BIBLIOTECA POLITICA RITRATTI, SCENARI, IDEE BIBLIOTECA POLITICA RITRATTI, SCENARI, IDEE L’uomo è per natura un animale politico. A Tendere verso l’idea di polis rivelata dall’etimologia stessa del termine “politica” è un’inclinazione naturale dell’essere umano. La dimensione politica è una risposta necessaria all’esigenza di costituire una comunità e il relativo governo; per questo è stata inevitabilmente oggetto di riflessioni nel corso della storia. La collana intende raccogliere materiali sulla natura politica dell’uomo e sulle sue declinazioni nel tempo, ospitando volumi di taglio saggistico dedicati a personaggi, contesti e linee di pensiero. Rodolfo Carelli Il testimone da Moro e Ruffilli La democrazia matura e il cittadino arbitro Prefazione di Pierluigi Castagnetti Intervista a cura di Giovani Grasso Copyright © MMXV Aracne editrice int.le S.r.l. www.aracneeditrice.it [email protected] via Quarto Negroni, Ariccia (RM) () ---- I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento anche parziale, con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi. Non sono assolutamente consentite le fotocopie senza il permesso scritto dell’Editore. I edizione: maggio Questo brano di Aldo Moro è dedicato a tutti i democratici a partire da Matteo Renzi. Se mi chiedete tra qualche tempo che cosa accadrà, io dico: può esservi qualcosa di nuovo. Se fosse possibile dire: saltiamo questo tempo e andiamo direttamente a questo domani, credo che tutti accetteremmo di farlo, ma cari amici, non è possibile: oggi dobbiamo vivere, oggi è la nostra responsabilità. Si tratta di essere coraggiosi e fiduciosi al tempo stesso, si tratta di vivere il tempo che ci è stato dato con tutte le sue. A M, “Il governo di solidarietà nazionale”, intervento ai gruppi parlamentari del partito, Roma febbraio Indice Prefazione di Pierluigi Castagnetti Intervista a cura di Giovanni Grasso Poesie civili Prefazione di P C Possiamo dire che per Rodolfo Carelli la politica è la passione di una vita. Una passione che è cominciata prima dell’impegno parlamentare e che accompagnerà sempre la sua esperienza umana. La politica è per lui una irresistibile passione per il bene comune, cioè la propensione ad andare oltre la dimensione soggettiva e incontrare quella degli altri. Ma la passione della politica è l’intelligenza della storia, dei grandi processi di cambiamento innestati dalla storia, verso obiettivi sempre ulteriori. Ed è l’intelligenza del governo di tali processi. Una intelligenza che può formarsi anche negli uomini di studio e fermarsi allo stadio del mero studio. Ma, quando si sprigiona la passione, i processi non restano un semplice oggetto di comprensione e di studio ma si trasformano in un mettersi in cammino per entrarvi dentro e guidarli, appunto. Nell’intervista che riassume i punti essenziali espressi in una miriade di scritti, c’è la possibilità di cogliere la vastità del suo orizzonte politico, l’originalità dell’uomo di cultura che arricchisce sempre le valutazioni politiche con le radici e le prospettive, con immagini e riferimenti ai classici e comunque a letture non banali e non consuete in chi della politica ha fatto un “mestiere”. In effetti per Carelli la politica ha rappresentato un impegno molto assorbente ma non è mai stata un mestiere, è stata una passione e un servizio dovuto alla comunità. Ricordo gli anni in cui siamo stati colleghi a Montecitorio e lo vedo ancora rincorrere ministri e sottosegretari per consegnare loro un appunto, il più delle volte si trattava di una segnalazione di qualche caso bisognoso, altre volte erano Prefazione suggerimenti offerti gratuitamente a un collega impegnato nel governo, in entrambi i casi erano la rivelazione di un uomo che lavorava nel suo collegio elettorale e nelle sue serate domestiche non meno che nei giorni di presenza in parlamento. Non a caso fra i suoi colleghi del periodo - risulta essere il primo per presenze. Ma, soprattutto, ricordo, negli interventi nel Gruppo parlamentare o in Aula, oltreché nelle conversazioni in “transatlantico”, il suo interesse alle questioni istituzionali, le più complicate e difficili per chi fa politica. Carelli le maneggiava con padronanza, così come le questioni legate ai sistemi elettorali che richiedono una preparazione giuridica non affrettata. Di tutto ciò echeggiano non a caso pressoché tutti gli interventi richiamati nell’intervista che qui sono raccolti. Persino la lettera indirizzata a me contiene una sollecitazione, su cui io avevo manifestato varie perplessità, a proporre contestualmente alle elezioni europee la convocazione di una nuova Assemblea costituente per la riforma della seconda parte della Carta. Non mi sfuggivano e non mi sfuggono le ragioni che motivavano una simile proposta, in particolare l’esigenza di dare organicità di impianto e di istituti alla riforma dello Stato, non si può infatti continuare a intervenire sul testo costituzionale in modo rapsodico e spesso segnato dalle strategie politiche della maggioranza parlamentare di turno. E peraltro io penso che sia difficile far convivere contemporaneamente due assemblee parlamentari, una coi poteri costituenti e un’altra coi poteri costituiti, e penso che sia molto rischioso dar vita ad un’Assemblea costituente e porle il limite di non toccare i “principi fondamentali”, giacché essi sono obiettivamente la base per così dire filosofica, comunque culturale, che sostiene tutte le altre. Non c’è cioè, a mio avviso, la possibilità di separare parti della Costituzione che sono organicamente connesse, come, appunto, i principi fondativi e le istituzioni che ne garantiscono l’attuazione. Ma, come si sa, questa è una discussione che dura da molto tempo e a cui partecipano personaggi più illustri di me del mondo politico e dell’accademia dei costituzionalisti. Prefazione Mi piace invece, per ritornare a una valutazione più generale di questa intervista, cogliere in essa un altro filo conduttore, quello della cultura “basista”. La corrente della Base nella Democrazia cristiana è sempre stata vista da chi non ne faceva parte con un misto di timore e di ammirazione, perché raccoglieva le intelligenze più vivaci e anche più ambiziose che si connotavano per un di più, non dirò di illuminismo, ma di spiccata attitudine alla razionalità politica. Mi è capitato spesso di sentire Ciriaco De Mita, che insieme a Marcora, Nicola Pistelli, Martinazzoli, Granelli e Galloni, ne era uno dei massimi esponenti, polemizzare con la “sinistra sociale” o con quella “dossettiana”, vantando, con una certa civetteria, le sue ascendenze “crociane”, intendendo un’attitudine maggiore alla riflessione e alla cultura liberaldemocratica. In Carelli, pur senza supponenza ed esibizione, ci sono le tracce di questa originalità di pensiero che lo induce a un’attività, mai stanca e mai doma, pedagogica e dialogica in tutte le direzioni, per convincere ogni interlocutore a capire che la politica è soprattutto investimento nelle istituzioni e nella loro capacità di rappresentanza. In ultima analisi si può dire che l’intervista fotografa non solo l’immagine di un uomo, ma l’immagine di una concezione della politica, facendo trasparire qua e là anche i sentimenti dell’uomo, fra i quali mi pare di cogliere il “groppo in gola”, condiviso da tanti peraltro, causato dalla fine della Democrazia cristiana. Ma, poiché l’uomo è di straordinaria intelligenza e capacità di vivere nel suo tempo, c’è sempre anche la lucidità di non farsi imprigionare dalla nostalgia e di riuscire invece a tenere lo sguardo proiettato in avanti. Pierluigi Castagnetti Intervista a cura di G G Caro Rodolfo, al titolo del tuo libro hai voluto aggiungere un sottotitolo significativo: “La democrazia matura e il cittadino arbitro”. Due parole–chiave che riassumono il pensiero e l’azione di Aldo Moro e di Roberto Ruffilli. Sono due obiettivi che, purtroppo, non sono stati ancora raggiunti e che tu sostieni che dovrebbero essere coniugati insieme. . . La democrazia matura auspicata da Moro suonò come eresia per chi intendeva lucrare a tempo indefinito della posizione egemone della DC, derivante dalla divisione del mondo, caratterizzata in prevalenza da due blocchi contrapposti e fondata sull’equilibrio del terrore di una terza guerra mondiale con l’uso degli arsenali nucleari. L’esito agghiacciante di questa autodistruzione che non avrebbe conosciuto né vinti né vincitori fu esemplarmente descritta da Einstein quando raffigurò l’esito spaventoso del conflitto nucleare come il ritorno dell’uomo all’età della pietra in poche zone rimaste incontaminate. Ho parlato di eresia a proposito della democrazia matura propugnata da Moro poiché presupponeva la fisiologia del ricambio attraverso un’alternativa democratica tutta da costruire rispetto a interessi costituiti che avevano solo da perdere da un avvicendamento di forze senza più certezze di poter continuare a beneficiare delle proprie rendite di posizione. L’obbiettivo della “Democrazia matura” fu indicato da Moro a metà degli anni Settanta, oltre dieci anni prima del fatidico . Da quella temperie morale e politica scaturirono i miei articoli espressamente finalizzati anche nei titoli all’alternativa democratica, pubblicati sulla Discussione del luglio , sul Popolo del luglio e del marzo del , temi ripresi su Il Tempo del marzo , su Rinascita dell’ aprile su e sull’Avanti del dicembre . C’è un filo che, a tuo parere, lega in qualche modo l’uccisione di due cattolici democratici come Moro e Ruffilli, ai quali andrebbero anche aggiunti Vittorio Bachelet e Piersanti Mattarella? I cattolici democratici hanno pagato, non a caso, un tributo altissimo di sangue nella storia repubblicana. Il testimone da Moro e Ruffilli Il maggior omaggio a Moro, alla sua visione strategica che puntava all’alternativa democratica come necessario antidoto per combattere, a partire dal suo partito, le tossine conseguenti ad un lungo ed ininterrotto esercizio del potere, fu reso dai brigatisti che individuarono nella strategia di Moro e nella sua capacità di realizzarla il maggiore ostacolo a quella guerra civile considerata l’inevitabile sbocco di una situazione di stallo logorata da una gestione politica senza ricambio democratico, che Moro si era ripromesso di sbloccare. Alla stessa motivazione di fondo obbedisce l’uccisione di Ruffilli, poiché quella sua formula sintetica del “Cittadino–arbitro” era strettamente funzionale alla strategia di Moro e riconduceva al voto dei cittadini non solo la scelta dei propri rappresentanti ma anche da chi essere governati saltando a piè pari la delega in bianco fino ad allora esercitata dai partiti. Col turno unico era possibile cadere in profonde contraddizioni poiché si giocavano insieme due partite: quella della rappresentanza e quella di governo. Gli esiti erano stridenti: chi votava per la sinistra radicale, finiva per erodere il centrosinistra favorendo di fatto il prevalere del centrodestra ed altrettanto accadeva sul fronte del centrodestra quando c’era la rottura con la Lega. Si fece allora strada il convincimento che l’introduzione del doppio turno avrebbe ovviato a queste stridenti contraddizioni: infatti nel primo turno si privilegiava la forza politica di riferimento garantendo il cosiddetto diritto di tribuna e nel secondo si poteva scegliere tra le forze rimaste in campo quella più affine o quella considerata “Il male minore”. Se all’eliminazione di Moro e di Ruffilli si aggiunge quella di Bachelet, già Presidente dell’Azione cattolica italiana, esemplare magistrato e docente universitario, si ha chiara la consapevolezza da parte dei brigatisti che la maggiore resistenza ai loro disegni rivoluzionari era stata individuata nel cattolicesimo democratico e popolare. Restano i sospetti che l’uccisione di P. S. Mattarella non sia stata solo un omicidio di mafia ma in qualche modo una replica siciliana di quella di Moro. Moro parlava di democrazia compiuta in anni molto lontani e con una situazione politica, interna e internazionale, molto diversa dall’attuale. C’è ancora, al di là della sua importanza storica, un’attualità nella lezione morotea? Non c’è nessun automatismo da applicare, occorre una serena e approfondita valutazione delle opzioni agibili in forza di un adeguato consenso politico che consenta di avvicinarci di più al traguardo di una “Democrazia matura” dell’alternanza senza intoccabili rendite di posizione. Per fare un esempio di grande attualità, nel momento in cui Intervista non mancano tentazioni di ritornare a un proporzionale come quello del passato, tarato dalla delega in bianco ai partiti e dalla precarietà dei governi, non va perduto l’unico dato positivo della cosiddetta Seconda Repubblica: quello di aver favorito un’alternanza tra coalizioni contrapposte, anche se l’esperimento è fallito per la prevedibile eterogeneità delle alleanze, promosse all’insegna del “prima vincere a ogni costo, che a governare poi si vedrà”. L’esito devastante di questa scelta opportunistica fatta da ambedue gli schieramenti è sotto i nostri occhi, aggravata da una crisi epocale, perché globale, che dovrebbe trovare, come in ogni Paese democratico che si rispetti, la capacità di mobilitazione di tutte le forze disponibili. E questo anche attraverso le grandi coalizioni, necessarie per adottare quelle misure, impopolari ma indispensabili, per la ripresa. L’anomalia italiana rispetto a quella tedesca, che anche oggi consente la governabilità del Paese grazie all’alleanza tra le maggiori forze, non essendoci una maggioranza in grado di prescinderne, è che in Italia ci sono state contrapposizioni di reciproca demonizzazione da rendere impraticabile il ricorso serio ed affidabile alle larghe intese. Col governo Monti la formula pareva potesse funzionare ma perduta la speranza di un salvacondotto politico per Berlusconi è prevalso il disimpegno da parte di FI. La scissione conseguente del NCD e la formazione del governo–Letta prima e Renzi poi ha portato ad una situazione anomala, quella delle due maggioranze, ristretta quella di governo e più ampia quella istituzionale ricomprendendo FI. Un ruolo decisivo per questo riavvicinamento ha avuto l’indisponibilità pregiudiziale del MS, prima con Bersani e poi con lo stesso Renzi a trovare un terreno d’intesa almeno istituzionale. Attualizziamo la bussola della “democrazia matura” di Moro per orientarci in ordine alle opzioni in campo per una riforma elettorale che tutti a parole ritengono indispensabile per liberarci dei disastri provocati dal “Porcellum”. Citerei nell’ordine: lo scippo agli elettori del loro diritto–dovere di scegliersi i propri rappresentanti e la botola della legge elettorale per il Senato. Contrariamente a quanto avviene alla Camera, il Porcellum prevedeva l’assegnazione dei seggi al Senato non sull’ammontare nazionale dei voti ottenuti ma sulla base di quelli riscossi regione per regione, a pelle di leopardo tale da rendere problematica una maggioranza analoga a quella della Camera e quindi la governabilità del Paese. È evidente che questa asimmetria porta, come sta portando il Paese, lontano da una democrazia matura dell’alternanza, l’obbiettivo indicato da Moro come essenziale per le sorti del Paese. Il testimone da Moro e Ruffilli Non ti pare che invece di andare avanti il sistema politico stia in realtà tornando a un passato caratterizzato dalla delega in bianco ai partiti e dalla fragilità dei governi? Il pericolo c’è perché senza l’intesa su di nuova legge elettorale maggioritaria si va dritti alla vecchia proporzionale come stabilito dalla Consulta a seguito della dichiarazione di incostituzionalità del Porcellum. Il pericolo di ingovernabilità è ancora maggiore di quello vigente nella prima Repubblica perché il contesto nazionale ed internazionale richiede una tempestività di interventi, impossibile con i riti e i ritmi del passato (a partire dal bicameralismo perfetto) col rischio di subire le situazioni invece che concorrere a guidarle. L’Italia rischia di finire definitivamente in coda alla lenta ripresa europea da che eravamo stati tra i Padri fondatori. La posta in gioco è altissima. I ritardi della nostra politica si accumulano e si scaricano sulle presenti e future generazioni. Ma come si fa a venirne a capo? Sintetizzerei il cammino da percorrere — strettamente connesso a livello nazionale ed europeo — con l’endiade: “Nuova Italia–Nuova Europa”, che si prefigga una fase costituente per ambedue invece del paralizzante rimbalzo di responsabilità che favorisce gli euroscettici e i rigurgiti estremistici di un rinascente nazionalismo. Senza il rinnovamento nazionale, a partire da quello istituzionale, l’attuale classe dirigente rischia di farsi strappare il suo peculiare compito di tenuta e di aggiornamento degli assetti istituzionali dalla magistratura. Come è accaduto con le numerose pronunce della Corte Costituzionale, che hanno riguardato persino la legge elettorale vigente, il famigerato “Porcellum”. La Corte di Cassazione infatti, si è trovata costretta dalla paralisi in cui versa la classe politica e parlamentare a richiedere l’intervento della Consulta per dirimere i dubbi di costituzionalità su alcuni punti del “Porcellum. E la Corte ne ha praticamente cassato tutti i capisaldi. E, insieme al compito di una nuova Italia che abbia istituzioni governabili e governanti, c’è quello di una nuova Europa che superi il paralizzante sistema dell’unanimismo e veda alcuni suoi vertici di rappresentanza eletti direttamente in occasione delle elezioni europee o dal Parlamento europeo, che vada ben oltre quella sorta di indicazione del presidente della Commissione da parte delle famiglie politiche europee. Un’Europa unita come condizione imprescindibile per coniugare insieme rigore, crescita e lavoro. Infatti non sempre la sola crescita crea nuovo lavoro per battere la piaga della disoccupazione specie tra le nuove generazioni. Si Intervista pensi, solo per fare qualche esempio, a una politica monetaria comune attraverso la BCE sul modello americano così come ad una comune politica energetica, oggi fonte di dislivelli che ci penalizzano a partire dalla competizione tra le imprese nel mercato europeo. La formula “Nuova Italia–Nuova Europa” a ripensarla mi ha richiamato un’aspirazione profonda e profetica per i suoi tempi, quella mazziniana della “Giovane Italia–Giovane Europa”, un’aspirazione che fa parte costitutiva del nostro DNA. Nelle more dei risultati di un cantiere di riforme istituzionali che non sembra mai terminare i lavori, non manca chi si dichiara a favore del presidenzialismo, all’americana o nella versione semipresidenziale francese? Tu che cosa ne pensi? Per me si tratta di vere e proprie tentazioni avulse dalla nostra realtà inquietanti sotto il profilo della legalità e della sicurezza, di fughe in avanti per l’incapacità di farsi carico delle ingessature del sistema politico. Queste possono essere superate con ben delimitate riforme costituzionali tra cui spiccano alcune, almeno a parole, condivise. Una per tutte il superamento del bicameralismo perfetto che produce quell’estenuante ping–pong tra Camera e Senato, un ottimo sistema per chi vuole affossare o svuotare le leggi durante l’iter di approvazione, che è concausa dello straripamento dei voti di fiducia che finiscono per esautorare il Parlamento, maggioranza e opposizione. Un altro punto condiviso è quello relativo a un rafforzamento del capo dell’esecutivo a partire dalla sua piena responsabilità sul governo e sui suoi componenti, con la possibilità di rimuoverli se lo ritiene necessario. Per inciso ricordo che questo potere è già consentito negli enti locali e può diventare un punto fermo per tutto l’ordinamento. Ma dei sistemi presidenzialisti che ne pensi? Non ho voluto eludere la domanda, ho semplicemente indicato un ordine di priorità nelle riforme possibili e condivise che potrebbero consentire di evitare la svolta in senso presidenzialista o semi presidenzialista. Quando dico evitare alludo a un pericolo appunto da evitare: conseguente alla massima concentrazione dei poteri di governo in una sola persona. Infatti con l’elezione diretta, corriamo il gravissimo rischio che a decidere il vincitore siano i poteri forti e la criminalità organizzata, non più relegata ad alcune regioni (indimenticabile il a zero in Sicilia a favore del FI) ma come una metastasi presente un po’ dovunque specie nelle aree a maggior dinamismo economico. Il testimone da Moro e Ruffilli C’è, intanto, chi come prima tappa dell’auspicata svolta presidenzialista o semipresidenzialista, propone con insistenza l’elezione diretta del Capo dello Stato? Risposta L’elezione diretta non è necessariamente di tipo accentrato. Basti accennare all’elezione diretta in Austria il cui capo dello Stato ha poteri più limitati del nostro. Piuttosto vorrei sottolineare il comune interesse manifestato, da presidenzialisti e non, nell’individuare una modalità già avanzata all’Assemblea costituente e poi ripresa da Leopoldo Elia e sostenuta da Giulio Andreotti. Quella cioè di ricorrere all’elezione diretta del capo dello Stato dopo che le prime tre votazioni in Parlamento sono andate a vuoto. Come è noto per l’elezione del presidente della Repubblica le norme prevedono un quorum dei due terzi per le prime tre votazioni, mentre dalla quarta in poi il quorum scende alla maggioranza assoluta dei componenti. In presenza di una legge elettorale comunque maggioritaria, qual è stato il Porcellum„ c’è il rischio che la massima carica repubblicana diventi appannaggio di maggioranze asso– piglia tutto, com’è accaduto con il secondo governo–Prodi. Ricordo in proposito il titolo dell’articolo che scrissi per l’occasione: “Un pieno di poltrone un vuoto di politica”. È inutile sottolineare che l’Italia ha rischiato di trovarsi il Cavaliere al Quirinale. Era la suprema aspirazione di Berlusconi perché la presidenza della Repubblica, non avendo poteri diretti di governo, gli avrebbe permesso di schivare il suo devastante conflitto d’interessi. Quali sono a tuo avviso i motivi principali del discredito che colpisce la classe politica, attestato, come abbiamo visto di recente, dall’esplosione dell’astensionismo? In primo luogo manca nella classe politica la consapevolezza dell’aleatorietà di ogni proposta politica, anche la più suggestiva, se non sono in grado di poterla attuare e su di essa essere giudicati. I politici, invece di affrontare problemi e inadempienze, anche proprie, preferiscono ripetere il ritornello che scarica la responsabilità dei fallimenti al preteso opportunismo degli alleati e all’ostruzionismo delle opposizioni, senza chiedersi se le istituzioni, per prime, non debbano essere rinnovate per evitare stallo e paralisi. La dimostrazione più eclatante di questo atteggiamento è stata la richiesta di Berlusconi, esaudita dagli elettori, di dargli la maggioranza assoluta per poter finalmente mantenere i propri impegni. Il risultato, amaro per lui e per il Paese, è stato il naufragio della sua coalizione e del suo governo, pur disponendo, grazie anche al premio di maggioranza, del più ampio consenso parla-