La tv, il futuro di un`illusione – Estratto ()

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CARLOTTI, GORI E FRECCERO: MINDSHARE AFFIDA A TRE SAGGI IL DESTINO
DELLA TV
La meglio ‘gioventù’ di diverse ma contigue generazioni della tv commerciale: Maurizio Carlotti, il
‘venditore’ emigrato in Spagna a Telecinco e poi ad Antena Tres, di cui è tuttora vicepresidente
esecutivo; Carlo Freccero, attuale direttore di Rai 4, intellettuale capace di ‘sporcarsi’ le mani sia con la tv
commerciale che con quella del servizio pubblico di vari Paesi; Giorgio Gori, il direttore dei palinsesti
delle tre reti Fininvest e quindi, in era Mediaset, di Italia 1 e di Canale 5 prima di mettersi in proprio e
lanciare Magnolia e poi decidersi ad abbandonare cariche e attività televisive in Zodiak per coltivare la
mai sopita passione per la politica. Protagonisti brillanti di vicende televisive di respiro europeo, sono
stati coinvolti nel primo dei quattro appuntamenti di Purple Program, il ciclo d’incontri che MindShare ha
voluto dedicare ai propri clienti per un aprire un confronto realistico e costruttivo su alcuni temi chiave
per la media industry.
Il CEO Roberto Binaghi e il CMO Carlo Momigliano, hanno deciso di iniziare il percorso accendendo i
riflettori sulla tv. Aprendo il convegno, Binaghi, in parziale dissenso con le conclusioni dell’Indagine
Conoscitiva dell’AGCom sul mercato della raccolta pubblicitaria, ha affermato che “gli investimenti sulla
tv in Italia non sono l’effetto di un errore o di una distorsione, ma, al più, come avrebbe detto Freud, di
una illusione, cioè di un desiderio profondo degli investitori pubblicitari”.
Roberto Binaghi ha poi proposto ai “tre saggi” quattro temi, dal livello apparentemente più “alto” e
lontano dalle decisioni operative di tutti i giorni al livello più “tecnico” e connesso con le problematiche
del planning: L’impatto della televisione commerciale sui consumi e sulla società; il ruolo presente e
futuro del servizio pubblico; l’espansione della televisione negli altri media e la nuova centralità acquisita
da questo mezzo grazie ai social network; i format pubblicitari in grado di “scaricare a terra” per gli
investitori questa espansione.
La tv commerciale è nata ‘democratica’
Psicanalitica la regressione al periodo della comune militanza nelle fila del Biscione, innescata dalla
provocazione di una “telefonata di Margherita Hack”, evocata da Roberto Binaghi: trent’anni di
televisione commerciale hanno secondo sociologi e politologi formato il gusto medio del Paese, favorito
l’adesione ed il consenso al berlusconismo. I tre manager, di cui è noto un orientamento culturale di
sinistra, si sentono ‘responsabili’?
"In qualunque giudizio o analisi critica non va considerato soltanto il ’qui e ora’, ma va sempre tenuta
presente la dimensione storica". Non siamo noi che decidiamo sempre tutto, molte volte siamo ‘parlati’
dalla storia» si è difeso Freccero. Che ha sostenuto di sentirsi soltanto lo strumento, l’artefice pratico di
fenomeni, il successo della tv commerciale e l’apertura piena al consumismo della società italiana, che si
sarebbero comunque fatta strada.
«Non è vero– ha sostenuto Giorgio Gori – che è stata la Fininvest a cambiare il sentire comune, creando il
liquido amniotico in cui poi Berlusconi ha sguazzato politicamente. Piuttosto è stato vero il contrario: la
tv commerciale è stato un attendibile strumento di registrazione di umori e aspettative degli italiani. Gli
ha dato una forma ed in questo è stata in tutto e per tutto un’operazione progressista e democratica».
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Tutto quanto è accaduto in un’epoca storica in cui, ha raccontato Freccero, «si stava mettendo da parte la
coscienza di classe per fare entrare in gioco l’io», sancendo "l’inizio della condizione post moderna con la
colonna sonora della disco music".
Maurizio Carlotti ha distinto la propria posizione da quella dei compagni Freccero e Gori, rivendicando il
proprio background commerciale: «Ho sempre avuto ben chiaro che facevo la televisione per vendere la
pubblicità e non il contrario. Che l’unico criterio a cui dovevo attenermi era quello economico. Qualsiasi
azienda – ha proseguito - è alla fine un’impresa di trasformazione e la gestione si può considerare un
successo se si trasforma una quantità di costi nota in una quantità superiore di ricavi. La tv commerciale
non è un’eccezione a questa regola».
Il ‘paradigma di Auditel’ e l’adesione incondizionata al gusto del pubblico, l’attacco diretto alle lobby e
alle logiche elitarie che avevano fino a quel momento governato il palinsesto della tv di stato e la società
sono stati veri elementi eversivi di quel momento storico. «La tv commerciale – ha spiegato Freccero sostituì al pubblico da pedagogizzare della tv del monopolio i tanti ‘pubblici’ che compongono l’audience
da vendere».
Un periodo «folgorante e inebriante» ha ricordato Freccero, sottolineando però un aspetto critico per lui
decisivo: «C’è un’anomalia tutta italiana nella storia della tv commerciale che va considerata: che non ci
sono mai state delle leggi a regolarne la vita. Già nel 1984 il Berlusconi pioniere della tv commerciale,
nel momento dell’oscuramento dei pretori, anticipa il Berlusconi della discesa in campo chiamando in
causa l’audience come strumento politico».
Patologico, invece, secondo Gori è stato il fatto che in Italia il servizio pubblico abbia assunto la stessa
natura di Mediaset e si sia abbeverato alla stessa monocultura dell’audience.
La colpa è di chi aveva la responsabilità di disegnare in maniera un po’ diversa il sistema chiamando la
Rai almeno in parte fuori da questa logica e non l’ha fatto. Il conflitto d’interesse della sinistra – ha detto
Gori – è consistito in questo: pur di contrapporsi totalmente all’avversario ha scelto di contaminare la Rai
con lo stesso meccanismo commerciale, omologandola».
La cosa «più triste» del sistema italiano di servizio pubblico è stata invece, secondo la chiosa di Freccero
«che abbia dovuto subire le logiche censorie e quelle lottizzatorie del berlusconismo sul versante
dell’informazione e la poetica ‘da sussidiario’ di estrazione cattolica nella produzione della fiction. Il
tema più affascinante di quest’epoca - ha concluso sul tema il direttore di Rai 4 - è capire cosa produrre. E
nel deciderlo il servizio pubblico non deve usare solo gli strumenti del marketing industriale ma anche
quelli del marketing culturale».
La riforma dolce firmata Gori e la Rai senza spot di Carlotti
Il tema della natura e del destino della Rai ha occupato la parte centrale del dibattito, parte innescata da
alcune tavole su “mercati rilevanti”, quote di Audience e quote di ricavi pubblicitari di Rai confrontate
con quelle delle altre tv di servizio pubblico in Gran Bretagna, Francia, Spagna e Germania illustrate da
Carlo Momigliano che ha parlato di “eccellenza per audience ed eccentricità per fonti di finanziamento
del modello italiano rispetto agli altri grandi Paesi dell’Unione Europea”. Carlotti è stato sull’argomento
il più drastico e netto. «Sono assolutamente contrario al fatto che la tv pubblica venda spazi pubblicitari
anche perché la presenza degli spot ne deforma chiaramente la missione, che non è certo quella della
ricerca delle audience» ha sostenuto il manager veneto. Secondo Carlotti «se si potesse tornare indietro
nessuno Stato rifarebbe la tv di servizio pubblico nella stessa maniera in cui è stata organizzata nei vari
Paesi europei nel dopoguerra».
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Quale dovrebbe essere la conformazione attuale? «Senza fabbriche interne e senza migliaia di impiegati.
Un servizio pubblico moderno dovrebbe allocare tutta la produzione dei contenuti all’esterno, limitandosi
al controllo della merce appaltata e – ha concluso Carlotti - cercando il miglior prezzo e la maggiore
qualità possibile».
Riformista invece l’approccio di Giorgio Gori che ha rilanciato la propria idea di «separare i fratelli
siamesi». Il fondatore di Magnolia auspica la creazione di due società diverse, una finanziata dal canone e
senza spot (ha immaginato che dentro quest' offerta ci fossero Rai Tre, RaiSport1, Rai Sport2, Rai Gulp,
Rai Storia, Rai 5, Rai Scuola) ed una finanziata soltanto dalla pubblicità raccolta e trasmessa tenendo
conto degli stessi limiti di affollamento della tv commerciale (con nel bouquet Rai Uno, Rai Due, Rai 4,
Rai Premium e Rai Movie).
Ma ha senso che un ente pubblico televisivo detenga la proprietà di un soggetto che agisce secondo
logiche totalmente commerciali? Gori ha citato l’esempio virtuoso di Channel Four, che in Inghilterra è di
proprietà pubblica ma vive totalmente di pubblicità: «La proprietà pubblica fa si che la vocazione a
sperimentare venga esaltata. Channel Four, inoltre, non può produrre in proprio e costituisce un volano di
domanda pubblica per la produzione privata».
Secondo Freccero «la riforma Gori è una buona idea, perché è realista e progressiva e perché la divisione
tra reti di servizio pubblico senza pubblicità e reti commerciali è già presente nei fatti o quasi nell’attuale
Rai». Secondo il direttore di Rai 4 «il vero problema del mercato in questo momento è la sua cornice, la
terribile crisi economica imperante». Ed in questo contesto l’aspetto più critico non è quello di disegnare
un nuovo e più attuale modello di funzionamento della Rai, ma quello di capire che fine farà Mediaset,
entrata a suo parere in una preoccupante parabola discendente. «Lo dico con tenerezza, vorrei che
Mediaset esistesse e fosse sana. Ma sono sconvolto dai problemi drammatici d’identità e di risultati che la
investono. Non vedo un disegno, non vedo un progetto, Mediaset vive di un passato che ancora genera
inerzia, ma non si desume alcuna visione, alcuna consapevolezza di cosa debba diventare» ha detto l’ex
pioniere del Biscione.
La tv, i social network ed il teorema delle mille briciole
In chiusura di convegno, si è infine toccato l’argomento più caldo. La tv sta declinando o si sta
espandendo e prolungando negli altri mezzi e nel web? E come questa espansione si traduce in format
pubblicitari? Carlo Momigliano ha sollecitato le risposte dei tre saggi mostrando diverse case histories
editoriali e pubblicitarie, e illustrando in particolare gli studi di Gfk in Gran Bretagna e di Nielsen negli
USA che dimostrano la forte correlazione statistica tra ascolti televisivi e “conversazioni”
online:”tuttavia”, ha concluso Momigliano, “una cosa è la correlazione statistica, altra cosa cosa è un
rapporto di causalità, e per il momento sia gli studi di Gfk sia gli studi Nielsen sia le analisi di GroupM
non consentono di individuare il rapporto causa-effetto in maniera definitiva”.
Maurizio Carlotti ha teorizzato che la tv sta bene, che il secolo d’oro della pubblicità sarà il ventunesimo
perché molto presto ci saranno tante aziende dei cosiddetti Paesi in via di sviluppo che vorranno costruire
marche e farle affermare e tante altre aziende che dovranno difendere i propri brand da questo assalto. Per
costruire e difendere marche, secondo Carlotti, il mezzo migliore rimane la televisione.
La tracciabilità della Rete? «Personalmente – ha osservato il capo di Antena Trés - auspico che la tv vada
su internet il più tardi possibile. Spero che nessuno ci spinga fuori dall’etere e ci costringa alla
commistione e alla confusione con altri milioni di emittenti e messaggi».
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Secondo Gori che dalla tv si generi sempre di più traffico diretto verso la Rete è un fatto oggettivo:
«Pensavamo che sarebbe stata la televisione a pescare contenuti video generati dagli utenti del web e
invece è successo esattamente il contrario. L’allargamento dell’offerta digitale e il contributo di Internet
e dei social network stanno proiettando la televisione in una dimensione di ritrovata centralità. La tv è il
cuore di molte delle conversazioni che avvengono sulla Rete e una quota rilevante dei video che vengono
visti o condivisi sul web, fenomeno in crescita clamorosa, è di fonte televisiva. All’amico Maurizio
Carlotti mi permetto di suggerire una maggiore apertura nei confronti di questi fenomeni. Nessuno di noi
deciderà come andranno a finire i processi in atto e farne la difesa estrema, asserragliati in trincea, non
prolungherà di un secondo la fase di preminenza del mezzo televisivo. La vera svolta non c’è ancora stata
solo perché qualcuno ha artificiosamente ritardato la realizzazione di una infrastruttura di Rete evoluta».
Quando le autostrade informatiche saranno una realtà anche da noi cadranno alcune barriere difensive e il
ruolo di editori e competitor di giganti come Apple o Google diventerà eclatante.
«Un’affermazione di Carlotti che per anni ho citato in mille convegni, discussioni e dibattiti, “Non si può
spalmare il burro su mille briciole” – ha continuato Gori - non è più vera.
Proprio voi dei centri media già oggi potete garantire la possibilità di ricostruire il panino carlottiano
mettendo assieme in maniera efficace e misurabile le micro audience che prima risultavano
inutilizzabili».
Non basta più ricomporre tecnologicamente le mille briciole di pane, invece, secondo Freccero. «Oggi la
logica della quantità non ci garantisce più nulla sui risultati dell’advertising. Le cose migliori della tv
commerciale (N.d.r: l’intellettuale savonese ha detto che salva solo i programmi di Antonio Ricci, Le Iene
e Maria De Filippi), i modi sobri e le scarpe nere del nuovo Papa ma anche il nuovo spot della Telecom
con Chiara Galiazzo protagonista hanno un tratto comune essenziale: trasmettono valori. La crisi, il
comune sentire impongono questa svolta ».
Milano, 19 aprile 2013
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