governo che per operazioni di suo interesse tratta fino allo stremo delle forze e che sulla scuola lancia dictat per decreto e li approva a botte di fiducia parlamentare dichiarando inutile il confronto con le parti sociali. Anno 1 Numero 37 - 03.11.2008 In nome del popolo italiano Editoriale di Gian Maria Tosatti «Pay attention! Movimento Irrappresentabile». E’ questa la frase che pare aver suggellato la guerra d’indipendenza delle nuove generazioni contro le vecchie. E non è una questione anagrafica, quanto di pensiero. Accanto agli studenti questa volta ci sono i loro padri. Accanto ai loro avversari, i politici, ci sono i movimenti politici giovanili. La guerra non è dunque fra giovani e vecchi, ma fra chi pensa nuovo e chi pensa a se stesso, ossia a mantenere lo status quo. E per una volta Famiglia Cristiana parla davvero a nome di tutti sconfessando questa finanziaria e i relativi decreti (leggi Gelmini e affini) affermando con un candore da chierichetti che il re è nudo e che non è credibile un governo che taglia i fondi per la ricerca, ma trova miliardi per salvare le banche, per mantenere Alitalia e lasciare intatti i privilegi dei parlamentari. Non è credibile un Gli studenti allora vanno in piazza. Ognuno a modo suo. In maniera talvolta confusa, ma sono i primi passi. Non è ancora tutto chiaro, non è ancora abbastanza chiaro che non bisogna rispondere alla violenza, ma qualcosa lo è in modo nettissimo: niente politici, niente strumentalizzazioni, questo movimento nasce per difendere i diritti di tutti, degli irrappresentati. Ed è appunto questo a costituire la spaccatura vera: la politica dei partiti, tutta, con buona pace anche di Veltroni che in questi giorni si sbraccia come può, non è più “deputata” a rappresentare gli interessi del paese. Di quel paese nuovo che vede l’Europa allontanarsi e che ha deciso di rompere l’immobilità e iniziare la marcia per raggiungerla. E’ una marcia di cortei, una marcia di pensieri e di parole. E’ una marcia “contro l’Italia”. Ed è così che dev’essere, giacché oggi un cambiamento vero in questa periferia dell’impero non può venire che dal basso. Dal popolo sovrano. Dalle molte individualità che confluiscono ed iniziano a lavorare per realizzare una Controriforma. Se tale intento vuole realizzarsi davvero, allora gli studenti dovranno iniziare a rilanciare, a pensare sempre più in alto, a parlare sempre di più, a dichiarare qual è il paese in cui vogliono vivere. Gli studenti di architettura progettino, gli studenti di legge propongano, quelli di lettere scrivano sui giornali e su internet. Creino una energia che vada ad unirsi a quella parte consapevole di italiani che da tempo sono mobilitati per costruire un’alternativa ad un futuro già scritto e reso ineluttabile da altri. E’ una nuova coscienza popolare l’occasione che si affaccia in questa crisi. Un’occasione che non dev’essere perduta. Un’occasione per cambiare gli italiani. Ma appunto per farlo è necessario evitare ogni strumentalizzazione, evitare di rientrare nei ranghi indecenti delle vecchie categorie, di un bipolarismo fasullo o peggio ancora di una pilotata rissa fascio-comunista. Perché ciò non avvenga la questione è: quanto siete disposti a marciare? Perché quelli che marciano assieme agli studenti (i potentati universitari, ma soprattutto i politici), non smetteranno di marciare, perché marciare è il loro mestiere. Quando gli studenti si fermeranno, perché saranno stanchi o perché penseranno ad altro, gli altri raccoglieranno i frutti della loro fatica abbandonati nelle piazze vuote. E’ andata sempre così. Senza ipocrisie, è palese che l’università prima della Gelimini fosse già in rovina, perché, quando gli studenti hanno fermato le loro marce degli anni passati, i politici e i baroni, una volta rimasti soli nella gestione ne hanno sempre fatto quello che volevano. Ma oggi la questione va ribaltata. E’ vero che marciare è il lavoro dei politici, ma i giovani hanno gambe forti. Possono e devono marciare più a lungo degli altri. Devono stancare tutti. Devono sfinirli e farli fermare. Allora saranno gli studenti a raccogliere i frutti e ad andare oltre, oltre l’università, oltre il paese, incontro all’Europa. Ma, per intanto, marciare. Ad oltranza, pretendendo dall’università che funzioni dal di fuori (cioè a livello legislativo), ma che funzioni anche dal di dentro (opponendosi ai concorsi truccati di questi giorni con la stessa decisione e con lo stesso diritto con cui ci si oppone alla Gelmini). Bisogna muoversi contro l’Italia non contro un governo che ne è solo il fantasma dell’anima. Non basta fermarsi, fermare tutto per opporsi. Bisogna fare, strafare, costruire cose che gli altri non possano distruggere. Bisogna muoversi contromano e trascinare con sé tutto il resto se vogliamo che il destino torni nelle nostre mani. strade di Dublino. Leo incontrava Giuliano Cordovado, il cameriere semi cieco dalle lenti spesse che serviva ai tavoli di una pizzeria di via Bergamo, dove andava a cena; o l’assessore Nicolini; e li portava con sé in scena. “A prescindere” dalla morte Una riflessione con propositi rivoluzionari su Leo de Berardinis, il suo teatro e le sue idee di Renato Nicolini 1. Leo è morto, dopo sette anni dall’anestesia fatale dell’11 giugno 2001 che l’aveva trasformato in un’assenza. Poco più di un anno dopo la morte di Perla. Il teatro di Leo e Perla è stato, innanzi tutto, un teatro di rivolta. Un appello costante alla rivolta, contro l’abitudine di prendere il mondo così come viene e come va. “La coscienza nasce dalla rivolta”, scriveva Albert Camus, un uomo che era (anche) uomo di teatro (scrittore, regista ed attore) e che gli somiglia - che forse è più simile (nonostante il Caligola) a Leo che a Carmelo. Quello che possiamo proporci – in questi tempi piuttosto bui – è di “essere piccole minoranze di rompicoglioni con un progetto in testa” (così ha recentemente parafrasato Goffredo Fofi). Nemmeno “minoranza”, Leo e Perla erano soltanto una coppia. Ma una coppia che non rinunciava, per il piccolo numero, alla ricerca della coscienza e della verità attraverso la rivolta: che per questo va a vivere a Marigliano, mette in scena King Lacreme Lear Napuletane, Sir e Lady Macbeth, Rusp Spears… La verità nasce dalla pluralità e dal conflitto delle opinioni; dunque, pur avendo una consistenza oggettiva, il “noi” non raggiungibile dall’individualismo, è una conquista soggettiva, che non si può trovare in coro. Questo ci porta all’essenza del teatro, al rapporto tra scena e spettatore. Recitare è – secondo Leo improvvisazione jazz, non si può ripetere senza variazioni, che dunque non può essere riprodotto dai media che in modo infedele. Leo viveva la sua vita con sicuro intuito situazionista, in un modo che ricorda le epifanie di James Joyce per le Ho fatto il nome di Joyce a proposito di Leo, perché Leo, uomo di teatro integrale era (forse proprio per questo) anche qualcosa di più, un grande intellettuale. Il solo paragone possibile, in Italia (e in Europa), è Carmelo Bene. Ma, a differenza di Carmelo, Leo era incapace di concedersi ai media da star, viveva la condizione teatrale in una volontaria condizione di purezza, riportava tutto al teatro, Joyce, Schönberg, Charlie Parker, Thelonius Monk. Il teatro come pensiero sensibile, indissolubile dal corpo, non esprimibile altro che con la fisicità della voce e del corpo. Partendo dal presente, dalle avanguardie del ‘900, Leo recuperava alla sintonia col presente l’intera tradizione teatrale: le maschere e i lazzi della commedia dell’arte (Il ritorno di Scaramouche); Eduardo (A da passà ‘a nuttata); Pirandello (I giganti della montagna, dove interpretava il ruolo della Contessa Ilse). Ero presente quando Eduardo negò, nel suo camerino, a Leo e Perla – nonostante Leo si fosse fatto precedere da uno splendido articolo su Eduardo pubblicato da “Rinascita” – i diritti della Filumena Marturano. Non credo che Eduardo potesse immaginare che avrebbe dovuto proprio a Leo, con la rappresentazione di A da passà ‘a nuttata, al Festival di Spoleto, la più bella messa in scena del suo teatro dopo la propria morte. Le polarità attraevano Leo, come se per lui non potesse esistere pensiero e vita senza conflitto. Lui e Perla hanno rappresentato una grande coppia teatrale per l’interscambiabilità dei ruoli; in scena Leo partiva dall’ironia, dallo sguardo esterno, Perla dalla passione e dallo sguardo interno: ma spesso per scambiarsi le parti. Sono stato testimone diretto, nei loro ultimi anni romani insieme, dal 1980 al 1983, del modo di lavorare di Leo: passando insieme a lui, a Perla, a Patrizia (Sacchi) innumerevoli notti a bere, a leggere le prime scene della Filumena (Leo mi affidava la parte di Alfredo, il maggiordomo), ad ascoltarlo recitare il sonetto Tanto gentile e tanto onesta pare dalla “Vita Nova” di Dante, a sentirlo parlare di Schönberg e della fonazione, del jazz e dell’improvvisazione, a leggere il monologo di Bruto (che nel Giulio Cesare precede il monologo di Marc’Antonio, e che secondo Leo mi si attagliava perfettamente, era una parte “scritta per me”, perché era “il monologo di un politico”, di qualcuno che si convince e tenta di convincere delle ragioni “oggettive” che porta senza poter riconoscere più la tendenziosità che le anima… Sono rimasto colpito dal modo in cui, in quest’ultimo periodo del Teatro di Leo e Perla a Roma, prima della loro separazione dell’83 e della sua partenza per Bologna, Leo costruisse il proprio spettacolo, a partire dal testo, fin nei minimi dettagli, e poi non esitasse a stracciarlo in scena per seguire un’ispirazione, o un umore del momento, fosse anche dettato da stanchezza o irritazione (come la celebre invettiva contro Rita Sala, nell’unico terzo tempo di Udunda Indina in cui non ero presente, che gli valse un’acida reprimenda del Messaggero). Ne derivava una totale libertà, quella che dovrebbe essere sempre propria dell’artista nei riguardi della sua creazione, se non vuole essere il primo a trasformarla in merce feticizzandola. Deve restare qualcosa di vivo. Il suo periodo di “regista stipendiato” di Nuova Scena, a Bologna prima della costituzione del Teatro di Leo, può però essere letto come un consapevole sottoporsi alla fatica della disciplina, come per rimettere piede a terra, depurandosi dagli istinti di autodistruzione. Non senza una sfumatura di autodenuncia – come quando per il primo spettacolo bolognese, The connection, si è presentato in scena avvolto in bende di gesso. Nella cultura di Leo “alto” e “basso” (ma in modo sostanziale, non con quella lieve sfumatura di snobismo che pur c’è nell’inventore di questa distinzione, Umberto Eco), si richiamavano, mescolavano ed appoggiavano continuamente. Totò – icona della cultura “bassa” e popolare - ha una forza così grande, che si può legittimamente fondere il suo spaesamento perenne con le incertezze di Amleto (Totò, Principe di Danimarca). Leo aveva già recitato il ruolo di Titina, la celebre scena della Filumena in A da passà ‘a nuttata. L’opposizione maschile – femminile (“Leo è Ofelia”, diceva la T-shirt fatta stampare per l’occasione) è al centro di Past Adam ed Eve’s – il suo ultimo spettacolo, quasi uno spettacolo da camera, solo in scena con Valentina Capone, dopo i quaranta attori di Come una rivista). Anche il contrasto tra l’attore solo in scena (Novecento e Mille, forse il suo spettacolo più bello, il ritorno alla gioia della sorpresa teatrale – dove Leo oltre a recitare curava tutto, dalla scenografia, alle luci, alla musica) e il grande spettacolo di massa fa parte della lezione di Leo. Penso allo spettacolo con cui concluse nell’83 il suo soggiorno romano, quasi un testamento profetico alla maniera di san Giovanni a Patmos. Una vera Apocalissi, una Strage dei colpevoli con più di cento attori in scena, imprevista conclusione del “Censimento teatrale” promosso dall’assessorato alla cultura ed affidato a Leo. Leo, da vero maestro, invitava i gruppi censiti a riconoscersi alla fine colpevoli, a non cercare alibi e scuse per una condizione di marginalità. La responsabilità è alla base di ogni vera autonomia, che deve saper sempre prendere in considerazione l’autosufficienza, saper fare a meno del superfluo. Anche nel barocco – così facile a Roma - può esserci quel superfluo che nasce dal tenero sentimentalismo dell’autocommiserazione. Leo mi ha portato in scena con sé, per la prima volta, nel 1980, per la messa in scena di Udunda Indina. Lo fece dopo aver rifiutato (come Carmelo) di recitare nell’occhio di Apollo della città del teatro costruita a via Sabotino e programmata da Patrizia Sacchi con i gruppi di avanguardia già attivi negli Anni Sessanta (Mario Ricci, Carlo Quartucci, Beno Mazzone, Pippo Di Marca, Memè Perlini, Giancarlo Nanni, un omaggio allo scomparso Claudio Privitera…) per Parco Centrale. Credo volesse essere lui a prendere l’iniziativa, a non lasciare ad un altro le redini del gioco. Ed infatti, Udunda Indina fu uno spettacolo, a suo modo, molto politico, che mi fece come guardare dentro di me dal di fuori, una sorta di assessore messo a nudo. II titolo era in un sanscrito inventato da Leo, come molte altre parole dello spettacolo, ragione per la quale veniva distribuito allo spettatore un piccolo dizionario. Nella scena iniziale, Leo entrava, tenendo in mano un cartone di latte Parmalat, lo guardava con schifo, diceva: “Par malat? Pare malato!”; e lo lasciava cadere in terra. Lo spettacolo era una versione sintetica dell’Otello. In cui, alla fine i quattro attori in scena (Leo, Perla, Patrizia Sacchi e Totò Pettine) giacevano tutti morti a terra. Morivano dopo aver invocato a lungo (quanto inutilmente), “Re-nato, Re-sole, l’as-censore per la cultura...” Solo dopo che erano morti, finalmente io, l’assessore Nicolini, entravo in scena, alzandomi dal posto in cui ero seduto sotto la tenda di Spazio Zero di Lisi Natoli (un altro protagonista di quegli anni che ci è venuto a mancare, e proprio per la difesa di Spazio Zero di Lisi Natoli ho incontrato la prima volta Leo, che era venuto a sostenerlo al Consiglio della Prima Circoscrizione…). Illuminavo la scena con una lampadina tascabile azionata con l’energia della mano, di provenienza sovietica, che allora si vendeva a Porta Portese, dicevo la mia battuta, che ancora ricordo: “Più luce! Più luce! Tanto è inutile, senza più nervi o-culari. Per quanto mi riguarda e m’interessa ora, addio vecchio Big Bang!”, voltavo le spalle al massacro ed uscivo di scena. Dopo ci fu il grande successo del Secondo Festival Internazionale dei Poeti di Simone Carella, Ulisse Benedetti e Franco Cordelli, a Piazza di Siena, che Leo e Perla conclusero con il XXXIII Canto del Paradiso (con musiche al sax composte e suonate dallo stesso Leo). Così decisi di incoronare Leo poeta in Campidoglio. Ma la sera dell’incoronazione non potei essere presente, perché l’allora Sindaco Vetere mi precettò per rappresentare il Comune alla prima del Teatro dell’Opera. Così arrivai a incoronazione finita, direttamente nella roulotte utilizzata da Leo come camerino. Avevo in mano una bottiglia di colonia omaggio dell’Opera per gli spettatori della prima e ne versai qualche goccia su un fazzoletto per detergergli il sudore. Ci fotografarono, e la foto uscì su “Rinascita”. Leo disse: “Sembriamo due ricchioni”, e ci venne l’idea di uno spettacolo da fare insieme, Shakespeare e Lord Southampton in ruoli invertiti. Data l’inversione dei ruoli, io interpretavo Shakespeare, Leo il mio protettore. Non senza qualche intento di ammaestramento e di illuminazione a mio uso e consumo, LeoSouthampton rimase sdraiato sul lettino con cui era entrato in scena per tutto lo spettacolo, senza dire né fare nulla: ecco cosa bisogna aspettarsi dal potere. La terza tappa della mia educazione attraverso il teatro, la nostra ultima volta insieme in scena, fu in un’”apparizione” di Leo al Beat ’72. Gli sono stato spalla in una rievocazione di Totò. Ero – profeticamente, non ero ancora stato eletto in Parlamento – l’onorevole Cosimo Trombetta del celebre sketch del wagon lit. Fu quella anche l’ultima volta di Leo e Perla insieme in scena, perché Perla era presente e dalla piccola platea del Beat salì in scena, per fare la parte di Isa Barzizza. Ma, come Leo in Lord Southampton, dove Perla per la prima volta non era in scena assieme a Leo, si sdraiò immobile sul tavolo al centro della scena. 2. Nei suoi ultimi anni di attività, anche come reazione allo sfratto dal teatro faticosamente conquistato, il San Leonardo, che gli aveva subito intimato l’appena eletto nuovo Sindaco di Bologna, Guazzaloca, Leo si era dedicato con grande impegno ad un nuovo progetto: la costituzione di un Teatro Nazionale della Ricerca, di cui – con molta generosità – mi avrebbe voluto presidente. Nei documenti che mi aveva inviato era centrale l’idea dello stretto rapporto tra cultura “popolare” e l’identità complessiva che il teatro (atto simbolico per eccellenza) è chiamato a rappresentare. Nato dal teatro universitario, Leo approdava per necessità, alla fine della sua lunga parabola, a qualcosa che richiamava Strehler e Grassi, la costruzione del “Piccolo” di Milano. Per questo la nuova istituzione che Leo lottava per costruire doveva essere un’istituzione “nazionale” e “stabile”. Ma, a differenza dell’idea (pur nobile) di Strehler e Grassi, non si sarebbe dovuta trincerare, isolandosi volontariamente, all’interno delle mura sempre autoreferenziali della cultura alta – o della giustificazione della “funzione teatro” per via della pedagogia e della formazione. Nella sua idea, Shakespeare (o Schönberg) e Totò erano inscindibili, la cultura è “una”, ma di questa unità fanno parte sia il comico che il tragico, sia il sublime che il grottesco, sia il presente che la tradizione. La formazione degli attori, dei tecnici e dei “politici” necessari a quest’idea di teatro doveva essere pronta a mettersi in gioco, misurandosi senza riserve con la “povertà” del presente. La capacità tecnica, vale a dire di esprimersi teatralmente (con più di una riserva dunque, per fare un esempio, verso l’armamentario tecnologico dell’ultimo periodo della Socìetas Raffaello Sanzio), verificava la validità del progetto, senza nessun alibi né compiacimento idealistico. “Chi non spiega è responsabile”, ma la spiegazione passava per la complessità anziché per la semplificazione, attraverso tutte le emozioni (anche la capacità di ridere al cinema, come nel film di Preston Sturges “I dimenticati”) che percorrono e compongono la società di massa. Vedo cosa è diventato il teatro italiano oggi, sempre più affare di rappresentanza politica e di “manager”, sempre più estraneo alle motivazioni profonde del teatro. Potrebbe essere il modo giusto di rendere omaggio a Leo, avere la forza di riproporre questa sua idea. In teatro: Leo de Berardinis e Perla Peragallo saranno saranno ricordati in una serata speciale lunedì 3 novembre al Teatro Valle di Roma Il comico oltre il teatro Arrivano dal mondo della ricerca gli araldi di una nuova cultura popolare di Graziano Graziani Lunedì scorso, 27 ottobre, il Teatro Ateneo dell’università La Sapienza di Roma ha ospitato un convegno organizzato da alcuni docenti – Roberto Ciancarelli, Ferruccio Marotti, Valentina Valentini – intitolato «Il Corpo comico». Un momento di incontro tra studenti e artisti dell’area indipendente, che cercava di tracciare una linea che attraverso il comico legasse il lavoro di artisti anche molto diversi tra loro, come Immobile Paziente e Andrea Cosentino, Malebolge e Tony Clifton, Daniele Timpano e Gaetano Ventriglia, Mirko Feliziani, Circo Bordeaux e Teatro Forsennato. Una dimensione, quella della comicità, per anni marginale nell’ambito della ricerca, che in questo convegno non a caso è stata indagata attraverso un “oggetto scenico” assai più familiare al panorama sperimentale: il corpo. Dietro questo accostamento, oltre a un’idea di comico di segno opposto a quello dei format televisivi alla Zelig, c’era anche l’ipotesi della Nonscuola Romana formulata da Nico Garrone (anche lui presente al convegno), riveduta e corretta alla luce di una sua possibile espansione. L’idea, cioè, di un tratto comune al lavoro di tutte queste realtà, riassumibile in quattro aggettivi: iconoclasti, comici, concettuali, poetici. Al di là degli esiti della discussione, sui quali tornerò in seguito, uno degli interventi ha aperto una prospettiva semplice quanto illuminante, che è allo stesso tempo più limitata (perché riguardava solo certi tipi di lavoro) e di maggior respiro dell’ambito descritto dal convegno. È l’intervento di Andrea Cosentino, che interpellato sul comico ha affermato: “viene naturale accostare il comico al popolare”. sullo scollamento dal pubblico) hanno preso a lavorare su elementi di comicità e ironia all’interno dei loro spettacoli? Forse. O forse – rovesciando il presupposto come fa Cosentino – quello che è accaduto è che alcuni artisti hanno mutato ambito di indagine, indirizzandosi verso una forma di “cultura popolare” tutta da inventare. Una cultura popolare, cioè, che non è riproposizione della tradizione, ma che piuttosto scaturisce dal lavoro stesso degli artisti, teso a intercettare le forme e le dinamiche che animano il nostro quotidiano, che lo attraversano nel bene e nel male. Nel tentativo di comprenderlo, laddove possibile, o semplicemente di condividerlo. E, quando non è possibile maneggiarlo oltre, di riderci anche su. Da questo punto di vista, il teatro è oggi uno dei luoghi in cui maggiormente si produce cultura popolare – se per cultura popolare intendiamo un processo con cui la società è in grado di raccontare (e di riflettere su) se stessa, così come anni fa potevano fare le commedie di Steno o Monicelli. Lo è, in questo senso, ben più di certa televisione, in grado ormai di utilizzare la sua indiscussa pervasività solo di brandizzare comportamenti e costumi sociali da tradurre in categorie merceologiche. È vero. La comicità è in qualche modo un viatico che riesce ad attraversare gusti e linguaggi, trascinando potentemente il lavoro teatrale in una sfera di intimità con lo spettatore. Semplicemente perché “si ride insieme”, e di conseguenza si è disposti all’ascolto, in modo più benevolo e aperto. È per questo che molte realtà anche di ricerca (ambito in cui spesso ci si è interrogati Basta pensare agli spettacoli dello stesso Cosentino, in grado di decostruire il linguaggio della televisione che fa da sottofondo all’esistenza di milioni di persone per riproporcelo, come materia frammentata che è risibile proprio in quanto familiare, attraverso il linguaggio più tipicamente teatrale: una voce, una luce, una drammaturgia. Un tentativo di demistificazione che, con La Festa del Paparacchio, si spinge oltre, inserendo all’interno di una finta festa di paese elementi che appartengono realmente al territorio dove la festa si svolge. Un meccanismo questo che, se da un lato smonta la “retorica folklorica” con cui ci sia approccia al popolare, dall’altro assume una valenza di carattere antropologico, che mette realmente in connessione chi guarda e chi è in scena. Un lavoro diverso, ma con presupposti simili, è quello che la compagnia pistoiese de Gli Omini ha sviluppato nelle sue ultime produzioni. CRisiKo!, spettacolo finalista a Scenario 2007, mette in scena la vita di tre “omini” che nascono, crescono, vanno a scuola, trovano lavoro, invecchiano e alla fine come tutti muoiono. Queste esistenze, che si dipanano nell’arco di una sera a teatro, buttano in faccia allo spettatore una carrellata di frasi fatte, luoghi comuni, recrudescenze razziste e sfottò, insomma tutto il campionario che riempie i vuoti del quotidiano in attesa che il tempo passi. Ma le parole che utilizzano i tre attori in scena sono il risultato di decine di interviste che la compagnia realizza sui territori dove porta le fasi iniziali dello spettacolo. Sono, cioè, le parole degli omini reali – ringraziati puntualmente a fine spettacolo – che diventano drammaturgia. Simile, ma con un’attenzione maggiore alla cultura massificata e televisiva, è il loro secondo lavoro, Gabbato lo santo!. Un pozzo di “cultura pop-olare” a cui attingono anche i veronesi Babilonia Teatri con il loro Made in Italy, spettacolo vincitore di Scenario. Un patchwork di quotidiano fatto di serate in pizzeria condite dagli insulti a sfondo razziale del proprietario, di bestemmie in veneto e di radiocronache che fanno leva sul sentimento nazionale spingendo l’acceleratore sul vocabolario neo-nazionalista (la finale dei mondiali, il funerale di Pavarotti inevitabilmente “comico” estrapolato dal suo contesto). Un assemblaggio che dà vita a un blob teatrale dal sapore dissacrante e caustico – giustamente definito “punk” – in grado di proiettare lo spettatore contemporaneamente al di qua e al di là del tubo catodico. dell’uomo, che dall’uomo parte per raccontare i mondi che egli crea o distrugge. Un approccio in questo senso intimamente “antropologico”, a differenza ad esempio di una ricerca legata all’immagine, e maggiormente connessa a una riflessione di tipo filosofico, ancora fortemente legata a un certo tipo di ideologica estetica. Che ciò avvenga attingendo direttamente al ricco patrimonio di umanità che è fuori dalla scena, come nei casi citati, o riflettendo a partire dalla propria esperienza personale (la morte di una persona amica in Tumore di Lucia Calamaro o l’infanzia carica di gravosi germi politico-sociale di Daniele Timpano non si proiettano forse, proprio grazie alla loro intimità, in una dimensione più collettiva e generale?), la peculiarità di questa scena sembra essere il tentativo – al di là di ogni tentazione psicologica o di astrazione – di riposizionare l’umano nel nucleo più intimo dell’evento scenico. Lo strabismo della macchina da presa L’incompatibilità fra autorale e commerciale è il vero esito di Cannes, Venezia e Roma di Federico Pontiggia A una prima lettura può sembrare che il filo che accomuna questi lavori sia una critica alla cultura popolare, più che una sua rifondazione – (nel convegno romano è stata avanzata l’ipotesi che tra i tratti comuni di questi lavori a sfondo comico/ironico ci sia un “rifiuto” della cultura massificata). Eppure alcuni lavori, come Ecce Robot! di Daniele Timpano, sono dichiaratene sostenitori dei sottoprodotti culturali che hanno accompagnato le esistenze di molti di questi artisti (in questo caso, i cartoni animati giapponesi). Allora, più che un rifiuto, quello che accomuna molti dei lavori citati è una nonadesione ai modelli culturali dominanti, e un tentativo di ribaltare la mistificazione che essi compiono. Un tentativo, cioè, di rifondare il linguaggio della cultura popolare, altrimenti intrappolato in modo irrimediabile tra il pop televisivo e la retorica folklorica (proprio le due priorità individuate da Maurizio Costanzo nella sua veste di consigliere ministeriale per il teatro). La differenza che passa tra la non-adesione e il rifiuto è simmetrico a quello che intercorre tra un atteggiamento ideologico e uno anti-ideologico. Ecco, se c’è una caratteristica che distingue molto teatro contemporaneo (anche quello non comico) è una certa capacità di smarcarsi da una visione ideologica, in cambio di un’osservazione "Esiste ancora uno spazio per un cinema diverso? Quali margini restano a chi si muove fuori dalle regole del mercato? Come conciliare l'esigenza del dialogo con gli spettatori senza arrendersi all'omologazione dei gusti e del linguaggio?". Questi gli interrogativi mossi dal delegato generale Fabio Ferzetti nel presentare la quinta edizione delle Giornate degli Autori alla 65ma Mostra di Venezia. Interrogativi, quelli di Ferzetti, che portano in superficie una dicotomia, quella tra cinema d’autore e cinema popolare, che solo nelle età dell’oro della settima arte - variamente declinate per Paesi, correnti, periodi, scuole - ha trovato una felice sintesi: cinema popolare d’autore. Per cercarne la progenie nell’odierna produzione, cartina tornasole sono proprio le Giornate e il loro vincitore: Machan (premio Europa Cinema Labels), girato in Sri Lanka con attori cingalesi e coprodotto da Italia e Germania, tragicomica vicenda di un'improvvisata squadra di pallamano decisa a lasciare il proprio paese, diretto dall’esordiente italo-inglese Uberto Pasolini, già produttore di Full Monty. Storia vera di Manoj e Stanley, due giovani cingalesi col sogno d’emigrare in Germania, Machan cerca nella cornice della commedia il ritratto sociale, con riuscite gag e insieme evidenti crepe drammaturgiche, che si alternano fino all’epilogo sbiadito. Ovvie le affinità elettive con Full Monty, ma su uno spettro più ampio, Machan non sa tradurre al cinema lo spunto cronachistico, accontentandosi di riuscire nel breve periodo – sparute sequenze e qualche battuta – anziché perseguire, anche faticosamente, un’incisività sociale, e sociologica, d’insieme. "L'immigrazione è un problema molto concreto nell'Europa di oggi e questo è un film divertente, molto ben scritto e diretto che riesce a parlarne con umorismo e senza scivolare in facili sentimentalismi. Riteniamo questi aspetti in grado di attrarre e divertire un vasto pubblico in tutta Europa, contribuendo ad alimentare la discussione su un argomento così importante", recita la motivazione del riconoscimento Europa Cinemas Label, ed è palese quanto strida con le questioni, e le speranze, di Ferzetti: umorismo e immigrazione in agenda, anziché quella “risoluzione” audiovisiva del problema che costituisce forse la quintessenza stessa della sintesi (im)possibile tra pop(olarità) e autorialità. classifica. Sarebbero andati al cinema questi 1.708.388 spettatori se Gomorra non avesse avuto l’appeal cartaceo di Saviano, e se per alcuni – se non molti – la visione in sala fosse diventata un must civile, data la materia anti-camorra scottante? Con i se non si fa la storia, e nemmeno il box office, ma qualche dubbio rimane, anche relativo: i 10 milioni di incasso dell’adattamento sono comunque meno, decisamente meno, della metà di quanto realizzato da qualsivoglia cinepanettone Filmauro negli ultimi anni – in questo 2008 ci aspetta Natale a Rio. E’ dura non omologarsi ai gusti e al linguaggio incontrando il pubblico: Machan non ce la fa, e lascia qualche rimpianto, anzi uno solo: forse è popolare, ma non è d’autore, e viceversa. L’elemento distintivo è la (mancanza di) compresenza nel caso di Machan, e due dubbi – popolare ma non d’autore, d’autore ma non popolare – non fanno una certezza. Dalle Giornate veneziane a quelle gloriose della Cannes tricolore, con Gomorra di Matteo Garrone e Il Divo di Paolo Sorrentino acclamati “secondo” e “terzo” dietro la Palma d’oro La classe di Cantet. Citati dai più quale esiti, inarrivabili nel panorama nazionale, di felice congiunzione di autorialità e popolarità, forse questi clamori vanno ridimensionati, ovvero precisati. Gomorra è il film d'essai più visto nel 2008, con 1.708.388 spettatori e 10 milioni di euro circa di incasso, mentre Il Divo è nono, con meno di 4 milioni al botteghino. Cifre lusinghiere, ma – per gettare uno sguardo alla nostra età dell’oro, il Neorealismo – lontane anni luce dal peso popautoriale di Ladri di biciclette di De Sica, ancora oggi campione incontrastato di questa speciale La strada verso l’unione di amorosi sensi tra popolarità e autorialità è ancora lunga, sia nel futuro che retrospettivamente verso gli antenati aurei Ladri di biciclette e Paisà. Film, che, come disse il sottosegretario Andreotti, erano colpevoli di “non lavare i panni sporchi in casa”, dato l’export di successo: pure Il Divo potenzialmente lo è, ma la modestia, tutto sommato, della reazione del senatore a vita al biopic di Sorrentino non dichiara in fondo che ci troviamo di fronte a un altro ordine di grandezza, per Andreotti infinitamente meno pericoloso? Per concludere, l’appena conclusosi Festival di Roma, con la vittoria – a furor di popolo – di Resolution 819 di Giacomo Battiato, focusdenuncia su Srebrenica e le altre infamie della guerra in Bosnia. Autorialità traballante, per le palesi ascendenze televisive, ma benedizione di pubblico, con un esiziale problema: la mancanza di una distribuzione. Forte del riconoscimento, ora presumibilmente la troverà, ma permane un’infida questione: il matrimonio tra popolare e autore forse non s’ha da fare. E l’impersonale è d’obbligo… Mutatis mutandis, il discorso non fa una grinza nemmeno al biopic d’autore di Giulio Andreotti, il cui esito commerciale, pur importante, paga al “cugino” Gomorra il mancato traino librario, stigmatizzando vieppiù per riflesso il risultato spurio della trasposizione di Garrone. Non ci resta che piangere? No, non esageriamo, ma l’entusiasmo sortito da questa splendida coppia va (ri)considerato: se un giorno il nostro cinema grida miseria, l’altro non può cantare vittoria per KO. Una nuova cultura popolare dell’abitare Presentato il catalogo de “L’Italia cerca casa – Housing Italy”, padiglione italiano alla biennale di Gian Maria Tosatti C’è un dialogo sottile che unisce l’IX Mostra Internazionale d’Architettura alla Biennale di Venezia curata da Aaron Betsky e il Padiglione Italiano di Francesco Garofalo intitolato L’Italia cerca casa – Housing Italy. Quel dialogo, lo ricorda Francesco Prosperetti, direttore generale della Parc, è costituito dalla necessità universale di “sentirsi a casa”. E’ da questo collegamento che si instaura un interessante rapporto di reciprocità fra gli interrogativi lanciati dai due curatori e che lo stesso Prosperetti rilancia nella introduzione alla ricerca italiana, confluita in una pubblicazione edita da Electa (in uscita in questi giorni), domandandosi se ormai il mondo dell’architettura, che sembra riconoscersi solo nelle opere di grande visibilità, non esaurisca in esse la sua attuale identità dimenticando il proprio ruolo nell’assetto urbano e in quello abitativo. E’ ovviamente un paradosso dialettico questo, lo dimostrano millenni di storia in cui torri o grandi monumenti, costruiti come lustro cittadino, convivevano con un ragionato ordine urbanistico mai privo di profonde implicazioni antropologiche. Un modello di equilibrio nella pianificazione dell’habitat che tuttavia in Italia sembra essere entrato in crisi. Nelle pagine che riassumono la ricerca guidata dalla co-curatrice Maristella Casciato, focalizzata sullo sviluppo del socialhousing italiano tra il 1930 e il 1980, tale deriva è assai ben fotografata e pare disegnarsi in una curva costantemente crescente su un ipotetico grafico. A mancare, nell’attento resoconto, sono però le cause di questa progressiva impennata, ma esse, essendo arcinote, emergono ugualmente restando una cupa latenza a tutta la lettura, che attraversa l’ottimismo costruttivo delle città giardino fino al crollo delle utopie dei quartieri degli anni ’70. Su questo piano del passato (anche se assai recente) si inserisce il focus sul presente realizzato da Giovanni Caudo assieme a Maki Gherzi e al gruppo Kalimera fotografando in tempo reale un fenomeno che proprio mentre veniva fissato sulla carta dai curatori si preparava ad esplodere assieme alla crisi americana. Crisi che in Italia non poteva non ripercuotersi se, come si legge nel libro, il debito totale delle famiglie italiane, ammontante a 300 miliardi di euro, è impegnato per l’83% da mutui (250 miliardi). Una bolla economica che non poteva non portare alla ribalta un concetto, come quello del social-housing, divenuto sempre più pressante in un paese (l’unico in Europa) che, di fatto, ha lasciato al mercato dei privati l’unica voce in capitolo. Il futuro dunque avrà il compito di risolvere quella che oggi è una emergenza trasversale penetrata nelle diversissime pieghe di una società in trasformazione, dai cittadini esclusi dalle città a quelli che ne abitano abusivamente le rovine. La questione dunque si fa complessa e finisce per integrare aspetti urbanistici con questioni legate ai flussi migratori e alle conseguenze di molteplici variabili internazionali, prima fra tutte quella ambientale. Garofalo in una parola cerca dunque di riaprire il tema di “casa popolare” per ribaltarlo e renderlo maggiormente rispondente ad una situazione che lamenta uno scollamento almeno ventennale con l’ultimo baluardo di idea di pianificazione pubblica a riguardo. E’ dunque il concetto stesso di casa popolare ad essere tanto distante nel tempo da non trovare più immediati riferimenti nell’esistente. Per questo motivo riaffrontarlo significa rifondarlo. E’ lo stesso curatore che spiega: «L’italia cerca casa mette alla prova la cultura architettonica italiana nella sfida posta dalla domanda di abitazioni di qualità e a costi accessibili. La fine dell’edilizia popolare, la crisi del mercato dei mutui, le situazioni di disagio urbano e le domande di nuovi utenti hanno spinto in primo piano la questione nel dibattito pubblico. Oggi che tutti nelle istituzioni si impegnano a investire sugli alloggi, occorre chiedersi con quali programmi e con quali progetti è possibile rispondere. Dal revival della casa per tutti, il padiglione italiano intende passare alla proposta della casa per ciascuno». In questa prospettiva dodici studi di architettura sono stati chiamati non a concepire un nuovo modello di casa popolare, ma ad illustrare una nuova cultura popolare dell’abitare attraverso progetti e suggestioni per un futuro che al di là delle alpi è già passato prossimo. E’ questo il corpo centrale della pubblicazione che discende direttamente dalla mostra. A costituirlo sono i lavori di Andrea Branzi (la cui proposta è diretta emanazione del manifesto pubblicato sul numero scorso di questa rivista), baukuh, Studio Albori, Cliostraat, Mario Cucinella, Luca Emanueli, I a n + , M a r c o N a v a r r a _ N O WA , I t a l o Ro t a , Salottobuono, Beniamino Servino, Stalker / Osservatorio nomade. Tutti autori di progetti più o meno concreti che mettono al centro del ragionamento una idea di città basata sulla condivisione. Questa volta però non è la grande costruzione o il quartiere a divenire elemento di convivenze, ma il tessuto urbano nella sua integrale complessità. Ne sono un esempio estremamente interessante le 50.000 case per Milano del giovane studio baukuh concepite per spazi interstiziali all’interno e non all’esterno del territorio comunale, fino ad arrivare quasi alle spalle del Duomo, edifici – come affermano gli architetti - «più fedeli alle città che alle periferie, Oggetti modesti, senza velleità di rifondazione, privi della gloriosa follia dei loro antenati dai nomi favolosi (il Biscione, il Corviale, il Gallaratese), edifici che non pretendono di insegnare niente, case che non consolano, appartamenti che non illustrano rivoluzioni a venire. Edifici che non pretendono di mutare la città, si pongono al suo fianco, case estremamente bisognose delle case che le circondano». E allo stesso concetto di integrazione delle problematiche in un modello di modesta praticabilità si ispira il ragionamento di Mario Cucinella Architects intitolato Housing Evolution e la casa da 100K€. Evoluzione degli stili abitativi, un progetto che ha come obiettivo la realizzazione di un sistema di case di 100 metri quadrati e zero emissioni di CO2, in classe energetica A al costo di 100 mila euro cercando di proporre un modello di superamento della filiera speculativa costruttore-mediatore-bancaacquirente. Ma ai progetti centrati sul costruire si aggiungono anche quelli basati sul concetto di recupero, alla cui base sta, comunque la volontà di riconquistare i centri delle città evitando lo sbriciolamento delle periferie infinite. Parte da questo concetto l’Ecomostro addomesticato dello Studio Albori, che adotta la struttura incompiuta dello Scalo di San Cristoforo a Milano per trasformarlo in uno scheletro di supporto per moduli abitativi costruiti con scarti edilizi, ma funzionali, destinabili in parte all’affitto a canone sociale e in parte alla vendita. E sulle trasformazioni di luoghi altri, a imitazione di come effettivamente essi sono stati già in questi anni modificati e resi abitabili da flussi di migranti o di inquilini non identificabili, hanno lavorato Marco Navarra e Salottobuono. Tutti progetti che stanno tra la concretissima casa-bricolage (Savorengo Ker / la casa di tutti) pensata da Stalker /Osservatorio nomade per i Rom del Casilino 900 (un modulo abitativo in legno di 70 mq che costa quanto un container di 32) e la Casa madre di Andrea Branzi, utopia abitativa globale che tende ad abolire ogni confine, di spazio e di genere. In libreria: Francesco Garofalo (a cura di) L’Italia cerca casa – Housing Italy, Electa 2008, pp. 200, € 35. La ricotta di Otello Una icona sintetica dell’essere nel presente di Ascanio Celestini Il più grande attore del ventunesimo secolo si chiama Gaetano Ventriglia. E' partito da Foggia e piano piano è arrivato fino a Livorno passando per Deliceto e Ariano Irpino, per la Ciociaria e persino per Roma. Ma si sa che l'attore viene sempre da lontano. Lo diceva Eduardo che era il più grande attore del secolo precedente. Tutto quello che è passato per il teatro negli ultimi cinquecento anni è morto. E' morta la commedia dell'arte (e chissà se c'è stata veramente) e si è consumata la stagione dei grandi attori. La regia è diventata una catena di montaggio per fare spettacoli in serie con attori infagottati di costumi, tesi come armature, ingrugnati e strilloni. Il gentile pubblico è deportato in luccicanti teatri, si spengono le luci e anche le speranze di assistere a uno spettacolo di esseri umani vivi. Persino l'avanguardia è soffocata negli stravizi, coccolata da critici addormentati in penultima fila, amleticamente indecisi se amare gli attori o amare se stessi hanno finito per fare sesso coi primi e innamorarsi dei secondi. L'avanguardia impoverita da artisti incapaci di sbucciare una mela, divenuti sordi per non essere sordidi. E il teatro civile? Gli arrabbiati narratori di tragedie? I cantori del popolo che scavano con la pala teatrale nell'orto della memoria e resuscitano nonni morti che hanno perso la guerra? Sono abbrutiti dalle tournée in ristoranti dove il cameriere ti prepara un panino con mortadella all'adrenocromo perché la cucina è chiusa. I vendicatori dei vinti ripartono all'alba da Infondoalmondo per arrivare in tempo a Inculoallaluna. Gli insegnanti col doppio mento nei laboratori teatrali dei sottoscala di palazzine accanto all'autolavaggio, i professori del doppio senso nei dipartimenti degli atenei con distribuzione a gettone di lauree o i registi in doppio petto nelle scuole a cinque stelle ti insegnano che all'estero il verbo recitare o interpretare quasi non esiste. Ti raccontano che si usa il verbo “giocare”. Persino i tedeschi che hanno parole lunghe e composte per esprimere la complessità della loro visione del mondo (che infatti si dice Weltanschauung), persino loro oltre a vortragen e darstellen dicono spielen. Il più grande attore del ventunesimo secolo no. finge di stare in quell'angolo del palco col piatto in mano. Ci sta per davvero. Per fare il teatro basta fare le cose. Farle e basta. Questo articolo è apparso anche sul numero del 14 ottobre 2008 dei Viaggi di Repubblica la differenza settimanale di cultura on-line su www.differenza.org Non gioca e non recita. Sta in scena con un po' di ricotta e se la mangia. Solo i bambini possono recitare e giocare. Prendono un bicchiere di carta, lo riempiono di terra e vanno alla fontanella per metterci un poco d'acqua. Mescolano con un pezzo di legno, si mettono a gambe incrociate sul prato, dicono “buon appetito” e giocano, e recitano. Sul palco del suo Otello alzati e cammina Gaetano Ventriglia si mangia la ricotta. E non può essere un oggetto di scena che ti porti appresso per due anni di repliche come il teschio e la calzamaglia che gli attori tromboni hanno sempre nella ventiquattrore. Deve essere fresca perché mangiare e fare teatro non è uno scherzo. Perché Gaetano non interpreta un uomo che mangia, non direttore responsabile Gian Maria Tosatti in redazione Graziano Graziani, Attilio Scarpellini, Mariateresa Surianello. La rivista è finanziata nell'ambito del progetto Scenari Indipendenti, promosso dalla Provincia di Roma in collaborazione con il Ministero per i Beni e le Attività Culturali e la Regione Lazio.