SPIRITUALITÀ
Dal ’68 al silenzio:
fare l’eremita in città

Antonella
Lumini
Il punto centrale della chiamata alla solitudine non riguarda il
distacco dalle cose del mondo, la vera vertigine del solitario è
data soprattutto dal distacco dalla voce dell’ego collettivo che
si fa sentire ovunque, anche nel luogo più remoto.
Antonella Lumini è nata a Firenze dove vive. Da oltre trenta anni
porta avanti un percorso di silenzio
e solitudine. Dopo studi filosofici, si
è dedicata allo studio della Bibbia
e di testi di spiritualità cristiana.
Ha lavorato presso la Biblioteca
Nazionale Centrale di Firenze occupandosi di libri antichi. Partecipa
a incontri di spiritualità e guida
gruppi di meditazione a Firenze e
in altre città italiane. Ha pubblicato:
Memoria profonda e risveglio (2008),
Dio è Madre. L’altra faccia dell’amore (2016) e, assieme al giornalista
Paolo Rodari, La custode del silenzio
(2016).
te una crisi esistenziale. A quel tempo, completamente presa dal clima del post-’68, mi
consideravo non credente. Avevo perduto
la fede all’epoca dell’università, ma appena
il dolore dell’anima emerse, compresi che
non potevo continuare a fuggire. Qualcosa
che inchioda aveva fatto irruzione mettendomi alle strette. Come un urlo che sfonda
tutte le distanze e spalanca un varco di luce
dentro una densità oscura. Quell’esperienza fu come un morire da viva. In effetti, a
24 anni, una grave malattia mi aveva messa di fronte alla morte. Era
ignota e nemica. Lasciate le cure tradizionali ne ero guarita con una
rigidissima dieta macrobiotica la cui filosofia, centrata sull’armonia
del cosmo, aveva dato un nuovo senso alla mia vita. Quando, qualche
anno dopo, conobbi quello che chiamo il tuffo nel vuoto, fu questo
l’aggancio che mi impedì di sprofondare. La traccia di una bellezza
sconosciuta comparve sull’orizzonte buio. Fu come un contraccolpo
imprevisto. Uno stupore gioioso riportava lo sguardo verso l’alto, la
meraviglia emanava da ogni cosa, tutto appariva un miracolo. Come
strappata da me stessa, cominciai a percepire la distanza che mi separava dalla realtà più intima: la creatura che viveva dentro di me. Un
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Vita e Pensiero 12017
Ho scoperto il silenzio a 28 anni duran-
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Antonella Lumini
ITA E PENSIERO
nucleo sfuggente di amore faceva languire l’anima inaridita e assetata.
Divenne il centro intorno a cui tutto prese a girare. Non c’era più
niente a cui aggrapparsi, solo un silenzio potente che chiamava a sé
con una forza di attrazione totalmente disarmante. L’attraversamento
del vuoto fa cedere le resistenze, quanto è custodito nel profondo affiora risvegliandosi nella memoria. Non poteva di nuovo essere ingoiato nel buio, la sua luminosità dava le ali a quanto era divenuto pesante
e cupo, suscitando nell’anima una beatitudine radiosa che la spingeva
naturalmente a guardare verso la luce della creazione.
Quando il silenzio prende campo vince tutte le forze contrarie che
invischiano e tengono legati alle cose del mondo, soprattutto alle sue
opprimenti dinamiche. Si crea uno scollamento che comincia a battere
il sentiero verso un altrove. Così inizia il pellegrinaggio che mette in
cerca di quel luogo interiore che però ha bisogno di essere intravisto,
abitato, sperimentato, attraverso luoghi reali nascosti e solitari, in cui la
parte innocente dell’anima possa uscire allo scoperto per farsi trovare.
Campagne, boschi, montagne, spiagge invernali, deserti, rifrangevano la luminescenza di una bellezza struggente, la cui voce risuonava
nell’interno parlando un linguaggio semplice, puro. Il silenzio suscitava un rapporto così terso con il visibile, da far trasparire da ogni cosa
l’invisibile. Lo sguardo si dilatava, i colori erano più intensi, i suoni
cristallini. Trascorsero così circa cinque anni. Gustavo e assaporavo
senza pormi domande, riattraversando pezzo pezzo gli eventi più dolorosi. Ero convinta che quel richiamo prima o poi si sarebbe esaurito, lasciandomi un importante patrimonio da spendere in una vita
per così dire normale. Invece diveniva sempre più forte, spingendomi
continuamente verso quel centro palpitante che ancora sfuggiva.
Un giorno, entrando in una chiesa, fui colpita da un prete che
predicava dall’altare. Riconobbi nelle sue parole la voce del silenzio.
Attraverso di lui ripresi a frequentare i sacramenti, ma gli ambienti
di chiesa mi rimanevano estranei, provocandomi un senso di disagio.
Cominciò così il tempo dei pellegrinaggi verso eremi e monasteri, ma
in nessuno sentivo di potermi fermare. In nessuno avevo trovato il
luogo che cercavo.
Centrale fu la scoperta della pustinia, forma di richiamo al silenzio tipica della tradizione ortodossa. Ebbi modo di incontrare questa
sconosciuta parola, che significa deserto in lingua russa, leggendo un
libro dal titolo, appunto, Pustinia, le comunità del deserto oggi, (1981,
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20102) di Catherine de Hueck Doherty, una russa rifugiatasi in Canada
dopo la rivoluzione bolscevica. Compresi subito che quell’esperienza
aveva una certa corrispondenza con quanto stavo vivendo. Il richiamo
al deserto è molto valorizzato nella tradizione ortodossa. Chi è chiamato «deve andarci o morire» perché «Dio ha qualcosa da dire a coloro che chiama alla pustinia» e ciò che Dio dice nel silenzio, il pustinik
deve comunicarlo agli altri. Il silenzio più apre all’ascolto di Dio, più
apre all’ascolto degli esseri umani. Cominciai pian piano a percepire
la mia casa come una pustinia. Non erano un abito, una regola che
potevano aiutarmi a penetrare nell’interiorità, ma un bisogno urgente
di abbandono e nudità. Non cercavo appartenenze identitarie, ma un
luogo in cui potermi spogliare da ogni maschera, da ogni falsa identificazione per immergermi in un rapporto intimo, diretto, con quel
nucleo vivo che era l’amore di Cristo in me che avevo conosciuto da
bambina e che ora si era risvegliato. Questo nucleo chiamava, si faceva
sentire come inappagabile nostalgia di un territorio interiore che chiedeva amorevolmente di rivelarsi. Il silenzio abitua a un rapporto diretto, senza mediazioni, con Dio. La regola può scaturire solo dall’intimo
abbandono all’azione dello Spirito. Più ci si affida, più la sua luce penetrando nell’anima, forgia, raddrizza, purifica, libera, trasformando
la vita di tutti i giorni. Ogni forma preconfezionata la sentivo estranea,
come avessi dovuto recitare una parte. La relazione autentica con Dio,
è estranea al dover essere, conduce verso l’essere profondo per aiutarlo a venire alla luce, a crescere. Richiede attenzione, ascolto, invita ad
aprirsi alla tenerezza di un amore materno che non forza, ma attende
pazientemente che le cose maturino dal di dentro per sbocciare naturalmente nel loro tempo.
C’è una solitudine abitata in cui la vita spirituale matura come in un
grembo. Più il silenzio ci aiuta a restare lì, dove realmente siamo, più
impariamo a conoscere le lacerazioni dell’anima, i suoi ripiegamenti,
permettendo all’azione dello Spirito di sanare e guarire. Il punto centrale della chiamata al silenzio e alla solitudine, non riguarda il distacco
dalle cose del mondo, la vera vertigine del solitario è data soprattutto
dal distacco dalla voce dell’ego collettivo che si fa sentire ovunque, anche nel luogo più remoto. Rimanendo lì, nel silenzio, questa voce piano
piano comincia a rarefarsi, la distanza che ci separa dalla verità di noi
stessi si consuma. Ci sono attimi in cui ogni barriera di separazione
decade, in cui l’immersione in quell’abbraccio fa scomparire a se stessi.
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