha bisogno di non perdere alcun anello.»177. Questa è una tensione che
174- «Se l’essenza del linguaggio sta nella comunicazione, l’essenza dell’architettura non si rivela nella
comunicazione. La casa non comunica d’essere una casa, non più di quanto la rosa comunichi di
essere una rosa: la casa, il tempio, l’edificio termale si pongono, si rendono astanti o come realtà di
fatto o come realtà d’arte, ma non sono tramite di comunicazione: solo in via secondaria
trasmetteranno delle informazioni. (…) In secondo luogo è essenziale, perché si abbia una lingua,
la doppia articolazione. (…) Se manca la doppia articolazione non c’è analogia fra architettura e
lingua. (…) I messaggi che [l’architettura] può convogliare e trasmettere secondariamente non
sono sufficienti a indiziare come semiotica la sua essenza». Cesare Brandi, Struttura e architettura,
Torino, Einaudi, 1967, pagg. 39-41.
175- cfr. ad esempio, Renato Barilli, L’arte contemporanea. Da Cézanne alle ultime tendenze, Milano,
Feltrinelli, 1984, F. Poli, Minimalismo, Arte povera, arte concettuale, Roma-Bari, Laterza, 1995, L.
Vergine,(a cura di), Quando i rifiuti diventano arte, Milano, Electa, 1997, Ave Appaino, Estetica del
rottame. Consumo del mito e miti del consumo nell’arte, Roma, Maltemi, 1999.
176- Marco Dezzi Bardeschi, Semplice/ Complesso/ Irriproducibile: verso nuove disciplinarità, in Carolina di
Biase (a cura di), Nuova complessità e progetto dell’esistente, Milano, Franco Angeli, 1989.
177- ibid.
105
rimarrà in primo piano anche successivamente e continua a caratterizzare la
conservazione, come vedremo nel capitolo successivo.
Ma la capacità di separare la tensione verso la frammentazione dall’interesse per il
particolare risulta sempre più arduo, in particolar modo per la nuova generazione che
difficilmente può sottrarsi - in quanto base della propria visione del mondo all’influenza di questo approccio alle cose178. E questo soprattutto in una fase in cui la
conservazione ha sostituito la propria spinta ideologica originaria con uno sviluppo
forte della ricerca orientata verso la operatività e la messa a punto di norme e codici di
comportamento che in qualche modo istituzionalizzino il modus operandi
conservativo contro quello restaurativo. Infatti pur giungendo ad accettare e in seguito
a proporre alla comunità dei restauratori alcuni dei temi che caratterizzano il problema
della frammentazione – in particolar modo l’impossibilità di costruire una teoria
sempre valida e il fascinoso argomento delle infinite interpretazioni e delle regioni di
verità – la conservazione pare essersi fermata sulla soglia del “cambiamento di
paradigma” rappresentato da questa visione caleidoscopica e caotica delle cose, alla
quale sembrano essere inevitabilmente sensibili alcuni gli studiosi più giovani, anche
solo per essersi formati in questo clima.
Esiste allora una differenza tra chi ha sviluppato un interesse teorico rispetto alla
lettura della realtà legata al problema della frammentazione e chi, di questa condizione,
è figlio. Questi ultimi non usano la frammentazione unicamente come strumento di
analisi e di interpretazione del mondo. Essa è un modo di vederlo e dunque di
percepirlo e di giudicarlo. In questo modo si è passati dall’interesse per il frammento al
178- Il particolare fa in ogni caso riferimento al concetto di unità, di intero: «“Particolare” è ciò che
attiene alla parte. Noi possiamo attribuire alla parte “particolari” qualità. Ma che cos’è la parte?
Come definirla? Nel libro V della Metafisica Aristotele ne elenca i seguenti significati: si dice parte
(méros) ciò in cui una quantità (posón) viene suddivisa; ciò in cui la forme (eidos) può essere
suddivisa, a prescindere dalla quantità; ciò di cui l’intero è composto; ciò in cui il logos, il discorso
che esprime una cosa si suddivide (1023b 12-25). (…) La parte non è perciò un “pezzo” , e
suddividere in parti è l’opposto di “fare a pezzi”. “Analizzare” un intero nei suoi elementi
costitutivi significa piuttosto riconoscerne la “salute” e volerlo in essa “conservare”.» Massimo
Cacciari, I frantumi del tutto, in «Casabella», n. 684-685, 2001, pagg. 5.
106
gusto frammentario, all’eclettismo caleidoscopico odierno. Tutto ciò, all’interno della
cultura della conservazione, aggiunge alle acquisizioni culturali precedenti un ritorno
d’interesse per temi che riguardano la sensazione, la percezione, l’immagine. E oggi
infatti è possibile scrivere una frase di questo tipo: «… la città è la stratificazione, è la
densità del racconto, tutti i colori le appartengono e la costituiscono. (…) La materia
degradata, i colori casualmente sovrapposti possono dare un’emozione che è un privilegio saper
cogliere»179.
Vi si ragiona di emozioni date dall’edificio degradato, si descrive ciò che si prova in
seguito ad una esperienza di tipo percettivo, visivo, si descrive un sentimento
provocato dall’immagine dell’edificio.
L’immagine rivendica nuovamente la sua presenza e l’impossibilità di essere negata e
messa da parte; la nostra necessità di inserirla tra le variabili da considerare non ci
permette di esercitare, con essa, quella epoché di cui è possibile valersi per evitare di
esprimere giudizi estetici o storici.
Della Torre va oltre, e si chiede come mai «la comune sensibilità non fatica più ad
accettare, forse anche ad apprezzare, gli elementi in pietra corrosi e lacunosi, mentre
non accetta di vedere gli intonaci fissati, comunque precariamente, in una immagine
composta di scrostature, dilavamenti, rappezzi. Perché? Qual è la differenza tra i due
materiali?»180 Lo studioso cerca di dare una risposta a questi quesiti inseguendo
spiegazioni razionali che migrano dal campo del giudizio di gusto, dall’apprezzamento
del «mi piace, non mi piace» a quello del pensiero rigoroso, inserendo nel discorso il
tema dell’autenticità. Laddove alla pietra si riconosce valore di autenticità, anche se
degradata, «all’intonaco invece questo valore di solito non viene riconosciuto, a meno
che si tratti di un affresco, o comunque che sia decorato»181. Ma questa risposta non
179- Stefano Della Torre, Colore o spessore, in Donatella Fiorani (a cura di) Il colore dell’edilizia storica, Roma,
Gangemi editore, 2000.
180- ibid.
181- ibid.
107
soddisfa Della Torre che infatti si chiede: «eppure un vecchio intonaco tradizionale col
degrado acquista nuovi valori di colore e di texture: anche gli intonaci antichi hanno
uno spessore, che potrebbe consentire loro di invecchiare fascinosamente»182. Continua
il salto logico dal piano del gusto a quello razionale. Questo argomentare non può
portare risposte definitive: si provano dei sentimenti, si danno giudizi di gusto, si parla
di colore, texture, fascino e poi si cerca legittimazione non in un discorso che si occupa
di immagine e di gusto bensì di contenuti veritativi, e di autenticità.
Una cosa appare, in ogni caso, chiara: l’approccio al costruito non può più
disconoscere «le attenzioni di ordine percettivo e critico» che sono dovuti al
monumento ma soprattutto alla comunità che ne fruisce e questo deve far riflettere sul
progetto di conservazione che deve assumersi la responsabilità oltre che della
permanenza dei segni e delle tracce storiche, dell’aspetto finale dell’edificio, del suo
decoro. Della Torre cerca una via per perseguire tutto ciò facendola «….coincidere
anche soltanto con una esibizione della cura»183.
Questa riflessione ci porta direttamente al secondo corno del problema, altrettanto
affascinante, che riguarda come il concetto di non-restauro, la conservazione integrale,
sia stata accolta dal pubblico e, altresì, quali siano le influenze che ne hanno permesso
la accettazione, almeno parziale. Certamente questa accettazione(che nell'ultimo
decennio comincia faticosamente ad aumentare) proviene dall’esterno, dai canali
chepiù facilmente modellano e modificano il gusto dominante, dalla pubblicità, dai
rotocalchi, anche dalle scenografie degli spettacoli televisivi o dei set cinematografici.
Dalla diffusione di mode come quella del minimalismo dell'arredamento "finto
degradato" (lo shabby chic new yorkese), del revival nell'abbigliamento e nella musica.
Riflettiamo, a questo proposito, su ciò che vediamo tutti i giorni sulle pagine delle
riviste. L'atteggiamento prevalente è quello di creare un’esperienza estetica fondata sui
182- ibid.
183- ibid.
108
segni del tempo. Il fatto curioso è che questo, nella maggior parte dei casi, avviene
creando questi segni ad hoc e non partendo dalla reale situazione di degrado che è
stata trovata dal progettista. Dunque ci si trova nella paradossale situazione in cui non
si accettano gli autentici segni della storia che sono “riparati”, “restaurati” per poi
creare dei nuovi segni finto storico. Questo è certamente un atteggiamento sintomatico,
da un lato della diffusa tendenza, sviluppatasi negli ultimi decenni, a fruire
esteticamente non solo le opere d’arte ma qualunque oggetto, anche comune,
sviluppandone il design; dall’altro dalla necessità di allargare questo utilizzo alla massa
dei cittadini e non più unicamente agli esperti o agli amatori. Questo secondo fattore
porta alla necessità di creare una sorta di surrogato molto semplificato della realtà, uno
schema che metta in evidenza in modo chiaro il valore prevalente che in quel
momento si vuole far spiccare sugli altri. Ecco allora, dopo il restauro, la velatura per
attenuare i toni della pulitura e ricordare la patina, ecco i brani di archi in mattoni
stonacati e sabbiati in modo tale da rendere evidente la loro “dignitosa” e “ordinata”
storicità. Il tutto per evitare qualunque ambiguità nella lettura, per evitare che sia
possibile un’interpretazione dell’oggetto che potrebbe far pensare non alla cura ma
all’abbandono. Mettendo in primo piano, o meglio, creando falsi “segni del tempo”
che siano inequivocabilmente tali e non confondibili con degrado e decadenza.
Un’immagine che, in ogni caso, si avvicina molto a quella che percepiamo di fronte ad
un edificio sottoposto ad un restauro di tipo conservativo. Ma proprio questo
problema, quello della immagine finale dell’edificio è l’aspetto, ad oggi, più trascurato.
109
La necessità di disinteressarsi dell’immagine, per evitare che le decisioni operative
vengano prese in funzione di essa, è un problema che può essere posto in modo
differente. In primis, in linea teorica non è possibile non modificare un edificio, o una
parte di esso, anche se si opera unicamente tramite i dettami della più attenta
conservazione. Nel migliore dei modi saremmo di fronte a quella «esibizione della
cura» di cui parla Stefano Della Torre184. Ma, soprattutto, non ci troviamo mai ad agire
nei confronti di una immagine indifferente che dunque può, dopo l’intervento, tornare
ad essere indifferente. Sarebbe indifferente per chi? Forse con uno sforzo enorme di
razionalizzazione lo può essere per il restauratore, allenato come è da anni di forzata
mancanza d'interesse per l’aspetto formale dell’architettura, ma non di certo per il
resto del mondo che esprime continuamente giudizi su quella stessa immagine: bello!
brutto! O, almeno, è proprio malconcio, cade a pezzi, è tutto scolorito! E queste tre ultime
esclamazioni non sono constatazioni di fatto, sorta di analisi del degrado un po’ naïf.
Sono veri e propri giudizi di valore che esprimono disagio rispetto a come si presenta
l’attuale
configurazione.
Giudizi
che
esprimono
chiaramente
una
volontà
d’opposizione al degrado percepito unicamente come negatività, venir meno di
qualità. Se agisco sull’edificio, in quest’ambito, sono di fronte a due sole possibilità: o
184- cfr. nota 182
110
operare per far riacquistare qualità all’edificio (se penso che le abbia perse e sia in mio
potere il fargliele riavere) o nel senso di affermare che l’edificio stesso non ha mai
perso qualità, semmai ha trasformato quelle originarie. In entrambi i casi faccio
affermazioni non indifferenti all’immagine che l’edificio presenta. Si tratta in ogni
modo di proporre una configurazione dell’edificio che il fruitore percepirà come
immagine, forma, aspetto.
111
2.3 ALCUNE RIFLESSIONI SULLA SITUAZIONE ATTUALE
«... non dimenticherò mai la storia di una bellissima
casetta, color rosa chiaro. Era davvero una graziosa
casetta, di pietra, e mi guardava con tanta affabilità, e con
tanto orgoglio fissava le sue goffe vicine, che il mio cuore
si rallegrava quando mi capitava di passarle vicino. La
settimana scorsa attraverso la strada guardando la mia
amica, quand'ecco d'un tratto un grido lamentoso: "Mi
tingono di giallo!" Scellerati! Barbari! Non hanno
risparmiato nulla, né le colonne né i cornicioni e la mia
amica è diventata gialla come un canarino. Sono stato
preso quasi da un attacco di bile, e non ho avuto ancora
la forza di rivedere quella poveretta, sfigurata, tinta col
colore del celeste impero.»
Fëdor Dostoevski
Il restauro come e, forse, ancor più che l'esercizio della critica e della storiografia
dell'architettura, è estrinsecazione del compromesso tra visioni del passato personali e
collettive, alla luce di una più generale visione del mondo. Un passato che, proprio perché
legato a questa pre-visione contingente al momento in cui viviamo, non è mai autentico fino
in fondo se, per “autentico”, intendiamo ciò che la parola etimologicamente significa:
discendente direttamente dall’autore, immerso nel fluire del tempo. Questo passato, al
contrario, scaturisce sempre e in ogni caso dal nostro oggi, subisce continuamente la nostra
personale interpretazione che si costruisce a partire dalle modalità in cui lo cogliamo
visivamente in quanto la percezione è influenzata dal nostro vissuto e dalle nostre
esperienze. Nel restauro è lo stesso; il passato su cui agiamo non esiste in senso assoluto.
Ogni nostra azione, fosse anche unicamente quella finalizzata alla rigorosa conservazione
dello status quo, non ha come esito la conservazione del “monumento” o, almeno, non più
di quanto non lo abbia il restauro stilistico. Il nostro agire sull’opera o sulla sua materia,
infatti, si limita ad essere conseguenza di quella pre-visione dalla quale discende
l’accettazione o meno della conformazione attuale ma è, in ogni caso, intervento che si
attua unicamente, e non potrebbe essere altrimenti, sulla contemporaneità e non sul
passato dell'oggetto.
Dunque non sulla sua storia, sulla sua identità, sul suo valore, sulla sua artisticità, ma
sempre e necessariamente sulle nostre che si rispecchiano su di esso. L’edificio, anche solo
nel momento in cui lo guardiamo, è continuamente attualizzato e ciò che esso è per noi
112
oggi, ha poco o niente a che vedere, dal punto di vista del godimento estetico, con ciò che
esso era per chi lo percepiva anche solo trenta anni fa. Così si afferma un concetto
assolutamente dinamico di conoscenza che si modifica con il modificarsi del retroterra di
assunzioni teoriche e culturali proprie di una comunità. Infatti, sempre più frequentemente
l’epistemologia stessa riflette su come «le teorie scientifiche siano influenzate dal pensiero
culturale e sociale circostante, e che a loro volta influiscono su di esso».185 Tutto ciò porta
naturalmente a entrare in contrasto con la teoria classica della tabula rasa, cioè di una
coscienza “vergine” che come una tavoletta di cera viene segnata dalla conoscenza. «Non
c’è una tabula rasa mentale con la quale si arriva al mondo naturale; piuttosto [...] noi
“costruiamo” il mondo naturale attraverso un complesso processo di feedback in cui i
modelli teorici e gli input sensori sono assimilati e accomodati in una sequenza
automodificantesi di predizione e di controllo. Similmente non possiamo accostarci a testi
e azioni umane con la mente depurata dai nostri interessi, preconcetti e valori locali. [...] I
tentativi delle persone di mettersi nei panni di altri sono notoriamente dipendenti dalle loro
circostanze e dalla loro cultura»186
Un’affermazione di questo genere è assolutamente inconcepibile per un tipo di conoscenza
“metafisica” classica nella quale l’oggetto è assolutamente autonomo dal soggetto pensante
che lo può avvicinare
unicamente attraverso la giustificazione della verità delle
affermazioni che su di esso fa. Ma oggi ci troviamo in un momento, nello sviluppo della
cultura occidentale, in cui si è giunti a decretare la morte dell’epistemologia, come fa Rorty
che vuole «... minare la fiducia nella “conoscenza”come qualcosa intorno a cui dovrebbe
darsi una “teoria” e che ha dei “fondamenti”»187.
185- Arbib Michael A., Hesse, Mary B., The Construction of Reality, Cambridge, Cambridge university Press,
1986, (trad. it., La costruzione della realtà, Bologna, Il Mulino, 1992, pagg. 27).
186- Arbib Michael A., Hesse, Mary B, La costruzione … op. cit., pag. 270.
187- Richard Rorty, Philosophy and the mirror of nature, Oxford, Basil Blackwell, 1980, (trad. it. La filosofia e lo
specchio della natura, Milano, Bompiani, 1986, pag. 10).
113
Il restauro ha a che fare con oggetti che riassumono in se il mondo naturale e quello
culturale e soprattutto negli ultimi anni, ha fatto uso del termine “conoscenza” in modi a
volte un po’ semplicistici e strumentali. Ma se, come abbiamo visto, “conoscenza” è un
termine in fin dei conti troppo generico e i procedimenti gnoseologici di cui ci si serve
sono inevitabilmente legati alla contingenza storica e culturale, non è più possibile avallare
il proprio lavoro analitico sull’oggetto “architettura” con un semplice rimando al “progetto
di conoscenza”. Questo perché è necessario avere contezza del fatto che tutti i metodi, le
tecnologie, le finalità che porrò in campo saranno solo quelle che la situazione mi
permetterà di utilizzare. Alla fine, è possibile osservare ed analizzare solo ciò che la mia
odierna visione delle cose mi impone.
La nostra attuale attenzione ai materiali dell’architettura e ai segni su di essi impressi, ha
fatto dell'archeologia dell'elevato, uno dei pilastri fondativi della conservazione. Questo
interesse ha un curioso riscontro con uno dei concetti centrali del decostruzionismo, che usa
proprio il termine archeologia per indicare l'interesse e la necessità di pensare ed agire per
strati sovrapposti, per tracce, per segni, per différance. Questo è quello che tenta di fare
l’architettura di Eisenman o di Tshumi188. Ma mentre il progetto del nuovo deve riuscire a
produrre tutto ciò dal nulla, l’edificio antico possiede naturalmente queste caratteristiche e
l'archeologia permette di analizzarle e chiarire ogni relazione esistente tra questi elementi.
La conservazione si è proposta come finalità primaria proprio la difesa di queste tracce e
non ritiene possibile agire per colmare una lacuna e dare la possibilità di reintegrare un
apparato decorativo o una pittura murale che appena si intravede su una facciata. Il fatto di
non conservarla - e conservare in questo caso equivarrebbe a riprodurre, come già è
accaduto in alcuni periodi della storia del restauro - può significare, fra cento anni, o solo
188- «L’idea dello scavo si trasforma in una nozione molto interessante [...]. Ora tu prendi pietre e costruisci
un progetto. Qualcun altro prenderà le pietre del nostro progetto e costruirà qualcos’altro ... iniziamo
dal palinsesto che deriva dalla sovrapposizione di due cose ... che poi viene scavato e tu sottrai dal
palinsesto lasciando la traccia della precedente sovrapposizione, ma anche lasciando la traccia della
sottrazione», Interview Peter Eisenman-Lyn Breslin, in «Space Design», marzo 1986.
114
fra venti, non avere più alcun elemento materiale, se non qualche fotografia, per
ricostruirla189. La conservazione, come opposizione all’azione distruttrice del tempo, infatti,
non ha mai come scopo quello di fermare degrado, tutt'al più di attenuarlo, di eliminarne le
cause contingenti e, dunque, non impedisce la cancellazione, anche in breve tempo, di
segni e tracce190. Una questione rimane, in questo senso, elusa: sembrerebbe che tutto
questo alla fine sacrifichi ciò che l’architettura è sempre stata (al di là della soluzione dei
problemi funzionali) e cioè un oggetto godibile esteticamente.
Nel passato questo problema era risolto riproducendo le forme necessarie a ripristinare i
presupposti necessari al godimento estetico dell’opera che erano andate perdute o erano
attenuate dal degrado. La conservazione ha invece posto in primo piano proprio la
negazione della possibilità di valutare l’edificio, in vista del restauro, con parametri estetici.
Ma “giudicare” ed “esperire” non sono la medesima cosa. In un caso si agisce ponendo in
campo differenziazioni razionali tra le forme, che sono rapportate ad un ideale di bellezza.
Nel secondo caso si tratta di un sentimento che ci fa fare esperienza di un edificio non dal
punto di vista della razionalità ma del piacere che si prova guardandolo. Se dunque la
conservazione può negare il giudizio estetico non può fare lo stesso con la possibilità di
provare sentimenti di piacevolezza o di non piacevolezza. E questo è un sentimento che si
produce ad ogni atto percettivo che compiamo, di fronte a qualunque oggetto191. Se
189- «... da un punto di vista storico, se, da una parte, il deperimento stesso è, a sua volta, pur sempre un
accadimento, esso cagiona un inesorabile affievolimento documentario e, insomma, un’obiettiva, a
seconda dei casi, più o meno consistente, manomissione dell’integrità della fonte» Paolo Fancelli, Il
restauro dei monumenti, Fiesole, Nardini, 1998, pag. 122.
190- «Un ulteriore modo di atteggiarsi verso il manufatto degradato consiste nel perseguire una attenuazione
dei fenomeni, rallentandone il più possibile lo svolgimento», modo differente sia dalla cancellazione
degli effetti «quasi riconoscendo caratteri di reversibilità ai fenomeni», sia dall’arresto dell’azione che
comporterebbe «in una visione radicalizzata, la eliminazione di tutte le cause di aggressività, per
raggiungere un recupero dell’opera ad un certo stadio del suo invecchiamento» B. Paolo Torsello, La
materia del restauro. Tecniche e teorie analitiche, Venezia, Marsilio, 1988, pagg. 24-28.
191- «Anzi, l’iniziale impatto con l’oggetto è primariamente questo. In un certo senso, in vero, uno dei filoni
principali dell’indagine sull’opera, preventivamente ad un oculato intervento su di essa, dovrebbe
consistere in uno studio storico-ricostruttivo della percezione che, nel tempo, si è avuta di quell’opera in
parola. E questo anche in relazione con la storia della percezione visiva in generale e, soprattutto, in quel
dato ambito culturale.» Paolo Fancelli, Il restauro, ... op. cit., pag. 118.
115
dunque la conservazione, giustamente, non accetta il giudizio estetico discriminatorio, non
può però sottrarsi al sentimento di piacevolezza e non piacevolezza che qualunque forma o
materiale suscita e di conseguenza al suo potere operativo. Non si può allora negare che
qualunque scelta conservativa sia il risultato anche di una scelta di gusto che affianca le
scelte razionali (architettura come cultura materiale, come complesso di segni, tracce, ecc.)
e permette l’accettazione della conformazione che queste scelte vengono a creare. In altre
parole non è possibile che il risultato di un restauro sia qualcosa che non piace a chi lo ha
compiuto. Detto questo, la conservazione non può non prendersi carico della
configurazione che produce con il suo intervento. Se non si vuole arrivare a negare che il
progettista possa provare sentimenti di tipo estetico di fronte all’architettura e che questi
sentimenti, non del tutto consci e razionalizzabili, possano influenzarlo nell’atto
decisionale, deve accettare, gioco forza, che con l’intervento anche l’esteticità dell’opera sia
messa in gioco e non possa essere messa tra parentesi. In altre parole è probabile che
attualmente chi opera su un edificio, all’interno della visione conservativa, lo faccia anche
per preservarne l’aspetto che trova esteticamente gratificante e sia convinto che il proprio
lavoro contribuisca a mantenere quelle caratteristiche che lo fanno essere tale. E’
necessario, allora, portare allo scoperto questo atteggiamento, cominciare a riflettere sulla
carica estetica di alcuni elementi che fino ad oggi non sono stati messi in evidenza e non
negare il fatto che, salvaguardandoli, si mantiene in essere l’esperibilità estetica dell’oggetto,
secondo parametri che non sono certamente quelli dell’estetica tradizionale ma non
possono non dirsi estetici. E’ da chiarire che quando parliamo di esperibilità estetica non ci
riferiamo unicamente ad opere d’arte. Basti pensare, in questo senso, al fenomeno
dell’estetizzazione del reale, che ha attraversato tutto il XX secolo, portando ad ampliare
smisuratamente il novero degli oggetti che consideriamo portatori di valori estetici. Gli
studi hanno subito una modificazione del loro specifico campo d’interesse: dalle categorie
116
estetiche oggi metafisicamente indeterminabili192 e dai meccanismi di individuazione, in un
oggetto, dell’opera d’arte (tramite l’esercizio del giudizio), all’individuazione del particolare
carattere estetico insito in qualunque oggetto. Infatti ciò che interessa l’estetica dagli anni
trenta in poi è soprattutto quello che lo strutturalismo, e Mukarowskij193 in particolare,
chiama “funzione estetica” degli oggetti. Si riconosce dunque l’esistenza di una funzione
estetica in qualunque oggetto, anche il più utilitario, come una tra le tante funzioni che
l’oggetto possiede. Il problema estetico dunque si sposta: esso «non è più se esista una
bellezza indipendente dall’uomo (quindi soprastorica) nell’universo come tutto, ma invece
come si manifesti l’estetico nel comportamento umano e nei prodotti della creazione
umana»
194
. Questa concezione dell’estetica come studio dell’esteticità insita nella natura
dell’uomo e che lo fa agire e scegliere permette, sganciando l’analisi da un binario
puramente metafisico, di rintracciare aporie e atteggiamenti contraddittori. In effetti,
l’esteticità delle scelte pare annidarsi in territori che ne sembravano esenti per definizione,
un esempio per tutti il territorio dell’analisi scientifica.
La nostra cultura ha, in un certo senso, democratizzato l’arte, eliminando l’aura di
soprannaturale del gesto artistico ma, allo stesso tempo, finito per sacralizzare il gesto
comune, la mano, la produzione di oggetti, purché avvenuti nella storia. Questo non ha
significato debellare il giudizio estetico, ma averlo allargato a dismisura, in una sorta di
192- Molto significativa, in questo senso, una delle prime prese di posizione contro l’estetica definitoria da
parte di C. K: Ogden e I. A. Richards nel capitolo The meaning of Beauty, in The meaning of meaning del
1930, dove i due autori per mettere in evidenza l’estrema variabilità del concetto di bello, ne danno bel
quindici definizioni, raccolte tra quelle offerte dall’estetica dei secoli precedenti. Nessuna di quelle
definizioni può dirsi vera o falsa e ciò deriva dalla natura stessa dello studio estetico. «In realtà le
definizioni estetiche non sono asserzioni (statements), neppure false asserzioni; per Ogden e Richards
espressioni come “Urrah!”, oppure “la poesia è un’anima”, oppure “l’uomo è un verme” sono dello
stesso genere: sono cioè espressioni puramente evocative, non mai asserzioni scientifiche». Armando
Plebe, Processo all’estetica, Firenze, 1959, pag. 99.
193- J. Mukarowskij, Il significato dell’estetica. La funzione estetica in rapporto alla realtà sociale, alle sceinze, all’arte,
Torino, Einaudi, 1973, pag. 102.
194- A tale proposito si vedano gli studi di Kubler in The Shape of Time, 1972, tradotto da Einaudi, La forma
del tempo. La storia dell’arte e la storia delle cose, 1976.
117
ipertrofia del gusto che ci porta alla ricerca di un “bel tappo per il serbatoio della benzina”
o di un “bello schiaccianoci”.
Allo stesso modo, alcuni di noi pensano che un muro scrostato sia “bello” prima che
interessante e portatore di conoscenza. In alcuni casi che sia addirittura più bello di un
muro ridipinto di fresco. In questo senso possiamo allora affermare che continuiamo a
mettere in campo la godibilità estetica dell’edificio, anche se questa non passa più
necessariamente per le categorie classiche della bellezza, dell’unità e della completezza.
Vediamo allora di analizzare quali possono essere gli spunti estetici che alcuni elementi
apparentemente non estetici ci suggeriscono. Riflettiamo sul nostro modo di guardare alla
materia segnata dalla mano dell’uomo, al tempo e alle sue tracce più evidenti, il degrado. Siamo
qui di fronte ad una doppia estetizzazione, quella dei segni della cultura umana e quella dei
segni del tempo. Cominciamo con il chiederci come mai interessa, in un edificio l'effetto
distruttore del tempo195. I segni del tempo e le tracce sono elementi che possiedono fisicità,
forma e colore e sono, di conseguenza, percepibili e per questo giudicabili immediatamente
attraverso la facoltà del gusto. In effetti, l'autenticità di cui oggi spesso si discute, sembra
essersi rivolta quasi esclusivamente alla traccia che il tempo lascia su un oggetto.
Nonostante ciò, in senso assoluto, è sicuramente possibile affermare che esiste
un’autenticità non legata al tempo. Qual è l'autenticità di una pietra? Il suo essere ente,
essere dura, essere bianca o grigia, essere una roccia metamorfica o sedimentaria, essere
composta da determinati elementi chimici. Un geologo che si ponesse domande
sull’autenticità della roccia che analizza, cercherebbe la risposta in queste caratteristiche
identificative. Quando l’architetto riflette sull’autenticità di quella stessa pietra, sposta il
discorso sull’autenticità della materia lavorata. Dunque sull’autenticità dei segni del lavoro
195- «... si tratta di porsi, di fronte alla percezione, i due problemi restaurativi principali a questa inerenti.
Essi sono in primissima approssimazione così delineabili: 1) il senso conformativo della ricezione
dell’opera degradata, lacunosa, manomessa rispetto a quella del manufatto più o meno integro; 2)
l’impatto sulla percezione visiva dei mutamenti cromatici intervenuti sull’opera dal momento della sua
formulazione.» Paolo Fancelli, Il restauro ... op. cit., pag. 120.
118
dell'uomo che porta incisi su di sé. Ciò che ci preme possedere non è una semplice roccia,
ma quella roccia divenuta materia trasformata. Si badi, non materia formata; in questo senso il
tempo trascorso dal momento dell’atto formativo (a-storico) non avrebbe alcuna
importanza. Ciò che acquista valore è proprio la trasformazione in successione a partire da una
originaria pietra messa in opera, la permanenza della catena delle modificazioni subite. Al
centro dell’interesse c’è il tempo che agisce sulla materia. Ed è proprio il suo passaggio che
conferisce alla materia quel sovrappiù che la rende interessante. Ma a questo si aggiunge
un sentimento, abbastanza diffuso, di apprezzamento dei segni del degrado che sono
spesso associati all’immagine dell’invecchiamento umano, alle rughe, segni del tempo che
sono espressione di storia e di esperienza. Se allora i manufatti ci trasmettono sensazioni
attraverso la loro matericità, i loro decori, i loro colori, profumi e sapori, e, solo in un
secondo tempo ci portano a pensieri di tipo differente, che mettono in gioco coloro che
hanno agito per trasformare un materiale in opera, dobbiamo analizzare anche questo
secondo momento. Infatti proprio in questo contesto rintracciamo la ”funzione estetica”
anomala: guardando un manufatto non più per puro godimento sensoriale, ma all’interno
di una visione che pone le trasformazioni al centro della nostra attenzione, ciò che ci
affascina è la trasformazione stessa. Dunque non è semplicemente il tempo che si posa
sulle cose che ci muove sensazioni estetiche, questo era già del pittoresco e venne
teorizzato da Ruskin, ma l’esplicitazione delle trasformazioni che il tempo ha provocato,
siano esse naturali o antropiche. È nella manifestazione della trasformazione che rintraccio
la funzione estetica del segno, della traccia. Il nostro gusto per le trasformazioni dunque
non si ferma a quelle culturali ma va oltre, interessandosi dei segni del degrado. Siamo
infatti giunti a teorizzare la non cancellazione di questi segni. Dunque alla estetizzazionesacralizzazione non più solo del generico atto umano che induce una trasformazione, ma di
quella indotta dai fenomeni naturali. In effetti, perché tanto ardore nel difendere la
permanenza dei segni del degrado sul monumento? Queste sono tracce che, nella
119
maggioranza dei casi rimandano solo a se stesse e alla loro azione sulla materia dell'opera.
Che cosa ci trasmettono?
Se ho un edificio antico, posso individuare su di esso infinite tracce di configurazioni
passate, segni di alcuni eventi di causa antropica ed altri di causa naturale. L'archeologia si
occupa di ricostruire proprio attraverso questi elementi la storia dell'edificio, di dare una
sequenza cronologica degli avvenimenti. Una volta fatto questo, il progetto si occupa di
come conservare l'oggetto e tramandarlo ai posteri. Ma in tutto ciò quale motivo ha la
conservazione dei segni che il degrado ha lasciato sul monumento? Se lo scopo della
conservazione è tutelare il “bene”, questo significa che anche il degrado fa parte del
bene196. Ma se questo è un fatto acquisito da tempo per quanto riguarda le patine, la
consunzione, l’usura, l’invecchiamento, meno convenzionale appare l’inclusione, nel
concetto di bene, dei veri e propri segni del degrado (ruggine, patine biologiche, lacune,
lesioni, distacchi, ecc.). Ma se guardiamo il tutto dal punto di vista della categoria della
trasformazione, ecco che il degrado ci appare il più prezioso fenomeno da osservare. Esso
agisce sulla materia direttamente, modificandola continuamente e attraverso i segni che
lascia, permette di assistere alla manifestazione fisica della stessa trasformazione. Allora in
questo senso conservo il segno di un'azione disgregatrice dei sali, dell'erosione del vento, di
un evento accidentale e non espressione della cultura umana semplicemente perché ciò che
interessa è la “l’immagine della trasformazione”.
L'attenzione per questo tipo di segni è comunque tipica del mondo in cui viviamo, della
cultura postmoderna che ci pervade.
Una cultura in cui differenti gradi e piani di lettura convivono: il monumento come opera
d'arte, come bene culturale, come bene economico-turistico, come oggetto archeologico,
come oggetto naturale, come bene storico, come specchio delle nostre radici comuni e
196- «… ciò che distingue il conservare i beni architettonici sta, nel riconoscere che gli stessi segni
dell’invecchiamento, dell’usura e della degradazione sono parte integrante del bene, e anzi partecipano
in modo insostituibile a definirne la nozione», B. Paolo Torsello, La materia ,... op. cit., pag. 87.
120
come specchio dell'identità nazionale, come reperto geologico, come fonte di conoscenza
di antichi mestieri e tecnologie. Tutto questo senza che si senta la necessità di unità di
configurazione, anzi, più i piani di lettura sono intrecciati e sovrapposti, più “complessa”
appare la lettura, più il monumento acquisisce valore ai nostri occhi. Se ci interessasse
unicamente preservare la complessità della lettura per l'accavallarsi e l'intrecciarsi dei
significati che si celano dietro a segni e tracce, al fine di avere un quadro dell'approccio
culturale che sta dietro alla materia, in questo senso il lichene o la disgregazione di un
intonaco non ci porterebbero a nulla. Se non ad aumentare il nostro godimento estetico,
che deriva proprio dall'aumento di complessità e di frammentazione che questi elementi
provocano. Gran parte dei “conservatori” confermerebbe il fascino che si prova di fronte
ad un vecchio muro e non si può negare che un apprezzamento di questo tipo,
profondamente legato al gusto di una certa cerchia di persone che si appassiona alla
configurazione attuale della fabbrica sia un segnale da prendere in considerazione, in
quanto è la spia che ci fa considerare l'approccio conservativo (solo l'approccio, sia chiaro,
che però condiziona tutto il resto) al di là di quella patina di oggettività scientifica
rendendo giustizia di quel lato della faccenda che è diventato quasi tabù ma è ineliminabile.
Dobbiamo dunque concludere che la scelta di conservare è primariamente una scelta etica
influenzata però dal sentimento e dal gusto. Si conserva certamente anche per tutelare
un’immagine dell'edificio che evoca sentimenti di piacere che vogliamo a tutti i costi
mantenere, sentimenti che un restauro di altro tipo elimina nel momento in cui va ad
alterare le caratteristiche dell'oggetto “autentico” (i segni
manifestazione delle
trasformazioni) che garantiscono il ripetersi di quella fruizione estetica. Un restauro diverso
fa si che alla patina del tempo, alla consunzione, alla sovrapposizione delle forme, ai segni del degrado si
sostituiscano l'ordine, la omogeneità, la semplicità, i colori brillanti, le forme ben definite e delimitate, gli
spigoli vivi, il materiale nuovo. Categorie che appartengono a gusti opposti.
121
Il restauro “kitsch” e il restauro “puzzle”
Sembrerebbe, a questo punto, d’aver descritto una situazione abbastanza chiara nella quale
in un mondo dominato dal gusto per la frammentazione e per la complessità, prevale un
atteggiamento attento ai segni della storia, e alla loro conservazione e valorizzazione.
Niente di più lontano da ciò che in realtà accade. Nella stragrande maggioranza dei casi,
infatti, i restauri si fanno andando alla ricerca dell'unità, della completezza, del pristino splendore,
della semplificazione, in alcuni casi disarmante. E ciò ci appare in aperta contraddizione
rispetto a quanto detto finora. Ma non lo è fino in fondo. I restauratori non sono al di
fuori della cultura odierna che proprio in quanto luogo della frammentazione è di
conseguenza luogo della contraddizione: abbiamo dunque accanto alla “conservazione” un
atteggiamento differente e che dà come risultato un restauro da villaggio turistico, una serie
di Venice di Las Vegas, che esprime la necessità di ripristinare un intero passato con una
configurazione che si presenti con una configurazione tranquillizzante e consolatoria. Un
restauro che ci riporta le nostre radici - vere o verosimili - così ricche di tracce che, a detta
di alcuni, è possibile poterle riprodurre a piacimento così come riproduciamo le feste di
piazza, il Palio di Siena, e i villaggi rurali.
Anche in questo tipo di approccio sono banditi, apparentemente, i giudizi sull'esito estetico
dell'operazione. Questo aspetto non pare interessare (e i risultati sono spesso, se non
sempre, sgradevoli); il fine dell’operazione (e questo è stato perfettamente recepito) è la
possibilità di fruizione turistica di questi beni culturali, attraverso la loro valorizzazione sia
in senso “pop” sia “kitsch”. Dunque conservazione e ripristino, due facce della stessa
medaglia; da una parte il complesso e il disarmante, l'eterogeneo, il collage formatosi in
modo naturale sui nostri edifici storici, dall'altro la necessità di produrre il catalogo
completo, gli esempi del passato tutti qui e ora, secondo il gusto postmoderno per la
citazione eclettica e per la costruzione di un musée imaginaire.
122
Sembra inevitabile oggi, quando si tratta di restauro, assistere alla messa in campo di una
sorta di eclettismo che, non so quanto consciamente, pesca da tutto il catalogo della teoria
del restauro e a seconda dei casi produce restauri stilistici e conservazione integrale,
restauri filologici e tipologici, a volte operando all'interno dello stesso edificio. Se con
l’Eclettismo ciò avveniva perché era venuta meno la necessità di una unità formale e
stilistica, oggi è venuta meno la possibilità di un pensiero teorico sul restauro, dunque anche
la possibilità della contrapposizione, se non a livello di polemica. In effetti questo è uno
degli aspetti più eclatanti degli anni che stiamo vivendo: il recupero continuo di elementi
del passato recente o remoto e la loro riproposizione in un perpetuo revival.
Proprio questa frequentazione continua con il revival fa si che «la celebrata
frammentazione dell'arte non [sia N.d.R.] più una scelta estetica: è semplicemente un
aspetto culturale del tessuto economico sociale»197. Non è dunque una scelta da fare
razionalmente, ma un substrato comune a tutti noi e che innegabilmente influenza il comune
senso del restauro. Questo impone che “gli oggetti del passato, vadano conservati e riportati al
primitivo splendore”. Ma cosa si intenda con il termine conservare non è facile dire. Senza
alcun dubbio si allude alla loro valorizzazione finalizzata allo sfruttamento turistico, piuttosto
che alla loro considerazione in quanto oggetti indispensabili per una crescita culturale.
Dall’orizzonte del conservare viene meno, sempre di più, l’autenticità della ricerca, la
volontà di lavorare per approfondire una conoscenza, per modificare il proprio
atteggiamento verso le cose. Il monumento, l’architettura del passato, non serve più alla
progettazione, gli è d'ingombro, è un'altra cosa. Ed ecco allora perché restauro kitsch. Una
definizione del termine recita così: «...arte intesa non come istanza conoscitiva o come
forma autonoma d'esperienza, ma come semplice produzione di effetti estetici, frutto
pertanto non di una domanda di senso, ma di convenzioni stilistiche che lasciano al
197- C. Newman, The postmodern aura: the act of fiction in an age of inflation, in «Salmagundi», n. 63-64, 1984, cit. in
David Harvey, The Condition of Postmodernity, Basil Blackwell, 1990, (trad. it., La crisi della modernità,
Milano, Il Saggiatore, 1993, pag. 84).
123
soggetto una libertà paragonabile all'arbitrio»198. Il restauro è ora in balia del gusto che detta
alcune regole che possiamo desumere facilmente osservando ciò che quotidianamente
accade negli edifici storici, ritenuti non monumentali, che ci circondano:
- il medioevo si conserva perché pittoresco;
- i monumenti barocchi, neoclassici e l'edilizia ottocentesca vanno restituiti alla loro
completezza;
- gli apparati decorativi in materiale povero - stucco, pietra artificiale, ecc. - vanno
reintegrati;
- le pitture murali, (quando non cadono nel campo del restauro pittorico), vanno
reintegrate e laddove sono andate perse vanno ripristinate;
- tutto ciò che è antico va posto in evidenza, anche se si tratta di elementi che mai in
passato lo erano stati;
e così via, in un elenco di prescrizioni che non hanno origine in una teoria - l'impossibilità
di creare teorie generali è un altro topos dell'attuale cultura - ma derivano dal senso comune,
da un gusto che, come già detto, predilige l'antico ordinato, il decoroso, il pulito, il
pittoresco. Meglio se il tutto è abbinato ad una riutilizzazione turistica dell'oggetto. E, in
effetti, le operazioni che hanno portato ai grandi restauri degli ultimi decenni, sempre
abbinati ad avvenimenti politici, sportivi o religiosi - si pensi al Giubileo, ai mondiali di
calcio o al recente G8 a Genova - sono spesso unicamente un mezzo per rilanciare il
turismo in un determinato luogo, per fare pubblicità agli sponsor. E questo è sottolineato
dal fatto che non sempre, forse quasi mai, gli edifici o le opere d'arte restaurate ne avevano
un effettivo bisogno, mentre altre molto meno simboliche e conosciute ne avrebbero più
necessità.199
198- voce Kitsch in G. Carchia, P. D’Angelo, Dizionario di estetica, Roma-Bari, 1999.
199- cfr le polemiche di James Beck sui restauri di alcune opere d’arte italiane tra le quali gli affreschi di
Michelangelo nella Cappella Sistina e la scultura di Ilaria del Carretto a Lucca.
124
La scelta dell'oggetto da restaurare non è più fatta partendo dal riconoscimento
dell’emblematicità dell’edificio dal punto di vista della conoscenza, in quanto modello che
va salvaguardato perché in pericolo o perché da studiare approfonditamente. Solitamente
la scelta è fatta direttamente dagli sponsor che lo riconoscono affine all’immagine di sé che
vogliono veicolare. Un enorme spot pubblicitario, insomma. Come scrive Hewison «Il
postmodernismo e l'industria del patrimonio artistico sono legati, in quanto entrambi
cospirano per creare uno schermo sottile che si frappone tra le nostre vite attuali e la
nostra storia. La storia si trasforma in una creazione contemporanea, più dramma in
costume e nuova messa in scena che discorso critico»200. D'altronde un altro studioso
anglosassone del postmodernismo afferma: «Siamo condannati a cercare la Storia con le
nostre immagini pop e con i simulacri di quella storia che rimane per sempre fuori dalla
nostra portata»201. Ma, per finire, «presa in senso lato l'arte è sempre il ritratto dell'uomo del
tempo (...) il kitsch non potrebbe infatti né sorgere né prosperare se non esistesse l'Uomodel-Kitsch, l'amatore del Kitsch, colui che come produttore d'arte produce il Kitsch e
come consumatore d'arte è disposto ad acquistarlo e perfino a pagarlo assai bene.»202
Noi tutti, oggi, siamo uomini del Kitsch; quando ci vestiamo alla moda, quando tifiamo per
una contrada al Palio di Siena, quando ci rechiamo ad una delle numerosissime sagre in
costume che ogni sera imperversano nelle nostre città. Siamo uomini del kitsch anche
quando visitiamo i villaggi rurali ricostruiti a bella posta in un luogo facilmente
raggiungibile e attrezzato, quando visitiamo i musei dell'artigianato, le mostre d’arte super
sponsorizzate, quando partecipiamo agli eventi mediatici, al Capodanno 2000, quando ci
rechiamo nei villaggi turistici. E lo siamo anche rispetto all'attenzione che mostriamo per
200- R. Hewison, The Heritage Industry, London, 1987, cit. in David Harvey, The Condition of Postmodernity, Basil
Blackwell, 1990 (trad. it., La crisi della modernità, Milano, Il Saggiatore, 1993, pag. 85).
201- F. Jameson, Postmodernism or the cultural logic of late capitalism, in «New Left Review», n. 146, 1984, cit. in
David Harvey, The Condition of Postmodernity, Basil Blackwell, 1990 (trad. it., La crisi della modernità, Milano,
Il Saggiatore, 1993).
202- Herman Broch, Einige Bemerkungen zur Problem des Kitsches, Conferenza tenuta nell’autunno del 1950 al
German Club della Yale University (trad. it. Note sul problema del Kitsch, in H. Broch, Il Kitsch, Torino,
Einaudi, 1990, pag. 179).
125
alcuni elementi, ormai caratteristici della quotidianità nelle nostre città: pensiamo
all'illuminazione dei monumenti e all’annosa questione dei piani del colore. La vicenda
dell’illuminazione dei monumenti è particolarmente significativa e si accompagna al boom
dell’arredo urbano tipico degli anni Ottanta. La necessità di fruire dei nostri monumenti
anche durante le ore notturne nasce negli anni '30, ma solo negli anni Ottanta assistiamo
ad un vero e proprio boom. E negli anni questa moda ha avuto delle fasi: all'inizio
prevaleva una ricerca, forse la più genuina, indirizzata verso l'accentuazione della teatralità
del monumento, in un secondo tempo le luci assunsero un ruolo a sé, vere e proprie
installazioni artistiche che ci portarono e ancora ci portano ad assistere a giochi di luce
colorati, campanili con interni a luce verde o fucsia, facciate a colori cangianti.
Oggi l'atteggiamento è quello di chi vuole eliminare la notte, illuminando a giorno solo il
monumento creando un curioso effetto di straniamento, di decontestualizzazione,
anch'esso molto pop, ma certamente affascinante.
Ritornando al restauro uno degli elementi che maggiormente mettono in luce la
contraddizione contemporanea è l’atteggiamento che si ha di fronte agli apparati decorativi
siano essi stucchi o dipinti murali. Nella quasi totalità dei casi si applica, infatti, una diffusa
reintegrazione. Dunque di fronte ad un edificio barocco degradato o ad un edifico con
facciate dipinte ormai scomparse, quasi all’unanimità viene ancora richiesta la
reintegrazione delle parti perdute e lacunose, il loro completamento. Sembra quasi che
questo atteggiamento sia solo un riproporsi, rispetto a configurazioni che da poco vengono
considerate degne di una tutela, di quel percorso che và dall’unità alla frammentazione che
abbiamo visto esistere
in generale per il restauro. Nella percezione di un oggetto
sconosciuto, non familiare, normalmente se ne colgono gli aspetti generali, ad esempio
l’effetto spaziale, le geometrie essenziali, mentre solo più tardi si colgono quelli legati ai
particolari, che a lungo andare portano ad apprezzare quella potenzialità che, secondo
Brandi, si racchiude anche nel singolo frammento. Forse una configurazione formale da
126
poco accettata dalla critica e dal gusto comune non sopporta di essere toccata dall’aura del
tempo? Se così fosse, il tempo piuttosto che arricchire quelle forme, dando loro un valore
aggiunto, le annichilirebbe togliendo leggibilità e dunque valore. Forse il vero problema soprattutto per gli stucchi - sta nel nostro rapporto con uno stile, quello Barocco, di
relativamente recente accettazione storiografica. E’ allora proponibile vedere in questo
caso specifico un modello del più generale comportamento della coscienza dei restauratori?
Voglio dire che forse è possibile usare l’esempio degli stucchi barocchi come esemplare di
un percorso che si compie sempre e comunque quando ci si trova di fronte ad un edificio,
che non è solo struttura e materia, ma è anche forma e, in quanto tale, portatore di valori
artistici che vanno indagati perché, consciamente o inconsciamente, incidono sul giudizio
globale che dell’edificio viene dato. Lo stesso fenomeno tocca anche i monumenti del
movimento moderno che vengono normalmente reintegrati, procedendo nei casi più
eclatanti a veri e propri restauri stilistici (come nel caso della Casa Steiner di Adolf Loos).
Anche in questo caso si tratta, rispetto a queste opere, di una recente acquisizione nel
novero dei monumenti storico-artistici.
Di fronte al Barocco e al movimento moderno sembrerebbe allora che la nostra capacità di
accettare il frammento si arresti improvvisamente e la mente vada alla ricerca della
completezza e del decoro che, nell’apprezzamento dell’architettura medioevale l’influenza
del gusto pittoresco e dell’atteggiamento romantico ha messo in secondo piano. In questo
senso è possibile tracciare un percorso che va dall’accettazione di una determinata forma in
quanto “bella” (aggettivo usato qui nell’accezione comune e generalizzata, non come
categoria estetica), accettazione dalla quale discende poi la necessità della sua salvaguardia.
Questa, attraversa diversi stadi: in primo luogo, quando valore primario è considerata
l’unità stilistica (e dunque una unità che investe l’organismo edilizio nella sua totalità), si
assiste alla necessità della completezza che serve per meglio comprendere e trasmettere i
valori stilistici ed formali. Quando l’unità stilistica è superata da quella che, usando il
127
linguaggio brandiano, possiamo chiamare unità come intero, si passa alla negazione della
possibilità di effettuare ripristini spinti. Solo in un terzo momento, quando il valore
primario diventa l’autenticità della materia, con tutte le sue trasformazioni, e il gusto si
affina sino a giungere all’accettazione di una configurazione non unitaria e non completa,
solo allora è possibile parlare di possibilità della conservazione.
Mentre di fronte a una parte dell’architettura, e in particolare di fronte a quella medievale,
siamo giunti a riconoscere la valenza formale del frammento e la necessità della sua
permanenza hic et nunc, di fronte al barocco e al moderno siamo ancora allo stadio dell’unità
stilistica, caratterizzato dall’accettazione dell’immagine solo nel caso in cui essa si presenti
completa in tutte le sue parti. E’ come se fosse impossibile (o possibile solo agli addetti ai
lavori), altrimenti, riuscire a farne cogliere, alla massa dei fruitori (e tra questi ci sono anche
molti restauratori), le qualità che ne fanno un oggetto apprezzabile e da salvaguardare. In
questo stadio la completezza formale sovrasta l’autenticità del frammento che è sacrificata
in modo alquanto disinvolto. Ma sia che si tratti di completare sia che si tratti di valorizzare
i frammenti, spesso si agisce creando dei poveri simulacri semplificati della realtà da gettare
in pasto all’industria “culturale”. Pensiamo al modo di arredare molti negozi delle nostre
città. Vi troviamo, in ambienti del tutto rinnovati, la citazione storica, il pezzo antico, la
volta in mattoni stonacata, il pilastro in pietra messo a vista, le travi del solaio in legno
anch’esse private del controsoffitto che le ha sempre celate agli occhi. Questa attenzione
per i segni del passato non significa che siamo di fronte ad una presa di coscienza
dell’importanza di quegli stessi segni e della necessità di una loro conservazione. In questo
caso gli edifici sarebbero lasciati come sono. Ma, lo stesso, questa moda deve far riflettere,
perché si tratta della diffusione di un gusto che porta a far accettare anzi ad auspicare la
presenza del frammento che rompe l’unità di un intonaco perfettamente liscio, alla ricerca
della variazione, della sovrapposizione di colori e di forme.
128
Ma l’accettazione del frammento è davvero stata una svolta copernicana che ha cambiato
profondamente l’accostarsi al problema della conservazione delle preesistenze? Forse non
del tutto. Soprattutto perché questa accettazione non è avvenuta del tutto e inoltre è
utilizzata come stimolo conoscitivo più che come strumento operativo.
In effetti, l’essenza della cultura della frammentazione risiede nel basarsi su elementi
minimi di significato che non rimandano ad un tutto andato perduto ma che si evidenziano
per la propria autonomia rispetto al significato generale del contesto in cui si trovano e che
possono, anzi, modificarlo in ogni momento. Il frammento di volta in volta crea le proprie
connessioni con ciò che lo circonda costruendo nuovi orizzonti di significato per
l’interprete che vi si accosta.
La conservazione ha spostato l’interesse del restauratore dal recupero di una unità stilistica
o figurale alla tutela delle connessioni che esistono tra i frammenti, le interrelazioni fra i
segni. Il restauro è dunque visto come quella serie di interventi necessari a tutelare la catena dei
segni impressi sul monumento. In questo senso allora la conservazione combatte la
frammentazione e non la accetta fino in fondo. Infatti un intervento di questo tipo è
possibile solo in seguito ad una lettura sistematica che porti ad individuare tali connessioni.
Una tale lettura nello spirito della frammentazione è invece impossibile, nel senso che si
ridurrebbe ad essere anch’essa frammentaria e senza potersi basare su alcuna idea
ordinativa pregressa. La conservazione, al contrario, ha spostato l’interesse dal momento
del giudizio a quello dell’analisi, della cosiddetta “conoscenza”, alla ricerca di un ordine tra
le connessioni e i legami di quei frammenti ai quali si riconosce enorme importanza
gnoseologica ma per i quali si cerca in tutti i modi di ricostruire una coerenza e una verità
comune e relazionale. La lettura stratigrafica è uno dei più potenti mezzi messi a
disposizione di questa ricerca. Mentre l’angoscia postmoderna sta proprio nel non
possedere le chiavi, o almeno non tutte, per individuare le connessioni tra gli eventi e
dunque apre la strada alle infinite interpretazioni, la conservazione fonda la propria
129
riflessione sulla possibilità che si dia una lettura dello status quo e sia possibile individuare i
rapporti tra le parti. Questo significa, ancora una volta, abbracciare solo una delle
interpretazioni possibili e di conseguenza far rientrare nel restauro il tema dell’unità, sotto
diversa forma, ma ancora una volta come sistema ordinatore primario. Essa mette in
campo sistemi di lettura che tentano di mettere ordine nel caos della realtà perseguendo
una lettura che, lasciando aperta la via dell’interrogazione ulteriore203, tradisce
inevitabilmente l’ansia da unità. E’ come se di fronte al collage che la realtà propone e cioè
un insieme di frammenti accostati senza alcuna legge o, forse, con leggi troppo complesse,
io tentassi di trasformarla in un puzzle. Questo, sì, con leggi ferree che guidano il modo di
fabbricarlo. Allora ecco l’importanza dei bordi, delle connessioni, delle forme, dei segni. Il
restauro conservativo confeziona con i suoi interventi di pulitura, consolidamento,
stuccatura e protezione un perfetto puzzle che ha come scopo dichiarato quello di poter
essere rimesso insieme in qualunque momento. Ma resta il fatto che il punto di partenza
era un collage. La tendenza all’unità che a questo punto forse è quasi irrinunciabile, ha fatto
sì che, ancora una volta, il monumento sia stato trasformato in qualcosa di differente da
ciò che era.
La frammentazione richiederebbe l’abbandono e il conseguente potenziamento della
frammentarietà, oppure un atto che operi un’aggiunta di ulteriori elementi, siano essi
unitari o frammentari, ma senza alcun tentativo di una previa lettura dell’inintelligibile. La
realtà probabilmente sta nel fatto che siamo in un momento culturale in cui unità e
frammentazione convivono e raggiungono la massima espressione proprio nel momento in
cui sono presenti contemporaneamente: quando cioè si parte da un’accettazione del
frammento ma poi si cerca di conservarlo sovrapponendogli una griglia razionale che ne
203- «... uno degli esiti registrati già nel corso delle analisi e dello svolgimento progettuale sta
nell’allargamento dell’orizzonte degli interrogativi che il monumento ha via via proposto, quasi
sottraendosi ad ogni tentativo di rinchiuderlo in una cornice di “conoscenze” conclusive. Un’esperienza
che ha spinto a difendere quella sorta di disponibilità della fabbrica a darsi come enigma, ad essere
perennemente interrogabile, a proporsi come provocazione inesauribile di domande piuttosto che luogo
di risposte definitive e irrevocabili.» B. Paolo Torsello, Origini concettuali ... op. cit., pag. 53.
130
permetta la decodificazione e dunque la trasformazione della frammentazione in unità
relazionale. Si è spostato dunque l’interesse dall’autoreferenzialità spaventosa del frammento
allo studio dei suoi bordi che ci parlano di connessioni e di legami con altri frammenti. In
questo senso, credendo di conservare, ulteriormente trasformiamo. Non possiamo però
illuderci che il nostro costruire i pezzi del puzzle che altri in seguito rimetteranno insieme
lasci aperte le infinite possibilità del collage perché: «malgrado le apparenze non si tratta di
un gioco solitario: ogni gesto che compie l’attore del puzzle, il suo autore lo ha compiuto
prima di lui; ogni pezzo che prende e riprende, esamina, accarezza, ogni combinazione che
prova e riprova ancora, ogni suo brancolare, intuire, sperare, tutti i suoi scoramenti, sono
già stati decisi, calcolati, studiati dall’altro.»204
204-
Georges Perec, La vie mode d’emploi, Paris, Librairie Hachette, 1978 (trad. it. La vita istruzioni per l’uso,
Milano, Rizzoli, 1984, pag. 207.)
131
TESTI CONSULTATI
I. IL TEMA DEL GUSTO
Abbagnano Nicola, voce Gusto in Dizionario
London, 1757, (trad. it. Inchiesta sul Bello e il
di Filosofia, Torino, Utet, 1971.
Sublime, Palermo, Aesthetica, 1992).
Teorie,
Carchia Gianni – D’Angelo Paolo, voce Gusto
Frankfurt Am Main, Suhrkamp Verlag, 1970,
nel Dizionario di Estetica, Roma-Bari, Laterza,
(trad. it., Teoria estetica, Torino, Einaudi, 1975).
1999.
Agamben Giorgio, voce Gusto in Enciclopedia,
Cavallo Claudia, Il gusto nell’estetica del settecento
Torino, Einaudi, vol. VI.
inglese, in Cecilia Balestra-Matilde Battistini (a
Appiano, Ave, Estetica del rottame. Consumo del
cura di), Characteristica sensibilis. L’estetica del
mito e miti del consumo nell’arte, Roma, Meltemi,
XVIII secolo e le sue conseguenze, Milano, CUEM,
1999.
1997.
Assunto Rosario, L’antichità come futuro. Studio
D’Angelo Paolo, L’estetica del Romanticismo,
sull’estetica del neoclassicismo europeo, Firenze,
Bologna, Il Mulino, 1997.
Mursia, 1973.
D’Angelo Paolo–Velotti Stefano, Il “non so
Batteaux Charles, Les Beaux-Arts réduits à un
che”. Storia di una idea estetica, Palermo, Aesthetica,
même principe, Durand, Paris, 1746, trad. it., Le
1997.
Belle Arti ricondotte ad unico principio, Palermo,
De Jaucourt L., voce Belle Nature dell’
Aesthetica, 1990.
Encyclopédie, ou Dictionnaire raisonné des sciences, des
Bollino Ferdinando, Ragione e sentimento. Idee
arts et des métiers, par une société de gens de lettres, in
estetiche nel Settecento francese, Bologna, Clueb,
AA. VV., L'estetica dell'Encyclopédie, Roma, Editori
1991.
Riuniti, 1995.
Adorno
Theodor
W.,
Aesthetische
Shalott.
Diderot Denis, Essai sur la peinture. Salons de
L'invenzione del Medioevo nella cultura dell'Ottocento,
1759, 1761, 1763, Paris, Hermann, 1984, trad.
Firenze, Mursia, 1993.
it., Saggi sulla pittura, Palermo, Aesthetica, 1991.
Bozal Valeriano, Il gusto, Bologna, Il Mulino,
Franzini Elio – Mazzocut-Mis, Maddalena,
1996.
Estetica. I nomi, i concetti, le correnti, Milano, Bruno
Broch Hermann, Il Kitch, Torino, Einaudi,
Mondadori, 1996.
1990.
Franzini Elio, Estetica e filosofia dell’arte, Milano,
Burke Edmund, A philosophical enquiry into the
Guerini, 1999.
origin of Our idea of the Sublime and Beautiful,
Franzini Elio, L’estetica del Settecento, Bologna, Il
Bordone
Renato,
Lo
specchio
di
Mulino, 1995.
132
Haskell Francis, Le metamorfosi del gusto. Studi su
Renard Jules, Lo stile. Il gusto, testi scelti e
arte e pubblico nel XVIII e XIX secolo, Torino,
tradotti dal Journal Inédit e dalla Corrispondance
Bollati Boringhieri, 1989.
inédite (1925-27), Milano, Bompiani, 1951.
Humbolt W. W., Hermann und Dorothea, 1799,
Szondi Peter, Hegels Lehre von der Dichtung
trad. it. in G. Marcovaldi (a cura di), Scritti di
Schellings
estetica, Firenze, Sansoni.
Geschichtsphilosophie I e II, Frankfurt sur Main,
Hume David, Saggi di estetica, Parma, Nuova
Suhrkamp, 1974 (trad. it., La Poetica di Hegel e
Pratiche editrice, 1994.
Schelling, Torino, Einaudi, 1986).
Hutcheson Francis, An Inquiry into the original
Vercellone Federico, L’estetica dell’Ottocento,
Ideas of Beauty and Virtue, London, 1725, trad. it.,
Bologna, Il Mulino, 1999.
L’origine della bellezza, Palermo, Aesthetica, 1988.
Viollet-le-Duc Eugène E., voce Goût, in
Kant Immanuel, Beobachtungen über das Gefühl des
Dictionnaire raisonnée sur l’architecture française du XI
Schönen und Erhabenen, 1764, trad. it., Osservazioni
au XVI siècle,
sul sentimento del Bello e del Sublime, Milano,
Viollet-le-Duc Eugène E., voce Unité, in
Rizzoli, 1989.
Dictionnaire raisonnée sur l’architecture française du XI
Milani Raffaele, Il Pittoresco. L’evoluzione del gusto
au XVI siècle,
Gattungspoetik,
in
Poetik
und
tra classico e romantico, Roma-Bari, Laterza, 1996.
Milani Raffaele, Le categorie estetiche, Parma,
II
Pratiche editrice, 1991.
RAPPORTO AL TEMA DELLA CONOSCENZA
Modica Massimo (a cura di),
LA
QUESTIONE DELL’IMMAGINE IN
L’estetica
dell’Encyclopédie, Roma, Editori Riuniti, 1988.
Abbagnano
Montesquieu, Charles-Louis, Essai sur le goût,
Dizionario di Filosofia, Torino, Utet, 1971.
1757, trad. it. Sul gusto, Genova, Marietti, 1990.
Abbagnano
Perniola Mario, L’estetica del Novecento, Bologna,
Dizionario di Filosofia, Torino, Utet, 1971.
Il Mulino, 1997.
Abbagnano Nicola, voce Immaginazione del
Pseudo-Longino,
Del
Sublime,
Palermo,
Nicola,
Nicola,
voce
voce
Conoscenza
Coscienza
del
del
Dizionario di Filosofia, Torino, Utet, 1971.
Aesthetica, 1987.
Alai Mario, Modi di conoscere il mondo. Soggettività,
Quatremere-de-Quincy Antoine C., voce Goût
convenzioni e sostenibilità del realismo, Milano,
in Dictionnaire historique d'architecture, comprenant
Franco Angeli, 1994.
dans son plan
les notions historiques, descriptives,
Arbib Michael A. – Hesse, Mary B., The
archaeologiques, biographiques, théoriques didactiques et
Construction of Reality, Cambridge, Cambridge
pratiques de cet art, Paris, Librairie d'Adrien le
university Press, 1986, (trad. it., La costruzione
Clère et c. ie, 1832, 2 tomes, (trad. it. Dizionario
della realtà, Bologna, Il Mulino, 1992).
storico di architettura, a cura di V. Farinoti e G.
Arnheim Rudolf, Art and visual perception. A
Teyssot, Venezia, Marsilio, 1985 (1992) )
psychology of the creative eye, s.l., University of
Rella Franco, L’estetica del Romanticismo, Roma,
California, 1954, 1974 (trad. it., Arte e percezione
Donzelli, 1997
visiva, Milano, Feltrinelli, 1962).
133
Berger John, Ways of seeing, London, Penguin
Ferraris Maurizio, Ermeneutica, Roma-Bari,
Books, 1972, (trad. it. Questione di sguardi. Sette
Laterza, 1998.
inviti al vedere fra storia dell’arte e quotidianità,
Gombrich Ernst H. – Hochhberg Julian –
Milano, Il Saggiatore, 1998).
Black Max, Art, Perception and reality, John
Brandi Cesare, Segno e immagine, Palermo,
Hopkins University Press, 1972, (trad. it., Arte,
Aesthetica, 1996.
Percezione e realtà, Torino, Einaudi, 1992).
Brusatin Manlio, Storia delle immagini, Torino,
Goodman, Nelson, Languages of art, The
Einaudi, 1989.
Bobbs-Merril, Inc., 1968, (trad. it., I linguaggi
Carchia
Gianni,
voce
Immaginazione
del
dell’arte, Milano, EST, 1998).
Dizionario di Estetica, Roma-Bari, Laterza, 1999.
Goodman, Nelson, Vedere e costruire il mondo,
Costa Mario, Estetica della comunicazione. Come il
Roma-Bari, Laterza, 1988.
medium ha polverizzato il messaggio. Sull’uso estetico
Guerra, Augusto, Introduzione a Kant, Roma-
della simultaneità a distanza, Roma, Castelvecchi,
Bari, Laterza, 1980.
1999.
Heidegger Martin, Die Zeit des Weltbildes, in
D’Agostini Franca, Analitici e continentali. Guida
Holzwege, Frankfurt am Main, Klostermann,
alla filosofia degli ultimi trent’anni, Milano, Raffaello
1950 (trad. it. L’epoca dell’immagine del mondo, in
Cortina, 1997.
Sentieri interrotti, Firenze, La nuova Italia, 1984).
Debray Régis, Vie et Mort de l’image, Paris,
Hoy David C., The Critical circle: Literature,
Gallimard,
morte
History and Philosophical Hermeneutics, Berkeley-
dell’immagine. Una storia dello sguardo in Occidente,
Los Angeles- London, University of California
Milano, Il Castoro, 1999).
Press, 1978, (trad. it. Il circolo ermeneutico.
Del Guercio, Arte e vita moderna. Situazioni
Letteratura, storia ed ermeneutica filosofica, Bologna,
dell’immagine tra Ottocento e Novecento, Roma,
Il Mulino, 1990).
Editori Riuniti, 2001.
Kant Immanuel, Logik, Konigsberg, 1800, trad.
Deutch David, La trama della realtà, Torino,
it., Logica, Roma-Bari, Laterza, 1995.
Einaudi, 1997.
Kant Immanuel, Kritic der reinen Vernunft, Riga,
Dilthey Wilhelm, Das wesen der Philosophie, 1907,
Hatnoch, 1781, (trad. it. Critica della ragion Pura,
trad. it. L’essenza della filosofia, Milano, Rusconi,
Torino, Utet, 1986, Introduzione e Parte I: Estetica
1998.
trascendentale).
Fancelli Paolo, Il restauro dei monumenti in
Kern Stephen, The Culture of Time and Space
particolare il capitolo Restauro e percezione visiva,
1880-1918, Cambridge, Harvard University
Fiesole, Nardini, 1998.
Press, 1983 (trad.it., Il tempo e lo spazio. La
Ferraris Maurizio, L’immaginazione, Bologna, Il
percezione del mondo tra Ottocento e Novecento,
Mulino, 1996.
Bologna, Il Mulino, 1988).
Ferraris Maurizio, Estetica razionale, Milano,
Kuhn Thomas S., The Structure of Scientific
Raffaello Cortina, 1997.
Revolution, Chicago, The University Press, 1962
1992
(trad.
It.
Vita
e
134
(trad. it.
La struttura delle rivoluzioni scientifiche,
AA. VV., Le livre des expositions Universelles 1851-
Torino, Einaudi, 1969).
1989, Paris, Union Centrale des Arts Décoratifs,
Marconi Diego, voce Gnoseologia, in Enciclopedia
1983.
Garzanti di Filosofia, Milano, Garzanti, 1993.
Aimone, Linda – Olmo, Carlo,
Pagnini Alessandro, Teoria della conoscenza,
esposizioni universali 1851-1900. Il progresso in scena,
Milano, Tea, 1995.
Torino, Umberto Allemandi & C, 1990.
Patlagean Evelyne, Histoire de l’imaginaire, in La
Argan Giulio Carlo, Il concetto di revival, in
nouvelle histoire, Paris, RETZ-CEPL, 1979, (trad.
Rossana Bossaglia (a cura di), Il Neogotico nel XIX
it., Storia dell’immaginario, in La nuova storia,
e XX secolo, Milano, Mazzotta, 1989, pp. 27-33.
Milano, Mondatori, 198 0)
Argan Giulio Carlo (a cura di), Il Revival,
Popper Karl R., Logik der Forschung, 1934, La
Milano, Mazzotta, 1974.
logica della scoperta scientifica, Torino, Einaudi,
Assunto Rosario, Significato del neogoticismo, in
1970.
Rossana Bossaglia (a cura di), Il Neogotico nel XIX
Popper Karl R., Die Beiden Grundprobleme der
e XX secolo, Milano, Mazzotta, 1989, pp. 35-40.
Erkenntnistheorie, Tübingen, J. C. B. Mohr, 1979
Baculo Adriana – Gallo, Stefano – Mangone,
(trad. it. I due problemi fondamentali della teoria della
Mario, Le grandi esposizioni nel mondo 1851-1900.
conoscenza, Milano, Il Saggiatore, 1987).
Dall’edificio città alla città di edifici. Dal Crystal Palace
Spinicci Paolo, Sensazione, percezione, concetto,
alla White City, Napoli, Liguori, 1988
Bologna, Il Mulino, 2000.
Bergson Henri, Introduction à la méthaphisique, in
Tadié Jean-Yves, Tadié Marc, Le sens de la
«Revue de méthaphisique et de morale», 1903,
mémoire, Paris, Gallimard, 1999 (trad. it., Il senso
(trad. it., Introduzione alla metafisica, Bari, Laterza,
della memoria, Bari, Dedalo, 2000)
1987).
Vitta Maurizio, Il sistema delle immagini. Estetica
Bernabei Franco, Idee ottocentesche sul gotico, fra
della rappresentazione quotidiana, Napoli, Liguori,
storicisti e filosofi, in in Rossana Bossaglia (a cura
1999.
di), Il Neogotico nel XIX e XX secolo, Milano,
Wunenburger, Jean-Jacques, Philosophie des
Mazzotta, 1989, pp. 323-337.
images, Paris, Presses Universitaire de France,
Borsi Franco, L’architettura in Francia dalla
1997, trad. it., Filosofia delle immagini, Torino,
Rivoluzione al Secondo Impero, Firenze, Libreria
Einaudi, 1999.
Editrice Fiorentina, 1979.
Storia delle
Borsi Franco, L’architettura dell’Unità d’Italia. La
III
IL
TEMA
DELL’UNITA’ STILISTICA E
capitale a Firenze e l’opera di G. Poggi, Firenze, Le
Monnier, 1966.
DELL’ECLETTISMO*
Clark Kenneth, Gothic Revival, An Essay in the
AA. VV., Le siècle de l’eclectisme. Lille 1830-1930,
History of Taste, 1928 (trad. it. Il revival gotico. Un
Paris-Bruxelles,
capitolo di storia del gusto, Torino, Einaudi, 1970).
Moderne, 1979.
Archives
d’architecture
Collins Peter, Chenging ideals in modern architecture,
London, Faber and Faber, 1965 (trad. it. I
135
mutevoli ideali dell’architettura moderna, Milano,
del Novecento, Torino, Edizioni di Comunità,
Saggiatore, 1972)
2000, parte I e II).
Crippa Maria Antonietta, Storie e storiografia
La Monica Giuseppe, Alois Riegl. Scritti sulla
dell’architettura dell’Ottocento, Milano, Jaca Book,
tutela e sul restauro, Palermo, Ila Palma, 1982.
1994.
Manieri Elia Mario, Architettura e mentalità dal
De Fusco Renato,
Storia dell’architettura
Classico al Neoclassico, Roma-Bari, Laterza, 1989.
contemporanea, Bari, Laterza, 1974, cap. I
Mead Christopher Curtis, Charles Garnier’s
L’eclettismo storicistico.
Paris
Dezzi Bardeschi Marco, Neogotico, una questione
Renaissance of French Classicism, Cambridge, The
di stile, in in Rossana Bossaglia (a cura di), Il
MIT Press, 1991.
Neogotico nel XIX e XX secolo, Milano, Mazzotta,
Middleton Robin, Watkin David, Architettura
1989, pp. 413-423.
dell’Ottocento, Milano, Electa, 1980.
Fanelli Giovanni, Gargiani Roberto, Il
Muthesius
principio del rivestimento. Prolegomena a una storia
Baukunst. Wandlungen der Architektur im XIX.
dell’architetura contemporanea, Roma-Bari, Laterza,
Jahrhundert und ihr heutigen Standpunkt, Malheim
1994, cap. 1° L’origine tessile della parete e il principio
an der Ruhr, 1902 (trad. it., Il “ripristino“ dei nostri
del rivestimento.
antichi monumenti, in "Ananke", n. 17-18, 1997)
Gabetti Roberto, voce Eclettismo in Dizionario
Patetta Luciano, L’architettura dell’eclettismo.
Enciclopedico di Architettura e Urbanistica, Roma,
Fonti, teorie, modelli 1750-1900, Milano, Città
1968.
Studi, 1991.
Gabetti Roberto, Olmo Carlo, Alle radici
Pevsner Nikolaus, Pioneers of Modern Design.
dell’architettura contemporanea. Il cantiere e la parola,
From William Morris to Walter Gropius, …., 1943
Torino, Einaudi, 1989.
(trad. it., Pionieri dell’Architettura moderna, Milano,
Garnier Charles, Le nouvel Opéra, Paris,
Garzanti, 1999, cap. 2, Dal 1851 a Morris e le Arts
Editions du Linteau, 2001.
and Crafts).
Giedion Sigfried, Space, Time and Architecture.
Pevsner Nikolaus, An outline of European
The growth of a new tradition, Cambridge Mass.,
Architecture,
Harvard University Press, 1941 (trad. it., Spazio,
Penguin Books Ltd, 1957 (trad. it., Storia
tempo ed architettura. Lo sviluppo di una nuova
dell’architettura europea, Roma-Bari, Laterza, 1976,
tradizione, Milano, Hoepli, 1984, parte III).
cap. VIII, Classicismo e romanticismo, storicismo e
Grisleri A., Gabetti Roberto, Architettura
Liberty (1700-1914)).
dell’eclettismo. Un saggio su G. B. Schellino, Torino,
Quintavalle Arturo Carlo, Mitologie medievali in
Einaudi, 1973 (i cap. I, III, IV, VIII della 1°
Occidente, in Rossana Bossaglia (a cura di), Il
parte).
Neogotico nel XIX e XX secolo, Milano, Mazzotta,
Hitchcock Henry-Russel, Architecture: Nineteen
1989, pp. 390-412.
and Twentieth Century, London, Yale University
Riegl, Alois, Der moderne Denkmalkultus, sein
Press, 1958 (trad. it. L’architettura dell’Ottocento e
Wesen,
Opera.
seine
Architectural
Hermann,
Empathy
Stilarchitektur
Harmondsworth,
Entstehung.
and
the
und
Middlesex,
(Einleitung
zum
136
Denkmalschutzgesetz), Wien, Braunmüller, 1903
1986 (trad. it. parziale di M. Antonietta Crippa,
(trad. it. Il moderno culto dei monumenti, la sua
Conversazioni sull’architettura: selezione e presentazione
essenza, il suo sviluppo. Introduzione alla legge sulla
di alcuni “Entretiens”, Milano, Jaca Book, 1990).
protezione
Wolfflin
dei
Giuseppe,
monumenti,
in
La
Monica,
Alois Riegl. Scritti sulla tutela e sul
Heinrich,
Kunstgeschichtliche
Grundbegriffe, 1915 (trad. it. Concetti fondamentali
restauro, Palermo – San Paolo, Ila Palma, 1982).
della storia dell'arte, Milano, Longanesi, 1984).
Riegl,
der
Zevi Bruno, Storia dell‘architettura moderna,
Denkmalpflege, in "Mitteilungen der K. K.
Torino, Einaudi, 1950, cap. I La genesi
Zentralkommission", serie III, IV, 1905 (trad. it.
dell‘architettura moderna.
Alois,
Neue
Strömungen
in
Nuove correnti nella prassi della tutela dei monumenti,
in G. La Monica, Alois Riegl. Scritti sulla tutela e il
restuaro, Palermo, Ila Palma, 1982)
Ruprich-Robert
l'enseignement
de
Victor,
Reflection
sur
en
in
l'Architecture
1881,
«Magazine pittoresque», ……
Scarrocchia Sandro, Alois Riegl: teoria e prassi
* Sul tema delle Esposizioni Universali è fondamentale
l’esplorazione dei numerosi siti internet in cui si ritrovano le
riproduzioni fotografiche dei principali padiglioni espositivi
e degli edifici in mostra (in particolare la raccolta di
immagini delle esposizioni di Parigi del 1867 e 1889 presso
la Biblioteque nationale de France, e la collezione privata di
3000 delle 5000 cartoline illustrate prodotte per l’esposizione
di Bruxelles del 1910).
IV IL TEMA DELLA FRAMMENTAZIONE
della conservazione dei monumenti, Accademia
Albertina, Bologna, Clueb, 1995.
Appiano Ave, Estetica del rottame. Consumo del
Sedlmayr Hans, Verlust der Mitte, Salzburg,
mito e miti del consumo nell’arte, Roma, Maltemi,
Otto Muller, 1948, (trad. it., La perdita del centro.
1999.
Le arti figurative del diciannovesimo e ventesimo secolo
Barilli Renato, L’arte contemporanea. Da Cézanne
come sintomo e simbolo di un’epoca, Roma, Borla,
alle ultime tendenze, Milano, Feltrinelli, 1984.
s.d.).
Broch Hermann, Einige Bemerkungen zur Problem
Semper Gottfried, Wissenschaft, Industrie, Kunst.
des Kitsches. Conferenza tenuta nel 1950 al
Und
Architektur,
German Club della Yale University, (trad. it.
Kunsthandwork und kunstunterricht, Mainz, Florian
Note sul problema del Kitsch, in Hermann Broch, Il
Kupferberger, 1966 (trad. it. a cura di Benedetto
Kitsch, Torino, Einaudi, 1990, pag. 179.)
Gravagnuolo, Architettura Arte e Scienza, Napoli,
Cacciari Massimo, La metamorfosi dell’autenticità,
CLEAN, 1987).
in «Ananke», n. 2, 1993.
Walter Tega, Arbor Scientiarum. Enciclopedia e
Della Torre Stefano, Colore o spessore, in
sistemi in Francia da Diderot a Comte, Bologna, Il
Donatella Fiorani, (a cura di), Il colore dell’edilizia
Mulino, 1984.
storica, Roma, Gangemi, 2000.
Viollet-le-Duc Eugene E., Entretiens sur
Dilthey Wilhelm, Das achtzehnte Jahrhundert und
l'architecture, Paris, A. Morel et C. Éditeurs, rue
die geschichtliche Welt, in Deutsche Rundschaun,
Bonaparte 13, MDCCCLXIII (tome premier) -
ag.- sett. 1901 (trad. it., Il secolo XVIII e il mondo
MDCCCLXXII
storico, Edizioni Comunità, s.l. 1967).
andere
Schriften
(tome
uber
deuxième),
rist.
anastatica, Bruxelles, Pierre Mardaga editeur,
137
Eco Umberto, Apocalittici e integrati, Torino,
Betrachtungen, Zweiterstûk. Vom Nutzen und Nachteil
Bompiani, 1964
der Historie fûr dal Leben,
Eco Umberto, I limiti dell’interpretazione, Milano,
Ferruccio Masini, Sull’utilità e il danno della storia
Bompiani, 1990.
per la vita. Considerazioni inattuali, II, Newton
Eco Umberto, Interpretation and overinterpretation,
Compton editori, Roma, 1978, 1988).
Cambridge University Press, 1992, (trad. it.
Plebe Armando, Processo all’estetica, Firenze,
Interpretazione e sovrainterpretazione. Un dibattito con
1959.
Richard Rorty, Jonathan Culler e Christine BrooKe-
Vattimo Gianni, La fine della modernità, Milano,
Rose, Milano, Bompiani, 1995).
Garzanti, 1985.
Fiedler Konrad, Aphorismen, (1887), pubblicato
Vattimo Gianni, Rovatti Pier Aldo (a cura di),
postumo in Konrad Fiedler Schriften über Kunst,
Il pensiero debole, Milano, Feltrinelli, 1983.
Munchen, 1914 (trad. it. di Rossana Bossaglia,
Venturi Robert, Complexity and contradiction in
Aforismi sull’arte, Milano, Editori associati, 1994).
architecture, New York, The Museum of Modern
Foucault Michel, Les mots et les choses, Paris,
Art, 1966 (trad. it. Complessità e contraddizioni
Editions Gallimard, 1996 (trad. it., Le parole e le
nell’architettura, Bari, Dedalo, 1980).
cose. Un’archeologia delle scienze umane, Milano,
Zumthor Paul, Babele ou l’inachèvement, Paris,
Rizzoli, 1994).
Éditions du Seuil, 1997, (trad. It. Babele,
Harvey David, The Condition of Postmodernity,
Bologna, il Mulino, 1998).
1874 (trad,. it. di
Basil Blackwell, 1990, (trad. it., La crisi della
V IL TEMA DELLA REINTEGRAZIONE
modernità, Milano, Il Saggiatore, 1993).
Heidegger Martin, Einführung in die Metaphysik,
Tubingen, 1953 (trad. it., Introduzione alla
Amaldi V., Il monumento tombale a Rolando
Metafisica, Milano, Mursia, 1968).
Passeggeri in Bologna e la sua ricostruzione, in
Kubler George, The Shape of Time, 1972 (trad.
«Bollettino d’Arte», n. 3, 1951, pagg. 266-270.
it., La forma del tempo. La storia dell’arte e la storia
Angelini Luigi, Scoperte e restauri di edifici
delle cose, Torino, Einaudi, 1973).
medievali in Bergamo Alta, in «Palladio», n. 1, 1940,
Lisciani-Petrini Enrica, Il suono incrinato.
pagg. 35-43.
Musica e filosofia nel primo Novecento, Torino,
Barbacci Alfredo, Il “Cortile della Cavallerizza”
Einaudi, 2001.
nel Palazzo ducale di Mantova, in «Palladio», n. 2,
Lyotard
Jean-François,
La
Condition
1939, pagg. 63-75.
Postmoderne, Paris, Les Éditions de Minuit, 1979,
Barbacci Alfredo, Il monastero di San Giorgio in
(trad. it. La condizione postmoderna, Milano,
Braida a Verona e il suo restauro, in «Palladio», n. 2,
Feltrinelli, 1981).
1940, pagg. 75-80.
Mukarowskij J., I segnificato dell’estetica. La
Barbacci
funzione estetica in rapporto alla realtà sociale, alle
monumentali restaurati, in «Bollettino d’Arte» n. 4,
scienze, all’arte, Torino, Einaudi, 1973.
1948, pag. 380.
Nietzsche
Friedrich
W.,
Alfredo,
Contrassegni
sugli
edifici
Unzeitgemâsse
138
Barbacci Alfredo, I restauri della Mercanzia di
Carbonara Giovanni, Sul cosiddetto Palazzo di
Bologna, in «Bollettino d’Arte», n. 2, 1950, pagg.
Bonifacio VIII in Anagni. Dalla storia al restauro, in
171-176.
«Palladio», 1989, pp. 44.
Barbacci Alfredo, La chiesa di S. Maria
Chierici Gino, La Basilica di S. Lorenzo in Milano,
Annunziata in Bologna e il suo restauro, in Bollettino
Milano, Sestetti, 1938
d’Arte, n. 2, 1949, pp. 171-177.
Chierici Gino, Il restauro dei monumenti, in Atti del
Bellini Amedeo, Ricchi apparati e povere idee, in
III congresso di Storia dell’Architettura, Roma,
«Restauro», n. 51, 1980.
Colombo, 1940, pag. 332.
Bellini Amedeo, Istanze storiche e selezione nel
Choay, Françoise, L’allegorie du patrimoine, Paris,
restauro architettonico, in «Restauro», n. 68-69,
Ed. Seuil, 1992 (trad. it., L’allegoria del patrimonio,
1983.
Roma, Officina, 1995).
Biscontin Guido, Driussi Guido, Lacune in
De Angelis d’Ossat Guglielmo, Roma. Il
Architettura. Aspetti teorici ed operativi, Atti del
restauro degli edifici quattrocenteschi dell’Ospedale di
Convegno di Studi, Bressanone 1-4 luglio 1997,
Santo Spirito, in «Palladio», n. 5, 1939, pag. 212.
Marghera-Venezia, Arcadia, 1997.
De Angelis d’Ossat Guglielmo, Notizie e
Bonelli, Renato, Storiografia e restauro, in «Op.
Commenti.
cit.», n. 50, 1980, ripubblicato in «Restauro», n.
quattrocenteschi dell’Ospedale di Santo Spirito, in
51, 1980.
«Palladio», n. 5, 1939, pagg. 212-215.
Borsi Franco, Il restauro: una sfida mondiale?,
De Angelis d’Ossat Guglielmo, Danni di guerra
Roma, Officina, 1996.
e restauro dei monumenti, in «Palladio», n.?, 1948.
Boscarino Salvatore, Il restauro architettonico tra
De Fusco Renato, Ricchi apparati, povere idee, in
idee ed apparati, in «Restauro», n. 51, 1980.
«Op. cit.», n. 49, 1980.
Brandi Cesare, La più bella chiesa di Pietro da
Della Torre Stefano, “La speranza di un divenire
Cortona. Sfregio al capolavoro., in «Corriere della
organico del nostro mondo”. Gianfranco Caniggia e la
Sera», 8 febbraio 1970.
città di Como, in “Ananke”, n. 9, 1995.
Brandi Cesare, Restauro-miracolo per il Duomo di
Della Torre Stefano, Colore o spessore, in
Modena, in «Corriere della Sera», 2 settembre
Donatella Fiorani (a cura di) Il colore dell’edilizia
1984.
storica, Roma, Gangemi editore, 2000.
Ciotti U., Restauro della porta “Giove” di Falerii
De Vita M., Il restauro della chiesa di S. Pietro in
Novi, in «Bollettino d’Arte», n. 1, 1948, pagg. 58-
Tivoli, in «Bollettino d’Arte», n. 2, 1951, pagg.
59.
174-179.
Brandi Cesare, Restauro-miracolo per il Duomo di
Dezzi Bardeschi Marco, Restauro: costruire,
Modena, in «Il Corriere della Sera», 2 settembre
distruggere, conservare, in «Rinascita», n. 39, 1976.
1984, cit. in Cesare Brandi, Il restauro. Teoria e
Dezzi Bardeschi Marco, Modi e tecniche della
pratica, a cura di Michele Cordaro, Roma, Editori
conservazione, in AA. VV. Restauro in Italia e la
Riuniti, 1994, pag. 230.
Carta di Venezia, Atti del Convegno ICOMOS,
Roma
–
Il
restauro
degli
edifici
Napoli-Ravello, in «Restauro», n. 33-34, 1977.
139
Dezzi Bardeschi Marco, Archeologia della
Forlati Ferdinando, Restauro di edifici danneggiati
fabbrica e cultura materiale: immagine, realtà, destino,
dalla guerra – provincia di Treviso, in «Bollettino
in «Restauro», n. 38-39, 1978.
d’Arte», n. 3, 1950, pagg. 259-276.
Semplice/
Forlati Ferdinando, Restauro di edifici danneggiati
Complesso/Irriducibile: verso nuove disciplinarità, in
dalla guerra – provincia di Padova, in «Bollettino
Carolina Di Biase, (a cura di), Nuova complessità e
d’Arte», n. 1, 1951, pagg. 84-89.
progetto dell’esistente, Milano, Franco Angeli, 1989.
Galli Letizia, Il restauro nell’opera di Gino Chierici
Dezzi
(1877-1961), Milano, Franco Angeli, 1989.
Dezzi
Bardeschi
Bardeschi
Marco,
Marco,
Pratica
della
conservazione e cultura materiale: dalle tecniche di
Giovannoni Gustavo, Restauri di monumenti in
riconoscimento ai cantieri sperimentali, sta in Restauro
La tutela delle opere d’arte in Italia, Atti del I
punto e da capo: frammenti per una (impossibile) teoria,
Convegno
a cura di Vittorio Locatelli, Milano, Franco
Monumenti e Scavi, Roma 22-25 ottobre 1912,
Angeli, 1991.
in «Bollettino d’Arte del Ministero della
Di Stefano Roberto, Sviluppo del concetto di
Pubblica Istruzione» n. 1, 1913.
conservazione, in «Restauro», n. 33-34, 1977.
Giovannoni Gustavo, La conferenza internazionale
Fancelli Paolo, Il restauro dei monumenti, Fiesole,
di Atene pel restauro dei monumenti, in “Bollettino
Nardini, 1998.
d’Arte”, XXV, fasc. IX, 1932, pagg. 408-409.
Fancelli Paolo, Parusia. Il restauro e l’equivoco del
Giovannoni
bello, in «Arkos», n. 4, 2001, pagg. 14-21.
Enciclopedia Italiana, vol. XXIX, Roma, Istituto
Filetici Maria Grazia, “Il frammento nel restauro
dell’Enciclopedia Italiana, 1936, pagg. 127-130.
archeologico”. L'integrazione di alcuni capitelli del
Giovannoni Gustavo, Quesiti di restauro. La
Tempio Rotondo al Foro Boario, in Segarra Lagunes,
loggia del Capitanio di Vicenza, in «Palladio», n. 1,
Maria Margarita (a cura di), La reintegrazione nel
1939, pagg. 21-26.
restauro dell’antico. La protezione del patrimonio dal
Giovannoni Gustavo, Il restauro dei monumenti,
rischio sismico, Atti del seminario di studi
Roma, Tipografia editrice Italia, 1945.
Paestum, 11-12 aprile 1997, Roma, Gangemi,
Gizzi Stefano, Le reintegrazioni nel restauro. Una
1997, pagg. 179-196.
verifica nell’Abruzzo aquilano, Roma, Kappa, 1988.
Fiorani Donatella, (a cura di), Il colore
Gizzi Stefano, Reintegrazioni di superfici in pietra:
nell’edilizia storica, Roma, Gangemi editore, 2000.
una verifica in area romano laziale, Bressanone, 1991
Forlati Ferdinando, La Pieve di S. Andrea a
Gizzi Stefano, Giovanni Secco Suardo. La cultura
Sommacampagna, in «Palladio», n. 5-6, 1942, pagg.
del restauro tra tutela e conservazione dell’opera d’arte.,
184-187.
in «Ricerche di Storia dell’arte», n. 60, 1996,
Forlati Ferdinando, Restauro della chiesa degli
pagg. 84-85.
eremitani a Padova, in «Bollettino d’Arte», n. 1,
Lavagnino E., Restauro del Tempio malatestiano, in
1948, pagg. 80-84
«Bollettino d’Arte», n. 2, 1950, pagg. 176-184.
degli
Ispettori
Gustavo,
voce
Onorari
Restauro,
dei
in
Forlati Ferdinando, Il ponte vecchio di Bassano, in
«Bollettino d’Arte», n. 2, 1949, pagg. 177-181.
140
Le comble de l’Impudence. Le travestissement de Notre-
protezione del patrimonio dal rischio sismico, Atti del
Dame de Paris par Viollet-le-Duc, in «Les Pierres de
seminario di studi, Paestum, 1997, Roma,
France», n. 1, 1937.
Gangemi, 1997.
Marconi Paolo, Arte e cultura della manutenzione dei
Torsello B. Paolo, La materia del restauro,
monumenti, Roma-Bari, Laterza, 1984.
Venezia, Marsilio, 1988.
Maretto Paolo, L’edilizia gotica veneziana, in
Torsello
«Palladio», n. III-IV, 1960.
metodologiche dell’intervento, in B. Paolo Torsello (a
Morozzi G., Ritrovamenti e restauri in quattro pievi
cura di) Il Castello di Rapallo. Progetto di restauro,
toscane danneggiate dalla guerra, in «Bollettino
Venezia, Marsilio, 1999.
d’Arte», n. 2, 1950, pagg. 156-160.
Zander Giuseppe, Un errore gravissimo nel campo
Pane Roberto, Il restauro dei monumenti, in
del restauro: riportata come nuova la facciata di SS.
«Aretusa», n. 1, 1944.
Luca e Martina, in «Palladio», n. I-IV, 1969, pag.
Roselli Piero (a cura di), Le pietre dell’architettura.
163.
B.
Paolo,
Origini
concettuali
e
I restauri di Piero Sanpaolesi, Firenze, Alinea, 1994.
Segarra Lagunes, Maria Margarita, (a cura
di), La reintegrazione nel restauro dell’antico. La
141