1. Sono un cane. Non vorrei sembrare presuntuoso, ma sono un cane intelligente, bello e dal portamento regale. E me ne vanto. Del resto, che posso farci? In fondo sono un Labrador. Per essere più precisi, sono un Labrador Retriever color miele. Sul pelo di un cane non si può essere approssimativi, né si deve scherzare. Noi non siamo come gli umani: a differenza loro, non possiamo cambiarci d’abito. E non possiamo neppure toglierci le scarpe o, magari, sostituire a nostro piacimento borse, cappelli e sciarpe. Tutto ciò che abbiamo per coprirci è il nostro preziosissimo pelo. Gli umani ci possono cambiare il guinzaglio, questo sì: ma, quasi sempre, lo fanno più per una questione di usura che non per il gusto vero e proprio. È certo, però, che non possono cambiarci il pelo. Talvolta, semmai, ce lo radono. Si tratta, comunque, di una pratica piuttosto rara e il movente di siffatto delitto è comunemente la loro incuria. Per questo motivo, ringhio ogni qual volta degli umani, ebeti e privi di gusto, ritengono che il mio manto pregiato sia di un banalissimo color nocciola. La precisione è tanto più importante quanto più si ha a che fare con qualcosa di valore. E io, che sono sì un cane timorato di Dio, ma non uno sprovveduto, so di essere una creatura dal valore inestimabile. Come ho detto, sono un Labrador. Un Labrador del tutto identico al noto quadrupede, protagonista della 7 Omar Kamal pubblicità di una celebre carta igienica. Ovviamente, durante la mia infanzia, non avevo idea di che cosa fossero la televisione, la pubblicità o – figuriamoci – la carta igienica. Almeno fino a quando non me lo spiegò mia madre. Un bel dì, mamma mi disse che appartenevamo a una razza piuttosto amata dagli umani: il grande merito di tanta benevolenza, a suo dire, era della pubblicità. Mamma m’informò dell’esistenza di un accrocco di plastica e vetro che prendeva il nome di televisione: un aggeggio presente in modo capillare nelle case dei bipedi. Mi raccontò che in alcune abitazioni le televisioni potevano arrivare anche a tre, se non addirittura a quattro unità. Da questo accrocco, mamma diceva che fuoriuscivano prevalentemente un sacco di stupidaggini, capaci però di distrarre e attrarre al tempo stesso gli umani: l’accrocco veniva guidato da un altro aggeggio noto come “telecomando”. Usando per lo più il pollice opponibile, gli umani potevano cambiare canale e quindi frequenza da cui ricevere le stupidaggini che più gradivano. Fra una stupidaggine e l’altra, l’accrocco di plastica e vetro sputava fuori la cosiddetta pubblicità, detta anche “reclame”, “suggerimento commerciale”, “consiglio per gli acquisti”, o più semplicemente “spot”. Tra questi ne compariva frequentemente uno particolarmente grazioso commissionato da tale “Scottex”, che si avvaleva della collaborazione di un cucciolo di Labrador Retriever color miele, per reclamizzare il proprio prodotto. “Fico” dissi a mia madre, la quale subito dopo mi spiegò cosa fosse la carta igienica e a cosa servisse. Dopo aver appreso la notizia, passai un mese della mia vita a camminare 8 Artù alla conquista del mondo mogio per casa: mi sentii apparentemente disorientato e incredulo. Nonostante i miei sforzi, non riuscivo a comprendere che legame logico ci potesse essere fra un Labrador e la carta igienica. Per quanto fossi di mentalità aperta, immaginavo che ciò che non era indispensabile per i Labrador non dovesse esserlo neppure per quei goffi bipedi. Mamma – davvero onnisciente – mi disse che quella pubblicità andava in voga dalla fine dagli anni ’80, non prima però d’aver usato come apripista un meticcio di nome Spino. Un bastardo senza arte né parte che serviva soltanto per fornire l’assist al cucciolo di Labrador. Mentre Spino era l’esca, il Labrador doveva occuparsi del lavoro pesante. Lo spot era piuttosto banale ma efficace. Il cucciolo, una volta in azione, non faceva altro che dimenarsi con patetiche piroette dentro la carta igienica, mentre una voce insopportabile cantava un motivetto altrettanto ignobile. Alla fine del numero da circo, quel quadrupede declassato a beota se ne andava via col rotolo di carta igienica in bocca accompagnato da un semplice effetto dissolvenza. Non posso negare che inizialmente presi a odiare quel ciuco camuffato da Labrador: soltanto in un secondo momento riuscii a razionalizzarlo. Mi dissi “poco male, il beota si è immolato quale nostro cavallo di Troia”. Di fatto, da quel momento in poi, la nostra razza iniziò a godere di fama, onore e gloria: proprio per merito di quell’incomprensibile spot pubblicitario, che reclamizzava un prodotto a mio avviso inutile, attraverso un insulso accrocco di plastica e vetro. Rendermi conto che da quel concentrato di stupidità era nata la nostra notorietà, rischiò più volte di farmi venire un esaurimento. 9 Omar Kamal Da che sono nato, ho sempre vissuto a Roma, città infernale per il traffico e gli schiamazzi. Appresi – non più da mia madre, quanto dall’accrocco di plastica e vetro – che in realtà la “Città Eterna” era la più importante fra le capitali d’Europa. Se non altro, per la sua storia. Lo scoprii da una trasmissione televisiva sul primo canale condotta da un signore anziano molto bene educato: parlava entusiasta dei fasti di una grande civiltà – quella dei romani – ormai irrimediabilmente decaduta. Il mio unico rammarico era che tanta magnificenza avesse avuto come simbolo una lupa spelacchiata. Un Labrador sarebbe stato certamente più elegante. Fin da piccolo, mamma mi raccontò che ero l’ultimo nato di una cucciolata di sei Labrador di razza purissima. Fra questi io fui l’unico ad avere il privilegio di restare con mamma. Papà non lo rividi per almeno due anni. Se n’era andato prima del parto. Lui, fulgido esempio di padre coraggio. “Curioso” pensai “come un cane possa esser di razza e bastardo al tempo stesso”. I miei fratelli vennero tutti quanti venduti, un po’ come ai tempi dello schiavismo coloniale: si trattava di quattro maschi e una femmina. Scoprii che gli umani che li comprarono li chiamarono rispettivamente Frodo, Lenny, Vasco, Rocco e Luna. A mia madre, per inciso, diedero il nome più originale: Dorothy. Le diedero lo stesso nome di Dorothy Gale, la protagonista di un celebre libro di un umano di nome Frank Baum, intitolato Il meraviglioso mago di Oz. Di questo libro gli umani fecero un film trasmesso anche dall’accrocco di plastica e vetro. Una cosa avevo appreso con certezza degli umani: non 10 Artù alla conquista del mondo accettavano che la carta non finisse in qualche modo in televisione. Vivevo in una villetta disposta su due piani con un bel pezzo di terra che circondava l’intera proprietà. Di prim’acchito pareva che la mia esistenza fosse quella di un Labrador borghese che conduceva una vita agiata, ma non era così. Ad esempio, l’insulso pezzo di terra che gli umani erano soliti chiamare giardino, per noi altro non era che un territorio inospitale. Tant’era tenuto male, che era e restava soltanto un miserabile pezzo di terra, con qualche albero da frutta piantato qua e là senza alcuna logica. In un angolo di quella selva c’era anche la mia cuccia, che per motivi di praticità dividevo con mamma. Durante i primi mesi di vita, non provai alcun desiderio d’indipendenza nei confronti di Dorothy. In fondo eravamo madre e figlio e fra noi non c’erano particolari problemi di convivenza. Nessun tipo di attrito. Soltanto una volta raggiunta la maturità sessuale, mi accorsi di avere i turbamenti di uno stallone racchiusi dentro il corpo di un Labrador. Il primo raptus mi colse violentemente dopo un anno di vita: era da poco iniziata la primavera e in quel periodo sentivo i miei ormoni prendere il sopravvento sulla mia mente. Fu da quel momento che i problemi se li pose qualcun altro. I nostri padroni umani, ad esempio. Una coppia di anziani, che avevano ricevuto Dorothy come dono dal loro unico figlio, emigrato da anni nella campagna toscana. I due si chiamavano Bernardo e Rossella. Due nomi che io e mamma abbreviammo con Bern e Ross. Un bel giorno – di prima mattina – Bern sollevò mamma da terra proprio mentre le stavo girando in11 Omar Kamal torno, preso da uno dei miei incontrollabili impulsi ormonali. La fece salire nella sua macchina, una vecchia Fiat 500 color grigio topo. La Fiat 500 era una bella auto d’epoca, profondamente chic, ma purtroppo priva di qualsiasi comfort. Anche un cane snob e anticonformista come me alla fine dovette riconoscerlo. Mamma si sedette sui sedili posteriori, quindi mi fissò dal micragnoso finestrino posteriore della 500. Io rimasi immobile, impietrito. Neppure un latrato. La guardai standomene seduto sulle zampe posteriori, con il collo piegato a sinistra, un orecchio alto e uno abbassato. Rimasi esterrefatto. Per la prima volta in un anno di vita stavo per rimanere senza Dorothy. Prima di allora non mi era mai successo di passare neppure un minuto senza di lei e in quel momento, impotente, vedevo Bern che se la stava portando via. Lui, il mio vecchio e saggio padrone, ai miei occhi si era tramutato in un orco. Preso dall’istinto e dalla disperazione provai a correre verso il trabiccolo di Bern abbaiando a squarciagola, ma era ormai troppo tardi. Bern mise in moto quel suo vecchio catorcio e se ne andarono via. Mamma mi guardò incupita, con occhi sottili e volti verso il basso. “Dove diavolo la starà portando?” pensai. Tentai di scagliarmi fuori dal cancello, ma tutto ciò che ottenni fu andare a sbattere rovinosamente contro la ringhiera di casa. Il mio patetico tentativo di liberazione fu rovinato da sbarre altrettanto patetiche, oltretutto vecchie e arrugginite. Data l’eccezionalità del momento, Ross mi fece entrare in casa. Mi resi subito conto che si trattava di un caso del tutto singolare. Generalmente io e mamma potevamo godere di tale concessione soltanto nei 12 Artù alla conquista del mondo giorni di pioggia. Giorni in cui il nostro pezzo di terra si trasformava inevitabilmente in una sorta di acquitrino, o peggio ancora in una vera e propria palude. Trascorsi quella malinconica mattinata stando tutto il tempo con Ross. Camminai per casa a zonzo e a coda bassa, chiedendomi dove l’orco avesse trascinato mamma. Inspiegabilmente avvertii il mio cuore battere all’impazzata: sembrava un tamburo che suonava violentemente e a intermittenza. Qualche giorno più tardi, Dorothy mi spiegò che quella sensazione prendeva il nome di “ansia”, una mistica inquietudine piuttosto insolita per noi cani, tant’è vero che c’era stata trasmessa direttamente dagli umani. Una sorta di pareggio, dato che noi potevamo passargli la “rabbia”. Gli occhi docili e sottomessi di Dorothy erano un’immagine che la mia mente non riusciva a eludere. Li rivedevo in ogni angolo di quella così vecchia, malconcia e vissuta casa: ma pur sempre intrisa dell’odore di cibo. L’unico artifizio capace di distrarre i miei poco edificanti pensieri. Dentro casa regnava l’odore del pranzo che Ross stava preparando. Ross era una cuoca sublime, una donna di quelle che non si risparmiava sulle quantità: il suo pranzo tipico era costituito da molte portate. Ma nonostante questo lei era magra, perfettamente longilinea. In cuor mio sperai che mamma fosse uscita per rivedere finalmente papà. Il bastardo, senz’altro pure un po’ ipocrita, che però, a giudicare dal mio aspetto, doveva essere bellissimo. Fantasticavo: magari saremmo potuti tornare a essere una famiglia. Noi tre, senza gli altri, troppo presi dal farsi una vita altrove. In questo quadretto ideale sarei stato io l’unico a godere di papà e mamma. 13