All’orizzonte si profila un collasso generale. Si tratterebbe solo di indovinarne la forma e l’epicentro. Si è già raggiunto il punto di non ritorno o lo si può ancora evitare? Una prognosi sul futuro richiede prima di tutto un approfondimento dell’interazione tra inflazione e deflazione, le due forze opposte che oggi si scontrano sulla scena del dramma economico. Inflazione e deflazione L’inflazione e la deflazione sono, in ultima analisi, rispettivamente la svalutazione e la rivalutazione dell’unità monetaria. Si ha inflazione quando l’aggregato monetario si espande più velocemente di quello dei beni. Se la moneta abbonda e i beni sono scarsi, il loro prezzo aumenta e la moneta si deprezza. Con la deflazione si verifica il contrario: l’aggregato monetario si contrae più velocemente di quello dei beni, i prezzi calano e l’unità monetaria si rivaluta.L’inflazione è un fenomeno politico perché l’aggregato monetario è regolato dagli istituti di emissione in accordo con i governi. Entrambi pensano che in presenza di recessione stimoli monetari provochino un aumento della domanda di beni e quindi della spesa aggregata. Ma è solo un’illusione: l’inflazione non aumenta mai la ricchezza netta. Il suo esito finale è sempre la svalutazione monetaria e la contrazione della ricchezza. Un’inflazione intorno al 3 per cento all’anno, considerata innocua, dimezza il potere d’acquisto nel corso di una generazione. Se raddoppia lo dimezza in poco più di un decennio. Se i prezzi aumentano anche tassi di interesse dovrebbero aumentare per compensare la perdita del potere di acquisto ma invece vengono progressivamente ridotti. La deflazione, di per sé è un fenomeno economico. E’ una crescita della produzione più veloce della crescita dell’aggregato monetario. Il progresso economico provoca una naturale tendenza alla discesa dei prezzi. Se aumenta la produzione e la produttività, i prezzi diminuiscono e pertanto lo stesso aggregato monetario è compatibile con un maggiore volume di spesa. Poiché la depressione si accompagna alla deflazione che comporta scarsità di denaro, le banche centrali ravvisano nella discesa dei prezzi il sintomo di una crisi e cercano di prevenirla con stimoli monetari. Ma la depressione si verifica per il crollo della produzione reale e dei redditi su cui si basa la spesa, non perché il livello dei prezzi cala. Confondendo le cause con i sintomi, gli istituti di emissione inflazionano sempre alimentando il male che pretendono di curare. la scena del dramma A partire dal 2008 la base monetaria dei paesi sviluppati è aumentata in proporzione al debito e in sproporzione alle economie ma l’inflazione è rimasta confinata al settore finanziario. Affinché si manifesti nell’economia reale occorre che il denaro venga effettivamente speso. Se il pubblico ha in tasca 50 e le banche 1000 la base monetaria è 1050. È’ su questa base che vengono moltiplicati i mezzi di pagamento, il cui maggior volume fa aumentare i prezzi dei beni e servizi. Finora il credito è stato erogato solo ai sistemi bancari per risanarne le perdite e permettere ai governi nuova spesa. L’inflazione quindi è rimasta contenuta. D’altra parte poiché rimane superiore ai tassi di interesse nominali, i tassi reali risultano negativi incentivando l’indebitamento. Ma in termini economici, la soppressione dei tassi comporta una valutazione dei beni futuri minore di quella dei beni presenti e ciò significa dilapidazione del presente rispetto al futuro. Significa quindi arresto del processo di accumulazione e decadenza industriale. Proprio quello che accade negli USA, Europa e Giappone. In tale contesto se, per ipotesi, il credito fosse erogato all’economia in dosi massicce avrebbe l’effetto dirompente del crollo di una diga. Riversandosi sui beni esistenti l’onda d’urto di liquidità provocherebbe un’iperinflazione, quel fenomeno estremo per cui la domanda di moneta tende allo zero perché tutti, per evitare la perdita del potere d’acquisto si affrettano a spenderla, i prezzi tendono all’infinito e il valore della moneta allo zero. Poiché cesserebbe la sua funzione di mezzo di scambio, crollerebbe il sistema dei pagamenti e insieme, la divisione del lavoro di cui la moneta è il presupposto. Per evitare il ritorno al baratto bisognerebbe riprogettare il sistema monetario. Questo fenomeno si è verificato frequentemente nella storia e in ogni parte del globo. Di fronte a un tale cataclisma ben magra sarebbe la soddisfazione di vedere azzerati i propri debiti. Nell’economia reale è invece prevalsa la deflazione. I fallimenti a catena, la diminuzione della produzione, del reddito e della spesa aggregata e il processo generale di liquidazione per ripagare i debiti ha provocato il calo del livello dei prezzi e quindi una contrazione monetaria. Per compensarla le banche centrali acquistano debito dai governi in cambio di liquidità: se anche i governi non spendessero, la totalità dei mezzi di pagamento crollerebbe portando alla depressione. Tuttavia, la continua monetizzazione non è una cura perché mantiene l’economia nell’occhio del ciclone. Ma non può restarci in eterno. Per cui, delle due l’una: o l’economia sprofonderà nel buco nero della depressione o sarà spinta nel vortice inflazionistico. Tertium non datur. In regime di debito crescente e tassi a zero o al di sotto, lo sviluppo non è un opzione, è un’impossibilità. Sulla scena di questo dramma l’unico settore a prosperare è la speculazione, gratuitamente finanziata dalla soppressione dei tassi reali operata delle banche centrali. Nel gran casinò dell’economia mondiale esse rappresentano i croupiers che distribuiscono le fiches e alimentano l’azzardo dei governi e della speculazione finanziaria (banche di investimento e intermediari finanziari non bancari). Quest’ultima conoscendo in anticipo le mosse dei croupier vende allo scoperto i titoli obbligazionari al momento del rialzo per riacquistarli al momento del ribasso catturando, senza neppure scommettere, le differenze di prezzo. Del resto, in un ambiente caratterizzato dall’assenza di rendimenti l’arbitraggio è l’unico gioco redditizio. Lo stesso avviene nel mercato borsistico e dei cambi dove correnti finanziarie erratiche provocano perturbazioni nei valori nominali. L’incertezza e l’instabilità che ne consegue alimenta la proliferazione degli strumenti di copertura del rischio. La torre di babele dei derivati non è altro che la conseguenza del regime di volatilità permanente indotta delle politiche di debito e dal regime di tassi calanti. Il mercato finanziario dilatandosi senza creare valori reali si è trasformato in un’unica e immensa bolla. Ma nel gioco d’azzardo non esistono polizze assicurative. Tutte le bolle prima o poi scoppiano e questa volta gli effetti sarebbero peggiori di quelli della crisi del 2008. Il baratro valutario La coesistenza di inflazione e deflazione è implicita nel sistema monetario attuale dove le monete sono funzione del debito. Se le monete rappresentano una passività non è logicamente possibile che, a livello economico complessivo, possano estinguere altre passività. Per cui, allo stato attuale il debito è indomabile. Se il valore delle monete dipende dal valore del debito quest’ultimo ha un valore che dipende dalla solvibilità del debitore. Ma chi la garantisce? La garantisce l’economia reale soggetta a prelievo fiscale forzoso. Se l’economia, crescendo, garantisce un buon prelievo fiscale la domanda di debito sale insieme a quella della moneta in cui è denominato. Ma un’economia in recessione mettendone in questione la solvibilità ne fa calare la domanda. Per stimolarla occorre offrire agli investitori tassi più alti che farebbero aumentare il costo del debito, per cui le banche centrali lo mantengono basso assorbendo tutta l’offerta di debito. Il suo valore nominale sale di nuovo ma quello reale scende perché la sua grandezza cresce più velocemente rispetto al calo del PIL, segnalando nuovo rischio di insolvenza e inflazione. Queste fluttuazioni monetarie continue provocano le scosse che preludono al collasso. Questo non è mai un processo lineare ma ondulatorio e si sviluppa nel corso degli anni per erompere all’improvviso senza preavviso. Segue la legge fisica della risonanza: continui stimoli monetari provocano oscillazioni nei valori sempre più forti fino a far crollare l’intera struttura economica. Infatti, il rischio di detenere attività finanziarie, che non sono altro che passività di terzi, potrebbe diventare così elevato da indurre gli investitori a sbarazzarsene definitivamente facendole precipitare al valore intrinseco: lo zero. A quel punto i tassi di interesse andrebbero alle stelle facendo crollare definitivamente il castello di carta del debito. L’aggregato monetario collasserebbe provocando il buco nero della depressione. Le banche centrali per impedirla dovrebbero irrorare il sistema economico di liquidità che comincerebbe a far lievitare i prezzi. La speculazione, allora, ne amplificherebbe l’aumento dirigendosi verso tutto ciò mantiene il potere d’acquisto e non è soggetto a default, in particolare le materie prime, il cui valore schizzerebbe rispetto alle monete già deprezzate sia dai deficit fiscali che dalle svalutazioni competitive per ridurre i deficit commerciali. Non si può quindi escludere che un deprezzamento valutario estremo possa provocare iperinflazione spingendo il costo di tutte le cose a livelli stratosferici. Nella storia, l’iperinflazione è stata sempre l’esito della monetizzazione per finanziare i deficit dei governi. Il punto di non ritorno si verificava quando per pagare il debito dovevano ricorrere a nuovo debito. Risultava pertanto inevitabile la loro insolvenza che cercavano di mascherare con l’inflazione monetaria. A quel punto nulla potevano più le autorità monetarie: una volta che la moneta perde valore lo perde per sempre. Esse ne controllano la quantità ma non la velocità di spesa che dipende da fattori psicologici di massa imprevedibili. Si obietta che, oggi, a differenza del passato, questo scenario estremo può essere evitato grazie all’ingegneria finanziaria e al maggior coordinamento delle banche centrali. Ma è illusorio che le stesse azioni foriere di catastrofi possano prevenirle. L’unico potere che hanno è di ritardarne gli effetti rendendoli più devastanti.