La verità, scheletro delle apparenze, vuole che ogni uomo

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L'ERRORE
Limite e trascendenza nella ragione
Autori: Francesca Cassaro (5D), Mario Giacobbo (5D), Alberto Pilotto (5D), Matteo Ballan (3C),
Beatrice Bellini (3C), Chiara Ferrarese (3C), Fabio Forzan (3C), Giovanni Lorenzetto (3C) Jean
Claude Nardello (3C), Alberto Bellotto, (3C) Adila Imsirovic (3C), Anna Tagliaferro (3C), Elena Dal
Maso (3C), Federica Carlana (3C), Lisa Facco (3C), Francesco Panza (3C), Stefania Tellatin (2CS)
Sabrina Salvato (2BL), Antonio Scudiero (3ASA)
INDICE
Introduzione. Il coraggio della ragione, il coraggio di errare
2
Paragrafo I. La ragione consapevole di sé: la realtà
3
Paragrafo II. L'errore come contraddizione tra l'Io e se stesso
4
Paragrafo III. Per non cadere nell'errore dovremmo conoscere la Totalità
5
Paragrafo IV. L'errore è dunque l'inevitabile astrazione
6
Paragrafo V. L'errore come previsione, come necessità della vita
7
Conclusione. L'errore come apertura al sacro
8
Riferimenti bibliografici dei testi citati
10
1
Introduzione
Il coraggio della ragione, il coraggio di errare
Naufragium feci: bene navigavi.
F. Nietzsche, Frammenti postumi 1888, 16[44], p. 291
La ragione, nella sua attività, continuamente scopre la sua possibilità attuale, sperimentando
ciò che si presenta come suo limite: l'errore. Sapere aude: abbi il coraggio di conoscere! Il
monito è quanto mai appropriato, non solo per il valore che la conoscenza sembra avere, ma
anche per la difficoltà che comporta, per il coraggio che richiede l'affrontare il fallimento che
ad essa inevitabilmente consegue.
Le conquiste della filosofia antica ci mostrano che, quando il fallimento non venga riscontrato
sul piano conoscitivo, esso diventa parte della nostra vita. La vita di Socrate è l'esempio per
antonomasia della concezione antica della filosofia, non semplice teoria, ma modo di vivere,
un prendersi cura di sé. Platone nel Sofista afferma senza mezzi termini che la filosofia, il
confronto dialettico, sono ciò che dà la felicità1.
Non possiamo fuggire alla necessità della conoscenza di se stessi, così come del mondo che
riguarda il nostro sé: per prenderci cura dell'Io dobbiamo inevitabilmente prenderci cura del
mondo. Ma il desiderio e la volontà dell'anima di conoscere, per avere se stessa, deve ben
presto guardare nei suoi abissi, nel nulla che l'ottunde, nel relativo che la confonde, nella
polisemia della verità che più volte nella storia dell'umanità e nelle nostre storie individuali si
è presentata e ci si presenta come un labirinto.
Il nostro coraggio qui sarà questo: fare un tentativo nel labirinto.
1 Cfr. Platone, Sofista, 230d-e, tr. it. di M. Vitali, Bompiani, Milano 1992, p. 25: «Ecco perché, Teeteto,
dobbiamo affermare che la confutazione è la forma più grande e più valida di purificazione, e io ritengo che chi
non è passato attraverso questa prova, fosse pure il Gran Re, rimane carico delle più gravi impurità e diviene
incolto e deforme proprio in quella parte di sé in cui chi aspira alla vera felicità, dovrebbe essere bellissimo e
purissimo».
2
I.
La ragione consapevole di sé: la realtà
Si dice “filosofare sia il ricercare questa cosa stessa,
cioè se si debba filosofare oppure no, sia il praticare la
ricerca filosofica.
Aristotele, Protreptico, fr. 6, p. 7
L'esigenza di una conoscenza fondata, che non cada nell'errore, nell'incertezza delle infinite
dispute medioevali, si impone rinnovata nella filosofia moderna, a partire da Cartesio. Il
filosofo francese afferma che l’uomo, nel tentativo di negare addirittura che possa esistere la
realtà, o nell'ipotizzare che questa sia semplicemente una mera illusione, si trova a dubitare
della sua stessa esistenza. Tuttavia, lo stesso dubitare di qualcosa è un’azione del pensiero:
siamo perciò condotti ad ammettere che se esiste qualcosa generato da un pensiero, esista
anche chi lo abbia formulato2. L’uomo nel suo negare la realtà è costretto ad affermare che
egli pensa (cogito ergo sum, penso dunque sono), e quindi che egli è in quanto ente pensante.
Posto che egli esiste, il problema diventa se la realtà in cui egli vive si trovi all’esterno di se
stesso o all’interno, se sia solo una rappresentazione del suo pensiero o se esista al di fuori di
esso3. L'idealismo porterà a consapevolezza in maniera definitiva che lo stesso pensare alla
realtà è contenuto del pensiero, che quindi essa è posta all’interno del suo Io 4: se l'Io tentasse
qualsiasi distinzione tra ciò che è esterno o interno a se stesso, starebbe formulando tale idea
all’interno del proprio pensiero, dimostrando, così, che nulla è conoscibile al suo esterno. Il
pensiero è l'orizzonte entro cui si dà tutto ciò che egli percepisce. Ad esempio, se noi
pensiamo ad una sedia come un oggetto posto all’esterno di noi stessi, anche per il solo fatto
di essere contenuto del nostro pensiero, essa, come parte della realtà che ci circonda, per il
fatto di averla pensata, fa parte del nostro pensiero, quindi di noi.
2 Abbiamo qui esposto il risultato conseguito da Cartesio nel Discorso sul metodo, in particolare nella parte
quarta: R. Cartesio, Discorso sul metodo, tr. it. di E. Carrara, La Nuova Italia, Firenze 1932, pp. 82-86.
3 Facciamo qui riferimento al grande interrogativo formulato sempre da Cartesio nelle seconda delle
Meditazioni metafisiche: R. Cartesio, Meditazioni metafisiche, tr. it. a cura di U. Ulivi, Bompiani, Milano 2001,
pp. 165-171.
4 Cfr. G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, tr. it. a cura di V. Cicero, Bompiani, Milano 2006, p. 39: «la
coscienza raggiungerà infine un punto in cui si spoglierà della parvenza di essere intaccata da qualcosa di
estraneo che è solo per essa e che appare come un altro».
3
II.
L'errore come contraddizione tra l'Io e se stesso
La verità, scheletro delle apparenze, vuole che ogni
uomo, chiunque sia, pervenga un certo giorno e una
certa ora, a toccare le proprie ossa eterne in fondo a
qualche piaga passeggera. Ciò si chiama conoscere il
mondo, e l'esperienza è un tale prezzo.
A. de Musset, Le confessioni di un figlio del secolo, p. 9
Avendo quindi dimostrato che tutta la realtà è necessariamente contenuta nel nostro pensare,
ogni nostra esperienza vissuta non è una relazione tra noi e degli oggetti indipendenti, ma è
un’azione che avviene al nostro interno nel confronto tra l’Io e se stesso.
Ogni uomo, nel corso della sua vita, si confronta con la realtà in modo sempre nuovo: il suo
Io viene continuamente plasmato e condizionato dalle esperienze vissute. Si accorge,
all’interno di queste esperienze, che la sua conoscenza è incompleta e quindi limitata; la
conseguente sensazione di dubbio e di meraviglia lo portano alla consapevolezza della propria
ignoranza ed al desiderio di liberarsi da essa con una incessante ricerca.
Socrate diceva: «Una vita senza ricerca non vale la pena di essere vissuta»5. La nostra
esistenza è un continuo processo di esperienze: ampliamo di continuo i confini del nostro
sapere nella convinzione che la sapienza corrisponda al grado di conoscenza che ci condurrà
all'agognata verità. Un grande limite in cui ci imbattiamo facendo esperienza e accorgendoci
di quanto la nostra ignoranza riguardo al mondo e alla sua verità sia vasta, è proprio quello di
non poter mai conoscere interamente tutto ciò che ci circonda: e poiché tutto questo, come
prima dimostrato, è in noi stessi, significa che non potremmo mai conoscerci appieno.
Malgrado attraverso le nostre esperienze raggiungiamo un grado maggiore di consapevolezza,
la nostra formazione sarà comunque incompleta, poiché ci sarà sempre una parte della realtà,
ossia del nostro pensiero, che non potremo mai conoscere.
5 Platone, Apologia di Socrate, 38a, tr. it. di M.M. Sassi, Bompiani, Milano 1993, p. 159.
4
III.
Per non cadere nell'errore dovremmo conoscere la Totalità
Bisogna che tu impari a conoscere ogni cosa, sia
l’animo inconcusso della ben rotonda Verità sia le
opinioni dei mortali, nelle quali non risiede legittima
credibilità.
Parmenide, Sulla natura, fr. 1, p. 375
Noi, siamo degli enti e in quanto tali siamo posti in un tempo, in uno spazio e siamo immersi
in una comunità di altri simili. Ognuno dei nostri simili ha delle relazioni con noi: siamo
reciprocamente parte di uno stesso sistema e ugualmente siamo condizione di esistenza l’uno
dell’altro. Un singolo uomo posto in un gruppo di suoi simili fin dalla nascita è cresciuto così
in un determinato modo; sarebbe lo stesso uomo se lo si privasse di uno dei suoi compagni?
Capiamo, già con questa prima riflessione, che ognuno di noi è parte fondamentale di un
sistema più grande, formato da innumerevoli variabili, del quale neppure noi stessi siamo in
grado di conoscere: le relazioni che caratterizzano il nostro Io, che noi stessi siamo.
Fin da quando abbiamo iniziato a pensare ed ad accumulare una determinata esperienza
abbiamo iniziato a credere erroneamente, come accade a tutti nella vita, che vi è qualcosa
nella nostra natura che permane nel corso degli anni e che ci caratterizza dalla nascita alla
morte. Deliberiamo così l’esistenza di un qualcosa di sostanziale indipendente da ogni
variabile.
È però possibile che esista un qualcosa di “immutabile” che ci caratterizza determinando così
essenzialmente il nostro determinato Io empirico?
Continueremo a credere a ciò finché non capiremo di essere un sistema con la realtà
circostante, che essa è parte del nostro microsistema di relazioni.
Dunque la realtà circostante è un insieme di più relazioni dipendenti l’una dall’altra e in
continuo mutamento, dato il costante divenire nel tempo. Il procedere del tempo è
conseguenza inevitabile d’essere dell’ente, che, in quanto esiste, è pure posto in un
determinato spazio.
Spazio e tempo sono due caratteristiche dette “trascendentali” perché nulla fugge dal loro
dominio, come ci mostra Kant nella Critica della ragion pura6, e mai si può pensare a
qualcosa che non sia in un determinato spazio e in un determinato tempo.
Dopo aver compreso ciò, ammettere che esista un qualcos’altro che ci caratterizza
indipendente dal Tutto, diventa impensabile. Come allo stesso modo è dunque sbagliato
pensare astrattamente che esista un qualcosa che possa sussistere ugualmente senza delle
relazioni con la realtà circostante. Nulla è al di fuori delle relazioni. Tutto è le sue relazioni.
Le relazioni che ogni persona ha sono innumerabili e in continuo mutamento: in ogni singolo
istante un ente ne sviluppa di nuove che si combinano con quelle precedenti.
Dunque, un uomo, caratterizzato dalla realtà circostante, come riuscirà a conoscere qualcosa
che lo circonda se tutto dipende dalle sempre cangianti relazioni che lui è e che sfuggono a lui
stesso?
Non riusciremo mai a conoscere qualcosa nella sua totalità, perché mai conosceremo
interamente il processo di formazione di questo e, nondimeno, la sua situazione attuale.
L’uomo non raggiungerà mai la verità, la quale è inarrivabile.
6 Cfr. I. Kant, Critica della ragion pura, tr. it. di G Colli, Adelphi, Milano 1976, in particolare l'Estetica
trascendentale, pp. 45-107.
5
IV.
L'errore è dunque l'inevitabile astrazione
Perché si abbia una conoscenza fondata è sempre
necessario avere presenti le differenze che si trascurano
e le motivazioni per cui le si trascurano: è in questa
accortezza che consiste la fondatezza di ogni
conoscenza.
A. Lombardi, Logica della presenza, pp. 34-35
Dato che non conosciamo mai la totalità di un ente, ogni volta che ci accingiamo a
determinare la sua natura, in quell’istante staremo astraendo. Staremo dunque errando? Certo,
l'astrazione è un errore, ma è inevitabile.
Ogni nostro processo conoscitivo è prodotto infatti nell’astrazione.
L’uomo con la sua pretesa di conoscere si scontra con l’inevitabile totalità, a lui inaccessibile:
perciò l’unico modo per lui di esprimere una sentenza o giungere a una conclusione è quello,
appunto, di astrarre. Quando si giunge a questa conclusione, ognuno di noi cercherà di
limitare l’errore, cercando di considerare più relazioni possibili dell’ente che tenta di
conoscere.
Possiamo così distinguere l’errore che compiamo quando siamo consapevoli dell’astrazione,
ovvero quando sappiamo che non possiamo far altro che limitare sempre più l'astrazione, da
quello fatto per la mancanza di riflessione. Nel primo caso infatti volendo avvicinarsi alla
verità tentiamo di conoscere l’oggetto e, consapevoli del nostro limite conoscitivo, tentiamo
di tenere in considerazione più relazioni possibili dell’ente. Il secondo caso invece avviene
quando, ignoranti di tutti i ragionamenti precedenti, perseveriamo nel relativismo e nell’errore
astraendo un ente dalla realtà a lui circostante con la presunzione di conoscerlo e di poterne
fare delle previsioni future veritiere assolutamente, cioè prescindendo dalle relazioni in
continuo mutamento che lo determinano.
Dunque, cos’è l’errore? Commettiamo un errore ogni qual volta consideriamo nulle
determinate relazioni e, per di più, con la pretesa che ciò che astraiamo sia veritiero a
prescindere dalla situazione concreta in cui si danno quelle relazioni. Astraiamo dunque così
delle verità, trasformandole in errori. Questi errori però sono anche alla base della nostra
conoscenza: se noi avremo presente i nostri limiti conoscitivi costitutivi, ogni qual volta che
capiremo di aver escluso delle variabili dall'oggetto della nostra considerazione, ne
rielaboreremo una nuova: una nuova e più ricca considerazione, una considerazione che
diventerà così la nostra verità attuale.
6
V.
L'errore come previsione, come necessità della vita
La libertà è il nostro rischio, il nobile privilegio di non
compiere il nostro dovere.
N. Gómez Dávila, Textos, I, p. 13
L’uomo ogni giorno si deve confrontare con la ricerca di una verità su cui basarsi per vivere, e
sviluppa una serie di previsioni che si trovano, in maggiore o minore misura, ma
inevitabilmente, in opposizione alle percezioni future. Presuppone che le cose che sta
prevedendo non varino le loro relazioni nel corso del tempo; il che evidentemente è un errore,
perché presuppone di conoscere cose che non ha ancora percepito, non considerando tutte le
variabili che potranno agire su di esse.
La caratteristica delle previsioni è quindi quella di contenere inevitabilmente l’errore, poiché
presupponiamo di sapere ciò che in futuro accadrà, e non possiamo essere certi che tale cosa
prevista accadrà sicuramente. Riconosciamo di non poter affermare la verità “inconcussa”
riferendoci a qualcosa che non possiamo conoscere nel momento stesso in cui facciamo la
previsione. Siamo consci quindi di errare, ma, come dice Gómez Dávila, l’errore è la stigmate
del libero arbitrio dell'uomo. Non potremo mai considerare la nostra esistenza priva di errori,
perché essi ne sono una parte costitutiva necessaria nel processo di ricerca di una maggiore
verità, e la consapevolezza di ciò ci rende coscienti che l’errore non è da rifiutare, né è causa
di vergogna.
La vita consiste nelle sue previsioni, perché la vita è il senso che essa traccia, la scommessa
su ciò che chiama bene e male. Nel suo dover dare valore, per essere tale – vita, è consegnata
all'errore come alla sua responsabilità. Questa responsabilità, questo essere costretta a
rispondere, è la ricerca stessa, la ricerca che dunque la vita è, ciò in cui consiste la sua
essenza, la sua dignità, come, appunto, asserisce Socrate,
7
Conclusione
L'errore come apertura al sacro
Il sentimento di dipendenza dell'uomo è il fondamento
della religione.
L. Feuerbach, Essenza della religione, § 2, p. 39
La previsione come azione umana è necessaria dunque non solo rispetto ad un fine che ci
prefiggiamo, ma alla vita stessa in generale: la ricerca è l'acquisizione stessa di una verità che
porti al raggiungimento di una realizzazione personale, rimediando alla nostra imperfezione
cognitiva, alla nostra imperfezione costitutiva – affinché ci impedisca di vivere solo
nell'istante, limitandoci ad esso: perché la nostra esistenza è l’insieme di tutti questi istanti, il
loro intreccio.
Il nostro pensiero non può che essere nuovo in ogni singolo momento: se penso a un oggetto
per un certo periodo di tempo e mi sembra che esso non cambi, ciononostante, nel susseguirsi
degli istanti non sarà mai identico a se stesso, perché la sua relazione temporale varia in ogni
momento. L’oggetto in un momento A, pur apparendo lo stesso, è diverso dall’oggetto nel
momento seguente B, (con A diverso da B), e non è possibile che nelle sue relazioni siano
presenti sia A che B. Possiamo affermare che questo oggetto quindi diviene qualcosa di
diverso con lo stesso scorrere del tempo, ed è un concetto opposto all’essere inteso come
immutabile ed eternamente immobile.
«Noi scendiamo e non scendiamo nello stesso fiume, noi stessi siamo e non siamo» 7,
sosteneva infatti Eraclito. Gli eventi si susseguono e mutano in continuazione, tanto che ogni
attimo è diverso dal precedente e sarà diverso dal successivo. L’essere diviene in ogni istante,
ed è quindi diverso da se stesso. Come poter sostenere il contrario?
Ma Parmenide, al contrario, asserisce che l’essere debba essere definito «ingenerato»,
«imperituro», «eterno», «immobile» ed «intero». Esso non può essere generato perché
altrimenti proverrebbe da qualcosa che sarebbe il non essere, cioè il nulla; di conseguenza non
potrà neanche perire, perché diventerebbe qualcosa di diverso dalla sua essenza, dovrebbe
cioè scomparire nel nulla Deve essere necessariamente eterno, perché se fosse nel tempo,
implicherebbe che nel passato e nel futuro sarebbe stato “non essere”. Non potrà nemmeno
aver movimento, perché muterebbe le sue relazioni e quindi si troverebbe in una serie di stati
e di situazioni in cui prima non era, e ancora una volta sarebbe qualcosa di diverso dall’essere.
Deve essere infine intero, perché se fosse formato da unità, nel momento in cui andassimo a
definirne una, per distinguerla dalle altre dovremmo necessariamente dire che essa non è tutte
le altre unità, e chiaramente l’essere non può essere ciò che non è.
Insomma, la negazione di quegli attributi comporta il comparire e lo scomparire degli enti nel
nulla. Cioè comporta qualcosa di assurdo ed impensabile.
Secondo Parmenide quindi, il divenire inteso come lo scomparire di un oggetto A e il
comparire di un oggetto solo apparentemente lo stesso nel momento successivo (B e non più
A) risulta qualcosa di impensabile.
7 H. DIELS - W. KRANZ, I Presocratici, tr. it. a cura di Giovanni Reale, Bompiani, Milano 2006, p. 353.
8
Il pensiero, già con la filosofia antica, giunge a questa aporia insormontata e probabilmente
insormontabile: l'evidenza del divenire e la sua impensabilità. L'impensabilità dello svanire
degli enti nel niente e il loro dileguare implicato da divenire.
La mente umana si ritrova davanti a qualcosa che, a causa della sua natura imperfetta, non
potrà mai conoscere. Ma che così la proietta oltre se stessa, in qualcosa che sfugge alle sue
possibilità, in qualcosa che la trascende. L'errore, a lei costitutivo, non solo a causa della
totalità e del suo divenire, ma dell'impossibilità di pensare il divenire stesso, di pensare cioè il
comparire e lo scomparire degli enti, le mostra la sua insufficienza, la sua dipendenza da
qualcosa che è oltre a sé, al di là di se stessa. Il suo limite è così testimonianza della
trascendenza da cui attinge e di cui non può sapere, ma che può intravedere. L'errore, il suo
limite, è al contempo ciò che la apre all'imperscrutabile, al sacro.
La ricerca, in cui la vita consiste, è la sua stessa dignità, e la sua impossibilità ultima è il ponte
terribile e meraviglioso verso il sacro.
9
Riferimenti bibliografici dei testi citati
─ Aristotele, Protreptico, tr. it. di E. Berti, UTET, Torino 2000.
─ R. Cartesio, Discorso sul metodo, tr. it. di E. Carrara, La Nuova Italia, Firenze 1932.
─ R. Cartesio, Meditazioni metafisiche, tr. it. a cura di U. Ulivi, Bompiani, Milano 2001.
─ Eraclito, Sulla natura, in H. Diels - W. Kranz, I Presocratici, tr. it. a cura di G. Reale,
Bompiani, Milano 2006.
─ L. Feuerbach, Essenza della religione, tr. it. a cura di C. Ascheri e C. Cesa, Laterza, RomaBari 2006.
─ N. Gómez Dávila, Textos, Villegas Editore, Bogotà 2002.
─ G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, tr. it. a cura di V. Cicero, Bompiani, Milano
2006.
─ I. Kant, Critica della ragion pura, tr. it. di G Colli, Adelphi, Milano 1976.
─ A. Lombardi, Logica della presenza, Limina Mentis, Villasanta (MB) 2013.
─ Parmenide, Sulla natura, in I Presocratici, tr. it. di G. Giannantoni, vol. I, Laterza, RomaBari 1981.
─ Platone, Apologia di Socrate, tr. it. di M.M. Sassi, Bompiani, Milano 1993.
─ Platone, Sofista, tr. it. di M. Vitali, Bompiani, Milano 1992.
─ A. de Musset, Le confessioni di un figlio del secolo, tr. it. di B. Russo, Dalai Editore,
Milano 2011.
─ F. Nietzsche, Frammenti postumi 1888-1889, tr. it. S. Giametta, Adelphi, Milano 1974.
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