Poste Italiane s.p.a. – Spedizione in abbonamento postale – D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 2, DCB Trento.In caso di mancato recapito inviare a Trento CPO per la restituzione previo pagamento reso. TLÖN Anno 2, Numero 5, APRILE 2005 RIVISTA DI CULTURA DELL’APPRENDIMENTO Che deve fare la psicologia per diventare più utile all'apprendimento a scuola? In questo numero... N ! " # # $#! # % ! & ' ! ( ) * + - , ) el mi o art icolo “La ps icol ogia dell’appr endimento è utile alla scuola?” (pubblicato nel numero scorso di questa rivista) abbiamo visto una serie di ragioni per cui la psicologia dell' apprendimento serve poco alla scuola. Quello che la psicologia deve fare se vuole essere più utile a una scuola che ha molto bisogno di aiuto e se vuole incidere in concreto sui modi in cui a scuola vengono insegnate le diverse materie, è semplicemente cercare di eliminare queste ragioni. Vediamo come. Il cognitivismo ha rappresentato per molti aspetti un passo avanti in psicologia, soprattutto perché ha permesso alla psicologia di superare il divieto comportamentista di studiare e fare ipotesi su quello che succede dentro l’organismo quando arriva uno stimolo e l’organismo risponde con un comportamento. Tuttavia, il cognitivismo sembra avere ormai esaurito la sua spinta propulsiva, soprattutto perché con il tempo è diventato sempre più chiaro che l’analogia tra la mente umana e il computer, su cui si basa il cognitivismo, è limitativa e per molti aspetti sviante. Non si può pensare che un essere umano, tranne in casi particolari, funzioni sulla base di simboli e rappresentazioni simboliche simili a quelle di un computer, o seguendo regole e procedure come fa un computer. La dimostrazione di quanto sia inadeguata l’analogia “mente uguale computer” viene proprio dall’apprendimento. Come abbiamo visto, una delle ragioni per cui il cognitivismo che ha dominato la ricerca in psicologia negli ultimi decenni si è occupato poco dell’apprendimento è che il computer è un sistema che non è portato di suo ad apprendere, ma piuttosto ad essere programmato. Una delle cose che la mente umana, a differenza del computer, fa spontaneamente e sa fare meglio, è apprendere, e ciò dovrebbe scoraggiare dall’affidarsi all’analogia “mente uguale computer”. D’altro canto, negli ultimi 10-20 anni in psicologia è emerso un nuovo paradigma teorico e metodologico che condivide con il cognitivismo il rifiuto del divieto comportamentista di occuparsi di quello che succede dentro la testa, ma interpreta quello che succede dentro la testa non in analogia a ciò che succede dentro a un computer ma in base a quello che esiste fisicamente dentro la testa: il cervello. Si tratta del paradigma teorico delle reti neurali o connessioniste, che sono modelli del comportamento e delle attività cognitive direttamente ispirati alle caratteristiche fisiche e al modo di funzionare del sistema nervoso. Se per il cognitivismo la “mente” si può e si deve studiare ignorando il cervello, così come il software del computer viene studiato e costruito dagli informatici ignorando l’hardware del computer studiato e costruito dai fisici elettronici, per le reti neurali questo non è possibile. Il modo migliore di studiare la mente è considerarla come un cervello. Anche dal punto di vista del metodo il paradigma delle reti neurali è diverso dal cognitivismo. I cognitivisti costruiscono modelli ispirati al computer ma poi li mettono alla prova con i tradizionali esperimenti psicologici in laboratorio. Le reti neurali sono invece modelli simulativi, cioè modelli espressi come programmi di computer. Se il computer non è più una fonte di ispirazione (analogia) per capire come funziona la mente, esso resta lo strumento pratico che serve a fare girare le simulazioni. Una volta realizzata, una simulazione diventa un laboratorio sperimentale virtuale in cui il ricercatore osserva i fenomeni in condizioni controllate, manipola queste condizioni e osserva le conseguenze delle sue manipolazioni (Parisi 2001). Non entreremo qui nel merito dei modelli a rete neurale, per i quali rimandiamo a Floreano (1995) e a Parisi (1999). Quello che è importante osservare è che per i modelli a rete neurale, diversamente dai modelli cognitivisti, l’apprendimento ha un ruolo centrale. Una rete neurale sa fare un certa cosa, esibisce un certo comportamento, non perché è stata programmata in un certo modo, ma perché ha appreso a fare quella cosa, a esibire quel comportamento, sulla base di una lunga esperienza di apprendimento entro le condizioni fissate dal ricercatore. Ci si deve quindi augurare che con il progressivo diffondersi dei modelli a rete neurale si riattivi l’interesse degli psicologi per l’apprendimento. Anche l’altra ragione per cui il cognitivismo tende a ignorare l’apprendimento, e cioè il fatto che le capacità cognitive tendono ad essere interpretate dai cognitivisti, sulla scorta delle teorie linguistiche di Chomsky, come fondamentalmente innate e quindi tali da svilupparsi senza un ruolo veramente significativo dell’esperienza e dell’apprendimento, viene ridimensionata nelle nuove teorie connessioniste. È giusto cercare di determinare quali sono le basi genetiche delle capacità linguistiche umane, che certamente sono importanti, ma non lo si può fare nel modo puramente deduttivo e a priori tipico di Chomsky e del cognitivismo in genere, e in particolare di quella che oggi viene chiamata la “psicologia evoluzionistica” (Parisi in corso di pubblicazione). Non solo tutto fa pensare che l’esperienza e l’apprendimento siano per lo meno altrettanto importanti delle basi genetiche nello sviluppo delle capacità umane, ma soprattutto è necessario che le ipotesi sulle basi genetiche di questa o quell’altra capacità, di questo o quell’altro comportamento, e sulle condizioni evolutive che ne sono la causa lontana, siano formulate in modo dettagliato e soprattutto tale da poter essere messe in qualche modo alla prova, non soltanto con argomenti verbali ma con dimostrazioni sperimentali. Questa è la direzione in cui si muove la Vita Artificiale, un’area di ricerca in cui rientrano le reti neurali (Parisi 2000a). La Vita Artificiale studia non soltanto, usando i modelli a rete neurale, il sistema nervoso e il modo in cui il sistema nervoso apprende capacità e comportamenti, ma studia anche i processi di evoluzione biologica in popolazioni di organismi che danno come risultato le basi genetiche che contribuiscono a determinare come il singolo individuo si sviluppa e si comporta. In questo modo le ipotesi sulle basi genetiche del comportamento possono diventare esplicite, possono essere studiate le complesse interazioni tra basi genetiche e condizioni di esperienza (Elman, Bates, Johnson, Karmiloff-Smith, Parisi e Plunkett 1996), e tutto questo può avvenire nelle condizioni e con le manipolazioni sperimentali rese possibili dalle simulazioni. Ma l’adozione delle rete neurali e dei modelli della Vita Artificiale non risolve certo il TLÖN — Cultura dell’apprendimento è una pubblicazione trimestrale edita dall’Associazione di Promozione Sociale Tlön. Direttore: Gabriele Lo Iacono. Direttore responsabile: Anna Lo Iacono. Comitato di redazione: Marina Manotta, Anna Brunori, Chiara Cannerozzi, Alessandra Gasperi, Barbara Lamedica, Susanna Meržeck Masu, Luigi Ranzato. Grafica e impaginazione: Gabriele Lo Iacono. Illustrazione di copertina: Michela Bresciani. Fotografie: Gabriele Lo Iacono. Redazione: Associazione Tlön, Via V. Veneto n. 146, 38100 — Trento. E-mail: [email protected]. Tel. e fax: 0461 920946. TLÖN ONLINE: http://xoomer.virgilio.it/tlon Stampato a Trento da Rotooffset Paganella nel mese di giugno 2005. Autorizzazione del Tribunale di Trento n. 1206 del 25 /03/04 Per ricevere Tlön contatta la redazione! /00/1 2 . . problema della limitata rilevanza della psicologia dell’apprendimento per la scuola. Le reti neurali sono modelli molto semplificati dell’apprendimento e appartengono ancora oggi alla ricerca “di base” piuttosto che a una ricerca applicata a problemi e a condizioni concrete, come richiederebbe una psicologia dell’apprendimento utile alla scuola. Quello che è necessario è che, superando la scarsa propensione della psicologia cognitivista a studiare l’apprendimento, gli psicologi si rimettano a studiare nel dettaglio e nelle loro caratteristiche specifiche, e che variano da materia scolastica a materia scolastica, e cosa chiediamo veramente agli studenti di fare e di imparare quando li teniamo per ore in classe. Quello che i comportamentisti hanno scoperto sull’apprendimento in generale sulla base dei loro esperimenti con gli animali può essere utile ma non è sufficiente. Sia il cognitivismo che le reti neurali possono offrire suggerimenti e idee utili ma il grosso del lavoro è ancora da fare. Quella che vogliamo suggerire è una strada che gli psicologi dell’apprendimento dovrebbero seguire se vogliono essere utili alla scuola, una strada che oggi è resa possibile e anzi richiesta dalle nuove tecnologie digitali. Invece di studiare in astratto, o magari in condizioni sperimentali necessariamente artificiose, i processi mentali coinvolti nell’apprendimento delle diverse materie scolastiche, gli psicologi dovrebbero diventare membri di équipes che hanno il compito di costruire effettivi sistemi basati sulle nuove tecnologie digitali (multimedialità, ipertesti, Internet, simulazioni) e realizzare concretamente applicazioni che producano dimostrabilmente risultati interessanti in termini di apprendimento nel campo della matematica, della storia, delle scienze, e delle altre materie scolastiche. Come si è detto, le nuove tecnologie digitali hanno grandissime potenzialità dal punto di vista dell’apprendimento, ma il problema è riuscire a individuare e a realizzare queste potenzialità. Tra le loro potenzialità più importanti da sfruttare ci sono la loro interattività e il loro non fare affidamento sul linguaggio come canale di apprendimento. Chiudiamo questo articolo con qualche commento su queste due caratteristiche delle nuove tecnologie digitali. Interattività significa che l’informazione che di momento in momento arriva allo studente è strettamente dipendente da quello che lo studente fa. Anche la navigazione di un ipertesto o su Internet è interattività, ma le nuove tecnologie permettono di andare molto al di là di questo tipo primitivo di interattività in cui l’utente decide solo quale informazione gli arriva subito dopo ma poi interagisce in modo tradizionale con tale informazione (tipicamente legge un breve testo e guarda una figura o una animazione). L’interattività più promettente dal punto di vista dell’apprendimento è quella in cui il computer incorpora un modello di qualche aspetto, meccanismo, processo della realtà e l’utente interagisce con tale modello nello stesso modo in cui interagisce con la realtà, cioè compiendo azioni sul modello (sulla realtà) e osservando le conseguenze delle sue azioni sul modello (sulla realtà). I ragazzi a scuola hanno difficoltà, per ragioni cognitive o per ragioni di scarsa motivazione, a imparare la matematica (aritmetica e geometria), l’italiano in quanto comprensione dettagliata di un testo, la storia, le scienze. Per tutte queste materie non è difficile pensare a usi del computer in cui si realizzino le condizioni di interattività che 2 abbiamo visto. L’importante è: a) rendersi conto che il computer offre possibilità di fornire all’utente una varietà di tipi di informazione, di ricevere azioni dell’utente, di reagire a queste azioni, in modi neppure lontanamente immaginabili con gli artefatti tecnologici tradizionali (ad esempio un libro, compreso un libro di esercizi), e b) riuscire a sfruttare queste possibilità. Accanto al grafico, al programmatore, al realizzatore di interfacce, il compito dello psicologo è quello di immaginare, analizzare, progettare e realizzare quello che dovrebbe accadere nella interazione tra lo studente e il computer in modo che questa interazione pr oduca gli apprendimenti desiderati. L’altra grande potenzialità offerta dalle nuove tecnologie digitali ai fini dell’apprendimento è quella che consiste nell’aggiungere un importante canale del vedere e del fare al predominante e praticamente esclusivo canale del linguaggio come strumento di apprendimento. Molti dei problemi di apprendimento e di motivazione dei ragazzi oggi derivano da questo affidarsi esclusivamente al linguaggio che caratterizza la scuola tradizionale, i suoi strumenti didattici, la formazione degli insegnanti, la stessa “cultura” della scuola. Il problema è complesso e l’abbiamo discusso altrove (Parisi 2000b). Anche se chi è cresciuto nella cultura tradizionale ha difficoltà ad ammetterlo, il linguaggio ha dei limiti come strumento di apprendimento, sia nella scuola in generale perché può dar luogo a apprendimenti e a comprensioni puramente verbali e meccaniche, sia soprattutto in una scuola che, come quella di oggi, si rivolge a tutti i ragazzi, con diverse capacità linguistiche e diverse motivazioni ad apprendere. D’altro canto, una delle caratteristiche delle nuove tecnologie digitali è che queste tecnologie amplificano di molto le possibilità dei canali non verbali del vedere e del fare rispetto alle tecnologie del passato, e perciò non ha più senso affidarsi unicamente al linguaggio come accadeva in passato perché allora il linguaggio era l’unico strumento di apprendimento sufficientemente flessibile e usabile. Il compito degli psicologi è indicare in concreto, con esempi, realizzando specifiche applicazioni, come sfruttare queste possibilità ai fini dell’apprendimento. D’altro canto non si deve pensare che il linguaggio e il vedere e il fare siano necessariamente in contrasto tra loro. Lo scenario è quello di una interazione a tre: lo studente, la simulazione (essenzialmente non verbale) e l’insegnante. Lo studente impara e capisce interagendo con la simulazione, che è qualcosa di essenzialmente non verbale, ma l’insegnante ha il compito di introdurre le espressioni e le formulazioni verbali che permettono allo studente di trasportare quello che impara sul piano di quella conoscenza e comprensione riflessa e comunicabile che è possibile solo con il linguaggio. I vantaggi di questo sistema integrato sono altrettanto importanti per le capacità linguistiche degli studenti che per i contenuti che essi vanno imparando. Il linguaggio emerge, nella specie e nell’individuo, perché è integrato con l’esperienza del vedere e del fare. Solo a scuola pretendiamo che le capacità linguistiche crescano da sole, lontano dal vedere e dal fare. Le nuove tecnologie permettono di superare questo limite. Con le nuove tecnologie i concetti astratti possono venir acquisiti nell’ambito di una esperienza che, per quanto simulata, è una esperienza del vedere e del fare. La bibliografia di questo articolo è disponibile presso la redazione. Domenico Parisi, dirigente di ricerca all’Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione, CNR, insegna Psicologia generale presso la LUMSA a Roma e dirige la rivista “Sistemi intelligenti”. Psicoterapia, valori, utopia C ent’anni di psicoterapia e il mondo va sempre peggio". Con questo titolo James Hillman ha "celebrato" qualche anno fa in un libro il centenario della psicoterapia in generale e della psicoanalisi, psicoterapia prima (in ogni senso), in particolare. E’ chiaro in questo titolo l’intento critico dell’autore che sottolinea il fallimento della psicoterapia nella realizzazione delle sue promesse. Ma quali erano realmente le sue promesse? Il fatto che si supponga che una pratica clinica debba avere una influenza sull’andamento del mondo è disvelatore della carica utopica che la permea e ci permette di effettuare un parallelismo fra teoria del cambiamento umano e teorie del cambiamento sociale, ovvero politiche. La storia della psicoterapia è infatti, come quella delle dottrine politiche, una successione di utopie. Il parallelismo, apparentemente ardito, appare proponibile allorquando si ragioni su una serie di fatti. Il primo è che ogni teoria psicologica è un' ipotesi sull' uomo e, in quanto tale, un' idea del mondo. Ogni psicoterapia, quindi, veicola tale ipotesi e si fa partigiana di questo mondo. In pratica, ogni teorizzazione politica o psicologica presuppone una lettura del mondo e dell’uomo assolutamente specifica e differente dalle altre e difficilmente invalidabile dall’esterno, ossia è frutto di un’ episteme incommensurabile. Letture che sono strettamente collegate ad alcuni "valori", essi stessi incompatibili. L’uomo freudiano, ad esempio, è intrinsecamente hobbesiano, legato ad un' idea di uno stato di natura di guerra perenne, di un uomo individualista e di una repressione benigna da cui deriverebbe la civiltà ed il suo "disagio", di una libertà quindi "negativa" (nel senso di Berlin), pertanto incompatibile con quello di Marx o di Rousseau, strutturalmente sociale e legato ad un concetto di libertà "positiva", cui è legata la teorizzazione di tanta psicologia umanistica. Con 1 buona pace di Fromm e di tutta la scuola di Francoforte che - utopia - professava una convergenza freudo-marxista e vagheggiava altra utopia - socialismi umanistici e superamenti del "principio di prestazione", ovvero l’inaugurazione di una società ludica. Esempio, questo, scontato, al limite del luogo comune, ma che ci dimostra anche la non rara frequentazione fra gli ambiti psicologico e politico, ovvero la reciproca inseminazione fra utopie1. Carl Popper, in verità, ci aveva già messo in guardia circa entrambi i paradigmi, psicoanalitico e marxista, quando ne sottolineò la "non falsificabilità". In altri termini, è l’eccezionale potere esplicativo delle due teorie a non convincere Popper che notava come i suoi amici marxisti trovassero in qualunque evento una conferma alla teoria della storia descritta dal filosofo di Treviri e mai delle smentite, così come ogni sintomo veniva letto dagli analisti, senza possibilità di smentita, in termini di conflitti inconsci a carattere sessuale o aggressivo. In particolare, Popper racconta di un incontro con Adler, teorico di una setta eretica analitica, quella della psicologia individuale, elemento questo che ci fa capire la natura eminentemente "chiesastica" delle dottrine non falsificabili, a cui raccontò di un caso che l’analista non ebbe difficoltà a leggere in base alla sua teoria sui sentimenti di inferiorità, senza neppure vedere il soggetto. Sconcertato, Popper gli chiese come poteva essere così sicuro e Adler gli rispose: "a causa della mia esperienza con mille casi simili". Popper concluse, un po’ sprezzantemente, "e con questo ultimo, suppongo, la sua esperienza vanta milleuno casi". In altri termini, secondo il criterio di demarcazione popperiano, una teoria priva di "falsificatori" potenziali è priva di contenuto empirico (e di utilità). Un ovvio crimine nell’epoca storica dominata dal valore della "scientificità". Questo valore, però, ci porta ad Si pensi a quante dottrine politiche ritengono che il fine dell’azione sociale sia la costruzione di un homo novus. 3 un’altra utopia, quella della "validità" di alcune visioni del mondo, dell’essere cioè queste specchio fedele della "realtà". Ciò, fino a tempi recentissimi, ha alimentato una visione positivistica ed empirista basata su una supposta "verità" del mondo da scoprire a piccoli pezzi mediante l’esperienza e in modo induttivo, baconiano. Ciò significa trarre conclusioni, cioè teorie generali, dall’osservazione di fatti particolari, vale a dire teorizzare con Hume che il sole sorge ogni mattina perché finora è andata così. Questo fa di una teoria del mondo una "verità", ma anche questa è un’utopia. Bertrand Russell, raccontava la storia del "tacchino induttivista" il quale veniva cibato ogni mattina alle 9. Da buon induttivista, prima di trarre conclusioni affrettate, il tacchino valutò ogni variabile di temperatura, di giorno della settimana, ecc. finché non poté concludere con la sua "verità" scientifica: "mi danno da mangiare la mattina alle 9". La cosa risultò vera fino alla vigilia di Natale quando il tacchino venne sgozzato. Alle 9. Mi è quasi automatico fare un parallelo fra il tacchino induttivista di Russell ed un altro celebre pennuto, ovvero il "piccione superstizioso" di Skinner, paragone non peregrino considerato che Skinner è l’ esempio massimo dell' utopia scientista, induttivista e realista in psicologia. E’ risaputo che egli "condizionò" dei piccioni a compiere delle attività senza senso mediante rinforzi comportamentali molto simili a quello che rappresentava la conferma alla teoria del tacchino, ovvero il cibo. Certo, mi si obietterà che una "scatola nera" - quale viene trattata la scatola cranica di piccioni, ratti ed umani dai comportamentisti ortodossi - non è induttivista né ipoteticodeduttiva, ma il mio riferimento non è ai piccioni, sto parlando di Skinner… Mi riferisco, insomma, a quel gruppo di teorici che per fare della psicologia una scienza esatta, in completa antitesi alla metafisica freudiana, ne hanno fatto una scienza naturale, baconiana ed induttivista basata sul principio della "verificabilità empirica". Quella concezione, per intenderci, che farà dire a Noam Chomsky che ci sono scienziati che "non sanno distinguere un poeta da un piccione". La psicoterapia che ne deriva, meglio, la "tecnica di modificazione del comportamento" che ne è il risvolto pratico, vuole avere quale punto di forza la "prevedibilità" , altro valore cult. Ma Popper ci ricorda che aver visto sempre dei cigni bianchi ci farà prevedere di vederne sempre di bianchi. Ciò non esclude la esistenza di quelli neri. Insomma, esiste l’utopia di un "universo", ovvero di un mondo oggettivo, vero e prevedibile fuori dall’osservatore, concetto questo assolutistico al quale il neuroscienziato Maturana contrappone il concetto libertario di "multiversa". Hans Kelsen, in ambito politico, ha chiarito che solo il relativismo permette la tolleranza in quanto chi ritiene di detenere la verità cercherà di imporla agli altri. E’ allora estremamente interessante considerare che tipo di utopia sociale possa venire ad essere legata a doppio filo a quella della scienza umana come scienza naturale e della razionalità di un paradigma rispetto ad un altro: la allettante idea di una società completamente scientificamente organizzata, prevedibile, "condizionata". Un panorama orwelliano che lo stesso Skinner presentò in un suo romanzo "utopico" intitolato Walden Two. Vi si ipotizzava una "società perfetta" in cui tutti individui sono "condizionati" . La società come un’enorme "Skinner box". Una psicoterapia globale che conducesse il mondo alla sua "giusta" organizzazione! La tecnica come controllo sociale!2 Queste concezioni sono anche espresse 2 Approfondimento: Skinner, inoltre, era convinto che "il controllo della popolazione nel suo insieme dev’essere delegato a specialisti: poliziotti, preti, imprenditori, insegnanti, terapeuti, ecc., che dispongono di rinforzi specializzati e di contingenze di rinforzo codificate". Il controllo, in altri termini, è benefico perché rende il mondo più sicuro. Quest’ultimo è molto critico circa una tecnologia del comportamento il cui dichiarato fine è di "progettare un mondo in cui il comportamento probabilmente soggetto a punizione dovrebbe presentarsi raramente o addirittura mai" . Skinner è esplicito: "Uno stato che trasformi tutti i suoi cittadini in spie, o una religione che promuova il concetto di un Dio onnisciente, eliminano ogni possibilità di sottrarsi alla punizione e dànno quindi efficacia estrema al sistema punitivo. La gente si comporta bene benché non vi sia una supervisione percepibile". Questa sarebbe la condizione ideale perché, "ovviamente" la libertà "cresce al diminuire dei controlli visibili". Concetto un po’ bizzarro di libertà. Più che un’utopia, insomma, questa è una distopia, uno scenario da romanzo cyberpunk alla Gibson o alla Sterling. 4 in un noto saggio che è stato l’oggetto di una feroce critica di Chomsky, psicolinguista, uno degli uomini cui si deve la "rivoluzione cognitiva" in psicologia e, giacché si è in argomento, utopista anarchico. Ancora una volta, dunque, una contrapposizione non solo scientifica – non solo, cioè, concernente paradigmi ipoteticamente neutri - ma anche e prevalentemente ideologica, ovvero una contrapposizione fra utopie. La psicoterapia non sfugge a questi impaludamenti ideologici. Si confronti, a mò d’esempio, questa concezione psico-totalitaria con la psicoterapia "liberale" degli umanisti americani, come Abraham Maslow o Carl Rogers che ha quale fine il "divenire ciò che si è", fine che si raggiunge abbandonando i falsi sé costruiti adeguandosi ai valori societari3. Una buona spallata alla concezione assolutistica ed a-relativistica della conoscenza l’ha data l’epistemologo Paul Feyerabend. Questi ha messo in crisi l’idea di una scienza che progredisce in modo "razionale" e metodico dimostrando che l’impresa scientifica ha un carattere "opportunista" ed illogico (everything goes) e che non esista "regola" scientifica che non sia stata violata, concezione che è passata alla storia come "anarchismo metodologico" ma che s a r eb b e m eg l i o d ef i n i r e da da is m o epistemologico. Soprattutto però Feyerabend contesta l’idea di una "realtà" vera come quella del raggiungimento di tale realtà quale fine della scienza che dovrà piuttosto occuparsi di ciò che è "utile" invece che del "vero". La prima fase della elaborazione cognitivista, che cerca di supplire alle evidenti car enze esp licat ive comp or ta ment ist e introducendo la "O" di "organismo" fra la "S" e la "R" di "stimolo" e "risposta", non si allontanava invece granché dal paradigma "realista", cioè della "verità". Si veda la concezione dell’ansia nella psicologia cognitiva di Beck. Seconda la nota definizione di Beck si tratta di un "campanello di allarme ipersensibile", che, cioè "produce troppi falsi positivi e niente falsi negativi". Checché se ne possa dire, un impianto di allarme che suona in assenza di pericolo è 3 qualitativamente differente da un analogo impianto che si comporti nel modo in cui ci si aspetta che si comporti. Potremmo dire che uno funziona bene e l’altro male.. Ad ogni modo, l’origine di tale differenza viene rintracciata nella strutturazione di una teoria del mondo disfunzionale, ossia una interpretazione del mondo come pieno di pericoli quando ciò non sarebbe "vero". Meglio, quando invece i pericoli sono probabilisticamente poco importanti. Sarebbe insomma "errata" l’interpretazione, il "belief" sul mondo che in realtà non è poi così pericoloso. Insomma, un paradigma è "giusto" e l’altro è "sbagliato". E’ questa un’ottica "realista" e che mira alla correzione dei "pensieri illogici". Ciò non toglie che i "sani" muoiano spesso in incidenti stradali perché non portavano le cinture di sicurezza allacciate in quanto avevano induttivamente realizzato, in base alla propria esperienza precedente, che non portare la cintura non è pericoloso, fino a che non sono incappati nel cigno nero di Popper; né esclude che gli stessi "sani" che valutano la probabilità che si verifichi un evento negativo talmente bassa da non mettere in pratica alcuna attività difensiva, valutino probabilità statisticamente paragonabili a queste abbastanza possibili quando si tratta di giocare alla lotteria. Insomma, la pretesa scientificità o anche solo "logicità" del pensiero sano è abbastanza discutibile. La psicoterapia, in quest’ottica "realista", viene a configurarsi come la sostituzione, indotta con una metodica pedagogica, di una ipotesi del mondo con un’altra. Sostituzione arbitraria? Niente affatto; innanzitutto, perché è sempre meglio una teoria utile piuttosto che una vera, in secondo luogo perché altrimenti si cade in un’altra utopia, ossia si rischia di scivolare su certe sbavature dell’"anti-psichiatria" (Laing, Esterson e loro adepti convinti o per "moda") o addirittura della "non psichiatrica" (Thomas Szasz). L’utopia, cioè, nel primo caso, che la malattia psichiatrica possa essere messa "tra parentesi" e la terapia passi per l’opposizione alla struttura sociale che la origina, nel secondo caso, addirittura, che la malattia non esista per nulla e che il delirio, Approfondimento: la cosa si fa particolarmente evidente con la cosiddetta terapia della Gestalt, una delle più diffuse pratiche umanistiche, in cui la libertà di autodeterminazione e individuazione assume connotati libertari estremi e i cui fondatori Fritz Pearls e Paul Goodman non hanno mai fatto mistero della loro adesione all’anarchismo militante. Si può perfino affermare che, sia come luogo "ideale", sia come espressione massima delle propria filosofie, Walden Two sia il contraltare, l’opposto esatto di Esalen, la comunità proto-hippie e libertaria che è il centro propulsore della Gestalt Therapy. 5 l’allucinazione ecc. siano tratti personali non giudicabili quali gli occhi chiari o i capelli biondi. In tal caso, la terapia non sarebbe altro se non un abuso ai danni della libertà personale. Se curiosiamo nelle fedi politiche di chi ha espresso queste visioni "alternative" non ci si dovrà sorprendere nello scoprire il terreno di coltura (pseudo)socialista nel primo caso, né scoprire che T. Szasz è un fautore del libertarianism, ovvero quello strano anarchismo capitalista americano che si configura come un liberalismo ultrà, jeffersoniano, tutto centrato sulla difesa della libertà individuale. Due visioni contrapposte, quindi, anche se appaiono una l’estremizzazione dell’altra. In conclusione, ogni idea dell’uomo è un’idea sociale; ogni teoria della modificazione dell’uomo veicola un’utopia. E’ in tal senso, ad esempio, che perfino Giovanni Jervis può affermare, in anni a dire il vero piuttosto sospetti, che "l’ ossessività è la virtù media del capitalismo" e che la terapia dell’ossessività "è educazione al coraggio, all’anticonformismo e al dissenso". Tutte queste considerazioni mi inducono a guardare con occhio particolarmente benevolo gli sviluppi costruttivistici della psicoterapia cognitiva (Kelly, Guidano e Liotti, ecc.). In tale ottica si abbandona la presunzione di poter cogliere una realtà ontologicamente data e con essa l’idea di portare gli individui a coglierla, a conformarvisi o ad opporvisi. Si riconosce, in pratica, un relativismo che ammette l’esistenza di tante realtà quante sono le costruzioni individuali; queste non sono più o meno vere, bensì più o meno utili, adatte, funzionali, viabili, percorribili. Ognuno struttura la propria esperienza, il proprio flusso in modo attivo e dà significato al mondo. Ogni paradigma ha quindi la sua dignità. La patologia sorge laddove una costruzione non riesce più a garantire la propria coerenza, il proprio adattamento e continui a venire utilizzata. In questo caso la terapia non sarà più la ricostruzione di una coerenza fra un mondo interno ed uno esterno (incoerenza interparadigma), bensì la riequalibratura dei propri costrutti che vengono a trovarsi in una incoerenza interna (intra-paradigma). Von Glaserfeld ci fornisce l’esempio più chiaro di cosa comporti l’adozione di questa visione scevra da utopie e missioni: egli mette a confronto i termini match ("corrispondenza") con fit ("adattamento"). Il realista cerca una conoscenza che corrisponda alla realtà (quello che conosco è una copia identica di ciò che è fuori) ma se diciamo invece che una cosa è adatta, ciò corrisponde ad una diversa relazione: "una chiave è adatta se apre la serratura. L’adattamento descrive una capacità della chiave, non della serratura. Grazie agli scassinatori di professione, sappiamo anche troppo bene che esistono molte chiavi che, pur avendo delle forme molto differenti dalla nostra, aprono le nostre porte". Insomma, questo non ci dice niente sulla serratura, su chi l’ha costruita e su come sarebbe meglio modificarla. Ancora, ci può solo dire se una chiave sia "non adatta", "da riparare" ma non detta leggi su quale sia la chiave ideale. Si ricostruisce così quel relativismo che è realmente libertario nonché il rispetto per la dignità delle costruzioni individuali di significato di ogni unico, irripetibile ed inconoscibile uomo che, come dice il poeta Sergej Evtushenko, "è un pianeta". Luigi Corvaglia è psicologo psicoterapeuta, studioso di psicologia e filosofia politica, in particolar modo di pensiero libertario. Ricercatore presso la cattedra di criminologia e psichiatria dell' Università di Lecce dove è impegnato in un lavoro sull' anarchismo. Si occupa di deistituzionalizzazione e riabilitazione psicosociale in un'ottica "alternativa". Ha pubblicato libri (Riabilitazione psicosociale, Torino, 2000; Psicopatologia della libertà, Chieti, 2003) e vari articoli su riviste di psicologia, psichiatria e musica. Inoltre è caporedattore della rivista di scienze umane "La Torre e l' Arca". 6 Realtà, mente, linguaggio: i paradigmi della filosofia occidentale I n questo lavoro vorrei proporre una ricostruzione ideale della storia della filosofia per temi, più precisamente per paradigmi. Descriverò infatti le principali concezioni della filosofia che si possono distinguere nella storia del pensiero occidentale e – riprendendo il celebre termine introdotto dal filosofo della scienza Thomas Kuhn – chiamerò queste concezioni “paradigmi”. Con paradigma si intende, generalmente, una tradizione di pensiero che si estende per un certo periodo di tempo, e che a un certo tipo di problemi offre un certo tipo di soluzioni. Più precisamente, un paradigma è quella concezione che domina la cultura filosofica per un certo periodo: esso ha origine in un’esperienza, in un atteggiamento dell’uomo, e ha il compito di rispondere alla domanda che scaturisce da quest’esperienza. Un paradigma si contraddistingue dunque per i problemi sollevati dall’esperienza umana, per gli oggetti a cui si riferiscono tali problemi e per le risposte che prova a dare a tali problemi. Ogni paradigma si sviluppa partendo da una certa esperienza, ponendo certe domande e indagando un certo tipo di oggetti. La raffigurazione storica per paradigmi è solo una ricostruzione ipotetica della storia del concetto di filosofia, che porta con sé ovviamente una grossa semplificazione. Però adottando questo punto di vista si ottiene un idea del tutto corretta, che è possibile poi precisare e criticare alla luce di ricerche storiche più dettagliate. La storia della filosofia è stata dominata da tre modelli fondamentali, che si sono succeduti l’un l’altro. Il primo modello – quello ontologico – si è esteso da Platone fino all’inizio dell’età moderna. Il secondo modello – quello mentalistico – ha contrassegnato l’età moderna da Cartesio fino al XX secolo. Il terzo modello – quello linguistico – è quello dominante nella filosofia contemporanea. Nessuno di questi modelli, naturalmente, va considerato come un monolite: vale a dire, le domande, i problemi e le risposte che emergono in un determinato modello non scompaiono del tutto nel modello successivo, così come le domande , i problemi e le risposte del modello posteriore sono presenti in qualche modo già nel modello precedente. Quando diciamo che con Cartesio la filosofia diventa co7 scienzialistica, non intendiamo certo dire che da quel momento in avanti non si fanno più ricerche ontologiche, cioè ricerche sull’essere. Vogliamo soltanto dire che, in una certa epoca, alcuni determinati caratteri prevalgono rispetto ad altri. Il paradigma ontologico Questo paradigma è esemplificato nel pensiero di Platone e Aristotele, ed è un paradigma che determinò la forma e i contenuti del pensiero occidentale fino all’età moderna. Che cosa significa paradigma “ontologico”? Significa un filosofare a partire dall’oggetto. A tutti gli effetti, questo sembra la maniera più plausibile e più ovvia di filosofare: se intendiamo la filosofia come scienza, cioè conoscenza, è ovvio che tale conoscenza è contraddistinta da ciò di cui è conoscenza, cioè dal suo oggetto. Ogni conoscenza deve essere conoscenza di qualcosa, e questo qualcosa deve essere, non può esserci conoscenza di qualcosa che non è. Oggetto della filosofia è quindi l’ente, ciò che è in un senso generale. L’esperienza originaria, quella che dà avvio al filosofare, è in questo paradigma l’esperienza della meraviglia: secondo Platone “la filosofia non ha altra origine che questa: la meraviglia” (Teeteto), e secondo Aristotele “gli uomini furono mossi a filosofare, allora come ora, dalla meraviglia, rimanendo dapprima attoniti innanzi ai problemi più ovvii, e poi progredendo a poco a poco sino a proporsi questioni molto superiori: ad esempio sulle condizioni della luna e quelle del sole, sugli astri, sull’origine del tutto” (Metafisica). Queste indicazioni ci invitano a considerare il carattere essenzialmente patetico della spinta filosofica. Il filosofo è infatti colui che, soggiacendo al páthos della meraviglia, del thaumázein, tradisce la sua natura fondamentalmente passionale, carica di sentimento. Il meravigliarsi appare cioè quale timbro emotivo tipico del filosofo: esso costituisce per Platone e Aristotele l’essenziale reazione di chi rimane turbato, rapito ed estasiato dinanzi all’inspiegabile, e talvolta paradossale, spettacolo del mondo. Ma la meraviglia del filosofo, lungi dal produrre la paralisi e la mor- tificazione del pensiero, rappresenta l’inizio di un peculiare modo del pensiero. La filosofia infatti induce a muovere oltre l’immediata e passiva registrazione della propria esperienza. Essa cioè , attraversando l’inquietudine che l’alimenta, si pone la domanda fondamentale: ti esti?, che cos’è? Il dato immediato, il fenomeno singolare che aveva suscitato la meraviglia, richiede di essere indagato. La filosofia greca è totalmente immersa nel suo oggetto, di cui cerca di scoprire la natura, la struttura e le leggi che lo determinano. La filosofia concepisce infatti se stessa come una restituzione fedele dell’oggetto che indaga: essa vuole fornire una descrizione fedele di ciò che è in sé e per sé, senza interventi o intrusioni di carattere soggettivo. In questo senso essa è nel senso più pieno “scienza”, perché la scienza privilegia il riferimento all’oggetto, comprende se stessa a partire dall’oggetto, sia questo un fenomeno della natura, (il cielo, gli astri, le piante) o appartenga esso all’ambito più strettamente umano (pensiamo alle domande socratiche: che cos’è la virtù? che cos’è il bene? che cos’è il bello?). Paradigma mentalistico Che la filosofia voglia conoscere ciò che è, sembra dunque un’ovvietà. Per questo il modello ontologico ha tanta forza d’attrazione, perché con esso si impara qualcosa sul mondo. Ora, la filosofia a partire da Descartes diventa mentalistica e si ritira, per così dire, all’interno della coscienza – ciò che può apparire come una perdita, come una regressione rispetto al modello ontologico, o meglio come una deformazione di quell’originario e “sano” rapporto tra soggetto e oggetto. Il motivo per cui si passò, con Cartesio, al paradigma mentalistico e si abbandonò quello ontologico è molto semplice. Chi vuole conoscere ciò che è, deve presupporre che ciò che è si lasci conoscere. Ma ciò che è, l’ente, è in generale conoscibile? Come posso essere sicuro che ciò che dico di conoscere è effettivamente la verità? Una volta che si sia messo in dubbio che la conoscenza colga effettivamente ciò che è così come è, il filosofare ontologico diventa impossibile. Consideriamo, ad esempio, la classica definizione della verità come corrispondenza dell’oggetto con la coscienza (in latino: adaequatio rei et intellectus). Se questa corrispondenza è messa in dubbio, noi non possiamo più riferirci direttamente alla res, alla cosa, all’oggetto del mondo, ma rimaniamo soltanto col nostro intellectus. Se si vuole procedere alla conoscenza dell’oggetto, di ciò che è, si deve per prima cosa eliminare il dubbio. Ne consegue che la filosofia non può più cominciare con l’esperienza della meraviglia e della “seduzione” da parte del mondo oggettuale. Essa deve prendere sul serio quel dubbio, fare di esso una sua faccenda, cercare di eliminarlo in modo che sia nuovamente possibile la filosofia come scienza dell’ente. La domanda di partenza, che guida la filosofia nella sua ricerca, non è più “che cosa è?”, bensì “che cosa posso sapere?”. Dobbiamo però precisare in che senso l’esperienza del dubbio come inizio, avvio del filosofare porta con sé un mutamento del paradigma, da quello ontologico a quello mentalistico. L’esperienza del dubbio non compare certo con Cartesio: già gli scettici del IV secolo a.C. avevano messo in dubbio la possibilità di conoscere l’essere. Da quando affiorò la prima forma di filosofia scettica, ogni filosofare comincia col dubbio. Da allora tutti i filosofi hanno dovuto reagire a tale dubbio, per superarlo e per dimostrare con ciò la conoscibilità del reale. Prima di Cartesio, a presentare un argomento non toccato dal dubbio scettico fu Agostino. Secondo Agostino, c’è qualcosa di cui colui che dubita non può assolutamente dubitare, e questo è il fatto che egli dubita, e che per poter dubitare, egli deve esistere: “Dubito, quindi sono”, afferma Agostino nel De libero arbitrio. Non può 7 7 essere messo in dubbio l’esistenza della coscienza di colui che dubita nel momento in cui dubita. Con questo argomento Agostino sconfigge lo scetticismo con le sue proprie armi. Ma ciò significa cominciare a filosofare a partire dalla coscienza. La domanda che “che cosa posso sapere?” può ricevere ora una risposta: questo io posso sapere, che io, nella misura in cui dubito, sono, esisto.Potrebbe sembrare a questo punto che il “cogito, ergo sum” di Cartesio non reca nulla di nuovo all’argomento di Agostino, e che forse bisogna far coincidere il passaggio dal paradigma ontologico a quello mentalistico nella persona di Agostino. In verità c’è qualcosa di completamente nuovo nell’argomento di Cartesio, che autorizza a riconoscere in Cartesio, e non prima, l’inizio dell’epoca moderna e della nuova concezione della filosofia. La novità consiste nel modo di intendere l’io che è il soggetto del cogito. Agostino concepisce l’io che dubita come una creatura di Dio, ed è sicuro di ritrovare nell’io le tracce del Dio creatore. Ricordiamo il monito di Agostino: “Non andare fuori di te, ritorna in te stesso. Nell’uomo interiore abita la Verità”. Descartes invece si distacca da questo quadro teologico: l’io del cogito si appoggia unicamente su se stesso. L’io di Cartesio esprime il bisogno di indipendenza, di autonomia intellettuale e di certezza nel sapere acquisito con le proprie forze, che è proprio del soggetto moderno. L’io di Cartesio non è la creatura di Dio, è il soggetto autonomo che non ha bisogno dell’autorità della tradizione teologicamente legittimata per affermare se stesso. Anche se un genio maligno mi ingannasse, questi non potrà mai ingannarmi sul fatto che, se penso, allora io sono, io esisto. Con la scepsi e con l’abbandono del quadro teologico la filosofia comincia veramente ora come pura filosofia della coscienza. Una filosofia della coscienza può ancora chiamarsi scienza? Consideriamo cosa significa partire dalla coscienza: la filosofia non comincia indagando gli oggetti, gli enti, ma indagando la possibilità e i limiti della nostra conoscenza riguardo agli oggetti, cioè indagando i principi, le forme, le strutture, in breve il modo che noi abbiamo di conoscere gli oggetti. Prima facciamo esperienza della nostra coscienza, poi facciamo esperienza dell’oggetto. Una volta riconosciuta l’esperienza del dubbio come esperienza originaria del domandare filosofico, la filosofia si concepisce soltanto, o prevalentemente, come analisi del nostro pensiero e dei nostri concetti. Qual è il prezzo che si paga per questo rivolgimento? È un prezzo piuttosto alto. Se l’unica certezza che posso raggiungere, quella certezza che resiste ad ogni dubbio, riguarda il mio io e il suo 7 modo di conoscere gli oggetti, ne viene che gli oggetti in sé mi restano ignoti, sconosciuti. Ciò che noi conosciamo sono propriamente ed esclusivamente le nostre proprie rappresentazioni, le nostre idee o i nostri pensieri. Noi abbiamo certezza solo riguardo ai contenuti della nostra coscienza. Gli oggetti, i quali esistono indipendentemente da noi, ci sono noti nella misura in cui si adattano alle nostre capacità mentali, nella misura in cui si conformano alle strutture della nostra mente. Ma ciò che essi sono in sé, indipendentemente da come noi li conosciamo, ci resta ignoto: noi conosciamo le cose solo così come a noi si presentano, relativamente alla nostra mente o coscienza. Vale a dire, noi conosciamo solo i “fenomeni” delle cose: le “cose in sé” sono per noi irraggiungibili, sono e rimangono una x. È la nota distinzione kantiana tra le cose, quali sono in sé, e le cose quali appaiono a noi. Tutti gli enunciati che riguardano non le cose come ci appaiono, ma le cose come sono in se stesse, cadono fuori dall’indagine filosofica perché indimostrabili. Paradigma linguistico Il passaggio dal modello ontologico a quello mentalistico avviene attraverso una perdita dell’ingenuità: con il cartesianesimo si riflette su ciò che prima era considerato ovvio, banale; a partire da Cartesio diventa un problema ciò che fino ad allora era ritenuto la soluzione di ogni problema: cioè la conoscenza del mondo. Ora il dubbio diventa per così dire “istituzionale” ed è assunto come il punto di partenza di ogni filosofare che non vuole essere dogmatico. Al nome di Wittgenstein è invece legato il terzo paradigma della filosofia, quello linguistico. Wittgenstein si oppone decisamente all’intera tradizione filosofica che lo aveva preceduto, affermando che “la formulazione di problemi filosofici si fonda sul fraintendimento del linguaggio”. Tutti i problemi formulati dalla filosofia, sia dal modello ontologico – che cos’è la realtà? – sia dal modello mentalistico – di che cosa posso essere certo? – sono per Wittgenstein il frutto di un cattivo uso del linguaggio: noi ci immergiamo nei problemi filosofici perché non vediamo chiaramente l’uso delle nostre parole. L’esperienza di partenza del modello linguistico della filosofia è per Wittgenstein il “fraintendimento”, la confusione, l’incapacità di comprendere gli enunciati del linguaggio: per Wittgenstein “un problema filosofico ha propriamente la forma: io non mi ci raccapezzo”. Se la domanda di partenza di Cartesio e Kant era: “che cosa posso sapere?”, la domanda del nuovo paradigma della filosofia, inaugurato da Wittgenstein, è invece: “che cosa posso comprendere?”. La filosofia deve porsi per lui un nuovo compito: quello della chiarificazione dei pensieri che sono per lo più torbidi e indistinti. Poiché è nel linguaggio che i pensieri trovano espressione, è nel linguaggio che i pensieri possono diventare chiari e distinti. La chiarificazione consisterà nel distinguere le proposizioni dotate di senso, che si possono legittimamente proferire, dalle proposizioni assurde e insensate, che non debbono essere dette. Ogni filosofia sarà dunque “critica del linguaggio”, e dovrà tracciare i confini tra ciò che si può dire sensatamente e il non senso. Ma che cos’è ciò che si può dire sensatamente? Come si può distinguere una proposizione dotata di senso da una proposizione insensata? Per Wittgenstein una proposizione è dotata di senso quando può essere o vera o falsa. Una proposizione è infatti la raffigurazione di come stanno le cose. Una raffigurazione può essere fedele o infedele, può fornire cioè un’immagine vera o falsa dei fatti: è vera se raffigura esattamente come stanno le cose, è falsa se non rappresenta in realtà come stanno le cose. La proposizione “il libro è sul tavolo”, ad esempio, è vera se il libro è effettivamente sul tavolo, è falsa se il libro è nello scafale. In entrambi i casi, comunque, essa è una proposizione dotata di senso, che può a buon diritto essere enunciata. Non-sensi sono invece tutte le proposizioni che non possono essere né vere né false, ad esempio: “Dio esiste”, “la storia è l’oggettivazione dello spirito”, “penso, dunque sono”. Le prime due proposizioni sono insensate perché di esse non possiamo provare né la verità, né la falsità: non possiamo dire se esse raffigurano come stanno esattamente le cose, perché la prima è una proposizione di tipo religioso, che presuppone un atto di fede, e la seconda è una proposizione di tipo metafisico, quindi per definizione un’ipotesi che non può essere verificata. Ma anche la terza proposizione è insensata, per il fatto che essa è sempre, incondizionatamente, vera: nel momento in cui penso, esisto e non possiamo immaginare una circostanza in cui, pur pensando, non esistessimo. Si tratta di una proposizione indubitabile e proprio per questo non funziona all’interno del nostro sistema linguistico: essa gira, per così dire, a vuoto. Dall’analisi di Wittgenstein risulta che sono dotate di senso solo le proposizioni della scienza naturale, o del linguaggio ordinario, mentre risultano prive di senso, ossia né vere né false, tutte le proposizioni della metafisica, dell’etica, dell’estetica – in breve tutto ciò che fino a Wittgenstein abbiamo chiamato “filosofia”. Gran parte dei problemi della filosofia che si sono tra- mandati per secoli, non sono altro che l’espressione di un cattivo uso del linguaggio. L’autentico compito della filosofia, in quanto attività chiarificatrice dei pensieri, deve essere quello di smascherare l’insensatezza della metafisica, i cui enunciati sono solo apparentemente corretti. Con Wittgenstein assistiamo a un riorientamento del pensiero filosofico. Per Wittegenstein la filosofia non è un corpo di dottrine, una scienza, ma un metodo, un’attività di chiarificazione del linguaggio, che mira a smascherare l’insensatezza delle proposizioni filosofiche: “le proposizioni e le domande che si sono scritte su cose filosofiche sono non false, ma insensate. Perciò a domande di questa specie noi non possiamo rispondere, ma possiamo solo constatare la loro insensatezza. Le domande e le proposizioni dei filosofi si fondano per la maggior parte sul fatto che noi non comprendiamo il nostro linguaggio. Esse sono domande di questo genere: il bene è più o meno identico del bello? Ne risulta che i problemi più profondi propriamente non sono problemi”. In questo senso. la filosofia come critica del linguaggio si configura come una tecnica medica, una terapia, un metodo di guarigione. Per Wittgenstein “il filosofo tratta una questione; come una malattia”. I risultati della filosofia sono “la scoperta di qualche schietto non-senso e la scoperta di bernoccoli che l’intelletto si è fatto cozzando contro i limiti del linguaggio”. Compito della filosofia è allora di trasformare il non-senso latente in un non-senso palese. Quando soffriamo di problemi filosofici in senso tradizionale, infatti, abbiamo del non-senso nascosto nella nostra mente, e l’unica via per curarlo è di portarlo alla scoperto. Fare filosofia equivale ad esercitare una forma di terapia psico-analitica, nella misura in cui trasforma in un non-senso esplicito ciò che nella nostra mente era un non-senso represso. Vorrei concludere precisando una cosa: una volta che tutte le nostre affermazioni su Dio, l’essere, il bello o sull’immortalità dell’anima sono state riconosciute come non-sensi, che ne è di esse? Vale a dire, esse non possono essere dette chiaramente nel linguaggio, abbiamo riconosciuto la loro insensatezza. Su di esse dobbiamo tacere, dice Wittgenstein. Cosa significa ciò? Quando Wittgenstein afferma, “su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”, aggiunge “vi è dell’ineffabile. Esso è il Mistico”. C’è qualcosa che trascende i limiti del pensiero e del linguaggio umani. Nessuna proposizione può esprimere il senso del mondo. Una volta che noi abbiamo chiarificato tutte le proposizioni del nostro linguaggio, che abbiamo eliminato ogni fraintendimento, che abbia7 . mo terminato cioè il compito della filosofia, ci accorgiamo che i nostri problemi vitali non sono neppure stati sfiorati. I problemi vitali, cioè i problemi morali, religiosi ed etici, cioè i cosiddetti “valori”, non sono formulabili nel linguaggio, perché il linguaggio si riferisce soltanto a fatti che sono empiricamente verificabili. Ma i problemi morali, religiosi, estetici, psicologici, si situano all’esterno delle possibilità del linguaggio. Una volta chiariti le proposizioni del linguaggio, noi “sentiamo” che i nostri problemi vitali rimangono non toccati e che essi appartengono al dominio dell’inesprimibile. “Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere”: questo è un invito all’uomo ad essere consapevole dei suoi limiti. Il dovere di tacere su ciò che trascende la possibilità del linguaggio non esclude e non nega ciò che si tace: significa semplicemente che noi uomini siamo inadatti a parlarne. Il senso del mondo è ineffabile: la comprensione del senso del mondo per Wittgenstein rimane affidata all’esperienza etica, o estetica e religiosa, ma non è affrontabile razionalmente, cioè filosoficamente. Il senso del mondo trascende le capacità della filosofia, che sono le capacità del linguaggio. Questo è un grande atto di umiltà da parte di un filosofo: l’esperienza logico-filosofica sono una cosa, l’esperienza morale, religiosa ed estetica sono un’altra cosa. E sono queste ultime esperienze che aprono all’uomo la possibilità di comprendere il senso del mondo. Tuttavia, questa non è l’ultima parola sulla filosofia. Nella nostra ideale ricostruzione, siamo giunti fino agli inizi del XX secolo. Il paradigma linguistico inaugurato da Wittgenstein non si esaurisce nella concezione ora esposta, che è quella che ritroviamo nel Tractatus ed anche nelle Ricerche filosofiche. Un modello più complesso e articolato, che assegna alla filosofia altri compiti oltre a quello di curarci dai problemi filosofici nascosti nel linguaggio, emergerà in seguito nel pensiero di Wittgenstein e caratterizzerà il sistema di pensiero che si è sviluppato negli ultimi decenni. Ma questa è un’altra storia, di cui racconteremo in un secondo momento. Marina Manotta è dottore di ricerca in filosofia. Attualmente sta svolgendo attività di ricerca postdottorato presso l’Università di Graz (Austria). esperienze Ricordando l’Angola Due pagine di diario scritte a distanza di due anni l’una dall’altra che si riferiscono a una stessa esperienza: quindici mesi di volontariato in Angola, dove l’autrice ha lavorato come pediatra in condizioni “molto diverse” da quelle a cui è abituata. Il primo brano è stato scritto “a caldo”, a un mese e mezzo dal ritorno. Il secondo è stato scritto dopo il decesso di Maria, la pediatra che è ha sostituito Alberta quando lei è tornata in Italia. 12 luglio 2003 È più di mezz' ora che sono seduta davanti al computer nel tentativo di buttare giù qualche pensiero sull' Angola; me lo sentivo che sarebbe stato più difficile del previsto. Sono tornata da quel Paese ormai da un mese e mezzo e, a parte qualche scambio di idee con mio marito o con don Dante e qualche rara e-mail agli amici rimasti laggiù, con inconsapevole abilità ho schivato tutte le occasioni di 7 2 incontro, conferenze, interviste, articoli e quanto poteva essere testimone del periodo trascorso a Negage e Uige. Sono rimasta in stand-by per tutto questo tempo, lasciando sedimentare dentro di me ricordi, impressioni, emozioni, nell' attesa che questa mia esper ienza angolana riemergesse con tutto il suo carico di "saudade" e con tutta la forza che può avere solo ciò che coinvolge anima e corpo. Stavo reagendo esattamente all' opposto di quando alcuni anni fa sono tornata dal Rwanda: ho sempre detto che in Rwanda ho lasciato una parte della mia anima, ma qui in Angola mi pare invece di avere lasciato una parte del mio corpo, del mio fisico, come se questo Paese fosse capace, non senza dolore, di penetrarti fin nelle ossa, nel sangue, nei polmoni: come se riuscisse a trasformare sentimenti ed emozioni in qualcosa di fisico che investe tutti i sensi. Così la sofferenza e la morte prendono l' immagine dei bambini agonizzanti stesi sui lettini da visita o dei colori sgargianti dei panni con cui le madri ne avvolgevano il corpo senza vita. Nelle orecchie restano il gemito continuo dei più gravi e le urla incontrollate e i gesti ritualizzati dell' "obito", che la famiglia faceva scattare nell' istante stesso in cui il bambino moriva. Al tatto mi pare di sentire ancora il freddo metallico del lettino messo nell' atrio della Pediatria, un punto strategico per tenere s ott o controllo bambini critici ma infelicemente esposto agli occhi di tutti. E poi gli odori, forti, pungenti, capaci di toglierti il fiato; ti investivano appena entravi nel corridoio dell' Ospedale di Negage, così come nel Banco di urgenza, nella Pediatria o nella sala parto dell' Ospedale di Uige. Uno in particolare, meno forte degli altri, ma più penetrante, mi è rimasto impresso. Mi sentivo quasi terrorizzata ogni volta che lo percepivo: era l' odore che emanavano certi bambini fin dai primi momenti di ricovero e che io avevo identificato come odore di morte, un presagio assurdo e irrazionale ma che quasi immancabilmente si avverava. Il ricordo di un sentimento, di un' emozione, possono affievolirsi con il tempo, ma non ciò che è passato attraverso la pelle: questo viene a fare parte di te, del tuo corpo: che ti piaccia o meno, che ci pensi o no, ormai vive con te e muore con te. È con questa chiave di lettura che l' essere ritornata in uno stato di salute non proprio ottimale mi è sembrato un' ulteriore conferma del legame fisico che si è creato con questa terra. Mi rendo conto che quanto scritto finora non ha nulla di logico, di razionale, probabilmente non è nemmeno condiviso da altri che hanno vissuto e lavorato nello stesso ambiente angolano, ma si sa, ogni esperienza è peculiare ed esclusiva come ciascuno di noi. 11 aprile 2005 L e dolorose vicende successe in questi ultimi tempi in Angola hanno fatto riemergere prepotentemente ricordi e momenti del periodo che ho trascorso in quel paese e nello stesso tempo riaperto interrogativi e dubbi rimasti latenti, in attesa forse che il tempo li rimuovesse definitivamente. La mia esperienza in Uige è cominciata esattamente il primo settembre 2002, con 1' inizio del progetto che ha visto il CUAMM farsi carico della Pediatria dell' Ospedale di quella città. Lavoravo già da alcuni mesi nell' Ospedale di Negage e mi dispiaceva lasciare quella Pediatria caotica ma ormai familiare, dove cominciavo a vedere qualche risultato del nostro lavoro nei bassi livelli di mortalità intraospedaliera, nella maggiore 7 Alberta Valente al lavoro a Uige. autonomia degli infermieri e nel rapporto di fiducia e collaborazione reciproca instaurato. Dovevo lasciare tutto questo per essere catapultata in una realtà di cui avevo solo notizie frammentarie e in un progetto che non mi aveva vista coinvolta minimamente. La prima impressione sulla Pediatria di Uige era quella di entrare in un formicaio, con un via vai incessante di bambini più o meno gravi, in braccio o sulla schiena di madri che facevano la spola tra il piano rialzato del Reparto, il seminterrato del Pronto soccorso e il Centro Trasfusionale distaccato e più lontano; un vociare continuo, interrotto troppo spesso dalle urla per la morte del figlio. Il flusso di malati era continuo di giorno come di notte, una processione senza fine. Di fronte a tanta disperata confusione mi sono chiesta spesso che cosa potevano fare due medici e un' infermiera a mezzo servizio, messi a disposizione dal CUAMM; che cosa ci si aspettava da noi. All' inizio, ho avuto spesso l' impressione che la nostra presenza fosse secondaria rispetto alla fornitura di farmaci e presidi sanitari, come dire che erano più importanti le cose delle persone. più importante possedere materiali che non imparare ad usarli con intelligenza e competenza. Quel che è seguito al primo settembre 2002 è stato un lavoro paziente per vincere la diffidenza iniziale e guadagnarsi giorno dopo giorno la stima e la fiducia degli infermieri e degli chefs della Pediatria, nel tentativo di costruire una collaborazione essenziale per tenere in piedi il progetto stesso. Per quanto mi riguarda, il riconoscimento del nostro ruolo clinico e professionale non ha tardato ad arrivare, come dimostrato dalla frequente richiesta di valutare assieme i casi più complessi o dalla domanda di aggiornamento. Quasi nullo invece il nostro coinvolgimento negli aspetti organizzativi del Reparto e poiché, come mi ha insegnato un mio ex primario, si può morire non solo di malattia o di miseria, ma anche di mala organizzazione, sono convinta che nel formulare un progetto va tentato tutto il possibile per avere un peso. anche minimo, in questo campo. pur con i limiti imposti dal lavorare in E’ interessante notare la differenza di toni emotivi tra il primo e il secondo scritto di Alberta, che forse rispecchia anche un percorso interiore che si è potuto compiere nel giro di due anni e che ha permesso di realizzare un’analisi più dettagliata dell’esperienza. Nel primo scritto si sente la sofferenza del tradurre in parole un’esperienza così toccante e profonda, risalta l’aspetto sensoriale, quasi corporeo, del dolore: dall’odore dei morti, al sentire le urla strazianti, vedere i bambini agonizzanti, toccare il freddo del lettino metallico. E’ come se la rielaborazione emotiva di questa esperienza sia dovuta passare prima di tutto attraverso il corpo: i pensieri e le emozioni possono comparire ed essere esplicitati soltanto in un secondo tempo. Infatti nel secondo scritto è possibile cogliere pensieri articolati, suddivisi in punti che portano a una riflessione su diversi temi che riguardano l’aspetto oggettivo esterno dell’esperienza e non solo quello strettamente soggettivo, emotivo, sensoriale. Barbara Lamedica 7 3 un ospedale governativo. Ricordo la fatica di proporre qualche cambiamento: introdurre un protocollo diagnostico o uno schema terapeutico. suggerire qualche nuova tecnica anche semplice richiedeva uno sforzo enorme, una tenacia non comune e la ferma convinzione che "a forza di battere il chiodo" qualcosa sarebbe passato. Che la realtà della Pediatria di Uige fosse particolarmente complessa è balzato agli occhi a tutti quelli di noi che l' hanno frequentata; in particolare tre aspetti a mio avviso la rendevano tale. Primo aspetto: il gran numero di pazienti che passavano di là. Basta leggere i numeri: più di 150 accessi giornalieri al Banco de urgencia, in media 150 degenti in un reparto con 70 posti letto, si superavano spesso i 1000 ricoveri al mese e i 10.000 ricoveri all' anno con cifre che sono andate aumentando nel tempo. In questo contesto, la mortalità intraospedaliera era altissima: il 12-13% non sono solo cifre spaventose, sono anche un carico immenso di dolore e un incubo costante per chi ci lavora dentro. Il secondo aspetto era legato alla complessità stessa del nostro lavoro che implicava far assistenza nel reparto di Pediatria e nel Pronto soccorso pediatrico, rispondendo contemporaneamente alle non rare chiamate dalla Maternità e rendendosi disponibili anche per la Malnutrizione; il tutto in ogni ora del giorno e della notte, tutti i giorni, feste comprese. Il terzo aspetto, infine , riguardava la patologia locale. Non credo che a Uige le malattie fossero diverse da quelle presenti in altri Paesi africani, ma qui pareva assumessero una particolare gravità e virulenza: la malaria ne era l' esempio più lampante. Le forme complicate e mortali erano all' ordine del giorno mentre la frequenza delle ricadute, anche a breve distanza , ci avevano perfino fatto dubitare su una possibile resistenza al chinino. Accanto a queste, una varietà di altri quadri morbosi tanto drammatici quanto strani. Arrivare ad una diagnosi era davvero difficile , non solo per la quasi totale assenza di mezzi diagnostici ( la radiologia ad esempio era inesistente) ma anche per una serie di variabili che contribuivano non poco ad aggravare le patologie e ad ostacolarne la comprensione. Tra queste, il ricorso frenetico alla trasfusione di sangue come rimedio a tutti i mali, cosa che non aveva uguale riscontro al di fuori di Uige: i genitori dei bambini la richiedevano con insistenza snervante, disposti a pagare ad estranei qualunque cifra pur di ottenerla. Sulla loro sofferenza, intorno al Centro trasfusionale, era nato così un "mercato del sangue" invisibile ma florido. Altro fattore di confusione era l' uso generalizzato di medicamenti tradizionali, somministrati prevalentemente per clistere; molte volte abbiamo pensato che questo fenomeno avrebbe meritato di essere studiato con la stessa serietà e lo stesso rigore di una ricerca epidemiologica. A volte era evidente che questi trattamenti erano la causa diretta della morte del bambino, ma specie nei casi più strani e inspiegabili rimaneva sempre il dubbio di un loro utilizzo sempre negato e di un possibile effetto tossico sconosciuto. In questa quotidianità dove mi sentivo spesso impotente e inadeguata, l' arrivo di altri medici diventava un momento di confronto indispensabile e salutare, una boccata di ossigeno che mi ricaricava. Ma più di tutto, aspettavo con ansia l' arrivo di Maria Bonino che avrebbe dovuto sostituirmi e continuare il progetto nella Pediatria di Uige. Non la conoscevo personalmente ma sapevo che era ormai una "esperta d' Africa" con alle spalle quasi dieci anni di servizio: pensavo che con lei avrei trovato risposta ad alcuni dubbi e sviscerato i casi clinici più ostici. Non sempre è stato possibile, ma il periodo trascorso assieme è stato per me intenso ed istruttivo. Abbiamo condiviso le fatiche quotidiane e il peso di tutto quel "dolore bambino" che ci sommergeva. Insieme abbiamo ragionato sui nostri dubbi, cercato improbabili soluzioni e scambiato opinioni ed intuizioni sulla situazione sanitaria locale, arrivando forse molto vicino e quasi senza rendercene conto ad ipotizzare la tragica realtà di questi giorni. Abbiamo condiviso la casa, il mangiare ( Maria "ottima pediatra, pessima cuoca" le dicevo) ed anche qualche momento di relax. Le ho sempre invidiato la capacità di non arrabbiarsi anche con le madr i più petulanti e quella pazienza infinita che io invece stavo esaurendo, complice uno stato di salute un po'deteriorato. A fine maggio 2003, sono partita definitivamente da Uige e le ho passato il testimone. Nei due anni che lei ha trascorso lì. altre persone le si sono affiancate per sostenere la Pediatria, lavorando con passione e senza risparmiarsi. So che molte cose erano migliorate rispetto alla situazione iniziale che ho descritto, alcune invece erano rimaste "sempre na mesma", come mi scriveva Maria. Ora che lei non c' è più, a me rimangono tanta "saud de" e la consapevolezza di aver vissuto, nell' esperienza angolana e nell' incontro con Maria, un privilegio riservato a pochi. Alberta Valente è pediatra nel reparto di neonatologia dell' Ospedale S. Chiara di Trento. 7 4 Mario Alexandro Santini recensioni ' ) Q ! ( 9 uesto libro, che è rivolto a tutti e forse principalmente a chi ritiene che ' informatica non lo riguardi, spiega in modo semplice alcuni processi in atto che minacciano i territori pubblici rappresentati dalla condivisione della conoscenza di base. Per rendere più immediata l' informazione, l' autore ricorre spesso alla forma del dialogo per illustrare i punti principali della questione. Nella nota dell' Editore che correda il volume, si legge tra l' altro che il movimento del free software, con i suoi risultati e le sue ambizioni, è senz' altro uno dei più intelligenti e fruttuosi processi di critica al sistema e di costruzione di un' alternativa concreta alle diffuse pratiche gerarchiche di dominio e di concentrazione del potere. Nonluoghi Libere Edizioni è una piccola casa editrice che si caratterizza, tra l' altro, per la scelta di fondo di utilizzare per la produttività solo applicativi su piattaforma Gnu-Linux. Anche questo volume, dunque, come i dieci che l' hanno preceduto in questi 18 mesi di vita della casa editrice, è stato realizzato utilizzando per grafica e impaginazione solo programmi rilasciati con licenza pubblica Gpl su piattaforma Linux (in particolare, Scribus, OpenOffice, Gimp e Xpdf). La scelta informatica dell' Editore è indicata nell' ultima pagina di ogni volume. Nella prefazione, Fiorello Cortiana scrive tra l' altro che la raccolta di storie contenuta in questo libro coglie differenti percorsi di persone simili a noi, che vivono in ambienti che ci sono familiari ed usano strumenti informatici come capita a noi. Attraverso diversi percorsi, attraverso diversi problemi, queste persone scoprono la questione della disponibilità della conoscenza, che fino ad allora avevano ignorato, dietro il click su un tasto o su uno schermo al fine di attivare un comando per la soluzione di una esigenza particolare. Le storie narrate ben descrivono il prendere corpo di una consapevolezza individuale, premessa e preludio a una consapevolezza collettiva. 7 5 ) ! 8 $ La conoscenza è un bene particolare, la sua natura è tale che più essa viene scambiata meno si consuma e, anzi, aumentano le probabilità di una sua crescita tanto quantitativa quanto qualitativa. Ora, se si vuole applicare alla conoscenza e alle sue reti di produzione e di comunicazione lo stesso modello produttivo di tipo agricolo o industriale, al fine di ricavarne le stesse modalità di consumo e di rendita, occorre creare delle condizioni di scarsità. Queste sono condizioni che di per sé non si danno, per cui per via tecnologica (standard particolari proposti come universali) o per via di convenzione o di norma (accordi Trips dell' Organizzazione mondiale del commercio, Wto, piuttosto che direttive e leggi parlamentari per la brevettazione del software) coloro che detengono le loro rendite di posizione, altrimenti minacciate dalla condivisione della conoscenza, da tempo si sono attivati con le buone e con le cattive affinché si diano le condizioni di scarsità. Conoscenza, comunicazione, informazione, partecipazione, costituiscono nuovi ambiti concettuali e pratici che non dipendono strettamente dall' essere centrali o periferici rispetto a condizioni economiche. Coloro che stanno prendendo consapevolezza del diritto alla condivisione della conoscenza pongono e porranno sempre più questioni e conflitti non riducibili a ragioni e a rappresentanze di classi sociali economicamente definite. Questo comporterà anche un cambiamento nelle forme e nella rappresentanza dei conflitti non riconducibile automaticamente ai tradizionali assi di distinzione destra-sinistra. !" # Gus Van Sant * I + eri sera alla TV (RAI 1) c’è stato un bel film. Will Hunting è un ragazzo di vent' anni che fa le pulizie in una prestigiosa università americana (Harvard). A tempo perso dimostra teoremi e risolve i problemi complicatissimi che un eminente professore di matematica sottopone ai suoi allievi scrivendoli sulla lavagna. Il professore si chiede chi sia il genio che alla mattina fa trovare le soluzioni, identifica Will, vorrebbe fargli fare carriera. Ma prima di poter fare tutto ciò bisogna far passare Will dallo psicologo, perché ha un passato da delinquente. Anzi, il professore va a prenderselo proprio in galera dove finisce per una scazzottata. Ma gli psicologi non riescono non solo a addomesticarlo ma neppure a usare le loro normali tecniche di colloquio. Finché il professore non si rivolge a Sean (Robin Williams prende l' Oscar per questa interpretazione), un vecchio amico insegnante di psicologia, che riesce a stabilire un rapporto sincero e di fiducia con Will e lo aiuta a conoscersi meglio. Perché il professore ci tiene tanto che Will usi la sua propensione per la matematica per trovare un "buon lavoro"? Il film lo dice: perché questo è quello che ha fatto lui. Inoltre il professore coglie la superiorità di Will e al suo cospetto si sente inferiore. Ma come - deve avere pensato - io costruisco sulla mia conoscenza della matematica una carriera prestigiosissima di cui vado orgoglioso e per la quale la gente mi stima, quando invece rispetto a Will sono un inetto? Fra l' altro il "normale" interesse per il denaro e la carriera del professore sono un elemento che lo allontana dall' amico, ed ex compagno di studi, psicologo che il professore dice di considerare "fallito". Ma forse lo affonda in questo modo perché teme il coraggio di costruire una vita perseguendo valori diversi, come ha fatto lo psicologo e come ha fatto e continuerà a fare, spiazzando tutti, anche Will. La figura dello psicologo è tutt' altro che banale. Riesce ad agganciare Will per diversi motivi extraprofessionali. Innanzitutto non fa consulenze di professione. Poi ha uno studio che al ragazzo piace subito. I due condividono diverse cose che a Will devono sembrare importanti: la provenienza dallo stesso quartiere (non benestante), la lettura di ceri libri, la forza fisica, la sincerità. E ciò probabilmente fa - ) sembrare a Will che valga la pena conoscere questa persona. Di fatto, al primo colloquio, il ragazzo coglie rapidamente alcuni aspetti delicati e importanti della biografia dello psicologo semplicemente guardando un quadro dipinto da lui. “Gioca allo psicologo” e dimostra il suo acume spiattellando in faccia allo psicologo vero alcune ipotesi, o "interpretazioni" per dirla in gergo psicodinamico, sulla sua situazione affettiva, facendo decisamente centro e mettendo a nudo certi aspetti della vita privata dello psicologo che lui vorrebbe fossero trattati con più tatto o che magari fatica persino ad accettare. I colloqui successivi sono una partita alla pari: ognuno impara qualcosa dall' incontro con l' altro. Ma il ragazzo mira a demolire e lo psicologo, a costruire. Molto bella e istruttiva la sua figura: non vuole affatto normalizzare il ragazzo, spingerlo verso il denaro e la carriera, come il professore vorrebbe e presume che lui faccia, ma accetta di dialogare con questo ragazzo, discutendo di qualunque argomento mettendosi sinceramente in gioco, rivelando le sue debolezze, accettando le sofferenze che il ragazzo gli provoca e manifestandole vincendo dolorosamente il pudore ad ammetterle di fronte a lui. Mi piace questo mettersi in gioco totale, questa apertura. Normalmente (parlo di una normalità statistica) lo psicologo svolge una funzione professionale sicuro dei ruoli e delle competenze e cerca di imporre al paziente questa sua visione delle differenze: sei tu quello che soffre e che ha bisogno di me per stare meglio; io so come si fa e ti dico cosa devi fare; tu lo fai e poi stai meglio; e se non fai come dico io, allora te ne puoi andare perché io devo lavorare; e se poi mi fai stare male… non ne parliamo proprio. Invece inizialmente lo psicologo, dopo che Will ha rivoltato il coltello nella sua piaga, passa un notte insonne, pensoso e angosciato. Il ragazzo gli ha detto alcune cose delicate senza il minimo di tatto; lui non le condivide. Immagino i pensieri dello psicologo: Chi avrà ragione? Se queste affermazioni mi sembrano false non sarà forse una difesa psicologica? Che prove ho io, che prova ha Will? Ma alla fine riesce a dormire e al colloquio successivo spiega a Will come ha fatto. 7 6 Anche questo è un punto che mi è piaciuto molto del film. Lo psicologo per quietare le sue angosce si appella a un dato di buon senso: io sono un adulto, tu Will sei un ragazzo. E questo vuol dire che le tue opinioni sulle mia situazione affettiva derivano da letture, discorsi, teorie e ragionamenti, mentre le mie derivano da una conoscenza diretta delle situazioni della vita (sesso, lutti, guerra, ecc.). La spiegazione è autentica e convince il ragazzo; su questo piano non può "competere" ma anzi gli conviene "collaborare": ha la fortuna di godere della conversazione con un uomo maturo per certi versi simile a lui che gli parla disinteressatamente e con sincerità delle scelte più importanti della vita. "Devi sfruttare le tue doti". Sembra una frase sensata. Me l' hanno ripetuta i miei insegnanti, genitori, amici e parenti. La sento dire dagli insegnanti di mio figlio. Sembra una verità lapalissiana: hai delle doti e non le usi? Ma che, sei scemo? Purtroppo quando si dice sfruttare - o nella versione più soft "usare" - si intende a scopo lavorativo e in definitiva economico. Tuttavia si trascurano alcune cose importanti. Quello che riesce bene per passione o per gioco, non necessariamente riesce bene per lavoro. La passione e il gioco sono dominio del piacere. Il lavoro, del dovere. Quando una cosa la si fa per dovere, non piace più e non riesce più bene come prima. Chi fa una cosa per piacere la fa secondo i propri ritmi e con le proprie modalità; chi la fa per lavoro è costretto a ubbidire ai suoi superiori o ai suoi clienti. Risultato: quella che prima era una passione ora è un dovere. Hai perso una passione, una preziosissima ragione di vita. Il professore prospetta a Will i risultati che potrebbe conseguire mettendo le sue potenzialità al servizio della nazione. Ma Will non vuole trasformare la sua dote e la sua passione in uno strumento per arricchirsi, guadagnare la stima di per- ) $% $( 5 # . 4 2 :7 ; 4 & , $2 $- % ) '( ) *( sone noiose imbecilli disgustose ciniche e disumane, consentire ad altri di perseguire i loro obiettivi, primo fra tutti lo sfruttamento economico di altre persone attraverso la violenza, la guerra e la colonizzazione economica. Lui con la sua cultura ci gioca, conversa piacevolmente con gli amici, aiuta a studiare la ragazza che gli piace, smerda i secchioni arroganti dell' università. Ma perché fa così? Dev' essere malato - pensa il gregge personificato dal professore. Va "curato". Gli psicologi si prestano a questo genere di cure. Nel film quelli che ci provano falliscono tutti. Lo psicologo protagonista fa una cosa diversa; non cerca di spingere Will a fare quello che non vorrebbe. Tanto più che a questo psicologo non sta a cuore il "mandato" definito dal professore, lo scopo per lui implicito e scontato. Ma sta a cuore che Will compia la sua scelta liberamente, cioè consapevolmente e deliberatamente. C' è una possibilità che lo psicologo vuole vagliare: non è che Will non accetta le offerte di lavoro che riceve perché si sente emotivamente impedito, perché si sente incapace o cattivo o indegno o qualche altra cosa del genere? Lo psicologo capisce che Will non ha avuto l' amore dei genitori, che l' hanno addirittura seviziato. Riesce con molto tatto e umanità a portare la conversazione su questo tema - e lo fa ammettendo la propria triste situazione familiare, l' alcolismo del proprio padre violento. A quel punto Will smette di mostrarsi duro, scoppia a piangere e abbraccia lo psicologo. Lo spettatore abituato alla psicologia e ai film psicologici pensa che a quel punto Will si "sbloccherà". E così in effetti il film lascia credere. Ma come si manifesta questa ritrovata armonia interiore? Il finale è un altro aspetto che ho apprezzato molto di questo film: Will rinuncia a un' offerta di lavoro che ha appena accettato, dopo la catarsi, e, libero dalle sue barriere emotive, prova ad accettare le offerte di amore della ragazza che gli piace. Gabriele Lo Iacono % & + $. / 0 1 34 . / 0 1 ) % 1 6 & 7 0 1 ) - 8 9 1 7 ) 4 ; 9 1 2 . ' % # % 1 < =. ' 2 7 7 2 0 ' > $? 0 @@ A . $ "=