lifelong learning europeo e arretramento italiano

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Anno IV, numero 11
Sapere/Potere- Analisi
Giuseppe Caputo
LIFELONG LEARNING EUROPEO E ARRETRAMENTO ITALIANO
Tra imprecisioni e sottovalutazioni
L’articolo di Alessandra Ricciardi del 2 febbraio
su Italia Oggi Università, non lasciano i giovani
relativo al calo delle immatricolazioni
all’università riporta in modo corretto i dati sulle
classi di età degli studenti che hanno rinunciato
a iscriversi, ma contiene un’imprecisione e
sottovaluta il significato del calo delle
immatricolazioni denunciato dal CUN nella
Dichiarazione per l’Università e la Ricerca –Le
emergenze del Sistema. Di seguito cercherò di mostrarlo.
L’imprecisione consiste nel definire “fuoricorso” gli studenti in età matura che non si
immatricolano. Il “fuoricorso” è uno studente iscritto che non completa nei tempi previsti il
corso ed eventualmente lo abbandona. I dati riportati nell’articolo si riferiscono invece agli
immatricolati “tardivi” che sono studenti che decidono di immatricolarsi, cioè di iscriversi per
la prima volta all’università in età matura (superiore ai 20 anni).
Sminuire il calo delle immatricolazioni perché riguarda studenti “tardivi” costituisce inoltre
una lettura distorta di quanto sta avvenendo.
Lifelong learning europeo e arretramento italiano
La riforma degli ordinamenti didattici, nota come riforma del “3+2”, fu introdotta nel 2000
con l’obiettivo di aumentare gli accessi all’università su cui l’Italia scontava un grave ritardo
rispetto all’Europa, con una percentuale di laureati pari alla metà della media europea.
Aumentare questo numero non era impresa facile, ma una possibilità era offerta dall’apertura
dell’accesso ai corsi anche a studenti che da più giovani avevano scelto un percorso
lavorativo: l’accesso all’università per gli adulti, in questo caso, poteva costituire
un’opportunità per incrementare e diversificare le competenze dei lavoratori e renderli più
adattabili alle richieste del mercato. Questo fenomeno non è nuovo nell’Europa del lifelong
learning ed anzi costituisce una realtà molto comune nella maggior parte dei paesi sviluppati.
Negli ultimi 15 anni nei paesi dell’OCSE sono state messe in atto politiche mirate ad espandere
l’accesso all’università alle fasce di studenti più maturi ed in particolare nella fascia di età
compresa tra i 20-29 anni. Ciò è anche dovuto alla necessità di compensare il calo della
domanda da parte dei diciannovenni la cui numerosità è in calo o stabile per effetti
demografici.
Queste politiche hanno portato nei paesi OCSE, nel periodo 1995-2010, ad un incremento
medio del 10% della partecipazione agli studi degli studenti di fascia tra i 20-29 anni, segno
di una accresciuta consapevolezza dei benefici della formazione universitaria in un mercato
del lavoro sempre più ristretto. In alcuni paesi come la Germania, che non a caso ha la più alta
percentuale di laureati d’Europa, la percentuale di 20-29nni che si iscrive all’università
raggiunge il 30%. Si tratta di un dato considerevole su cui riflettere.
L’università europea risponde alla crisi (quella italiana no)
In generale, la domanda di formazione in età matura registra tassi più elevati in quei paesi in
cui è in aumento la disoccupazione: è la risposta della società della conoscenza alla crisi.
L’Italia invece fa eccezione. Pur vedendo un tasso di disoccupazione in aumento e un basso
numero di laureati il nostro Paese registra una diminuzione delle immatricolazioni
particolarmente significativo nella fascia di età più matura.
La riforma del “3+2” nei primi anni della sua introduzione sembrava potesse colmare il
divario dell’Italia perché offriva un percorso di primo livello più breve e un’offerta formativa
più flessibile in linea col modello europeo. Negli anni 2000-2003 si registrava un incremento
delle immatricolazioni in tutte le fasce di età. Dal 2003 in poi, però, esaurito “l’effetto novità”
della riforma, abbiamo assistito ad una diminuzione delle immatricolazioni specialmente nella
fascia dei più maturi, che evidentemente non hanno trovato vantaggi nel conseguire un titolo
di studio durante la loro vita lavorativa: il mercato del lavoro italiano semplicemente non ha
risposto.
La responsabilità di questo fenomeno, che certamente segna un duro colpo al processo
riformatore, possono essere addossate quindi solo in parte all’università. Difatti è certamente
vero che l’università ha inteso interpretare i percorsi di studio essenzialmente secondo le
esigenze di studenti giovani, senza al contempo prevedere percorsi ad hoc per studenti
maturi. Tuttavia la politica ha mancato nei suoi compiti strategici. Le responsabilità principali
vanno dunque cercate nelle scelte d’indirizzo degli ultimi governi che hanno pesantemente
depotenziato il sistema universitario riducendo gli organici, i finanziamenti ed il numero di
corsi di studio. In questo quadro di depotenziamento è impossibile pensare a corsi di studio
mirati a studenti maturi. Ed è impossibile non arretrare di fronte alla crisi.
Questo è quanto si ricava essenzialmente dal documento CUN, al di là di imprecisioni e
sottovalutazioni giornalistiche. La questione è seria e va posta, perché riguarda davvero il
nostro futuro.
NOTE
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I dati completi sull’età di accesso agli studi universitari nei Paesi OCSE si trova nel rapporto
“Education at a glance” 2012 dell’OCSE, pag. 324 e seguenti.
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