Il 1848: testimonianze e ricordi

1848-1900 L’ETÀ DELLA NAZIONI/SCHEDA 4 IL 1848. UNA RIVOLUZIONE EUROPEA
1. MANIFESTO DEL PARTITO COMUNISTA
Uno spettro si aggira per l’Europa: lo spettro del comunismo. Tutte le potenze della vecchia Europa si
alleano per una santa caccia spietata a questo spettro: il papa e lo zar, Metternich e Guizot, i radicali francesi e
i poliziotti tedeschi. Qual è il partito d’opposizione che i suoi avversari al potere non abbiano colpito con la nota
ingiuriosa di comunista? E qual è il partito di opposizione che, a sua volta, non abbia ricambiato l’accusa,
rivolgendo l’infamante designazione di comunista, o agli elementi più avanzati dell’opposizione stessa, o agli
avversari apertamente reazionari? Da questo fatto si ricavano due conclusioni. Il comunismo è ormai
riconosciuto dalle stesse potenze europee come una potenza. È tempo ormai che i comunisti espongano
senz’altro innanzi a tutto il mondo il loro modo di vedere, i loro intenti, le loro tendenze e che allo spettro del
comunismo contrappongano il manifesto del partito . A tal fine, comunisti di diversa nazionalità si sono riuniti a
Londra e hanno redatto il seguente manifesto che verrà pubblicato in inglese, francese, tedesco, italiano,
fiammingo e danese
I borghesi e i proletari.
La storia di ogni società esistita fino a questo momento, è storia di lotte di classi. […]
In una parola i comunisti appoggiano dappertutto ogni movimento rivoluzionario che sia diretto contro il
presente stato di cose politico e sociale. In questi moti essi mettono principalmente in rilievo, come
fondamento, la questione della proprietà, quale che sia la forma più o meno sviluppata che tale questione
possa avere assunto. Infine i comunisti lavorano all’intesa ed all’unione dei partiti democratici di ogni paese. I
comunisti disdegnano di nascondere le loro vedute e le loro intenzioni. Essi confessano apertamente che i loro
obiettivi non possono esser raggiunti se non per mezzo della violenta sovversione del tradizionale ordinamento
sociale. Che le classi dominanti tremino pure di fronte allo scoppio di una rivoluzione comunista. I proletari non
hanno da perdere che le loro catene. Hanno da guadagnarci tutto un mondo.
PROLETARI DI TUTTO IL MONDO UNITEVI.
LONDRA FEBBRAIO 1848
[Karl Marx Friederich Engels, Manifesto del Partito comunista]
2. La rivoluzione parigina del 1848.
Trascorsi tutto il pomeriggio a passeggiare per Parigi: due cose mi colpirono soprattutto: prima il
carattere - non dico principalmente - ma unicamente ed esclusivamente popolare della rivoluzione che
avveniva; la onnipotenza che essa aveva dato al popolo propriamente detto, cioè alle classi che lavorano colle
loro mani sopra tutte le altre. La seconda fu la scarsità di passioni astiose, anzi a dir vero di qualsiasi passione
viva che il basso popolo, divenuto d'un colpo padrone di Parigi, mostrò in quel primo momento. Sebbene le
classi operaie avessero spesso avuto la parte principale negli avvenimenti della prima repubblica, non erano mai
state le conduttrici e le uniche padrone dello Stato né in fatto né in diritto; la Convenzione probabilmente non
aveva in sé un solo uomo del popolo; era piena di borghesi e di letterati. La guerra tra la Montagna e la Gironda
fu condotta, da una parte e dall'altra, da membri della borghesia, ed il trionfo della prima non fece mai arrivare
il potere nelle sole mani del popolo. La rivoluzione di luglio [1830] era fatta dal popolo, ma la classe media
l'aveva suscitata e condotta e ne aveva raccolto i frutti principali. La rivoluzione di febbraio, al contrario,
sembrava esser fatta esclusivamente al di fuori della borghesia e contro di essa. [...]
In quella giornata io non vidi in Parigi uno solo degli antichi agenti della forza pubblica, non un soldato,
non un gendarme, non un agente di polizia; anche la guardia nazionale era sparita.
Solo il popolo portava armi, stava a guardia dei luoghi pubblici, vegliava, comandava, puniva; era una
cosa straordinaria e terribile vedere nelle sole mani di quelli che non possedevano nulla, tutta quella immensa
città, piena di tante ricchezze, o piuttosto quella grande nazione, perché, grazie alla centralizzazione, chi regna a
Parigi comanda alla Francia. E così, il terrore di tutte le altre classi fu profondo, anzi io credo che in nessuna
epoca della rivoluzione sia stato così grande e penso che si potrebbe paragonare solo al terrore che dovevano
provare le città incivilite del mondo romano, quando si trovavano d'un colpo in potere dei Vandali o dei Goti.
[...]Eccomi finalmente arrivato a questa insurrezione di giugno, la più grave e la più singolare che ci sia
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stata nella nostra storia e forse in qualsiasi altra: la più grande perché in quattro giorni vi furono impegnati più
di centomila uomini; la più singolare perché gli insorti combatterono senza grido di guerra, senza capi, senza
bandiere, e tuttavia presentando un insieme meraviglioso ed un' esperienza militare che stupì i più vecchi
ufficiali. Quello che la distinse ancor più tra gli avvenimenti del genere accaduti da sessant'anni a questa parte
tra noi, fu il fatto ch'essa non ebbe per scopo di cambiare la forma del governo, ma di alterare l'ordine della
società.
A dir la verità non fu una lotta politica (nel senso che era stato dato fino allora a questa parola) ma una
lotta di classe, una specie di guerra servile [...]
Avevano assicurato a quella povera gente che i beni dei ricchi erano in qualche modo il prodotto di un
furto fatto a loro; avevano assicurato loro che l'ineguaglianza delle fortune era altrettanto contraria alla morale
ed alla società quanto alla natura. Con l'aiuto delle passioni e dei bisogni molti l'avevano creduto. Questa
nozione erronea ed oscura dei diritti, mescolandosi alla forza brutale, le prestò un'energia, una tenacia ed una
potenza che da sola non avrebbe mai avuta. [...]La rivolta si dilatava di minuto in minuto e difficilmente si
sarebbe potuto credere che non avrebbe finito per essere vittoriosa, ricordando che tutte le grandi insurrezioni
che avevano avuto luogo da sessanta anni avevano sempre trionfato. A tanti nemici noi non potevamo opporre
che i battaglioni della borghesia, dei reggimenti disarmati in febbraio, e ventimila giovani indisciplinati della
guardia mobile che erano tutti o figli o fratelli o parenti degli insorti, e le cui intenzioni erano molto dubbie. [...]
E tuttavia trionfammo della formidabile insurrezione, ma dirò di più: quello che la rendeva così terribile
fu precisamente quello che ci salvò. Se la rivolta avesse avuto un carattere meno radicale ed un aspetto meno
torvo, è probabile che la maggior parte dei borghesi sarebbero rimasti a casa loro; la Francia non sarebbe
accorsa in nostro aiuto, la stessa Assemblea nazionale avrebbe forse ceduto, o per lo meno una minoranza dei
suoi membri lo avrebbe consigliato, e l'energia di tutto il corpo sarebbe rimasta di molto diminuita. Ma
l'insurrezione fu di tal natura che ogni transazione fu subito ritenuta impossibile, e non lasciò fin dal primo
momento che l'alternativa di vincere o morire. [...]
Tali furono le giornate di giugno, giornate necessarie e funeste: non spensero in Francia il fuoco
rivoluzionario, ma posero fine, almeno per un po' di tempo, a quel lo che può chiamarsi il travaglio proprio della
rivoluzione di febbraio, liberarono la nazione dall’oppressione degli operai di Parigi e la resero di nuovo padrona
di se stessa.
Le teorie socialiste continuarono a penetrare nello spirito del popolo sotto forma di passioni cupide ed
invidiose e vi deposero il seme delle rivoluzioni future, ma il partito socialista in sé restò vinto ed impotente. […]
Io […] che adoravo la libertà, ebbi subito, l'indomani di quelle giornate, grandi preoccupazioni per essa.
Considerai immediatamente le giornate di giugno come una crisi necessaria ma dopo la quale il temperamento
della nazione si sarebbe trovato in qualche modo mutato: all'amore dell'indi pendenza sarebbe succeduta la
paura e forse anche il disgusto delle libere istituzioni; dopo un tale abuso della libertà un tale ritorno era
inevitabile. Tale movimento di ritirata cominciò in realtà dal 27 giugno; prima molto lento e quasi invisibile ad
occhio nudo, poi rapido, impetuoso, irresistibile. Dove si fermerà? Non lo so. Credo che noi faremo una gran
fatica a non precipitare molto al di là del limite raggiunto prima di febbraio, e prevedo che tutti, socialisti,
montagnardi, repubblicano-liberali, cadremo in uno stesso discredito, fino a che i particolari ricordi del 1848 non
si saranno allontanati e cancellati, e fino a che lo spirito generale dei tempi non avrà ripreso il suo impero.
(da Alexis de Tocqueville, Una rivoluzione fallita. Ricordi del 1848-’49.)
3. Alle origini della rivoluzione del 1848
In breve, negli anni intorno al 1840 il mondo si trovava in una posizione di equilibrio instabile. Le forze
della rivoluzione economica, tecnica e sociale, scatenate nell'ultimo mezzo secolo, erano senza precedenti e
irresistibili, anche per il più superficiale degli osservatori. D'altra parte, le loro conseguenze istituzionali erano
ancora modeste. Era inevitabile, per esempio, che prima o poi la schiavitù e la servitù della gleba scomparissero
ufficialmente (salvo qualche residuo in regioni remote o non ancora toccate dalla nuova economia), come era
inevitabile che la Gran Bretagna non potesse rimanere per sempre il solo paese industrializzato. Era inevitabile
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che le aristocrazie terriere e le monarchie assolute dovessero capitolare in tutti i paesi nei quali si stava
sviluppando una forte borghesia, quali che fossero i compromessi o le formule escogitati per conservare il
proprio stato, la propria influenza e persino il proprio potere politico. E inoltre, era inevitabile che l'infusione di
una coscienza politica e di un'attività politica permanente nelle masse, che era la grande eredità lasciata dalla
Rivoluzione francese, dovesse prima o poi significare che queste masse avrebbero avuto la loro parte ufficiale
nella politica. E date la considerevole accelerazione subita dalle trasformazioni sociali sin dal 1830 e la ripresa
del movimento rivoluzionario in tutto il mondo, era chiaramente inevitabile che dei mutamenti - qualunque
fosse la loro precisa natura istituzionale - non sarebbero tardati a venire.
Tutto ciò bastava a suscitare negli uomini di quel tempo il presentimento di un'imminente
trasformazione. Ma non bastava a spiegare il presentimento, che dominava tutta l'Europa, di un'imminente
rivoluzione sociale. E assai significativo il fatto che questo presentimento non fosse limitato ai rivoluzionari, che
lo esprimevano nei modi più elaborati, né alle sole classi dirigenti, che in tempi di mutamenti sociali sentono
sempre riaffiorare la paura della massa dei poveri. Gli stessi poveri lo provavano. […] Per le masse popolari il
problema era ancora più semplice. Le loro condizioni di vita nelle grandi città e nelle zone industriali dell’Europa
occidentale e centrale le spingevano inevitabilmente verso la rivoluzione sociale. L' odio per i ricchi e per i grandi
di quel mondo amaro in cui vivevano e il sogno di un mondo nuovo e migliore davano una visione e uno scopo
alla loro disperazione, anche se di questo scopo solo pochi, specialmente in Inghilterra, si rendevano conto. La
loro organizzazione e la felicità di un'azione collettiva le rendevano forti. Il grande risveglio della Rivoluzione
francese aveva insegnato che il popolo non deve limitarsi a sopportare docilmente le ingiustizie: «prima le
nazioni non sapevano nulla, e la gente pensava che i re fossero dèi in terra e che quindi qualunque cosa
facessero fosse necessariamente ben fatta. Con le trasformazioni attuali, è più difficile governare i popoli». Era
questo lo «spettro del comunismo» che incombeva sull'Europa, la paura del «proletariato» che assillava non
solo i proprietari di fabbriche del Lancashire o della Francia settentrionale, ma anche i funzionari statali della
Germania rurale, il clero di Roma e i professori di qualunque paese. E giustamente. Perché la rivoluzione che
scoppiò nei primi mesi del 1848 non fu una rivoluzione sociale solo nel senso che coinvolse e mobilitò tutte le
classi sociali. Essa fu né più né meno che l'insurrezione delle classi lavoratrici di tutte le città - e specialmente
delle capitali - dell'Europa occidentale e centrale. Fu la loro forza, e quasi da sola, a rovesciare gli antichi regimi
da Palermo alle frontiere della Russia. E dalla polvere delle loro rovine, i lavoratori - e in Francia i lavoratori
socialisti - si levarono a domandare non solo pane e lavoro, ma un nuovo Stato e una nuova società.
In mezzo alle agitazioni delle classi lavoratrici, la crescente debolezza e decrepitezza degli antichi regimi
d'Europa moltiplicava le crisi nel mondo stesso dei ricchi e dei potenti. [...] In teoria la Francia di Luigi Filippo
avrebbe dovuto avere la medesima flessibilità politica dell'Inghilterra, del Belgio, dell'Olanda e della
Scandinavia. In pratica non fu cosi. Per quanto fosse chiaro, infatti, che la classe dirigente francese - banchieri,
finanzieri e uno o due grandi industriali - rappresentava solo un settore degli interessi della borghesia, e per
giunta un settore la cui politica economica era malvista dagli elementi industriali più dinamici e anche da
parecchi interessi acquisiti, il ricordo della Rivoluzione del 1789 impediva l'attuazione di una riforma.
L'opposizione infatti era costituita non solo dall'insoddisfatta borghesia, ma anche dai ceti medi inferiori,
specialmente quelli di Parigi, il cui peso politico era decisivo […]. Estendere i diritto di voto poteva dunque
significare aprire la porta ai potenziali giacobini, i radicali, che, se non fosse stato per il veto ufficiale, sarebbero
stati repubblicani. Il primo ministro di Luigi Filippo, lo storico Guizot (1840-'48), preferì quindi lasciare che ad
allargare la base sociale del regime fosse lo sviluppo economico, il quale a sua volta avrebbe automaticamente
aumentato il numero dei cittadini aventi i requisiti patrimoniali necessari per entrare nella vita politica. Fu così
infatti. L'elettorato salì da 166.000 nel 1831 a 241.000 ne1 1846. Ma questo non bastava. Il timore di una
repubblica giacobina manteneva rigida la struttura politica e sempre più tesa la situazione politica della Francia.
In Inghilterra una campagna pubblica a base di discorsi pomeridiani, come quel la lanciata dall'opposizione
francese ne 1847, sarebbe stata perfettamente innocua. In Francia, invece, fu il preludio alla rivoluzione.
Perché, come le altre crisi governative europee, essa coincise con una catastrofe sociale: la grande
carestia che dilagò in tutto il continente dal 1845 in poi. Il raccolto specialmente quello delle patate - era
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scarsissimo; intere popolazioni, come quella dell’Irlanda, morivano di fame; i prezzi dei generi alimentari
salivano. La crisi industriale moltiplicava la disoccupazione, e le masse lavoratrici venivano private del loro
modesto reddito proprio nel momento in cui il costo della vita saliva alle stelle. La situazione variava da paese a
paese e anche da regione a regione nello stesso Stato. Fortunatamente per i regimi esistenti, le popolazioni più
misere, come gli Irlandesi o i Fiamminghi o una parte degli operai delle fabbriche di provincia, erano anche
politicamente tra le più immature: gli operai dei cotonifici dei dipartimenti settentrionali della Francia, per
esempio, sfogavano la loro disperazione sugli altrettanto disperati immigranti belgi che affluivano nella Francia
settentrionale, anziché sul governo o sui datori di lavoro. […] considerando l'Europa occidentale e centrale nel
suo complesso, la catastrofe del 1846-'48 fu una catastrofe universale, e l'umore delle masse, sempre ridotte
quasi al livello dei mezzi di sussistenza, era teso e agitato.
Un cataclisma economico europeo coincideva dunque con la evidente corrosione degli antichi regimi.
Una rivolta dei contadini galiziani nel 1846; l'elezione di un papa «liberale» nello stesso anno; una guerra civile
tra radicali e cattolici in Svizzera sul finire del 1847, vinta dai radicali; un'ennesima insurrezione degli
autonomisti siciliani a Palermo all'inizio del 1848. Non erano semplici pagliuzze sollevate dal vento: erano le
prime raffiche dell'uragano. E tutti lo sapevano.
Raramente una rivoluzione è stata prevista in maniera più universale, anche se non si era previsto con
precisione dove e quando sarebbe scoppiata. Tutto un continente aspettava, e la notizia della rivoluzione
sarebbe ora passata quasi istantaneamente di città in città grazie al telegrafo. Nel 1831 Victor Hugo aveva
scritto che già sentiva «il suono cupo della rivoluzione, ancora nelle profondità della terra, che scava le sue
gallerie sotterranee sotto tutti i regni d'Europa, partendo dal pozzo centrale della miniera che è Parigi». Nel
1847 quel suono era forte e vicinissimo. Nel 1848 avvenne l'esplosione. [da E. J. Hobsbawm, Le rivoluzioni
borghesi (1789-1848)]
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