IL PROLOGO GIOVANNEO come interpretato da Y. SIMOENS

Il Prologo giovanneo in Y. SIMOENS, Secondo Giovanni. Una traduzione e un’interpretazione, EDB 1997
IL PROLOGO GIOVANNEO
come interpretato da Y. SIMOENS,
Secondo Giovanni. Una traduzione e un’interpretazione,
EDB, Bologna 1997.
1. Traduzione dell’Autore
[1] In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e Dio era il Verbo.
[2] Costui era in principio presso Dio.
[3] Tutte le cose tramite lui divennero, al di fuori di lui non divenne nemmeno
una cosa che è divenuta.
[4] In lui, (la vita) era , e la vita era la luce degli uomini,
[5] e la luce nella tenebra risplende, e la tenebra non l’afferrò.
[6] [Di]venne un uomo inviato da Dio. Un nome per lui: Giovanni.
[7] Costui venne per una testimonianza affinché testimoniasse a proposito
della luce affinché tutti credessero tramite lui (essa).
[8] Non era, egli luce, ma affinché testimoniasse a proposito della luce.
[9] (Il Verbo) era la luce, la vera, che illumina ogni uomo, venendo nel
mondo.
[10] Nel mondo era, e il mondo tramite lui divenne, e il mondo non lo
conobbe.
[11] Verso le sue cose proprie venne, e i suoi propri non l’accolsero.
[12] Ora quanti lo ricevettero, diede loro potere di divenire figli di Dio, a
coloro che credono nel suo nome:
[13] essi che, non da sangui, né da volontà di carne, né da volontà d’ uomo,
ma da Dio furono generati.
[14] E il Verbo carne divenne e mise la tenda in noi; e noi ammirammo la sua
gloria: gloria come di unigenito dal Padre, compiuto di grazia e di verità.
[15] Giovanni testimonia a proposito di lui e ha gridato dicendo: Costui era,
che io dissi: Colui che dietro di me viene, davanti a me è divenuto, perché
(prima) di me, (il) primo era,
[16] perché dalla sua compiutezza noi tutti ricevemmo e grazia contro grazia,
[17] perché la Legge tramite Mosè fu data; la grazia e la verità tramite Gesù
Cristo [di]venne.
[18] Dio, nessuno l’ha visto, mai. L’unigenito, Dio, coli che è verso il seno del
Padre, egli trascinò (là).
Il Prologo giovanneo in Y. SIMOENS, Secondo Giovanni. Una traduzione e un’interpretazione, EDB 1997
2. Introduzione
Il vangelo di Giovanni inizia con un prologo che non ha equivalenti
negli altri tre vangeli.
Lo stile è quello del musicista che espone i suoi temi: in una pagina
Giovanni annunzia la maggior parte degli argomenti che poi svilupperà: Gesù
e suo Padre, Gesù Vita, Gesù Luce, Gesù oggetto di fede, Gesù che ci fa
conoscere Dio.
Prima dei racconti che presenteranno Gesù, Giovanni lo colloca nel
grandioso mistero della sua esistenza eterna, all’inizio di ogni cosa; in questo
modo va oltre la storia degli uomini, oltre il tempo e il mondo creato. Il Verbo
eterno è venuto nel mondo e per mezzo di lui sono venute la grazia e la verità.
La meditazione di Giovanni sul Verbo ha delle somiglianze con gli inni
alla Sapienza (Prov 8,22-31; Sir 24,1-22). La Sapienza discende da Dio fino al
nostro livello, per poi ritornare a Dio conducendo anche noi fino a lui: questo
è l’itinerario di Cristo Salvatore che Giovanni richiamerà parecchie volte
(3,13; 7,33-34; 8,14; 16,5) e che già abbozza nel prologo.
Se Giovanni può parlare di ciò che era «in principio», lo può fare
unicamente perché ha conosciuto quel Gesù di cui parla. Certamente si tratta
del «Verbo», che però è colui «che abbiamo udito, contemplato, toccato».
La “lettura” del prologo che ne fa Yves Simoens, vuole porsi al servizio
della lettera dimostrando che mettendo al centro il testo con le sue chiarezze e
le sue evidenze, con le sue difficoltà e i suoi interrogativi si aprono squarci
sulla vita della comunità cristiana e sull’esperienza del credente.
Si tratta, allora, di farci coinvolgere dal suo modo di leggere questi 18
versetti per poi trarne le conclusioni che come moralisti ci coinvolgono più da
vicino.
Insomma, il testo di fronte al quale ci troviamo è un corpo vivente.
Cercheremo di trovare, con l’aiuto di questo autore, la palpitazione della vita.
3. Esegesi del testo
v. 1
La prima frase del prologo esprime un riferimento prioritario al
principio1. Il verbo «era» specifica ulteriormente la nozione di principio
correggendo il senso di indefinito e conducendo sul piano dell’essere, cioè
neutralizzando le fluttuazioni della storia e del tempo a favore di una
permanenza.
Il verbo all’imperfetto, in greco e in italiano, non deve ingannarci: non
rimanda ad un passato concluso, ma rimanda al significato di un passato che
1
J. ZUMSTEIN, «Le Prologue, seuil du quatrième évangile», in RSR 83 (1995), 236
2
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influisce sul presente. Il passato narrativo: «C’era», equivale ad un presente:
«C’è». Come dire: In principio c’era, c’è la Parola.
La nozione di principio rimanda anche all’inizio della vita del Cristo
negli scritti giovannei2, ma è anche vero che la creazione non avviene
veramente se non con la venuta di Gesù Cristo sulla scena del cosmo e della
storia. La prima affermazione del prologo conferisce dunque al Cristo,
nominato soltanto in 1,17, la più ampia estensione possibile, in termini di
“parola”.
Nella Bibbia la parola serve a ricapitolare l’opera di Dio che crea
parlando (Es 20,1 e 34,28), così come in Sap 9,1-2 il legame tra parola di Dio
e sapienza creatrice è esplicito.
È il verbo «era» si trova a sua volta investito del nome divino che
risuona in Es 3,14.
La distinzione tra Verbo e Dio, e poi la loro identificazione, riprendono
approfondendola, la relazione tra la sapienza e Dio in Pr 8,22-31; Gb 28, Sir
24 e Sap 6-93. Qui il Logos soppianta la Sapienza perché cronologicamente e
logicamente il Logos è il primo, ed è quindi normativo. Non viene mai detto
che la Sapienza è Dio.
Le prime affermazioni del prologo sottolineano che il Logos-ParolaVerbo esprime realmente Dio, che Dio è il supporto primo e ultimo del Logos,
e che il Logos, in quanto Parola, in quanto Verbo, si comunica agli uomini in
quanto sovrabbondanza.
Possiamo in qualche modo dire che il senso è questo: «il Logos è
nell’archè, inaugura e pilota il divenire»4.
vv. 3-5
I vv. 3-4, nella traduzione adottata qui, si susseguono con una
interruzione dopo ho gegonen «che è divenuto». Un’altra lezione interrompe
la frase prima di questa proposizione relativa, che di conseguenza diventa il
soggetto del verbo nella proposizione principale seguente: «Ciò che è divenuto
in lui era la vita». A livello grammaticale si spiegherebbe in questo modo
l’assenza dell’articolo davanti a «Vita». K Aland ha dato preferenza a tale
lettura5.
La «vita» esprime innanzitutto la vita del Verbo e di Dio stesso, così
come la sua capacità, a questo titolo di comunicarsi agli uomini. Il termine
2
I. DE LA POTTERIE, «La nozione di “principio” negli scritti giovannei», in Studi di
cristologia giovannea, Genova 1986, 217-238
3
P. BEAUCHAMP, L’uno e l’altro Testamento. Saggio di lettura (Biblioteca di
cultura religiosa 46), Brescia 1985, 123-155
4
A. JEANNIERE, «“En arkhê ên o logos”. Note sur des problèmes de traduction», in
RSR 83[1995], 247
5
K. ALAND, «Eine Untersuchung zu Joh 1, 3-4. Über die Bedeutung eines Punktes»,
in ZNW 59(1968), 174-209
3
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greco è zôê e non bios, che indicherebbe piuttosto l’ordine propriamente
biologico, segnato dalla morte. Riprendendo i vv. 1-2, grazie alle nuove
occorrenze del verbo “essere”, il testo afferma che la vita e dunque la sua
sorgente si collocano in primo luogo in Dio grazie al Verbo. Nel suo
comunicarsi agli uomini la vita è luce. La luce è la vita che si comunica. La
vita per noi è luce.
Il v. 5 continua affermando l’antecedenza e la permanenza della luce nei
confronti del suo contrario: la tenebra. Esprime inoltre, ma in maniera
implicita, la vittoria della vita sulla morte dal momento in cui c’è vita, una vita
divina che si dona.
Gv 1,1-5 collega la logica “per noi” del Dio creatore e salvatore in
Israele con il vangelo, la buona notizia di Gesù Cristo. Ci si trova davanti ad
una sintesi dell’AT che culmina in Gesù Cristo. Quest’ultimo non viene
nominato ma è costantemente presente. Il giudizio, il verdetto finale è posto
come compiuto in virtù della coincidenza con l’origine.
vv. 6-8
Inizia ora il primo passo su Giovanni che riprende nella sua persona e a
nostro favore la rivelazione che è appena stata evocata.
Chi è Giovanni? Prima di tutto è l’inviato da Dio. Il suo nome è carico
di significato, soprattutto nella retroversione ebraica: “Dio fa grazia”.
Giovanni appare poi come testimone – martire nel processo in cui si
contrappongono luce e tenebra. Questo ruolo di testimone lo definisce in
maniera negativa nei confronti della luce. Pertanto la sua testimonianza verrà
formulata in maniera negativa e indiretta negli stessi vv. 19-82 del racconto
che segue.
Il secondo passo che lo riguarda (1,15) fa invece da supporto alla sua
presentazione positiva ed esplicita in 1,29-34. Possiamo anche aggiungere che
probabilmente non sarebbe del tutto da escludere una evocazione
dell’evangelista, anche egli testimone (Gv 19,35).
La formula che troviamo in 1,6a ci sorprende: mette infatti in evidenza
un nuovo egeneto, «divenne», dopo i primi due di 1,3ab, seguiti dallo stesso
verbo al perfetto in 1,3c. Possiamo vedere in questo fatto la preoccupazione di
collegare il “divenire” di quest’uomo al “divenire” di «tutte le cose» (1,3a).
Analogamente, il «costui» che al v.7 indica Giovanni rimanda al «costui» che
in 1,2a indicava il Verbo-parola.
È degno di nota l’accento posto sulla testimonianza, in collegamento
con il “credere” universale di “tutti”. Il complemento di agente o di strumento
di’autou è ambiguo in greco. Può riferirsi a Giovanni o alla luce, in quanto il
pronome neutro ha la stessa desinenza al maschile. Considerando il valore di
supporto attribuito a Giovanni, si può pensare che il testo rimandi innanzitutto
a lui.
4
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Il v. 8 fornisce una nuova definizione negativa come abbiamo già
rivelato dello stesso personaggio.
vv. 9-14
Il v. 9 stimola una domanda: quale è il soggetto del verbo «era» che
apre la frase? Grammaticalmente parlando, è il sostantivo che segue,
accompagnato dall’articolo: «la luce». Ma è anche vero che, data la posizione
enfatica del verbo «era», è difficile sottrarsi all’impressione di un richiamo
delle occorrenze insistenti del medesimo verbo nei vv. 1-2. Allora il soggetto
sottointeso sarebbe piuttosto il Verbo stesso.
A cosa ricollegare, poi la fine della frase: «venendo nel mondo»? La
Volgata la ricollega a «ogni uomo», ma non si vede bene il senso in una
sottolineatura della venuta – ovvia – di ogni uomo nel mondo. L’unica altra
possibilità consiste nel collegamento con la luce, quella vera. Ciò che viene
messo in evidenza è la sua venuta nel mondo, che merita infatti un’attenzione
particolare.
A Feuillet adotta una soluzione elegante, che viene seguita dal nostro
autore, attribuendo a erchomenon il valore di participio presente piuttosto che
di aggettivo verbale6. La traduzione proposta viene ad essere così in sintonia
con il senso del brano. Ma il Verbo viene nominato solo velatamente, a favore
di una precisazione che verte soprattutto sulla luce – che egli è. Si dichiara già
che si tratta della luce «vera» in contrasto con 1,8ab.
Non si parla ancora di Gesù per non ridurre Gesù ad un semplice
personaggio storico.
La prima unità letteraria è dunque ripercorsa, riattraversata, ma in
maniera ormai più formale, nell’ottica della incarnazione.
Il v. 10ab porta avanti questa prospettiva. Il v. 10c evoca maggiormente
l’ambivalenza della nozione giovannea di «mondo»: cosmo creato buono e
principio di rifiuto, di incredulità. Il mondo è buono, ma si guasta non appena
sboccia l’atto libero.
vv. 11-13
Il v. 11 riprende la stessa idea e la stessa realtà, ma dal punto di vista
della storia della elezione e dell’alleanza. Il Simoens adotta la convenzione di
M. Girard per rendere il neutro plurale: ta idia, «le sue cose proprie». Il
maschile plurale che segue: hoi idioi diventa così «i suoi propri»7.
Il neutro plurale include l’elezione giudaica ed è probabile che non sia
da escludere neanche il cosmo. L’intera umanità è quindi proprietà del Verbo.
6
A. FEUILLET, «Prologue du IV évangile», in DBSup VIII, 1972, col. 633.
M. GIRARD, «Analyse structurelle de Jn 1,1-18: l’unité des deux Testaments dans
la structure bipolaire du prologue de Jean», in ScEs 35(1983), 17.
7
5
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Chi sono «i suoi propri»? I giudei senza dubbio, ma anche i pagani
(cosa che viene confermata dal racconto della passione), e i discepoli che sono
anch’essi giudei. Gv 13,1 conferma tale affermazione (il termine indica
propriamente i Dodici). Ovviamente però, non possono in questo caso essere
esclusi tutti gli uomini, o almeno tutti i potenziali credenti, a cui si fa
riferimento attraverso di loro e che essi rappresentano. L’affermazione
sorprende per il suo carattere globale. I discepoli non avrebbero accolto Gesù?
In effetti il quarto Vangelo registra con realismo l’incredulità anche nelle file
dei discepoli, anche durante l’ultima cena e durante la passione. Gesù solo può
dire nella sua preghiera: «Essi ricevettero» (17,8), con lo stesso verbo
utilizzato in 1,12. Egli copre l’incredulità dei suoi, salvaguardando la loro
elezione totalmente gratuita da parte sua (6,70; 16,32).
Il v. 12 guarda al lato luminoso della medesima realtà. Come il rifiuto
riguarda il mondo, Israele, le nazioni, e persino gli stessi discepoli, così
l’accoglienza, la “ricezione” riguarda ugualmente tutti, specialmente in un
contesto di glorificazione. X. Léon-Dufour sottolinea giustamente la portata
dell’affermazione con riferimento ai non cristiani8. Anch’essi sono “figli di
Dio” nella misura in cui ricevono la luce del Verbo all’interno della loro
religione con rettitudine di coscienza.
Nel v.13, il plurale rappresenta la lectio difficilior. L’accento è posto sul
credere: chi sono i credenti, che cosa sono e che cosa caratterizza di
conseguenza il “credere”, tanto decisivo nel Vangelo giovanneo?
Il versetto procede per eliminazione:
- «Non da sangui»: il termina al plurale è un hapax giovanneo a cui
bisogna prestare attenzione.
La Bibbia usa il singolare finché il sangue è segno di vita, e il plurale – i
sangui – quando è versato. Così, quando Caino uccide Abele la Bibbia dice
letteralmente: «Che hai fatto? La voce dei sangui di tuo fratello grida a me dal
suolo» (Gen 4,11).
Lo stesso termine, inoltre si applica al ciclo mestruale della donna
(Lv 15,19-30) e ricorre in particolare nelle leggi relative alla purificazione
rituale dopo il parto9. In questo senso la negazione si riferisce
all’appartenenza al popolo eletto in virtù dell’ascendenza femminile. Nel
giudaismo non si nasce giudei perché il bambino maschio è inserito nel
popolo eletto tramite la circoncisione.
- «Né da volontà di carne»: qui l’accento è posto sulla libera
volontà più che sul desiderio carnale. La nascita-generazione da Dio
risulta distinta dal frutto dell’unione coniugale.
8
X. LÉON-DUFOUR, Lettura dell’evangelo secondo Giovanni, vol. I: 1-4 (Parola di
Dio), Cinisello Balsamo 1990, 159.
9
I. DE LA POTTERIE, Marie dans le mystère, 132-133.
6
Il Prologo giovanneo in Y. SIMOENS, Secondo Giovanni. Una traduzione e un’interpretazione, EDB 1997
- «Né da volontà d’uomo»: l’espressione esclude questa volta la
filiazione divina tramite l’elemento maschile, virile: il termine uomo
traduce qui il greco anêr.
- «Ma da Dio»: si insiste sull’autore reale, e quindi possibile e
concreto, di tale generazione.
Sarà il v. 14 ad indicare le condizioni che rendono possibile questa
identità dei credenti grazie all’incarnazione del Verbo. In che modo è possibile
e pensabile una simile generazione? Il seguito del testo risponde: soltanto in
virtù della incarnazione.
v. 14
Colui che tutto contiene si lascia contenere dalla precarietà della carne
mortale. Ancora una svolta: il significato del termine «carne» riceve luce dal
riferimento ad una serie di testi della Torah, dei Profeti e dei Sapienti di
Israele: Gen 2,23; Is 40, 5-8; Gb 13,14.
La metafora del mettere la tenda richiama tutto il simbolismo della
tenda che ospitava l’arca nel deserto, e poi del tempio di Gerusalemme. La
traduzione abituale «in mezzo a noi», non rende l’originale greco che dice: «in
noi». L’idea-forza dell’effetto dell’incarnazione nel credente viene in tal modo
salvaguardata.
In 1,14c, il verbo theaomai non equivale a «contemplare», ma ad
«ammirare» in un senso sapienziale che non esclude una qualche connotazione
apocalittica (cf. Tb 13,14).
La gloria dal canto suo esprime la comunicazione che il Dio creatore e
salvatore fa di se stesso. Il termine ritorna nei testi chiave dell’AT: Es 24,1617; Is 6,3; Sir 24,16.
Caratteristica di Dio che si comunica nella creazione e nella storia,
questa gloria si riallaccia al significato dello Spirito (Gv 16,14). In tal modo lo
spirito affiora là dove non è nominato, come anche avviene nella preghiera di
Gv 17 e come afferma Gesù in Gv 3,8.
Il «come» giovanneo tuttavia non si limita ad un semplice valore
comparativo, significando piuttosto: «secondo», «conformemente a», «sul
fondamento di»10. Il termine monogenes radicalizza, per il figlio e a nostro
favore, il senso dell’egennethesan, «furono generati», di 1,13d.
In 1,14e è possibile attribuire il senso di «compiuto» all’aggettivo pleres
da cui viene anche il sostantivo pleroma di 1,16a.
Il movimento di venuta nel mondo annunciato dal Verbo in 1,9a, trova
in tal modo la sua conclusione nel v. 14.
10
J.A.T. ROBINSON, Possiamo fidarci del Nuovo Testamento? (Piccola collana
moderna, 38), Torino 1980, 129.
7
Il Prologo giovanneo in Y. SIMOENS, Secondo Giovanni. Una traduzione e un’interpretazione, EDB 1997
vv.15-18
Questo secondo passo rilancia un terzo movimento: qui si riparte in
qualche modo dal «basso» per risalire verso «l’alto», senza per questo dovere
abbandonare l’universo concreto dell’incarnazione.
Nel v. 15 il verbo testimoniare è al presente. Giovanni segna qui un
nuovo inizio.
Il participio presente legôn (v. 15b), favorisce la percezione del rapporto
di questo verbo con il sostantivo che deriva dalla stessa radice: logos.
Hon eipon (v. 15c), permette di sottolineare ulteriormente questa ripresa
dei primi versetti del testo. Giovanni dice la Parola, è parola della Parola, è
colui che «parla» il Verbo.
«Gridare» è un verbo che indica supplica.
La traduzione qui usata si ispira a quella di E. Delbecque11: «Colui che
viene dietro di me è divenuto davanti a me perché era, prima di me, il primo».
Il primo passo colloca il Verbo prima di Giovanni, e quest’ultimo
rappresenta allora il punto culminante della testimonianza di Israele. Il
secondo introduce Gesù dopo Giovanni: si tratta sempre del Verbo, ma in
questo caso Giovanni è collocato alla base della testimonianza della Chiesa.
Tutta la Scrittura, Antico e Nuovo Testamento, è in definitiva da leggere
secondo la complementarità di questi due assi.
Dove finiscono le parole di Giovanni? È difficile dirlo. In una recente
comunicazione sull’argomento, E. Trocmé si pronuncia a favore di una
estensione di questa testimonianza fino al v. 1812.
Il verbo del v. 16 elabomen è tradotto con «ricevemmo». Questo
termine dà luogo ad un nuovo parallelismo con i vv. 11-12 che esprimevano
con lo stesso verbo e con uno dei suoi composti la mancata accoglienza (ou
parelabon) e la ricezione (elabon) del Verbo-Parola alla sua venuta nel
mondo.
Il v. 17 appare dunque come la versione giovannea di Rm 5,20: «La
legge poi sopraggiunse a dare piena coscienza della caduta, ma laddove è
abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia».
L’ottica giovannea considera la Legge sotto l’aspetto del dono fatto dal
Signore al suo popolo tramite Mosè.
Ci muoviamo all’interno di una logica di sovrabbondanza, coronata
dalla grazia e dalla verità in Gesù Cristo. Il rapporto non va visto sotto
l’aspetto della successione temporale, e ancor meno della sostituzione. Il
meccanismo della testimonianza di Giovanni al v. 15 non permette queste
11
E. DELBECQUE, Èvangile de Jean, Texte traduit et annoté (Cahiers de la Revue
Biblique, 23), Gabalda, Paris 1987, 63.
12
E. TROCMÉ, «Jean et les synoptiques. L’exemple de Jean 1,15-34», in The Four
Gospels 1992, Festschrift F. Neirynck, a cura di F. VAN SEGBROECK et al., T. III (BETL,
100), University Press – Uitgevereij Peeters, Leuven 1992, 1936.
8
Il Prologo giovanneo in Y. SIMOENS, Secondo Giovanni. Una traduzione e un’interpretazione, EDB 1997
semplificazioni. Il rapporto orienta verso una permanenza dei termini
collegati, raggiungendo il cuore della relazione fra l’Antico e il Nuovo
Testamento. Viene in tal modo stabilita la giusta relazione del Cristo e della
Chiesa con gli uomini, così come con tutte le religioni e le culture del mondo.
Il verbo «divenire», applicato a Gesù Cristo nel v. 17, e poi di nuovo il
verbo essere, usato al participio: «colui che è», ho ôn, per precisare il rapporto
del Cristo con Dio, non possono mancare di stabilire a loro volta un
parallelismo con la fine della prima unità letteraria, consacrata al primo passo
su Giovanni. Là Giovanni entrava nel «divenire» per essere subito definito in
base a ciò che egli non «è» (vv. 7-8). Qui Gesù dà senso sia a Giovanni sia
all’essere e al divenire.
Sullo sfondo dell’affermazione precedente, il v.18 risuona come un
richiamo e una vigorosa riaffermazione del «grande comandamento»
dell’alleanza, il primo articolo del decalogo (Es 20,3-4; Dt 5,7-8).
L’eccellenza del Cristo non si esprime attraverso un certo numero di
affermazioni che riguardano lui indipendentemente da «noi», ma attraverso
l’audace verifica in noi, grazie al «credere» come atto libero in un contesto
comunitario di ciò che è valido per lui.
Gesù Cristo non è «di ritorno» verso il seno del Padre. L’espressione
definisce nel modo migliore il suo amore per il Padre. Abbiamo trovato così
un criterio di spiegazione per l’assenza del vocabolario dell’agapê e della
philia nel prologo. Così come riserva il termine Figlio (hyios) esclusivamente
a Gesù, allo stesso modo, per indicare il suo amore intrinsecamente unico per
il Padre e per gli altri, il testo conclude dicendo: «L’unigenito, Dio, colui che è
verso il seno del Padre, egli trascino (là)».
Grazie alla sua relazione unica col Padre, il Figlio si comunica in noi
trascinandoci13 con sé. Il duplice significato del verbo finale: exêgêsato,
valorizzato da R. Robert («condurre da un luogo all’altro assumendo la
responsabilità di guida» e «far comprendere») invita a rileggere da capo
l’insieme del prologo alla luce dell’ultima battuta. Questo finale fa anche da
transizione al racconto storico che segue. La mediazione testuale del Vangelo
esprime la circolarità da Dio a Dio attraverso il Cristo in noi e a nostro favore.
4. Genere letterario
Oggi è comunemente ammesso che Pr 8,22-31 e Sir 24 fanno almeno da
sfondo al prologo giovanneo. Proprio in Sir 24 la Sapienza fa il suo elogio
(ainesis), anche se tenendo conto delle caratteristiche del linguaggio utilizzato,
si può parlare di un inno.
Il prologo mescola l’elogio poetico, liturgico e retorico adottando un
tono innico. Il genere letterario non è dunque puro. Il Verbo non fa proprio il
suo elogio ma si manifesterà come sacerdote della Parola-Torah, come profeta
13
A. CHOURAQUI, Un pacte neuf, Brepols, 1984, 213
9
Il Prologo giovanneo in Y. SIMOENS, Secondo Giovanni. Una traduzione e un’interpretazione, EDB 1997
della Parola-Profezia, come re della Parola-Sapienza e come Figlio dell’uomo
per la Parola apocalittica.
Il movimento della Sapienza consiste in una discesa dall’alto verso il
basso. Tale movimento è semplice in Pr 8,22-31, diventa più complesso in Sir
24 e al prologo non rimane che da sintetizzare questi dati applicandoli al
Verbo-Cristo, per lasciare che quest’ultimo li comunichi ai credenti. C’è
inoltre un movimento di risalita che è nello stesso tempo una permanenza.
L’incarnazione e il ritorno-permanenza del Figlio verso il Padre,
secondo 1,18, si collocano sulla linea delle tradizioni più fondamentali di
Israele come popolo di Dio, le trasformano e le portano a compimento, dando
loro il loro contenuto definitivo e personale.
5. Struttura letteraria e interpretazione
I pareri relativi alla struttura letteraria di Gv 1,1-18 si possono
suddividere in due gruppi: alcuni (M. E. Boismard) preferiscono individuare
una struttura bipartita intorno ad un perno centrale sviluppando un ampio
chiasmo; e altri (M.F. Lacan, I. de la Potterie, H. Ridderbors) preferiscono
vedere una struttura tripartita.
Molte decisioni dipendono dal posto assegnato ai due passi su Giovanni.
Secondo il nostro autore invece, il testo va suddiviso in tre parti, tre quadri che
insieme formano un trittico.
Il primo quadro va da ciò che si dice del Verbo rispetto al principio,
nell’essere e nel divenire (vv. 1-3), fino al primo passo su Giovanni (vv. 6-7),
passando per il conflitto tra luce e tenebre. Quest’ultimo si risolve tramite il
primo ricorso al verbo lambanein.
Il secondo quadro riprende il rapporto del Verbo con «ogni uomo» (v.
9), e quindi necessariamente con la creazione, per giungere al suo «divenire
carne» (v. 14), cioè all’incarnazione. Anche questa volta lo fa passando per
l’assunzione e il superamento di una nuova tensione fondamentale, espressa di
nuovo grazie al verbo lambanein.
Il terzo quadro, parte dal secondo passo su Giovanni (v. 15) per
giungere alle affermazioni sul rapporto permanente del Verbo (designato con
il nome di Gesù Cristo) con il Padre e con i credenti (vv. 17-18). Qui si passa
per l’evocazione positiva del rapporto tra «la sua compiutezza» e «noi tutti»
per la terza volta tramite l’impiego del verbo lambanein.
10
Il Prologo giovanneo in Y. SIMOENS, Secondo Giovanni. Una traduzione e un’interpretazione, EDB 1997
vv. 1-8
Il Verbo
In principio
vv. 9-14
(il Verbo)
vv. 15-18
Giovanni
La tenebra
Non afferrò
La luce
Venuta del Verbo
Non accoglienza
Ricezione
Ricezione
Della compiutezza da
parte di noi «tutti»
Giovanni
Incarnazione
Gesù Cristo
Il Padre
(destinatario)
La quadruplice corrispondenza del verbo lambanein e dei suoi composti
(vv. 4-5.11-12.16) è troppo evidente, in un testo limitato a diciotto versetti, per
non essere presa in considerazione, tanto più che per Boismard e Culpepper
che il Simoens segue in quest’ottica, la duplice occorrenza di questa radice
verbale nei vv. 11-12 si colloca al centro di tutto il prologo.
Il nostro Autore, inoltre si chiede, se le unità costituite dai vv. 1-8 e 1518 non potrebbero essere a loro volta organizzate intorno ai verbi:
katalambanô, «afferrare» (v. 5b), e lambanô, «ricevere» (v. 16b), come
intorno al loro rispettivo centro letterario. In realtà il Simoens si dà pure la
risposta affermativa e procede a dimostrare la conseguenza di quanto detto,
che rimandiamo al suo testo.
Ciò che a noi maggiormente interessa è soffermare la nostra attenzione
sul fatto che il verbo lambanô (con i suoi derivati), insieme a Giovanni e alla
sua testimonianza forniscono le chiavi di lettura dell’interpretazione del
prologo.
Il testo, alla luce di quanto detto, può essere letto in due direzioni
complementari: dal «principio» al «trascinamento guida» del Figlio passando
per la testimonianza di Giovanni; oppure dalla compiutezza già realizzata, cioè
dalla fine, all’origine, sempre attraverso la testimonianza di Giovanni.
Tale testimonianza rappresenta l’altra chiave di lettura fondamentale del
prologo. Questa testimonianza è duplice.
Il primo passo su Giovanni delimita il primo quadro, mentre il secondo
passo delimita il terzo quadro. I due passi articolati tra loro delimitano il
quadro centrale in cui si concentra il messaggio: l’unità del disegno di Dio
nella creazione come nella storia del mondo, di Israele e della Chiesa, storia
che ha il suo culmine nel Cristo.
Dal punto di vista dell’origine e della storia, un preciso punto di
riferimento è fornito da Giovanni. Questo è quello che permette di valorizzare
la creazione non solo rispetto al Cristo, ma soprattutto rispetto a quello che si
può dire in negativo e in positivo della testimonianza, sia indiretta, sia diretta
di Giovanni.
Anche il rapporto con la fine passa attraverso Giovanni. Il Cristo
sovrasta la storia, ivi compresa quella della Chiesa. Il punto di riferimento per
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Il Prologo giovanneo in Y. SIMOENS, Secondo Giovanni. Una traduzione e un’interpretazione, EDB 1997
quest’ultima nel destino che le è proprio è sempre la testimonianza di
Giovanni.
Possiamo dire allora che nel prologo sono identificabili una prospettiva
cronologica, in cui Gesù succede a Giovanni, e una prospettiva ontologica in
cui lo stesso Gesù, come Logos dell’origine, precede radicalmente Giovanni.
Questa rilettura mette in evidenza il carattere ineludibile di Giovanni, il
testimone, nell’atto del credere e quindi nella giusta percezione di Colui in cui
bisogna credere. Il prologo infatti sottolinea che la testimonianza apostolica è
passata inizialmente attraverso quella di Giovanni, di colui che nella sua
persona e con la sua missione, assume l’eredità di Israele.
Ma l’adesione di Dio nel suo Verbo è rivolta a destinatari chiamati a
beneficiare del dono della sua vita e di conseguenza non può che suscitare
l’adesione o il suo contrario: la non adesione, il rifiuto.
Dio creando assume il rischio di vedersi rifiutato come creatore: il suo
amore arriva fino a questo punto. È il tema della libertà nascosto tra le righe
del prologo.
Ogni volta infatti che lo si legge bisogna passare necessariamente
attraverso la porta della libertà e della decisione: in un primo momento, per o
contro la luce (vv. 4-5); in un secondo momento, a livello di rifiuto incredulo
o di adesione di fede (vv. 11-13), e da ultimo con l’invito a beneficiare del
compimento per ricevere grazia su grazia (v. 16). Il prologo si trova ad
inquadrare al posto che loro spetta e secondo la loro esatta portata, le istanze
della libertà cristiana nella comunità dei credenti e nella storia.
6. Conclusioni morali della lettura del Simoens
Alla luce di quanto detto e analizzato, il prologo, che possiede in nuce
tutti gli elementi essenziali del Quarto vangelo, diventa per noi quello
specchio davanti al quale rintracciare i lineamenti del nostro essere cristiani.
v. 1 «In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e Dio era il
Verbo»: la Parola è sempre stata in principio e vi rimane per sempre. Dove è
presente l’essere umano nel mondo e nella storia, qualunque cosa faccia o
intraprenda, là c’è la Parola.
La teologia giovannea racchiusa nel prologo, così come in tutto il
vangelo, è incentrata sulla cristologia. Viene, infatti, fornita al lettore
un’immagine di Cristo mediante il quale si può giungere alla conoscenza di
Dio e del suo mondo, alla autentica unione con Dio e alla partecipazione alla
vita divina.
v. 4: «In lui, (la vita) era , e la vita era la luce degli uomini», come già
abbiamo evidenziato, in questo versetto in modo particolare è racchiusa la
forza “comunicatrice” di vita divina propria del Verbo.
L’incarnazione si opera in Gesù che viene ad a essere designato come
Verbo-luce – affinché tramite lui si operi in noi.
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Il Prologo giovanneo in Y. SIMOENS, Secondo Giovanni. Una traduzione e un’interpretazione, EDB 1997
È grazie agli effetti dell’incarnazione nel credente che l’incarnazione
del Verbo può avere qualche possibilità di essere colta in se stessa.
Giovanni riveste un ruolo così importante nel prologo da potere
affermare che la visione peculiare di Yves Simoens su questo inno sta nel fatto
che letteralmente e teologicamente parlando non è incentrato sul Verbo, ma
sull’effetto salvifico del Verbo incarnato null’uomo all’interno della
storia. Ciò che ha maggior importanza avviene dunque sia sul piano della
reazione dell’uomo alla Parola che si rivela, sia sul piano della Parola stessa.
La Parola non si rivela che per essere compresa e ricevuta.
Il Verbo giovanneo allora si dedica ad introdurre «i suoi» nel luogo che
egli è: il suo scopo è fare dei credenti il luogo della sua presenza
(indicativo salvifico). Il punto fondamentale e ricco di sfumature è dunque il
seguente: si può essere figli di Dio, ricevendo la Luce e credendo nel nome del
Verbo, senza essere necessariamente cristiani e senza credere in maniera
esplicita in Gesù Cristo. Ma, come farà vedere il seguito, soltanto la fede
nel Verbo incarnato, e dunque nella persona di Gesù Cristo, permette di
comprendere veramente e di vivere pienamente questa nascita da Dio
(imperativo morale).
Ma specificando meglio possiamo dire che si tratta di preparare il
terreno perché il seme produca frutto, Gv 13,20 «…Chi accoglie colui che io
manderò, accoglie me; chi accoglie me, accoglie colui che mi ha mandato» e
Mt 10,40 «Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che
mi ha mandato» e par.
V. 14 «E il Verbo carne divenne e mise la tenda in noi»: qui il Logos
cambia il suo modo di essere: prima era «presso Dio» nella «gloria del Padre»,
ora assume la bassezza della condizione umano-terrena (che dice la chenosi
paolina di Fil 2). Il suo divenire è veramente un profondo abbassarsi ad
accogliere il limite e l’imperfezione dell’esistenza terrena.
Se diciamo che si sta abbassando, diciamo che sta discendendo dal cielo
e allora il suo discendere è direttamente funzionale ad un ascendere al cielo
che però non sarà uguale al discendere. Quando lui ascende, infatti, non è più
solo ma trascina la nostra natura umana “indivise, inconfuse, immutabiliter,
inseparabiliter”(cfr. Calcedonia). E questo semel pro semper.
Il suo discendere è per consentire all’umanità di ascendere alla «gloria
del Padre». Solo chi è disceso può ascendere. «Nessuno è mai salito al cielo
fuorché il Figlio dell’uomo che è disceso dal cielo» Gv 3,33 e Gv 6, 61.62.
Insomma, come abbiamo già detto: grazie alla sua relazione unica col
Padre, il Figlio si comunica in noi trascinandoci con sé.
Quello che spetta all’uomo, allora, è lasciarsi trascinare dal Verbo, dalla
forza della sua attrazione. È questo richiede una scelta: ritornare all’origine, al
principio, all’archè, alla luce, o rinunciare e rifiutare questa luce e farsi
coinvolgere dalle tenebre.
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