Forum sulla Non Autosufficienza Bologna 9-10 novembre 2011 Centro Congressi Savoia Hotel Umanizzare la morte per prevenire l’eutanasia Sandro Spinsanti Esperto Bioetica - Consulente I GRANDI TABÙ NELL’ACCOMPAGNAMENTO DELLE PERSONE ANZIANE Mercoledì 9 novembre 2011 Umanizzare la morte per prevenire l’eutanasia Sandro Spinsanti La preoccupazione dei medici di far sì che il paziente non muoia nel dolore è relativamente recente. Essa introduce un cambiamento notevole nell’etica medica tradizionale. Per rendersene conto, si può confrontare la sensibilità attuale con una situazione ideale, rispecchiata letterariamente in un episodio del romanzo I Buddenbrook, di Thomas Mann. In una scena culminante l’anziana madre del console Thomas Buddenbrook giace sul letto di morte. L’agonia si protrae dolorosamente. La morente in grandi difficoltà respiratorie, chiede ai due medici che l’assistono un calmante per dormire. Supplica: “... Qualcosa per dormire... Dottori per pietà! Qualcosa per dormire!”. Ma i medici sanno che l’azione di un sedativo abbrevierebbe la vita. Per cui respingono la richiesta, rifacendosi a dei vaghi motivi etici che non sanno articolare, ma che nondimeno sentono come vincolanti. “Ma i medici - annota lo scrittore - conoscevano il loro dovere. Bisognava in ogni caso conservare ai parenti il più a lungo possibile quella vita, mentre un calmante avrebbe subito provocato la resa dello spirito senza più opposizione. I medici non sono al mondo per facilitare la morte, ma per conservare la vita a qualunque prezzo. In favore di ciò spingono anche certi principi religiosi e morali, dei quali avevano sentito parlare all’università, anche se in quel momento non se li ricordavano bene...”. Le considerazioni dei medici sintetizzano efficacemente il punto di vista della tradizionale etica medica. La quale, dopo un secolo dalla scena ipotizzata dal romanzo, non potrebbe più sottoscrivere quella posizione. Il prolungamento non può più essere l’unico obiettivo dell’azione medica. L’etica del medico deve saper accogliere la supplica del malato, che domanda il lenimento delle sofferenze. L’elaborazione di un discorso etico che sappia integrare la gestione etica dei problemi creati dal trattamento efficace del dolore - mediante l’introduzione di categorie come azione diretta e indiretta, mezzi ordinari e straordinari, proporzionati o sproporzionati - è una grande novità degli ultimi decenni. Ma non è ancora la novità. Finché l’etica medica girerà attorno al medico, alla sua scienza e alla sua coscienza, continueremo a muoverci in uno scenario tolemaico. L’etica medica ha bisogno di una rivoluzione copernicana. Questa avviene mediante l’introduzione del paziente come soggetto, e non solo come oggetto di trattamento (anche se è un trattamento umanitario, consapevole anche delle implicazioni etiche). Il paziente come soggetto ha valori unici, articola scelte e preferenze, si autodetermina in base alla sua concezione della qualità della vita. È un universo molto più complicato quello che ci si apre di fronte dopo aver abbandonato la fissità tolemaica. Non si può neppure dire che ora sia il medico a gravitare attorno al paziente, diventando semplice esecutore dei suoi desideri. L’uno e l’altro, conservando la specifica identità - come la considerazione paritetica e non gerarchizzata dei principi di beneficità e di autonomia ci permette di fare - sono chiamati a entrare in un processo decisionale dove il rispetto delle procedure diventa essenziale. La novità per l’etica medica è che il rispetto di questa dimensione soggettiva non è indifferente per qualificare eticamente l’atto medico. La sistematica omissione della volontà del paziente e delle procedure messe in atto per renderne possibile l’esplicitazione - comunicazione della diagnosi; sollecitazione del consenso agli interventi diagnostici e terapeutici; rispetto di “policies”, un’etica che non ha ancora osato fare il passo che la porta nell’epoca moderna, dove l’autonomia qualifica la persona umana. Il nuovo modello, in cui le scelte nella fase terminale della vita nascono da un rapporto qualitativamente diverso tra medico e paziente nel contesto clinico, stenta a farsi strada nella cultura contemporanea. Possiamo assumere come indicatore del malessere la crescita della domanda di eutanasia. Perché tante persone vogliono appropriarsi della morte e propongono iniziative legislative in tal senso? Ha forse l’istinto di morte preso il sopravvento su 2 quello della vita? Il diffondersi di un movimento a favore dell’eutanasia è un fenomeno da interpretare. Se letto in profondità , ci può portare a capire un cambiamento culturale che sta avvenendo grazie o a causa della medicina, e ci induce a rispondere a tale cambiamento in maniera adeguata. La morte ci preoccupa, anche se buona parte della nostra attività conscia è organizzata in modo da tenerne lontano il pensiero. In questo senso la morte, oltre ad essere una modalità essenziale dell’essere umano, è anche un fantasma. Uno dei fantasmi che bisogna tener presente per capire il fenomeno della domanda così insistente di poter decidere della propria morte, è quello di cader in mano, alla fine della propria vita, a un certo tipo di medici. Vorrei togliere da questa espressione ogni senso di polemica malevola. Abbiamo certo timore di essere curati da medici incompetenti (che pur esistono...); ma non è minore il timore che suscita una competenza non abbinata a umanità. La paura di molti nostri contemporanei è che la nostra morte sia gestita da un medico e, paradossalmente, da un medico tanto bravo e coscienzioso, che farà di tutto per impedire la morte. Ora, questo “tutto” è diventato “troppo”. Le possibilità della tecnologia applicate alla medicina hanno esteso a un limite impensabile in passato la possibilità di opporsi alla morte, e quindi di protrarre nel tempo la condizione di morente. In rapporto a questo stato sorge il fantasma della morte negata. A questo punto l’opera del medico subisce un rovesciamento di senso: da alleato del malato nella lotta contro la morte, sembra mutarsi in insidioso nemico che priva il morente della sua morte. La rivendicazione di un diritto a morire, paradossale quanto si voglia - perché se esiste un diritto è quello di vivere, non quello di morire! - mostra il suo significato se la si colloca sullo sfondo di una eccessiva medicalizzazione del morire. Essa comporta la rottura di un patto implicito esistente tra il medico e il malato. Tale patto esiste tradizionalmente in tutte le formulazioni deontologiche e di etica medica, e a buon diritto lo si fa risalire al giuramento di Ippocrate: il medico si impegna a non dare la morte; non è opera sua abbreviare la vita o affrettare la morte. La semplice 3 riproposta di tale impegno, nelle mutate condizioni medico-sanitarie e culturali, può portare a un profondo travisamento di questo tradizionale dovere dell’etica professionale medica. È proprio il medico “ippocratico” quello che rischia di essere vissuto come un avversario, un nemico. Quando il medico dice: “Io non farò niente per abbreviare la vita”, la sua promessa rischia di essere percepita come una minaccia: “Io farò di tutto per non permetterti di morire”. L’impegno ippocratico ha un senso psicodinamico positivo molto valido. Sapere che il medico non farà niente per abbreviare la vita dà a me, in quanto essere umano che oggi o domani può cadere in situazione terminale, una profonda sicurezza. Mi libera da una fantasia paranoica possibile e diffusa in quello stato, quando il controllo della situazione mi sfugge di mano, lo stato terminale si prolunga e io sento che divento un peso per me e per gli altri. Il sospetto che qualcuno possa volermi togliere di torno, che quell’iniezione che ricevo e quell’intervento che non capisco non sia per procurarmi un beneficio, ma per accelerare la mia morte, fa scattare con una certa frequenza un atteggiamento paranoico e persecutorio. Per questo motivo l’impegno formale del medico, la parola di tranquilizzazione rivolta al paziente: “Io non ti darò mai la morte, non farò mai niente per abbreviare la tua vita, puoi fidarti”, assumono un importante significato positivo. Ma oggi il paziente non si affida più perché ha paura che quello che il medico farà non corrisponda al suo vero profondo interesse. Teme cioè che il medico metta tutti i suoi sforzi e impieghi tutte le possibilità che l’arte medica gli mette oggi a disposizione soltanto sul versante del prolungamento della vita, ma faccia mancare proprio quello che il morente in fase terminale richiede. Si tratta essenzialmente di due cose: non soffrire e non essere lasciato solo. Per questo non è sufficiente oggi ripetere, appoggiandosi sulla deontologia professionale, sull’etica o sulla morale religiosa, un “no” all’eutanasia. Bisogna dare positivamente una risposta ai bisogni dei malati terminali, reimparando l’arte dell’accompagnamento dei morenti. 4