30/10/2014
Le società possono ricorrere a due tipi di strumenti di finanziamento: finanziamento di debito e
finanziamento di credito.
Dal 2003 in poi vi è stata una rilevante esplosione delle forme di finanziamento azionario: l’Italia ha colto
infatti l’opportunità di moltiplicare gli strumenti di ricorso al finanziamento di rischio per dare più chance
alle società di raccogliere fondi. Una volta vi erano solo le azioni ordinarie, quelle privilegiate e quelle di
risparmio; dopo la riforma del 2003 è scomparsa la categoria delle azioni privilegiate nel senso che prima vi
era un vincolo biunivoco (secondo cui per aumentare il diritto agli utili, si riduceva il diritto di voto →
meccanismo automatico: non si poteva aumentare uno dei due diritti, senza ridurre l’altro), mentre oggi vi
è una maggiore flessibilità non solo nel contenuto dei titoli azionari, ma anche in altre caratteristiche a
monte.
Contenuto dei titoli azionari = diritti che si possono costruire all’interno di un’azione, da offrire in
sottoscrizione ai soci. Per analizzare tale contenuto, si parte dalle regole che si applicano alle azioni
ordinarie → art. 2346 e seguenti: diritti che tutte le azioni ordinarie devono possedere.
Art. 2348: categorie di azioni. Quando una società decide di creare categorie diverse di azioni (oltre alle
azioni ordinarie), può farlo nei limiti previsti, ma la cosa veramente importante è che tutte le azioni
appartenenti ad una stessa categoria devo attribuire sempre gli stessi diritti. Se una società decide quindi di
variare i diritti riconosciuti ai soci (in modo tale che alcuni soci abbiano certi diritti e altri soci ne abbiano
altri), lo può fare ma le azioni di una categoria devono essere tra loro tutte uguali. Perciò, all’interno della
categoria le azioni devono dare tutte il medesimo trattamento (ad es. lo stesso utile) → deve essere
identico il trattamento di ogni azione all’interno di una categoria.
↓
Principio di standardizzazione: se si creano più categorie, tali categorie devono essere tutte uguali
all’interno.
Differenza rispetto le srl: mentre nelle spa si possono creare dei gruppi di azioni in serie (cioè delle
categorie/classi di azioni tutte uguali), nelle srl questo non è consentito. Nelle srl non si possono infatti
creare delle categorie: si possono solo riconoscere ai soci dei diritti particolari. Tali diritti particolari sono
riconosciuti al singolo socio in quanto tale → non sono un riconoscimento di classe/di gruppo.
Nelle srl non esistono le azioni, la partecipazione è rappresentata da quote: ogni socio ha una quota che
misura il suo investimento. Le quote non sono necessariamente uguali tra di loro (il socio che ha versato
5mila euro ha una quota che vale 5mila, il socio che ha versato 3mila ha una quota più piccola che vale
3mila). Visto che nelle srl i soci non sono titolari di azioni, non è possibile creare dei titoli in serie come
categorie ma si possono attribuire dei diritti individualmente riconosciuti, particolari. Ad es. è possibile
riconoscere un utile maggiorato ad un socio Tizio, ma tale diritto viene riconosciuto al socio non in quanto
proprietario di una quota ma perché si chiama Tizio. Tant’è che nello statuto si può stabilire che se Tizio
vende la sua quota, il diritto maggiorato viene meno → è un diritto ad personam, cioè riconosciuto al socio
e non alla partecipazione del socio. Nelle spa invece vi è una spersonalizzazione e quindi sono le azioni che
contano, non chi ne è proprietario. Quindi, se si creano delle categorie di azioni, all’interno della categoria
tutte le azioni devono essere uguali.
Diritti che riconosce ordinariamente un’azione: nel momento in cui nasce una società con delle azioni (in
quanto il capitale sociale è diviso in azioni), se nello statuto non si scrive niente, quelle azioni saranno tutte
ordinarie → quando una società nasce ha una sola categoria di azioni. Anche per le ordinarie vale la regola
che devono essere tutte uguali. Il contenuto delle azioni di solito si distingue in diritti di carattere:
o
patrimoniale: sono quei diritti di contenuto economico. Visto che si parla di investimento sono due:
- diritto all’utile cioè il diritto a percepire periodicamente il risultato positivo dell’esercizio, post
imposte, tasse, accantonamenti ecc. Non è un diritto assoluto: le regole societarie stabiliscono
infatti che, quando vi è un risultato positivo, è l’assemblea a decidere cosa fare dell’utile (se
non vi utile, l’assemblea può decidere di distribuire le riserve ma in questo caso è una
distribuzione straordinaria). Quindi, se dal bilancio risulta un utile, il socio non ha diritto
automaticamente alla distribuzione ma vi deve essere una preventiva delibera dell’assemblea
che decide se e in che misura dividere l’utile tra gli azionisti. Se non vi è tale delibera (cioè
l’assemblea non decide di distribuire l’utile) la regola generare nelle società di capitali (spa e
srl) è che l’utile viene accantonato. Nelle società di persone è esattamente al contrario: infatti,
nelle società di persone, nel momento in cui risulta un utile, il socio ha automaticamente diritto
a percepire la sua parte. Anche nella tassazione, si presuppone che il socio di società di
persone abbia incassato la sua parte di utile; se si è soci di una società di capitali questo invece
non avviene. Dunque, in una società di persone l’utile risultante dal bilancio viene distribuito
perché il socio ha diritto ad averlo, a meno che i soci abbiano deliberato di accantonarlo. Nelle
società di capitali, invece, il socio non ha diritto alla distribuzione, a meno che l’assemblea non
decida di dividerlo. Il diritto all’utile si chiama diritto (cioè è una posizione che si può far valere)
perché nel momento in cui l’assemblea ha deciso di distribuire l’utile nasce veramente il diritto
individuale di ogni socio a pretendere che la società paghi il dividendo. Quindi il socio può far
valere la sua posizione solo quando l’assemblea ha deliberato la distribuzione. Il socio che non
ha ancora incassato il dividendo ha diritto di domandarlo alla società e, se la società non vuole
darglielo, può fare causa chiedendo che il giudice ordini il pagamento di questa somma.
- diritto alla quota di liquidazione. Nasce nel momento in cui la società viene posta in
liquidazione (cioè quando la società si avvia a terminare la sua vita). Quando la società viene
messa in liquidazione, l’obiettivo della società è cessare tutti i rapporti in essere, monetizzare
tutti i crediti, pagare tutti debiti ed infine, distribuire il residuo. La quota di liquidazione è
appunto il residuo che rimane nel patrimonio della società, di cui i soci hanno diritto a
ottenerne una parte.
L’utile è sempre un diritto che ha oggetto il denaro, mentre la quota di liquidazione non sempre
è rappresentata da denaro (potrebbe essere diritti, immobili, marchi, know how). Si può infatti
anche decidere che, in sede di distribuzione del residuo, alcuni o tutti i soci ottengano beni al
posto del denaro. Entrambi i diritti hanno comunque carattere economico.
Art. 2350: diritti patrimoniali → ogni azione attribuisce diritto a una parte proporzionale degli
utili netti e del patrimonio netto risultante dalla liquidazione. Tale regola opera per le azioni
ordinarie.
o
corporativo o organizzativo: non sono una categoria facilmente elencabile perché consistono in
qualsiasi facoltà che il socio può esercitare in quanto tale. L’elenco può quindi essere ampio e non
si tratta di un’elencazione tassativa. Ad es. il diritto del socio ad analizzare i libri dei verbali
dell’assemblea, il diritto di formulare segnalazioni al collegio sindacale, il diritto di promuovere
davanti al tribunale una causa di impugnazione di una delibera sostenendo che la delibera è
invalida, il diritto di rivolgersi al tribunale per chiedere la nomina di un amministratore giudiziale. Il
più importante di tutti i diritti di natura corporativa è il diritto di voto: non ha contenuto economico
ma è un diritto che si esprime nella vita sociale perché è il modo mediante il quale il socio partecipa
alla formazione delle decisioni in assemblea. Genericamente è il diritto a manifestare il proprio
consenso, dissenso o astenersi durante una votazione. La regola generale, ma non assoluta, è che
ogni socio ha un voto per ogni azione posseduta. Tale regola può essere derogata.
Art. 2351: diritto di voto. La regola generale è che ogni azione attribuisce un voto. Nelle società di
capitali il voto non è per teste ma si vanno a contare i voti (ad es. se undici persone votano si ma le
altre nove votano no ed hanno il 90% del capitale, la delibera è bocciata perché prevale il numero
dei voti).
Quando la società decide di ampliare il novero degli investitori si possono:
1) emettere delle nuove azioni ordinarie oppure
2) creare azioni di categorie diverse dalle ordinarie, per rendere più appetibile l’investimento.
Spazi di libertà che ha la società nel creare le categorie, cioè contenuti delle categorie:
o
diritti patrimoniali: sono fatti salvi i diritti di speciali categorie di azioni. Ciò significa che vale la
regola stabilita dall’art. 2350 (ogni azione attribuisce diritto a una parte proporzionale degli utili
netti e del patrimonio netto risultante dalla liquidazione) ma fino al punto in cui non vi siano
categorie speciali che prevedono diritti diversi.
Quali possono essere tali diritti diversi?
- la società può emettere azioni fornite di diritti patrimoniali correlati ai risultati dell’attività
sociale di un determinato settore → azioni correlate: la loro caratteristica è che sono correlate
all’andamento di un settore. Secondo il principio generale, se si è soci di una società, il diritto
agli utili è legato all’intero andamento di tutta la società. Ciò significa che se in un determinato
esercizio una determinata attività, singolarmente intesa, realizza utili ma un’altra attività
realizza una perdita, l’utile da distribuire è dato dalla differenza poiché ogni socio partecipa
all’andamento globale. La legge però permette, nel caso delle azioni correlate, di sciogliere il
vincolo tra il diritto all’utile e l’andamento globale della società. La società può quindi decidere
di creare delle azioni legate all’andamento di un settore, cioè che riconoscono ai soci il diritto
all’utile solamente sui risultati di una singola attività. Questa è una possibilità per le imprese
multi divisionali, cioè quelle che hanno al loro interno diverse attività di impresa. Le imprese
multi divisionali possono quindi distinguere il diritto patrimoniale sulla base dell’andamento di
un settore. A quel punto si deve avere una contabilità separata, per separare costi e ricavi
imputabili ad un dato settore. Lo statuto deve quindi stabilire i criteri di determinazione dei
costi e dei ricavi imputabili al settore. Ciò non significa però che si debba fare un bilancio
separato; infatti, il bilancio è un documento unitario ma quando vi sono delle azioni correlate,
nell’unico documento bisogna separare costi e ricavi di un dato settore, rispetto agli altri. Nel
bilancio bisogna quindi identificare i profili economici di quel settore specifico. È una sorta di
mini bilancio, da cui nasce il diritto agli utili dei proprietari delle azioni correlate.
Nel momento in cui si creano delle categorie di azioni diverse da quelle ordinarie, si può
decidere se queste categorie debbano restare per sempre così come sono o se i titolari abbiano
diritto a scambiare le azioni di categoria con azioni di un’altra categoria. Ad es. capitale di
50mila euro, la società decide di aumentarlo a 100mila creando 50mila azioni correlate da
1euro. Quando si crea la nuova categoria, si può scrivere nello statuto che i titolari delle azioni
correlate avranno diritto, ogni anno in una certa finestra temporale, di chiedere la conversione
delle loro azioni in azioni ordinarie. La clausola di convertibilità è molto diffusa perché permette
un doppio vantaggio in termini di appetibilità dell’investimento: è vantaggiosa se l’andamento
del settore specifico è altalenante o legato a fattori non stabili ma contingenti in quanto dà la
possibilità di convertire, quando il socio lo desidera, le sue azioni correlate in azioni ordinarie
(ad es. quando l’investimento sul settore non rende più come un volta). Tale clausola è
particolarmente diffusa tra le obbligazioni (cioè nell’ambito degli investimenti di debito). Il
mercato è infatti molto volatile, per cui può essere che oggi sia molto conveniente un
investimento di debito (perché può dare interessi superiori all’utile che si può ipoteticamente
ottenere dallo stesso investimento in capitale), ma può essere che domani i tassi siano così
bassi da ottenere interessi irrisori rispetto all’utile. Non ha quindi senso vincolare il capitale in
una forma predeterminata; è preferibile mettere una clausola di convertibilità per dare una
chance in più all’investitore (che ha quindi la possibilità di trasformare il suo investimento da
obbligazione ad azione). La stessa cosa si può fare nell’ambito del solo rischio: con tale clausola
si può passare da azioni correlate a ordinarie. Questa trasformazione può essere vantaggiosa se
l’andamento dello specifico settore è altalenante oppure è legato a fattori non stabili ma
contingenti. Nello statuto si possono prevedere quali siano le modalità di conversione, cioè le
condizioni, i tempi, i costi per trasformare l’azione correlata di una categoria in un’azione di
un’altra categoria (ad es. in un’azione ordinaria).
Chi è titolare di azioni correlate ad un certo settore può dimenticarsi di come va il resto della
società fino ad un certo punto, perché vige comunque il principio per cui la società non può mai
distribuire degli utili fittizi, cioè delle somme che non risultino come utili dell’esercizio o come
utili accantonati da esercizi precedenti o come riserve → le risorse che possono essere
distribuite sono solo quelle esistenti e distribuibili. Se un socio ha delle azioni correlate
all’andamento di un settore, la società non può comunque distribuire utili di quel settore a
prescindere dal risultato dell’intera attività.
↓
Art. 2350 comma 3 → non possono essere pagati dividendi ai possessori delle azioni correlate
se non nei limiti degli utili risultanti dal bilancio della società. Perciò è vero che il possessore di
azioni correlate ha un diritto legato semplicemente ad un certo settore, ma è anche vero che
bisogna comunque tener conto dell’andamento di tutta la società. Questo non significa che
l’azionista correlato non abbia nessun diritto in più rispetto a quelli ordinari; infatti, l’azionista
ordinario riceve gli utili spalmati tra tutti gli azionisti della società dell’attività nel suo
complesso (e può farlo solo dopo che sono stati pagati gli azionisti correlati al settore), mentre
l’azionista correlato, una volta che sia stata decurtata quella fettina di utile che non esiste, ha
diritto ad avere gli utili del suo settore e su questi utili non partecipano gli azionisti ordinari →
gli azionisti correlati hanno la precedenza. Ad es. una società che ha quantificato i propri utili
d’importo pari a 80mila euro prima li distribuisce agli azionisti correlati, non dando però tutti gli
80mila ma solo quelli del settore di competenza (per ipotesi 70mila euro), mentre quello che
residua pari a 10mila viene distribuito tra gli azionisti ordinari. Quindi l’azionista correlato si
trova in una situazione di privilegio.
Per cui se l’azionista ordinario deve dividere l’utile con tutti gli azionisti ordinari e può farlo solo
dopo che sono stati pagati gli azionisti correlati al settore, questi ultimi hanno la precedenza;
perciò quando la società realizza quanti utili ci sono e tolte le perdite, innanzitutto distribuisce
gli utili agli azionisti correlati legandoli al settore e sul residuo distribuisce agli azionisti ordinari.
-
art. 2348 comma 2: si possono creare, con lo statuto o con successive modificazioni di questo,
categorie di azioni fornite di diritti diversi anche per quanto concerne la incidenza delle perdite.
In tal caso la società, nei limiti imposti dalla legge, può liberamente determinare il contenuto
delle azioni delle varie categorie. La società può quindi fornire categorie diverse di azioni anche
per quanto riguarda l’incidenza delle perdite → azioni postergate nelle perdite. Significa che nel
momento in cui la società subisce una perdita, la perdita realizzata non si spalma sul valore
patrimoniale degli azionisti ma solo su una parte di loro.
Se la società realizza un utile, questo è denaro che può essere distribuito tra i soci; se la società
l’utile non lo distribuisce, il socio quella somma non la perde perché l’utile viene messo a
riserva e le riserve unite al capitale sociale formano il valore patrimoniale → capitale sociale +
riserve = valore patrimoniale. Per cui se ci sono le 100.000 azioni da 1 euro di valore nominale e
la società realizza 100.000 euro di utile nell’esercizio, se questo utile non viene distribuito la
società avrà nel bilancio il capitale di 100.000, la riserva di utili da 100.000 e il valore
patrimoniale di ogni azione sarà di 2 euro (200.000/100.000). Per cui il socio che sia titolare di
un’azione è vero che ha investito 1 euro e non ha messo in tasca nulla, ma nel momento in cui
in un domani dovesse vendere la sua azione, quella sua azione vale 2 euro, perché include al
suo interno il valore del patrimonio.
In caso di perdita è esattamente il contrario, la perdita non obbliga il socio a pagare la società
perché vi è una responsabilità limitata, ma la perdita va a influire sul valore patrimoniale delle
azioni. Ad es. utile realizzato anno 1 pari a 100.000 viene messo a riserva. Quindi il capitale
ammonta a 100.000 perché le riserve da utili sono 100.000. Nell’anno 2 si registra una perdita
di 50.000, dunque il capitale ammonta a 100.000 e le riserve distribuibili da utili a 50.000
Quindi ogni socio dopo l’anno 2 avrà in mano un titolo azionario che non vale più 2 euro come
prima, ma varrà solo più 1,50 euro perché ciascun socio sconta sul valore patrimoniale la
perdita subita. Questa è la regola generale per quando tutte le azioni sono ordinarie, ma è
possibile creare una categoria di azioni che mette il socio al riparo (sia pure non per sempre)
dal rischio derivante dalle perdite. La società può stabilire per esempio che in caso di perdita il
50% della perdita vada a ricadere sugli azionisti titolati di questa categoria e il restante 50%
venga spalmato su tutti gli azionisti → in questo modo si differenzia, perché ci saranno degli
azionisti il cui valore patrimoniale sopporta interamente la perdita e ci saranno degli azionisti
(quelli della categoria speciale) che avranno un valore patrimoniale maggiore, perché sulla loro
partecipazione la perdita ha inciso in misura inferiore. Ad es. capitale 100.000, riserve di utili
100.000 e perdita 50.000. Si potrà stabilire che metà di questa perdita si spalmi su tutti gli
azionisti che avranno quindi un valore patrimoniale delle azioni di 1,75 euro (100.000 euro +
75.000/100.000 = 1,75 euro per ogni azione), ma l’altra metà della perdita invece di spalmarsi
su tutti, si spalmerà solamente sugli azionisti ordinari. Quindi vorrà dire che gli azionisti della
categoria speciale che sono postergati nelle perdite avranno azioni che valgono 1,75 euro l’una,
mentre gli azionisti ordinari avranno azioni che valgono meno di 1,75 euro l’una perché sul loro
titolo azionario va a incidere la metà della perdita che incide anche sugli altri e la restante metà
che non incide sugli altri (per cui non avranno 1,50 euro per azione ma avranno un po’ meno di
1,50 euro). Ci saranno perciò azionisti in mano che valgono 1,75 euro di valore patrimoniale
(perché il valore nominale deve essere sempre uguale) e alcuni azionisti che avranno in mano
azioni che valgono meno degli altri, proporzionalmente meno di quanto varrebbero se le
perdite fossero spalmate su tutti.
-
o
si possono creare delle azioni che riconoscono una % maggiorata di utili → riconoscono un
privilegio sugli utili (azioni speciali privilegiate). Questo era già consentito prima del 2003 ed è
consentito alla pari oggi. Quindi si potrà stabilire che quando ci sono da distribuire gli utili, la
categoria di azioni privilegiate abbia diritto preferenzialmente di avere una % dell’utile. La stessa
cosa può essere prevista riguardo alla quota di liquidazione anche se è molto più rara: ci sono degli
statuti in cui sono riconosciuti dei diritti particolari attraverso la creazione di categorie di azioni che
hanno dei privilegi economici in sede di liquidazione.
Ad es. utile realizzato 100.000, azioni speciali privilegiate 50.000. Si stabilisce che i soci titolari delle
50.000 azioni privilegiate hanno diritto ad avere subito prima degli altri il 10% dell’utile realizzato;
per cui si prenderà, di questi 100.000 euro di utile, 10.000 euro e si divideranno tra i 50.000
azionisti privilegiati. Il residuo di 90.000 euro andrà distribuito tra tutti gli azionisti come avviene
normalmente. Ne risulta che gli azionisti privilegiati hanno avuto una fettina di utile (10%) più la
loro fettina del 90% di utile, mentre gli azionisti ordinari hanno avuto soltanto la loro fettina del
90% dell’utile → gli azionisti privilegiati avranno ottenuto più denaro/utile rispetto agli azionisti
ordinari.
Diritti partecipativi/corporativi: quali sono gli spazi di autonomia che hanno le società nel creare
categorie che modificano i diritti corporativi? Oggi lo spazio è molto ampio; in passato invece era
possibile fare solo 2 cose: ridurre il voto (in cambio di un po’ più di utile) oppure, solo per le società
quotate e solo dopo il 1974, creare azioni di risparmio (quindi dare nessun voto a fronte di una
percentuale di utile maggiore fissata dalla legge). Oggi invece il panorama, anche per effetto di una
ultimissima modifica di questa estate, è completamente mutato. Art. 2351: diritto di voto. Ogni azione
attribuisce il diritto di voto come regola generale (il principio “un’azione, un voto” è un principio
cardine della disciplina comunitaria, anche se in Europa sono state introdotte delle deroghe come in
Italia). Ma, salvo quanto previsto dalle leggi speciali, lo statuto può prevedere la creazione di (il valore
di tali azioni non può complessivamente superare la metà del capitale sociale):
- azioni senza diritto di voto → la loro creazione era consentita già prima del 2003 con le azioni di
risparmio, la differenza è che adesso questo vale anche per le società non quotate. Quindi oggi si
può avere una società non quotata che ha una categoria di azioni senza voto (cosa che prima non
era permessa).
- con diritto di voto limitato a particolari argomenti → l’espressione è un po’ riduttiva, perché non
solo si può stabilire che la categoria voti su certe materie e non su altre, ma si può anche stabilire
che la categoria abbia diritto di voto in certe assemblee e non in altre. Ad es. si può creare una
categoria di azioni che ha diritto di votare soltanto nelle assemblee straordinarie, questo vuol dire
che su tutte le materie dell’assemblea straordinaria hanno sempre diritto di voto mentre su tutte le
materie dell’assemblea ordinaria non hanno diritto di voto. Oppure è possibile individuare nello
statuto dei singoli argomenti, stabilendo ad es. che i titolari di quella categoria avranno diritto di
votare sempre sulla nomina degli amministratori e sulla liquidazione della società e magari sulla
nomina dei sindaci, ma non voteranno mai sull’approvazione del bilancio, piuttosto che sull’azione
di responsabilità nei confronti degli amministratori. Quindi vi è piena libertà, non ci sono vincoli.
- con diritto di voto subordinato al verificarsi di particolari condizioni non meramente potestative →
questo è un concetto strettamente giuridico di diritto civile/privato, cioè si può stabilire che il
diritto di voto possa essere esercitato soltanto quando accade qualcosa, soltanto se si verifica un
certo evento. Giuridicamente la condizione è una clausola che si può inserire in un contratto e la
condizione serve a determinare il verificarsi di certi effetti al verificarsi di un certo evento/fatto. Ad
es. il contratto può essere condizionato al fatto che la quotazione del titolo della Telecom superi 3
euro, se in un determinato momento il valore di quotazione sul mercato dei titoli Telecom supera i
3 euro, allora si verifica la condizione in cui ha efficacia il contratto e succede quello che il contratto
stabilisce; questa si chiama condizione sospensiva.
Oppure si può prevedere la condizione risolutiva, cioè stabilire che al verificarsi di un certo fatto il
contratto perde efficacia. Ad es. si può prevedere che se la quotazione del titolo scende al di sotto
di 1 euro, il contratto non abbia più effetti.
Si può stabilire che invece di vincolare questa condizione ad un contratto, di vincolarla invece al
voto e quindi una categoria di azioni che ha appunto una condizione sospensiva oppure risolutiva;
la cosa importante è che non sia una condizione meramente potestativa, vale a dire che il verificarsi
o meno della condizione non deve mai dipendere da un comportamento della società; deve per
forza esser legata ad un fatto oggettivo/ad un evento terzo estraneo alle parti, perché non ha senso
fissare una condizione in un contratto piuttosto che legata a delle azioni, se il verificarsi o meno di
tale condizione è lasciato alla scelta delle parti (società o soci). Ad es. non si potrà inserire una
condizione che dice che il diritto di voto spetta a condizione che il socio rinunci al diritto agli utili,
perché è in mano al socio la decisione di rinunciare o meno. Una condizione di questo genere non è
giuridicamente valida perché non è rimessa ad un accadimento puro, eventuale ed incerto, ma è
legato ad un accadimento che dipende dalla volontà di una delle parti che ha fissato la condizione
del suo vincolo contrattuale (in questo caso il titolo azionario).
Si è introdotta questa ipotesi perché si è voluto copiare un modello di titoli azionari che è molto
diffuso nei paesi anglosassoni: da molto tempo negli altri ordinamenti è infatti prevista la possibilità
di emettere delle azioni che sono appunto vincolate al verificarsi di certi fatti. È un tipo di titolo
molto utile, soprattutto quando la società chiede finanziamenti al mondo bancario e il mondo
bancario chiede di poter vigilare sull’utilizzo dei finanziamenti e sull’andamento della società. Il
vantaggio di questo tipo di azioni consiste nel fatto che la società per ricevere tali finanziamenti
aumenta il capitale (raccolta di capitale proprio), emette queste azioni condizionate, le offre in
sottoscrizione all’istituto di credito finanziatore (le banche diventano socie della società) con
l’accordo che fin che l’attività va bene le banche non hanno diritto di voto, ma se invece le cose
vanno male allora anche le banche hanno diritto di votare. Una regola di questo genere è piuttosto
forte, perché se l’attività va male e le banche acquistano il diritto di voto perché si verifica la
condizione, può anche capitare che gli istituti di credito siano messi in condizione di avere il
controllo della società. Ad es. vicenda del convertendo Fiat. La Fiat era in crisi e aveva deciso di
ricorrere al prestito bancario ma le banche non si fidavano e volevano dei titoli. Le banche avevano
quindi stabilito che fossero non azioni condizionate, ma obbligazioni convertibili, cioè titoli che
finché non si verificavano certe condizioni rimanevano titoli senza alcun voto, ma se si fossero
verificata una certa condizione diventavano titoli azionari. Se si fosse verificata quella condizione e
non ci fosse stata tutta quella manovra che aveva architettato la società, le banche oggi sarebbero
“proprietarie” della maggioranza della Fiat.
L’utilizzo delle azioni con voto condizionato permette di avere una chance in più per la società per
raccogliere finanziamenti che siano di rischio, ma garantendosi al tempo stesso il pieno controllo
sulla società, perché non si è obbligati a stare attenti ai conti nell’emissione di azioni.
Dato che si sta parlando di azioni che limitano o eliminano i diritto di voto, la legge ha previsto un limite
all’emissione: la società non è libera di emettere quante azioni senza voto o con voto limitato vuole, ma il
valore di queste azioni non può superare la metà del capitale sociale. Quindi la società non può mai
emettere e avere categorie di azioni che limitano il diritto di voto o lo eliminano per un ammontare che
supera la metà del capitale. Questo perché il voto è lo strumento del comando e se si consentisse alla
società di creare categorie azioni prive del voto o con voto limitato anche oltre la metà del capitale, si
rischierebbe di consegnare il comando della società a una piccola % di capitale sociale. Ad es. una società
che abbia l’80% di azioni senza voto: ciò significa che chi comanda sono i soci che hanno appena il 20%. La
legge non permette quindi che una minoranza del 20% possa avere il controllo totale di una società, in cui
l’80% degli investitori invece non possono pronunciarsi nelle decisioni (nomina degli amministratori,
approvazione del bilancio, ecc.).
Sempre nel 2003, la legge ha introdotto un’altra possibilità → prevedere che, in relazione alla quantità delle
azioni possedute da uno stesso soggetto, il diritto di voto sia limitato a una misura massima o disporne
scaglionamenti. Questa è un’ipotesi diversa da quella vista finora (finora si è infatti parlato del voto della
singola azione), qui invece quello che la legge consente è una modulazione dei diritti di voto a misura della
% di azioni che un socio possiede. Disporre scaglionamenti o limitare il voto a una misura massima significa
ad es. stabilire che ogni socio può, quale che sia il numero di azioni, votare al massimo per il 10%. Per cui se
il socio ha il 5% delle azioni, voterà per l’intero 5% delle sue azioni (ogni azione varrà un voto), ma se il
socio detiene il 15% delle azioni, essendoci questo limite massimo, allora il socio non potrà mai votare con
tutte le sue azioni (non potrà mai esprimere il 15% dei voti), ma potrà al massimo esprimere il 10% dei voti
→ si mette un tetto massimo ai voti. Il vantaggio di questa regola è che ponendo un limite si sterilizza il
potere economico di una parte dei soci.
Una regola di questo genere era stata introdotta anni fa nello statuto dell’Edison, quando era stata
acquistata dalla Electricité de France; allo stato italiano andava bene che i francesi partecipassero alle
società dell’energia in quanto presidio nazionale, però stabilì che la EDF acquistasse quanto volesse delle
azioni ma che avesse sempre voti limitati ad un tetto massimo (quindi anche avesse avuto in mano il 90%
delle azioni della Edison, avrebbe potuto votare soltanto fino al 10%) → il concetto è limitare l’impatto
economico di un socio.
La stessa cosa dispone lo scaglionamento, cioè un sistema che funziona a gradini: ad es. si stabilisce che
ogni azione ha 1 voto, ma se si hanno 3 azioni allora si hanno 2 voti, 5 azioni si hanno 3 voti, 10 azioni si
hanno 6 voti, 20 azioni si hanno 13 voti ecc. Quindi a determinati numeri di azioni sono correlati un certo
numero di voti non proporzionali sempre in meno. Per cui più cresce il numero delle azioni, più cresce la
forchetta/il gap tra il numero dei voti e il numero delle azioni Anche questa è una previsione che è stata
introdotta nell’ottica di favorire la possibilità per le società di costruire la partecipazione azionaria degli
investitori secondo quelle che possono essere le esigenze concrete; il vantaggio della regola dello
scaglionamento è quello di disincentivare la crescita della partecipazione, perché se più cresce la
partecipazione, più diminuisce proporzionalmente il voto, l’azionista che ha un voto scaglionato sarà
disincentivato a aumentare la sua quota → perché più il socio investe denaro, meno ottiene come
contropartita in termine di voti, per cui si tratta di un investimento inefficiente.
Nelle società quotate invece è stato introdotto un meccanismo esattamente opposto: non quello che
disincentiva la partecipazione azionaria, ma un meccanismo di incentivo della partecipazione azionaria. Nel
TUF è prevista la fattispecie della “maggiorazione del voto”: si tratta di una sorta di premio fedeltà, per cui
la società è autorizzata a riconoscere ai soci che posseggano le azioni e che mantengano il possesso delle
azioni per un certo periodo di tempo, un diritto di voto maggiorato, in particolare un diritto di voto in più
per ogni azione. Tutto è demandato ad un regolamento della Consob che deve determinare le modalità di
costruzione di questo meccanismo di fedeltà, ma vengono già stabiliti dei principi cardine: ad es. viene
stabilito che la maggiorazione del voto non può mai superare il doppio, cioè ad ogni azione si può dare al
massimo un solo voto in più; quindi l’azionista che abbia 10 azioni e le tenga per 2 anni, se è previsto
questo meccanismo, dopo 2 anni avrà sempre 10 azioni ma potrà votare per 20 voti (avrà perciò una
duplicazione dei diritti di voto).
Art. 127 quinquies del TUF: maggiorazione del voto. Gli statuti possono disporre che sia attribuito voto
maggiorato, fino a un massimo di 2 voti, per ciascuna azione appartenuta al medesimo soggetto per un
periodo continuativo non inferiore ai 24 mesi a decorrere dalla data di iscrizione nell’elenco. Al comma 5 si
stabilisce inoltre che le azioni a cui si applica il beneficio previsto al comma 1 non costituiscono una
categoria speciale di azioni ai sensi dell’art. 2348 del Codice Civile.
↓
Le azioni a voto maggiorato non sono una categoria di azioni, perché la maggiorazione non è un diritto che
spetta al titolo azionario (non è un diritto insito nell’azione), ma è un premio che viene attribuito al socio
titolare in quanto fedele. Tant’è che al comma 3 si stabilisce che la cessione dell’azione a titolo oneroso o
gratuito, comporta la perdita della maggiorazione del voto. Se fosse una categoria la maggiorazione
rimarrebbe sempre legata all’azione, anche in caso di vendita; mentre la legge dice chiaramente che se il
socio cede le proprie azioni, chi acquista azzera il conteggio. Non bisogna quindi confondere i diritti
attribuiti alle azioni con i diritti riconosciuti ai soci. Art. 127 quinquies comma 3: se lo statuto non dispone
diversamente, il diritto di voto maggiorato:
1) è conservato in caso di successione per causa di morte nonché in caso di fusione e scissione del
titolare della azioni;
2) si estende alle azioni di nuova emissione in caso di aumento di capitale ai sensi dell’art. 2442 del
Codice Civile.
A prova che non si tratta di una categoria di azioni, allo statuto è consentito eliminare, anche in caso di
successione a causa di morte, la maggiorazione del voto e allo stesso modo in caso di emissione di nuove
azioni. Se il socio, che ha già in mano le azioni con il voto maggiorato, riceve delle nuove azioni per effetto
di un aumento gratuito di capitale, le nuove azioni hanno già automaticamente il voto maggiorato perché si
fa conto come se quel socio avesse tenuto le nuove azioni per almeno 2 anni, ma anche qui lo statuto può
escluderlo. Quindi si può prevedere che se viene deliberato un aumento di capitale gratuito, cioè si
distribuiscono riserve e questa distribuzione di riserve si fa mediante emissione di azioni, queste nuove
azioni (anche se attribuite ad un socio che ha avuto il premio fedeltà) diano solo 1 voto. Se però questo non
viene stabilito nello statuto, queste azioni danno immediatamente diritto a 2 voti per azione.
Questa regola curiosamente, pur essendo prevista nelle società quotate (dove si tende a spersonalizzare al
massimo), è molto vicina anche alla srl, perché nelle srl i diritti particolari sono attribuiti alla persona del
socio in quanto socio e non in quanto titolare di una quota. Qui è un po’ la stessa cosa poiché viene
riconosciuto il raddoppiamento del voto, ma in quanto socio che detiene le azioni. Questa è una regola che
va a favore del gruppo di comando, perché il gruppo di controllo sicuramente terrà le azioni per più di 2
anni.
In Italia tradizionalmente dal 1942 in avanti, ha sempre avuto vigore la regola per cui la società poteva
creare categorie che attribuissero meno voti, quindi escludere il voto, limitare il voto, scaglionare il voto,
ma non poteva mai prevedere al contrario degli incrementi del voto; questo perché il meccanismo del voto
era a elasticità non uniforme. Si poteva cioè ridurre ma non si poteva aumentare i diritti di voto (il tetto dei
diritti di voto era sempre quello per cui ogni azione non poteva che avere un solo voto). Il riconoscimento
della maggiorazione è in parte una deroga a questo principio, ma fino ad un certo punto, perché la
maggiorazione è un premio (le azioni con voto maggiorato non sono azioni di categoria, non attribuzione di
un diritto stabile) riconosciuto a singoli azionisti a certe condizioni. Non si tratta quindi di una deroga
generale.
Mentre in Italia questo principio di “un’azione, un voto” ha avuto la sua consacrazione nel ’42 ed efficacia
fino a questa estate, nel resto d’Europa la situazione è stata molto diversa: da molto più tempo in un buon
numero di ordinamenti (soprattutto Nord Europa) il principio una azione un voto è un principio totalmente
superato; nel senso che si riconosce la possibilità che il singolo titolo azionario attribuisca anche più di un
voto al socio. Il tema è molto discusso e ci sono molte opinioni a livello comunitario: sicuramente è uno
strumento di forte vantaggio per i gruppi di comando, perché già avere una quota significativa di una
società attribuisce di solito il controllo (anche se la quota non è di maggioranza) e se poi si attribuisce la
facoltà di moltiplicare i diritti di voto, si consente ai gruppi di comando di governare le società con un
investimento azionario risibile. Se si può ad es. dare 3 voti ad una azione, significa che chi ha il 20% del
capitale vota come se fosse il 60% del capitale, chi ha il 10% è come se votasse avendo il 30% in mano. È
quindi chiaro che si tratta di una misura di forte sostegno per i gruppi di comando.
Una decina di anni fa, a livello di UE, si è discusso sulla direttiva sulle offerte pubbliche di acquisto (OPA):
l’OPA è una procedura mediante cui un investitore che intende acquistare il controllo di una società
quotata ha un obbligo di offrire a tutti gli azionisti della società quotata la possibilità di vendergli le loro
azioni. In sostanza la legge obbliga chi vuole diventare socio di comando di una società in mano ad altri a
offrire e quindi a negoziare non soltanto con chi ha il controllo, ma con tutti. Se questa regola non ci fosse
potrebbe succedere ad es. che la Exor venda la Juventus ad un nuovo proprietario senza che tutti gli altri
azionisti possano partecipare alla negoziazione. Lo svantaggio è dato dal fatto che di solito quando si
negozia l’acquisto del comando, il prezzo che viene pagato per il passaggio del controllo non è
semplicemente il prezzo parametrato al valore di mercato, perché comprare quel pacchetto azionario in
mano a Exor non è soltanto l’equivalente di comprare un po’ di azioni della Juventus, ma equivale a
diventare i soci di controllo. Chi acquista quel pacchetto azionario, acquista di conseguenza la società.
Quindi è normale che chi vende il controllo chieda un prezzo maggiore, proprio perché sta vendendo un
valore aggiunto, che è il controllo della società, quello che viene chiamato premio di maggioranza. Se non
esistesse una regola come quella dell’Opa, che obbliga il soggetto interessato all’acquisto a negoziare con
tutti, di fatto il premio di maggioranza se lo prenderebbe il socio di controllo in modo del tutto immotivato.
Proprio per evitare che ci siano questi fenomeni di natura distorsiva, da tempo negli USA (in Italia dal 1992)
è previsto questo meccanismo per cui colui che intende conquistare la società target (lo scalatore/il rader),
è obbligato a lanciare un’offerta pubblica di acquisto, che si attua mediante la pubblicazione di un
prospetto in cui l’acquirente illustra i suoi motivi e propone un’offerta. La legge impone anche che il prezzo
offerto debba rientrare in una forchetta di valori determinati, in modo tale che appunto sia spalmato il
premio di maggioranza tra tutti i soci → si tratta quindi di una misura paternalistica, “di welfare” perché lo
stato protegge gli investitori più piccoli (i soci di minoranza).
Perché ci si è posti la questione delle azioni a voto multiplo parlando di OPA? Perché avere azioni a voto
multiplo è un fortissimo strumento che ostacola o impatta sulle offerte pubbliche di acquisto: nel momento
in cui si ha un azionista che controlla una società con un pacchetto molto piccolo, ma con una
moltiplicazione di voto su quel pacchetto, ci si trova in difficoltà a gestire le regole sull’offerta pubblica. In
Italia, fino a qualche mese fa, la regola era che tutti coloro che acquistavano più del 30% delle azioni in una
quotata erano obbligati a lanciare l’offerta pubblica. Quindi se ad es. si era soci della Juventus per il 20% e
con una serie di acquisti sul mercato si saliva sopra il 30%, la Consob obbligava a fare questa offerta
pubblica offrendo a tutti gli azionisti della società di comprare le loro azioni ad un prezzo calcolato sulla
media ponderata dei prezzi dell’ultimo semestre/anno. Il 30% è una soglia ragionevole su un mercato come
il nostro, dove il controllo si aggira tra il 30% e il 40%, ma nel momento in cui ci sono azioni a voto multiplo
il 30% può essere una soglia troppo alta, perché si può controllare la società anche con una quota molto più
bassa avendo un moltiplicatore.
Uno dei punti su cui ci si è incastrati nella discussione è stato proprio quello del trattamento del voto
multiplo: qualcuno sosteneva che in caso di OPA dovessero essere sterilizzati i voti multipli (quindi non si
doveva tener conto dei voti multipli), altri invece sostenevano che il voto multiplo era necessario e dovesse
essere mantenuto in quanto misura che serve a proteggere/aiutare il socio di controllo. In Italia la vicenda è
stata risolta in modo particolare, perché il voto multiplo in Italia era già presente: il vecchio Codice di
Commercio del 1882 lo permetteva; quando è arrivato il Codice del 1942 invece questa regola è stata
abrogata ed è stata introdotta una normativa per le società che avessero ancora quella regola nello statuto
→ Art. 212: le azioni a voto plurimo, esistenti al 27 febbraio 1942 potranno essere conservate per tutta la
durata della società emittente prevista dall’atto costitutivo o dalle modificazioni di questo anteriori alla
data suindicata; dalla medesima data sono vietate invece le emissioni di azioni a voto plurimo. Di fatto a
partire dal 27 febbraio 1942 nessuna società italiana che anche avesse avuto in precedenza azioni a voto
multiplo poteva più emetterne; restavano in vita quelle esistenti, anche se negli ultimi anni tali azioni non
sono più esistite in Italia (visto che sono passati più di 60 anni). È successo invece questa estate che nel
quadro delle riforme per cercare di rispondere alla crisi finanziaria, è stata proposta la reintroduzione delle
azioni a voto multiplo e infatti nell’attuale testo dell’art. 2351, dove prima era chiarito in modo limpido che
ad ogni azione corrisponde un solo diritto di voto, è stato adesso introdotto un nuove comma 3 → art. 2351
comma 3: diritto di voto. Lo statuto può prevedere la creazione di azioni con diritto di voto plurimo anche
per particolari argomenti o subordinato al verificarsi di particolari condizioni non meramente potestative.
Ciascuna azione a voto plurimo può avere fino a un massimo di 3 voti. Lo statuto può prevedere sia che il
voto plurimo valga su tutte le delibere (moltiplicazione del voto a prescindere dalla decisione) sia che esso
sia subordinato al verificarsi di particolari condizioni non meramente potestative o per particolari
argomenti (moltiplicazione del diritto di voto soltanto per determinate materie o assemblee). Quindi si
possono creare azioni che danno una moltiplicazione di voti se si verifica un certo fatto. Le società non sono
libere di moltiplicare quanto vogliono i diritti di voto, ma ciascuna azione a voto plurimo può avere al
massimo 3 voti. La novità è significativa nel senso che se fino a ieri quando si doveva valutare l’impatto
dell’investimento azionario sulla governance (rapporti tra soci) si partiva dal presupposto che ogni azione
poteva al massimo dare un voto, oggi invece questo modo di ragionare è da cambiare. La novità è
recentissima quindi ad oggi non ci sono ancora studi approfonditi. Si tratta sicuramente di uno strumento
che può diventare molto importante quando si vanno a costruire gli assetti azionari: si pensi ad una società
mista in cui ci siano soci pubblici e privati; se in passato il socio pubblico per avere il controllo doveva
necessariamente avere almeno il 51% del capitale, o, in alternativa una % minore ma con l’attribuzione di
diritti (golden share) legati alla sua posizione di Stato, Regione, Provincia in quanto pubblico, da oggi in una
società mista si può prevedere un piccolo investimento del soggetto pubblico a fronte dell’emissione di
azioni che danno un voto multiplo, in modo tale da consentire al socio pubblico di esercitare comunque il
controllo sulla società o su alcune delibere senza dover necessariamente effettuare un ingente
investimento in denaro. Non si può prevedere l’attribuzione allo Stato o agli enti pubblici di diritti
particolari svincolati dalla partecipazione e della sua misura
In questo ambito diventa molto importante costruire la disciplina, perché in realtà a parte questa regola
qui, per le società non quotate il Codice non dice nient’altro: ad es. non è neanche tanto chiaro se le azioni
a voto multiplo siano una categoria di azioni, secondo il prof sì perché in realtà vi è un riferimento al
concetto di categoria, ma soprattutto perché non vi è nessuna differenza rispetto all’ipotesi opposta della
limitazione del voto. Le azioni a voto limitato sono una categoria perché sono azioni che riconoscono
questo diritto a prescindere, le azioni a voto multiplo allo stesso modo possono essere considerate una
categoria perché la moltiplicazione del voto è riconosciuta alle azioni, non al socio che possiede le azioni
per un certo periodo.
La legge non si esprime in merito all’impatto della moltiplicazione dei voti, il numero dei voti conta quando
si è in assemblea, per cui ad es. quando si deve determinare il quorum costitutivo (cioè quante azioni sono
presenti per sapere se sono sufficienti per costituire un’assemblea), non si sa se le azioni a voto multiplo
devono essere contate per un voto solo o per 2 o per 3 volte. per poter convocare l’assemblea.
Qualora tali azioni non venissero contate nel quorum costitutivo, sarebbe necessario un numero di azioni
molto superiori affinché l’assemblea si costituisca (numero molto maggiore rispetto a quello che si
dovrebbe avere se si conteggiassero le azioni a voto multiplo)
Le azioni a voto multiplo sicuramente contano nel voto, nel senso che quando si fa il conto del quorum
deliberativo, chi ha il voto multiplo vota moltiplicando il suo diritto.
Le questioni possono essere varie: ad es. per impugnare la delibera la legge dice che il diritto di
impugnazione è riservato a chi ha almeno il 5% del capitale; ma questo 5% lo si va a calcolare sul capitale
oppure oggi va calcolato sui voti? In teoria la legge riconosce l’impugnazione a chi ha una % qualificata e
quindi ha votato in una % qualificata. Se ad es. un socio ha il 2% ma con voto multiplo di 3 voti per ogni
azione, è come se avesse il 6%, ma quindi può impugnare o meno una delibera? Non si sa, si potrebbe dire
di sì, perché sembra che vi sia un principio di parità di trattamento; la regola del 5% è legata al fatto che si
dà a chi ha un voto qualificato il diritto di impugnare la delibera. Però qualcun altro potrebbe anche dire no,
perché la legge va a vincolare questo diritto al capitale e il socio con azioni a voto multiplo che ha il 2%,
vota per il 6%ma comunque ha il 2% (cioè le azioni di quel soggetto valgono sempre il 2% nonostante voti
per il 6%). Quindi vi possono essere tutta una serie di questioni non di poco conto a livello applicativo. Si
potrebbe suggerire che nello statuto in cui vengano distribuite questa tipologia di azioni vengano iscritte
regole chiare per non lasciare spazi a dubbi interpretativi e a litigi.
Riassumendo: nelle società quotate si può dare un premio ad alcuni soci che tengono le azioni per almeno 2
anni e il premio è rappresentato dal raddoppiamento del voto (premio di fedeltà); nelle società non
quotate invece, non si danno premi perché le azioni non hanno un mercato per poter essere vendute
(infatti il socio non può vendere a terzi le proprie azioni; si tratta di una società chiusa), ma si è scelto di
superare il principio storico del divieto di voto multiplo con la possibilità di creare delle categorie di azioni
(cioè dei gruppi omogenei di titoli azionari) che attribuiscono più di un voto, e lo attribuiscono sempre.
La differenza tra il voto maggiorato e il voto multiplo è che il primo è un premio che si mantiene fino a
quando si resta azionista all’interno della società, ma appena le azioni vengono vendute si perde; il secondo
è invece un diritto legato al pacchetto azionario. I due concetti si intersecano e creano complicazioni nelle
società quotate, perché la riforma si è posta questa domanda: cosa succede se una società non quotata che
ha emesso azioni a voto multiplo si quota? La risposta delle legge è stata una soluzione di compromesso →
art.127 sexies comma I TUF: azioni a voto multiplo. In deroga all'articolo 2351del codice civile, gli statuti
non possono prevedere l'emissione di azioni a voto plurimo. Quindi, in deroga al Codice Civile nelle società
quotate non possono essere emesse azioni a voto plurimo, per cui la possibilità di creare categorie di azioni
con una moltiplicazione dei voti nelle quotate non esiste; esse possono solo dare un premio, cioè il voto
maggiorato a chi tiene le azioni per almeno 2 anni, ma non possono creare delle categorie che siano
istituzionalmente a voto multiplo. Questo perché si vuole evitare che nelle società quotate si verifichi quel
problema, che invece in altri paesi si verifica in relazione alle OPA, di dare al socio di controllo detentore già
di una quota piccola la possibilità di controllare la società con una quota di investimento ancora più piccola.
Per cui la Exor non potrà mai emettere azioni a voto multiplo per controllare la Juventus ad es. con il 20%
invece che con il 40%, perché è vietato.
Però cosa succede se si quota una società che quando non era quotata aveva emesso azioni a voto
multiplo? → art. 127 sexies: le azioni a voto plurimo emesse anteriormente all’inizio delle negoziazioni in un
mercato regolamentato mantengono le loro caratteristiche e diritti. Se lo statuto non dispone
diversamente, al fine di mantenere inalterato il rapporto tra le varie categorie di azioni, le società che
hanno emesso azioni a voto plurimo dalla scissione di tali società possono procedere all’emissione di azioni
a voto plurimo con le medesime caratteristiche e diritti di quelle già emesse limitatamente ai casi di:
a) aumento di capitale ovvero mediante nuovi conferimenti senza esclusione o limitazione del diritto
d’opzione;
b) fusione o scissione.
La legge permette dunque che le azioni a voto multiplo emesse prima della quotazione mantengano tutti i
loro diritti, congelando però tale categoria di azioni cioè la società ha il divieto di emettere nuove azioni a
voto multiplo. Questo significa che se la società decide dopo la quotazione di fare un aumento del capitale,
gli azionisti che sono titolari delle azioni a voto multiplo, se sottoscrivono l’aumento, non ricevono nuove
azioni a voto multiplo come sarebbe stato normale → perché nel nostro ordinamento vale il principio
secondo cui ogni categoria in caso di aumento riceve azioni della stessa categoria in quanto le % devono
rimanere uguali. Ad es. se una società prima dell’aumento aveva 20% di azioni senza voto, 10% di azioni a
voto multiplo e 70% di azioni ordinarie, di regola aumentando il capitale dovrebbe dare il 20%, il 10% e il
70% delle nuove azioni a ciascuna delle categorie, quindi emettere nuove azioni delle stesse categorie.
Dopo l’aumento del capitale, il socio deve ricevere infatti nuove azioni delle stesse categorie, ma questo
principio nel caso di azioni a voto multiplo non vale. Se la società è quotata (e solo se è quotata) può
mantenere le azioni a voto multiplo esistenti, congelarle e quindi in qualsiasi caso di operazioni future, i
titolari di questo tipo di azioni non riceveranno mai più delle nuove azioni a voto multiplo, che restano solo
ad esaurimento delle stesse.
Se la società quotata vuole incentivare il possesso azionario non può emettere nuove azioni a voto
multiplo, ma può riconoscere la maggiorazione del voto; può quindi riconoscere a tutti gli azionisti che
tengano le azioni per almeno 2 anni il raddoppiamento dei diritti di voto. Possono quindi esistere società
quotate che contemporaneamente presentano azioni a voto multiplo precedentemente create, azioni
ordinarie e azioni ordinarie con voto maggiorato: il panorama può essere dunque complesso.
Il risultato di questa regola è che la categoria delle azioni a voto multiplo è destinata a restare così com’è e
alla lunga a perdere peso, in quanto ovviamente una società fa degli aumenti di capitale nel corso del
tempo perché ha bisogno di rafforzare la solidità patrimoniale ma di conseguenza, gli azionisti a voto
multiplo inesorabilmente sono costretti a vedersi sempre più ristretti → sul totale le loro azioni rimangono
sempre nello stesso numero e le altre aumentano. Vi è però un’alternativa: se la società quotata vuole
mantenere un certo valore degli azionisti a voto multiplo, può decidere di rinunciare per sempre a
riconoscere maggiorazioni del voto (quindi non darà mai il voto maggiorato a nessun azionista, anche se
tiene le azioni per più di 2 anni) e in cambio di questa rinuncia la legge consente alla società quotata di
mantenere costante il rapporto % tra le categorie di azioni, incluse le azioni a voto multiplo.
Ad es. Spa non quotata (capitale sociale 100mila euro) ha deciso di creare una categoria che ha il 10% del
capitale con voto multiplo (moltiplicato per tre), il restante 90% del capitale è rappresentato da azioni
ordinarie: in questa situazione gli azionisti con voto multiplo pur avendo solo il 10% votano in realtà tre
volte quello che hanno in possesso azionario. La società decide di quotarsi e può alternativamente:
1) decidere di riservarsi il diritto di dare il voto maggiorato → non ha scelte, all’inizio manterrà la
situazione attuale e avrà dunque sempre il 10% di voto maggiorato e il 90% di azioni ordinarie. Se
però in un domani la società decide di raddoppiare il capitale a 200mila a chi offrirà le azioni?
o nel caso di società non quotata → offrirà le nuove azioni per il 10% agli azionisti a voto multiplo
come nuove azioni a voto multiplo e per il 90% agli azionisti ordinari come nuove azioni a voto
ordinario. Questo significa che normalmente, nelle società non quotate, se la società passa da
100.000 euro a 200.000 euro di capitale, dopo l’operazione il rapporto percentuale rimane
invariato e i soci avranno il doppio (se prima aveva 10.000 azioni con voto maggiorato e 90.000
azioni ordinarie, dopo l’aumento gli azionisti a voto maggiorato avranno 20.000 azioni e gli azionisti
ordinari avranno 180.000 azioni). Vale la regola generale secondo cui il rapporto % non varia.
Principio di conservazione dei rapporti/equilibri societari interni: se si aumenta il capitale si devono
offrire le azioni alle singole categorie e quello che viene offerto ad ogni categoria sono azioni della
medesima categoria.
o nel caso di società quotata, al suo interno si possono avere le azioni a voto maggiorato. Se si
aumenta il capitale le nuove azioni non potranno essere offerte agli azionisti con voto multiplo in
quanto la loro categoria è chiusa, cioè è formata per sempre da 10mila azioni. Tutte le nuove azioni
verranno qualificate come azioni ordinarie e si offriranno 90mila azioni ordinarie ai vecchi soci
ordinari (per ciò questi avranno 180mila azioni ordinarie dopo l’aumento) e le restanti 10mila azioni
verranno offerte agli azionisti a voto multiplo come azioni ordinarie. Nel capitale della società dopo
l’operazione ci saranno 10mila euro di azioni a voto multiplo, 10mila euro di azioni ordinarie
attribuite a chi è già titolare di azioni a voto multiplo e 180mila azioni a voto ordinario attribuite a
chi già era un azionista ordinario. Il risultato è che in realtà si avranno 190mila euro di azioni
ordinarie e solo 10mila euro di azioni con voto multiplo. Le % sono dunque cambiate: non più 90 a
10, ma la % ordinaria è aumentata.
↓
Quindi se le società che ha azioni a voto multiplo decide di quotarsi, la regola è che le azioni a voto multiplo
si congelano e non ne possono più essere emesse di nuove. Gli azionisti con azioni a voto multiplo ricevono,
in caso di aumento di capitale, nuove azioni di categoria ordinaria, quindi inevitabilmente la loro % si
riduce. Ad es. se prima avevano il 10% a fronte del 90%, dopo l’aumento avranno solamente 10mila euro su
un totale di 200mila euro e quindi una % ridotta.
2) La società quotandosi può decidere che i propri azionisti mantengano posizione %, cioè se oggi
detengono il 10% anche in futuro devono mantenere tale 10%. In questo caso la società può
rinunciare a riconoscere maggiorazioni del voto e può riservarsi il diritto, in caso di aumenti di
capitale, di creare nuove azioni a voto multiplo da attribuire ai soci che hanno già azioni a voto
multiplo. Dunque, in caso di aumento di capitale da 100mila a 200mila euro, agli azionisti a voto
multiplo verranno date altre 10 mila azioni nuove a voto multiplo e agli azionisti ordinari verranno
date 90mila nuove azioni ordinarie, con il risultato che verrà mantenuto l’equilibrio poiché ci sarà
sempre 10% di azioni con voto multiplo e 90% di azioni ordinarie. La società quotandosi può quindi
riservarsi il diritto di mantenere invariata la % relativa riconosciuta agli azionisti a voto multiplo, ma
a fronte di questa facoltà deve rinunciare ad avvalersi della possibilità di maggiorare il voto poiché
la legge non ammette che questi due istituti si sommino in quanto risulterebbe eccessivo. La legge
non consente cioè che ci sia una società quotata che continua ad emettere azioni a voto multiplo e
che nel contempo riconosce il voto maggiorato. Questo sarebbe infatti troppo perché riconoscere 2
voti in più come voto maggiorato ed emettere azioni a voto multiplo che valgono fino a 3 voti è
eccessivo.
La legge consente l’aumento di capitale con l’attribuzione di una parte agli azionisti a voto multiplo
e dell’altra parte agli azionisti ordinari. La società quotata però non può emettere azioni a voto
multiplo che facciano crescere la percentuale degli azionisti a voto multiplo (anche quando si
riserva la facoltà di emettere nuove azioni a voto multiplo). Cioè quello che può fare è emettere
nuove azioni a voto multiplo per mantenere invariata la percentuale, ma non potrà mai fare
un’operazione che ha come risultato una crescita della percentuale degli azionisti a voto multiplo
(queste azioni sono al 10% e la società può fare in modo che rimangano al 10%, ma non potrà mai,
dopo la quotazione, fare in modo che gli azionisti a voto multiplo diventino ad es. il 20% del
capitale. Si può solo cercare di mantenere l’equilibrio che è stato creato prima della quotazione).
In sostanza resta parzialmente valida l’affermazione fatta all’inizio per cui nelle società quotate non
si possono creare nuove azioni a voto multiplo, si può al più fare in modo di mantenere l’equilibrio
che si è creato con le azioni a voto multiplo prima della quotazione.
↓
La società quotata non può emettere azioni a voto multiplo che facciano crescere la % degli
azionisti a voto multiplo, può emettere azioni a voto multiplo solo per mantenere invariata la %.
Diritti e tutele riconosciuti ai soci
Il fatto di avere la titolarità di categorie di azioni diverse dalle ordinarie può essere un vantaggio, perché si
può utilizzarle per rendere più appetibile l’investimento nella società, ma per gli azionisti che acquistano
queste azioni speciali può essere anche un elemento di danno o pregiudizio. Ad es. un socio che detiene il
30% del capitale costituito da azioni senza voto non potrà mai votare in nessuna delibera e ciò significa che
egli non conta nulla in confronto ai soci di comando, pur avendo una quota importante. Ogni decisione che
può investire anche la sua posizione di socio, può essere assunta senza che egli possa in nessun modo
opporsi (non avendo il diritto di voto non potrà votare contro e non potrà neanche impugnare la delibera
quando riterrà che sia invalida) → non può impugnare la delibera né votare contrario.
Quindi la posizione degli azionisti senza voto o con voto limitato è una posizione deteriore rispetto agli altri,
perché si trovano ad essere privi di una serie di strumenti di tutela.
La legge ha disciplinato questa situazione con uno strumento che consente ai titolari di azioni di categoria
di proteggere la propria categoria di fronte a qualsiasi decisione della società che possa essere
pregiudizievole →art. 2376: assemblee speciali. La legge attribuisce ad ogni categoria di azioni uno
strumento di protezione che è rappresentato dall’assemblea speciale; ogni categoria di azioni ha una
propria assemblea distinta dall’assemblea delle altre categorie e distinta dall’assemblea generale (cioè
quella in cui si riuniscono tutti i soci). Anche le azioni senza voto hanno una loro assemblea in cui i titolari di
questa categoria di azioni possono votare; infatti, le azioni senza voto non possono votare solo quando si
rapportano in assemblea con le altre categorie. L’assemblea speciale non è un’assemblea dove si prendono
delle decisioni autonomamente assunte sulla base di iniziativa come nell’assemblea generale (non si
approva il bilancio, non si nominano gli amministratori, ecc.); essa ha un unico compito, quello di deliberare
sulle decisioni prese dalla società che possono danneggiare/pregiudicare la categoria di azioni che si
riunisce nell’assemblea speciale → art. 2376: assemblee speciali. Se esistono diverse categorie di azioni o
strumenti finanziari che conferiscono diritti amministrativi, le deliberazioni dell’assemblea, che
pregiudicano i diritti di una di esse, devono essere approvate anche dall’assemblea speciale degli
appartenenti alla categoria interessata.
Ad es. una società oltre le azioni ordinarie ha una categoria di azioni pari al 10% del capitale che sia
privilegiata rispetto alla distribuzione degli utili, più nello specifico ha diritto a ricevere il 3% degli utili in via
preferenziale rispetto agli altri azionisti. Se l’assemblea generale in forma straordinaria decide di modificare
lo statuto e di creare una nuova categoria che abbia un privilegio anteriore a quello delle azioni privilegiate
già esistenti, allora queste ultime si trovano pregiudicate. Si ipotizzi che la società decida di creare una
nuova categoria che ha diritto ad avere il 4% degli utili in via preferenziale superando il diritto di tutti gli
altri gruppi di soci; se prima c’erano 2 gruppi di soci (ordinari e privilegiati al 3%) e quando c’era da
distribuire l’utile prima venivano i privilegiati e poi sul residuo incidevano tutti gli altri, oggi invece,con
questa nuova categoria, i gruppi di soci diventano 3 e chi prima aveva la precedenza adesso diventa il
secondo (infatti prima ci son i nuovi azioni che ricevono il 4%, successivamente gli azionisti privilegiati con il
3% e infine gli azionisti ordinari per la somma rimanente, qualora rimanesse).
Sicuramente per gli azionisti ordinari questo è un pregiudizio, ma gli azionisti ordinari sono il 90% del
capitale e quindi sono loro che votano in assemblea; quindi dal loro punto di vista se sono loro a decidere
questa operazione, vuol dire che loro sono d’accordo a rinunciare ad essere i secondi e a diventare terzi
nella distribuzione degli utili → non si pone perciò un problema di tutela della categoria ordinaria in quanto
sono loro che vanno in assemblea generale o straordinaria e votano. Per gli altri azionisti che compongono
invece il 10% (e quindi in assemblea non contano) interviene il meccanismo della assemblea speciale; la
legge non ammette infatti che gli azionisti speciali siano obbligati a subire la decisione dell’assemblea
generale: la legge prevede che in casi di questo genere la società debba convocare l’assemblea speciale in
cui si riunisce solo quel 10% di azioni speciali e chiedere a questi azionisti speciali che votino se vogliono o
non vogliono quel tipo di pregiudizio. Quindi agli azionisti speciali viene chiesto nell’assemblea speciale di
votare anche loro calcolando le maggioranze sulle loro presenze (sul 10% se il 6% vota a favore la delibera
viene assunta, se invece l’8% vota contro la delibera non viene assunta, perché in questo caso rappresenta
l’80% della categoria speciale).
Se la categoria speciale nell’assemblea speciale vota a favore, allora la delibera presa dall’assemblea
generale può essere eseguita; ma se l’assemblea speciale vota contro, allora la delibera dell’assemblea
generale non può mai essere eseguita, quindi diventa inefficace (è valida perché presa in conformità alla
legge, ma non può essere attuata perché manca un’autorizzazione da parte dell’assemblea speciale) → pur
essendo valida, la delibera non può essere attuata per mancanza dell’autorizzazione degli azionisti speciali.
E’ bene notare che non si deve per forza trattare di una delibera ma questo è valido anche per qualsiasi
decisione presa dagli amministratori; se c’è una delibera o una decisione della società che può danneggiare
gli azionisti di una categoria allora tali azionisti devono essere sentiti attraverso una delibera della loro
assemblea. Ovviamente se vi sono più categorie all’interno di una società, dovranno essere convocate solo
le categorie pregiudicabili. In conclusione quando c’è una delibera della società che può danneggiare gli
azionisti di una categoria, questi azionisti speciali devono essere sentiti attraverso una delibera della loro
assemblea speciale → se una società ha più categorie e solo alcune sono pregiudicate, saranno convocate
le assemblee speciali delle sole categorie pregiudicate.
Qual è il tipo di pregiudizio che richiede la convocazione dell’assemblea?
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pregiudizio di diritto → nell’esempio fatto si parla di pregiudizio di diritto, cioè il caso in cui viene
introdotta una nuova categoria (quindi una regola giuridica) che ha come effetto il peggioramento
della categoria esistente.
pregiudizio di fatto → tante volte però la categoria può venire pregiudicata da delle modifiche di
fatto, in questi ultimi casi si discute molto se vada convocata l’assemblea speciale o meno perché
tale pregiudizio di fatto consiste in un peggioramento della condizione della categoria che non è
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effetto di una modifica delle regole (come nel pregiudizio di diritto) ma è generata da un altro
evento. Ad es. una società delibera una scissione e sposta dal suo patrimonio un’ingente fetta di
beni, è chiaro che qui c’è un pregiudizio per gli azionisti che speravano di ottenere più utili perché
magari a fronte di quei beni c’era una grossa parte di riserve disponibile; è certo che gli azionisti
che speravano di ricevere queste riserve (avendo un privilegio) non le possono più prendere perché
non sono più nel patrimonio della società. Questo è un pregiudizio di fatto perché non si è andati a
modificare le regole della categoria e non si sono create nuove categorie poste in una posizione
migliore di quella esistente, ma si è fatta solo un’operazione che casualmente ha degli effetti
negativi sulla categoria.
Il pregiudizio di fatto non determina l’obbligo di convocare l’assemblea speciale.
pregiudizio diretto → conseguente ad un’operazione che va a incidere in modo immediato/diretto
sulla posizione degli azionisti della categoria. Ad es. si crea un categoria che si posiziona davanti a
quella esistente nell’ordine delle categorie ed ha dunque un vantaggio che viene prima.
pregiudizio indiretto → è il caso in cui l’operazione incide indirettamente, cioè quando l’operazione
compiuta non tocca in via immediata la categoria ma il pregiudizio è l’effetto dell’operazione.
E’ da più di cinquant’anni che si discute sul fatto che l’assemblea speciale vada o meno convocata in caso di
pregiudizi; in Italia si hanno certe soluzione a differenza degli altri paesi nei quali si percorrono strade
diverse.
Nelle società non quotate l’unico strumento di protezione è rappresentato dall’assemblea speciale; se
invece la società è quotata oltre all’assemblea speciale che è sempre presente, le categorie di azioni hanno
uno strumento di protezione ulteriore → figura del rappresentante comune, cioè un soggetto
professionista nominato dalla categoria stessa la cui funzione è di tutelare gli interessi della categoria. Il
rappresentate comune ha una serie di poteri alcuni anche abbastanza incisivi. Innanzitutto è l’interlocutore
privilegiato della società: nel momento in cui la società vuole compiere operazioni che interessano le
categorie di azioni non parla con tutti i membri della categoria stessa ma solo con il loro esponente, con cui
tratta e discute (ad es. quando la Fiat aveva deciso due anni fa di eliminare le azioni di categoria di
risparmio e privilegiata aveva trattato con il rappresentate comune di ciascuna categoria e solo
successivamente si era convocata l’assemblea anche perché negoziare con i singoli soci era complesso).
Il rappresentante comune ha poi anche diritto di partecipare a tutte le assemblee generali, cioè quelle in
cui i soci della categoria non possono partecipare se non hanno il diritto di voto; ovviamente il
rappresentante comune non vota in assemblea generale, in quanto non è lui il titolare del voto ma può
comunque partecipare per esercitare il diritto fondamentale di impugnazione delle delibere (questo a
differenza degli azionisti che se non votano, non possono impugnare le delibere) → gli azionisti della
categoria, se non votano nell’assemblea generale, non possono impugnare le delibere, ma il
rappresentante comune (sebbene non sia soggetto che ha il diritto di voto) in quanto tale può impugnare le
delibere che ritiene essere viziate, invalide, nulle, ecc.
Questo dimostra che nelle società quotate vi è una regola di protezione degli azionisti di categoria che è
maggiore rispetto a quella prevista per le società non quotate.