Giurisprudenza Lavoro a tempo determinato Contratto a termine L’insostenibile leggerezza della conversione del contratto a termine nel lavoro pubblico I CASSAZIONE CIVILE, sez. lav., sent. 22 aprile 2010, n. 9555 - Pres. Vidiri - Est. Stile Lavoro nelle pubbliche amministrazioni - Assunzioni dei portieri dell’Inail - Natura privatistica con sottrazione alla disciplina generale - Sussistenza - Violazione dell’art. 97 Cost. - Insussistenza [D.Lgs. n. 165/2001, art. 36; L. n. 70/1975; D.P.R. n. 411/1976; D.Lgs. n. 29/1993, art. 36, comma 1, lettera b)] Il rapporto tra l’Inail e i suoi portieri, pur essendo di pubblico impiego, è disciplinato, nel suo contenuto, da un contratto collettivo di natura privatistica che lo sottrae all’operatività della disciplina generale, che esclude, in caso di violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori, da parte delle pubbliche amministrazioni, la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato. La natura pubblicistica del datore di lavoro non rappresenta circostanza sufficiente a impedire la conversione di contratti a tempo determinato con termini nulli in contratti a tempo indeterminato quando la procedura di reclutamento per l’assunzione a tempo indeterminato non preveda un pubblico concorso e, quindi, non sia in violazione dell’art. 97, comma 3, della Costituzione, nell’interpretazione enunciata dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 89/2003. @ Il testo integrale della sentenza è disponibile su: www.ipsoa.it\illavoronellagiurisprudenza ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI Conforme Non constano precedenti specifici della Corte di Cassazione. Difforme Corte Cost. nn. 89/2003, 205/2006, 215/2009 e 295/2009; Trib. Rossano, sent. 4 giugno 2007; Trib. Foggia, sent. 6 novembre 2006; Trib. Genova, sent. 14 maggio 2007; App. Firenze, sent. 27 maggio 2008; Trib. Foggia, sent. 17 ottobre 2008; App. Bari, sent. 23 ottobre 2008. II TRIBUNALE DI SIENA, sez. lav., 27 settembre 2010 - Est. Cammarosano Lavoro nelle pubbliche amministrazioni - Contratti a termine - Conversione in caso di illegittimità - Ammissione - Violazione dell’art. 97 Cost. - Insussistenza - Direttiva 1999/70/Ce - Immediata applicazione - Sussistenza - Fattispecie. (Cost. art. 97; D.Lgs. 30 marzo 2003, n. 165, artt. 35 e 36; Direttiva 1999/70/Ce) Nel lavoro nelle pubbliche amministrazioni il rimedio della conversione dei contratti a termine illegittimi in contratti a tempo indeterminato costituisce misura di reintegrazione/risarcimento in forma specifica ex art. 2058, comma 1, c.c., cioè sanzione equivalente, effettiva e dissuasiva, atta a prevenire gli abusi nell’apposizione del termine, senza che sia violato l’art. 97, comma 3, della Costituzione, il quale prevede espressamente la possibilità per il legislatore ordinario di derogare alla regola della concorsualità, che, nel caso specie, è stata comunque rispettata. Inoltre il principio di non discriminazione, contenuto nella direttiva 1999/70/Ce, di immediata applicazione e di diretta efficacia orizzontale, impone che la necessaria giustificazione causale del Il lavoro nella giurisprudenza 11/2010 1107 Giurisprudenza Lavoro a tempo determinato recesso consacrata dalla Carta di Nizza si estenda anche al rapporto di lavoro temporalmente precario (Fattispecie di personale docente del comparto Scuola). @ Il testo integrale della sentenza è disponibile su: www.ipsoa.it\illavoronellagiurisprudenza ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI Conforme Trib. Rossano, ord. 25 novembre 2009, causa C-3/10 “Affatato”; Cass., sez. lav., 22 aprile 2010, n. 9555, Pres. Vidiri, Est. Stile. Trib. Reggio Emilia, sent. 18 aprile 2007. Difforme Corte cost. sentenze nn. 46/2000, 89/2003, 159/2005, 205/2006, 215/2009 e 295/2009; Trib. Rossano, sent. 4 giugno 2007; Trib. Foggia, sent. 6 novembre 2006; Trib. Genova, sent. 14 maggio 2007; App. Firenze, sent. 27 maggio 2008; Trib. Foggia, sent. 17 ottobre 2008; App. Bari, sent. 23 ottobre 2008. IL COMMENTO di Vincenzo De Michele Nel commento vengono esaminate le due decisioni della Cassazione e del Tribunale di Siena che, nel lavoro pubblico, segnano una svolta straordinaria e in qualche modo sorprendente dello sforzo ricostruttivo della disciplina dei contratti a tempo determinato operato dagli interpreti nazionali nel confronto costante e diretto o con i principi e le norme costituzionali nella loro effettiva incidenza e applicazione nell’ordinamento interno (sentenza n. 9555/2010 della Suprema Corte) o con la normativa europea e con la Corte di Giustizia, come fa il Giudice senese. Sull’art. 97, comma 3, Cost. vengono agevolmente superate posizioni interpretative, soprattutto della Corte costituzionale, apparentemente consolidate ma assolutamente inadeguate a garantire l’effettività della tutela dei diritti dei lavoratori precari alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni. Nasce dalla crisi del tradizionale sistema delle fonti del diritto la prospettiva nuova del Giudice nazionale che, implicitamente (Corte di legittimità) o esplicitamente (Giudice di merito), diventa anche Giudice della nomofilachia del diritto dell’Unione europea. Il triangolo delle Bermude e l’art. 97, comma 3, della Costituzione Era l’ultima frontiera dei divieti impossibili (da superare) o delle norme “imperativissime”, che impediscono di dare tutela effettiva agli abusi sistematici delle pubbliche amministrazioni nei confronti dei lavoratori assunti con rapporto flessibile: l’art. 97, comma 3, 1ª parte della Costituzione che, nell’interpretazione costantemente proposta dal Giudice delle leggi, impone come modalità principale e ordinaria di reclutamento nella P.A. il pubblico concorso. Del tutto inaspettatamente, si è molto indebolito e attenuato il grande sacello di legalità ordinamentale e amministrativa - il principio del pubblico concorso - che distingue in due grandi categorie i lavoratori in cerca di un posto stabile nel pubblico impiego, gli eletti (perché hanno superato un pubblico concorso) e i raccomandati (che non hanno superato un pubblico concorso e alimentano le proprie speranze di un lavoro non precario ai consueti canali clientelari). Che cosa ha causato questo innalzamento tellurico improvviso, con fuoriuscita del magma giuri- 1108 dico che ricopriva gli spazi di tutela dei lavoratori pubblici con contratti flessibili, utilizzati senza limiti? Il solito Giudice del lavoro in cerca di facile popolarità tra i precari, resi più disperati dalle conseguenze di una crisi troppo lunga? In rea ltà, il terribile (in apparenza, solo in apparenza) evento per le finanze pubbliche è stato determinato anche dai Giudici di merito, in particolare dal Tribunale di Genova che aveva sollevato due identiche questioni di pregiudizialità comunitaria, apparentemente risolte dalla Corte di Giustizia nelle note sentenze del 7 settembre 2006 nelle cause Marrosu-Sardino e Vassallo (1), e dal Tribunale di Rossano che, Nota: (1) Corte di Giustizia, Sez. II, 7 settembre 2006, cause C-53/04 e C-180/04. In dottrina, si vedano, tra i tanti che se ne sono occupati, L.Menghini, Precarietà del lavoro e riforma del contratto a termine dopo le sentenze della Corte di Giustizia, in Riv. Giur. Lav., 2006, I, 698; L. Nannipieri, La Corte di Giustizia e gli abusi nella reiterazione dei contratti a termine: il problema della legittimità comunitaria degli artt. d.lgs.368/2001 e 36 d.lgs. 165/2001, in Riv. It. Dir. Lav., 2006, II, 744; L. Montuschi, Il con(segue) Il lavoro nella giurisprudenza 11/2010 Giurisprudenza Lavoro a tempo determinato nella causa C-3/10 Affatato, tuttora pendente davanti alla Corte di Giustizia, ha rimesso in discussione, sostanzialmente, le conclusioni della CGUE nei due precedenti “italiani”. Tuttavia, la vera frattura nella - apparentemente inossidabile - protezione antiraccomandati apprestata in favore delle pubbliche amministrazioni non è stata determinata soltanto dalla commentata sentenza del Tribunale di Siena, quanto piuttosto dalla Suprema Corte di Cassazione che, con la sentenza n. 9555/2010, scardina con l’ineffabile leggerezza della nomofilachia autentica il vertice principale del “triangolo delle Bermude” (2), cioè il pubblico concorso, l’art. 97, comma 3, 1a parte della Costituzione. Per capire che cosa è successo, bisogna necessariamente seguire l’evoluzione della specie del precariato pubblico (raccomandato e non). I contratti a tempo determinato nel lavoro pubblico fino alle sentenze della CGUE La normativa interna sul contratto a tempo determinato nel pubblico impiego “privatizzato” è caratterizzata da un processo legislativo tumultuoso, che però si è accentrato prevalentemente (fino al 10 gennaio 2006 esclusivamente) sulla tutela “in uscita”, cioè sul meccanismo sanzionatorio (presunto o effettivo) per reprimere gli abusi nell’utilizzazione dei contratti a termine, cui si è affiancata una giurisprudenza altrettanto vivace che, come vedremo, ha sottoposto le regole nazionali (nell’interpretazione della Corte Costituzionale), ancorate al “mito” del principio del pubblico concorso, al vaglio della Corte di Giustizia. L’evoluzione legislativa che, dal 1993, aveva più volte inciso sulla materia, pareva essersi arrestata con l’avvento del nuovo millennio, allorquando la disciplina ha subito un riordino ad opera del Testo unico sul pubblico impiego n. 165 del 30 marzo 2001, con il quale il legislatore interno, pur senza realizzare grosse modifiche sostanziali, ha provveduto ad un coordinamento testuale e sistematico delle diverse disposizioni già vigenti in materia. Le finalità dell’iniziativa di riordino sono elencate dall’art. 1, il quale, alla lett. c) include la «migliore utilizzazione delle risorse umane nella Pubblica Amministrazione», ma anche l’applicazione di «condizioni uniformi rispetto a quelle del lavoro privato». Nel D.Lgs. n. 165/2001 le norme relative alle procedure per l’assunzione del personale sono inserite all’art. 35, rubricato “reclutamento del personale”, mentre l’art. 36, denominato “forme contrattuali flessibili di assunzione e di impiego del personale”, regola i contratti flessibili d’impiego nel lavoro pubblico. Il lavoro nella giurisprudenza 11/2010 Assunzioni a tempo indeterminato e determinato nella p.a.: art. 16 della L. 56/1987 Le assunzioni con contratto individuale di lavoro a tempo indeterminato nel pubblico impiego, dunque, sono regolamentate dall’art. 35, D.Lgs. n. 368/2001 (e non dall’art. 97 della Costituzione), norma sottoposta al vaglio positivo di costituzionalità della Consulta che al comma 1 individua, a parte il collocamento obbligatorio (secondo comma), i due canali delle “procedure selettive”, conformi ai principi del comma 3, volte all’accertamento della professionalità richiesta, che garantiscano in misura adeguata l’accesso dall’esterno (comma 1, lettera a) e dell’“avviamento degli iscritti nelle liste di collocamento”, ai sensi dell’art. 16 della L. n. 56/1987. Com’è noto, addirittura prima della privatizzazione del pubblico impiego, l’art. 16 della L. n. 56/1987 ha disciplinato modalità di reclutamento esclusive per l’assunzione sia a tempo indeterminato che a tempo determinato nella pubblica amministrazione di lavoratori da inquadrare in profili “medio-bassi”. A tale proposito, la indiscussa validità dell’art. 16 della L. 56/1987 risulta evidente nel D.Lgs. 19 dicembre 2002, n. 297, che, all’art. 8, comma 1, lett. f) del decreto, nell’abrogare quasi interamente la L. 56/1987, fa salvo proprio l’art. 16. La giurisprudenza di legittimità (3) ha ulteriormente consolidato il dato normativo, facendo rilevare che la procedura prevista dall’art. 16 della L. n. 56/1987 e dai D.P.C.M. attuativi 27 dicembre 1988 e 30 marzo 1989, è l’unica ed esclusiva modalità di reclutamento che legittimi l’assunzione a tempo indeterminato o a tempo determinato nella pubblica amministrazione «dei lavoratori, da adibire a mansioni per le quali non sia previsto titolo professionaNote: (continua nota 1) tratto a termine e la liberalizzazione negata, in Dir. Rel Ind., 2006, 610; M. Aimo, Il contratto a termine alla prova, in Lav. Dir., 2006, 462; G. Sottile, Sanzioni per il contratto a termine nel lavoro pubblico e Corte di Giustizia Europea, in Dir. lav. merc., 2007, 131. Per ulteriori approfondimenti, v. anche V. De Michele, Contratto a termine e precariato, Milano, 2009, 175 ss. (2) Un vortice giuridico, costituito dall’art. 2126 c.c., dall’art. 36, comma 5 (ex comma 2), del T.U. in materia di pubblico impiego (D.Lgs. n. 165/2001) e dal “sancta sanctorum” dell’articolo 97, comma 3, della Costituzione, che fagocita ogni forma di tutela effettiva nei confronti del precariato pubblico. Per i riferimenti, V. De Michele, Pubblica amministrazione e rapporti di lavoro «di fatto»: riflessioni su art. 2126 c.c. e effettività delle tutele, in M. D’Onghia e M. Ricci (a cura di), Il contratto a termine nel lavoro privato e pubblico, Milano, 2008, 135. (3) Cass., 13 dicembre 2003, n. 19108, in Giust. civ. Mass., 2003, 12. 1109 Giurisprudenza Lavoro a tempo determinato le e da inquadrare nei livelli per i quali è richiesto il solo requisito della scuola dell’obbligo». In realtà, anche nel pubblico impiego per le professionalità medio-basse era stato creato un meccanismo di precedenza molto simile a quello del lavoro stagionale privato. Infatti, i lavoratori a termine assunti attraverso le procedure dell’art. 16 della L. n. 56/1987 beneficiavano del diritto alla conservazione del posto in graduatoria, nel caso di utilizzazione non superiore a quattro mesi nell’anno solare e del conseguente diritto alla riutilizzazione “periodica” a tempo determinato negli anni successivi, come previsto dall’art. 23, comma 4, della stessa L. 56/1987. Il sistema di utilizzazione, per quanto discutibile (il lavoratore era “costretto” a chiedere all’amministrazione pubblica di non impiegarlo per un periodo superiore a quattro mesi l’anno, anche quando le esigenze di impiego erano di durata superiore, trattandosi per lo più di posti stabili e di carenze), ha assicurato per quasi quindici anni una buona prassi di flexicurity, con una combinazione di lavoro a termine e di indennità di disoccupazione ordinaria (piena o con requisiti ridotti) nel pubblico impiego. La riforma dei servizi per l’impiego e l’abrogazione delle liste di collocamento conseguente al D.Lgs. n. 297/2002, combinate con l’abrogazione dell’intero art. 23 della L. n. 56/1987 (cfr. art. 11, D.Lgs. n. 368/2001) e con una nuova disciplina dello status di disoccupazione legato anche a requisiti reddituali, distorceranno il descritto sistema e creeranno una confusione incredibile nell’utilizzazione delle graduatorie ex art. 16, L. n. 56/1987, di fatto scomparse e rifatte annualmente o periodicamente con nuovi criteri. Le assunzioni a tempo determinato nel pubblico impiego nell’art. 36, D.Lgs. n. 165/2001 L’art. 36, comma 1, D.Lgs. n. 165/2001 (nella formulazione antecedente la riforma della legge finanziaria n. 244/2007) legittima pienamente il ricorso delle pubbliche amministrazioni alle forme flessibili di impiego (e, in particolare, al contratto a termine), senza vincoli particolari né particolari forme di reclutamento. L’apparente libertà operativa viene esplicitata, sotto forma di autorizzazione all’abuso, dal successivo comma 2 dello stesso articolo, con il “famigerato” divieto di conversione in contratti a tempo indeterminato, nel caso di violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego dei lavoratori. Si tratta della classica norma di sbarramento che, attraverso la stessa formulazione già utilizzata 1110 con l’art. 2126 c.c., cioè la nullità del sinallagma genetico per violazione di fantomatiche “norme imperative di legge” (4) (sostanzialmente quelle sul reclutamento), paralizza gli effetti dell’abuso sul rapporto sostanziale e sul sinallagma funzionale, salvo il finto “risarcimento dei danni”, che la giurisprudenza non ha mai utilizzato prima delle due sentenze della Corte di Giustizia “Marrosu-Sardino” e “Vassallo”. Visto alla luce della giurisprudenza comunitaria sul contratto a tempo determinato e del sistema di garanzie e di tutele apprestate dalla disciplina “applicata” e interpretata dell’accordo quadro, questa costruzione da “triangolo delle Bermuda” di un meccanismo di diniego assoluto di tutela è quanto di più assurdo e antigiuridico il nostro ordinamento giuridico potesse partorire, al solo scopo di salvaguardare gli abusi delle pubbliche amministrazioni. La sentenza 89/2003 della Corte Costituzionale La sentenza 89 del 27 marzo 2003 della Consulta (5), che finisce per garantire la continuità degli abusi dello Stato sui contratti a termine, nasce fuori contesto, per una serie di errori in fatto e in diritto. L’errore in fatto risulta evidente dalla ricostruzione della vicenda delibata dal Giudice rimittente, il Trib. Pisa (6), che ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 97 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 36, comma 2, D.Lgs. n. 165/2001 sul divieto di riqualificazione dei rapporti a tempo determinato nella pubblica amministrazione. Si trattava di una domanda giudiziale di alcuni collaboratori scolastici (personale A.T.A.) ex dipendenti a termine del Comune di Pisa, la cui posizione, ai sensi della L. n. 124/1999, era confluita nelle graduatorie permanenti provinciali (ma gestite dallo Stato) del profilo professionale corrispondente (ex V qualifica funzionale Ccnl Comparto Scuola), disciplinate dal D.Lgs. n. 297/1994. Come già sottolineato (v. infra), le graduatorie in questione costituiscono l’unica Note: (4) D’altra parte, proprio sul piano della definizione si rileva l’inutilizzabilità della categoria delle norme imperative di legge. Come perfettamente rappresentato da C. Cester, La norma inderogabile: fondamento e problema del diritto del lavoro, relazione Convegno AIDLASS 19-20 aprile 2008, Modena, p. 4, su www.aidlass.org, «la norma imperativa sarebbe quella munita di mera efficacia invalidante dell’atto di autonomia privata ad essa contraria»: è evidente che la nozione di norma imperativa (e la sua violazione) non consente ontologicamente alcuna forma di tutela “esterna” rispetto al rapporto o contratto annullato. (5) In questa Rivista, 2003, 831 s., con nota di P. Sciortino, Procedure concorsuali, violazione di legge, costituzione del rapporto di pubblico impiego. (6) Ordinanza del 7 agosto 2002. Il lavoro nella giurisprudenza 11/2010 Giurisprudenza Lavoro a tempo determinato modalità di reclutamento a tempo indeterminato o a tempo determinato del personale a.t.a., mutuando con le peculiarità tipiche del settore le modalità procedimentali dell’art. 16 della L. n. 56/1987, cui appartiene come bacino professionale la gran parte dei lavoratori interessati all’impiego pubblico. I collaboratori scolastici, sempre per il tramite delle predette graduatorie (e quindi con modalità di reclutamento legittime ed esclusive), erano stati assunti con contratti a termine stipulati nel gennaio 2000, successivamente prorogati (più volte) fino alla domanda giudiziale di conversione a tempo indeterminato, per evidente violazione dell’art. 2 della L. n. 230/1962. L’ordinanza di rimessione interviene in un momento in cui la Direttiva 1999/70/CE era stata già recepita dal D.Lgs. n. 368/2001, anche se la regolamentazione normativa dei contratti a termine era ancora quella della previgente disciplina interna. La Corte Costituzionale ignora il fatto che le norme sottoposte al vaglio di legittimità costituzionale rientravano nell’ambito di applicazione del diritto comunitario e, con la sentenza 89/2003, dichiara la legittimità costituzionale dell’art. 36, comma 2, D.Lgs. n. 165/2001, affermando del tutto fuori tema (decidendi) che il principio fondamentale in materia di instaurazione del rapporto di impiego alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni è quello, del tutto estraneo alla disciplina del lavoro privato, dell’accesso mediante concorso, enunciato dall’art. 97 Cost. In effetti, non solo il principio del pubblico concorso non aveva valenza né teorica né pratica (e quindi la sentenza è sbagliata “in fatto”), ma la Consulta ha invaso anche il campo interpretativo della Corte di Giustizia, mettendo in discussione delicati equilibri istituzionali e costituzionali (era già intervenuta anche la modifica dell’art. 117 Cost., con la legge costituzionale 3/2001). Le prime questioni di pregiudizialità comunitaria sulla tutela del precariato pubblico La prima risposta alla non condivisibile sentenza 89/2003 della Corte Costituzionale la fornisce il Trib. Genova, che, come già anticipato, solleva due questioni di pregiudizialità comunitaria, che saranno risolte dalla Corte di Giustizia con le due sentenze del 7 settembre 2006 nelle cause C-53/04 (“Marrosu-Sardino”) e C-180/04 (“Vassallo”). La più puntuale delle ordinanze di rimessione è quella del 21 gennaio 2004 (7), resa in un giudizio concernente la domanda giudiziaria di un cuoco di un’azienda ospe- Il lavoro nella giurisprudenza 11/2010 daliera pubblica, licenziato dopo che aveva stipulato due successivi contratti a tempo determinato, il quale chiedeva al Giudice del lavoro di dichiarare, sulla base del D.Lgs. n. 368/2001, la sussistenza di un rapporto lavorativo a tempo indeterminato con l’azienda ospedaliera e la condanna dell’azienda stessa al pagamento delle retribuzioni dovute e al risarcimento del danno subito. Il Giudice genovese ha ritenuto di dover adire la Corte di Giustizia, trovandosi di fronte ad una disposizione interna, quella dell’art. 36, comma 2, D.Lgs. n. 165/2001, che vieta la conversione in rapporto a tempo indeterminato e che appare in contrasto con una disposizione interna successiva, quella del D.Lgs. n. 368/2001, la quale, in attuazione della Direttiva 1999/70/CE, ha previsto la stessa conseguenza della riqualificazione per tutti i contratti a tempo determinato, salvi i casi espressamente esclusi. Dopo aver sottolineato che il D.Lgs. n. 368/2001 potrebbe applicarsi integralmente al lavoro pubblico, in quanto né il decreto attuativo né la legge delega 422/2000 prevedono limitazioni di applicazione in questo senso orientate, sia in virtù dell’abrogazione delle norme incompatibili e non espressamente richiamate ad opera dell’art. 11 dello stesso decreto legislativo, il Tribunale ligure ha sostenuto l’irrilevanza, nel tema, del principio costituzionale del pubblico concorso. Il primato del diritto comunitario si esplica, infatti, non solo nei confronti delle norme di rango primario, ma anche di quelle di rango costituzionale, salvo che una tale applicazione comporti “violazioni di principi fondamentali dell’ordinamento nazionale o di diritti inalienabili della persona umana” (8), e visto che la regola dettata dall’art. 97, terzo comma, Cost. «non sembra riconducibile ai principi fondamentali dell’ordinamento interno». In buona sostanza, il Giudice genovese ha osservato che: l’Accordo quadro sul lavoro a tempo determinato e la direttiva 1999/70/CE hanno portata generale e sono applicabili anche al settore pubblico; il D.Lgs. n. 368/01, che prevede la conversione all’art. 5, è cronologicamente successivo - sia pure di poco - al D.Lgs. n. 165/2001, che pone lo sbarramento di cui all’art. 36, comma 2; Note: (7) Est. Basilico, causa C-53/04 “Marrosu-Sardino”, in questa Rivista, 2004, 9, 885 e ss., con nota di C.A. Costantino. (8) In tal senso, Corte Cost., sentenza 18 dicembre 1995, n. 509, in Foro It., 1996, I, 785, con nota di A. Barone; Corte Cost., sentenza 21 aprile 1989, n. 232, in Riv. it. dir. pubbl. comunit., 1991, 138. 1111 Giurisprudenza Lavoro a tempo determinato il D.Lgs. n. 368/01 prevede l’abrogazione di tutte le norme che sono contrastanti con esso (art. 11); il D.Lgs. n. 368/01 è di diretta derivazione comunitaria ed è noto che il diritto comunitario prevale su quello interno (come da giurisprudenza della Corte Costituzionale e della stessa Corte di Giustizia); la Corte Costituzionale, con la sentenza 89 del 2003, ha giustificato il divieto di conversione nel settore pubblico invocando l’art. 97, comma 3, Cost.; tuttavia, il primato del diritto comunitario si esplica anche nei confronti delle norme di rango costituzionale, salvo quelle espressione dei principi fondamentali dell’ordinamento nazionale o di diritti inalienabili della persona umana (9): tra quest’ultime non sembra possa annoverarsi l’art. 97, comma 3. Peraltro, nell’esaustiva ordinanza il magistrato ligure fa una scelta di prudenza, nel senso che appare chiaramente orientato per dare un’applicazione diretta della normativa D.Lgs. n. 368/2001 anche al pubblico impiego, ma, sul piano interpretativo, ove si ritenesse di accedere alla diversa tesi della sussistenza del divieto di conversione, allora appare necessario avere chiarimenti dalla Corte di Giustizia. In base a queste considerazioni, il Trib. Genova ha sollevato la pregiudizialità comunitaria, dubitando che la disposizione dell’art. 36, comma 2, D.Lgs. n. 165/2001 fosse in contrasto con i principi dettati dalla direttiva 1999/70/CE, e, in particolare, non fosse misura idonea a prevenire gli abusi come previsto dalla clausola 5, n. 1, dell’accordo quadro. Il dubbio interpretativo, come vedremo, era assolutamente fondato, anche se la Corte di Giustizia con le sentenze del 7 settembre 2006 adotterà una linea “morbida”, approfittando anche di una piccola omissione nell’esposizione della questione giuridica da parte del Giudice ligure, il quale avrebbe potuto (ma non dovuto) aggiungere che l’art. 36, comma 2, D.Lgs. n. 165/2001 non solo non è idoneo a prevenire gli abusi, ma non è mai stato applicato o applicabile dalla giurisprudenza interna. Una semplice norma di sbarramento, che nega del tutto ogni forma di tutela per evitare conseguenze alle pubbliche amministrazioni, legittimate a sbagliare senza problemi. La soluzione di accompagnamento alla stabilizzazione della Corte di Giustizia La scelta della Corte Costituzionale di occuparsi di materia regolamentata dal diritto comunitario (10) con una sentenza criticabile, stigmatizzata dal Trib. Genova che tenta con la questione di pregiudizialità comunitaria di superarne le contraddizioni e la confusione interpretative da essa causate, non lascia indifferente la Corte di Giustizia, che ricuce lo strappo 1112 istituzionale con molta saggezza. Infatti, la questione greca della causa “Adeneler” (11) viene anticipata rispetto alle due cause italiane e risolta dalla Grande Sezione (12) prima delle due decisioni “Marrosu” e “Vassallo”, in modo che le indicazioni fornite nella causa C-212/04 possano costituire il paradigma interpretativo anche per le due cause C-53/04 e C180/04. Come nel diritto greco fino al 19 luglio 2004 (13), anche nel diritto italiano non c’è alcuna sanzione idonea a prevenire gli abusi delle pubbliche amministrazioni nell’utilizzare i contratti a termine. Nel diritto greco c’è il divieto assoluto di conversione, addirittura fissato da norma di rango costituzionale, mentre nel diritto italiano c’è solo la norma ordinaria che prevede il divieto di conversione, senza alcuna conseguenza se non una fantomatica possibilità che il lavoratore precario sia risarcito del danno. Ma in Italia c’è una pronuncia della Corte Costituzionale che dà valore assoluto ad una norma Note: (9) Corte Cost., sentenza n. 509/1995, cit.; Corte Cost., sentenza 21 aprile 1989, n. 232, in Foro It., 1990, I, 1855. (10) In senso conforme, v. le sentenze della Consulta n. 205 del 4 aprile - 26 maggio 2006 [dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 19, commi 1 e 2, lettera b), della legge della Regione Umbria 1° febbraio 2005, n. 2] e n. 363 del 10 ottobre - 9 novembre 2006 (dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 3, della legge della Provincia autonoma di Bolzano 20 giugno 2005, n. 3), pubblicata in questa Rivista, 2007, 263 ss., con nota di M.G. Greco, La deroga legislativa al principio costituzionale del concorso per l’accesso al pubblico impiego: natura e limiti; nonché la sentenza della Corte costituzionale n. 215/2009, che dichiara illegittima la disposizione della Regione Campania che aveva disposto la stabilizzazione dei dirigenti medici del servizio sanitario regionale, con nota fortemente critica di C. de Martino, la Consulta dichiara illegittima la stabilizzazione dei dirigenti del servizio sanitario nazionale, in questa Rivista, 2009, 1222 ss. (11) Corte Giustizia Ce, sez. II, 4 luglio 2006, proc. C-212/04, su questa Rivista, 2006, 10, 971, con nota di M. Miscione, Non trasformazione dei contratti a termine nel lavoro pubblico). Cfr. A. Miscione, Il contratto a termine davanti alla Corte di Giustizia: legittimità comunitaria del D.Lgs. n. 368/2001, in Arg. dir. lav., 2006, 1637. (12) Corte di Giustizia, sentenza 4 luglio 2006 nella causa C212/04. In dottrina, v. L. Menghini, Precarietà del lavoro e riforma del contratto a termine dopo le sentenze della Corte di Giustizia, in Riv. giur. lav., 2006, I, 698; P. Alleva, Presentazione, ivi, 2007, I, 4; L. Montuschi, Il contratto a termine e la liberalizzazione negata, in DRI, 2006, 610; L. Nannipieri, La Corte di Giustizia e gli abusi nella reiterazione dei contratti a termine: il problema della legittimità comunitaria degli artt. 5 d. lg. n. 368/2001 e 36 d. ls. n. 165/2001, in Riv. it. dir. lav., 2006, II, 744; M. Aimo, Il contratto a termine alla prova, in Lav. dir., 2006, 462; G. Sottile, Sanzioni per il contratto a termine nel lavoro pubblico e Corte di Giustizia Europea, in Dir. lav. merc., 2007, 131. (13) Il decreto presidenziale n. 164/2004, recante disposizioni riguardanti i lavoratori assunti con contratto a tempo determinato nel settore pubblico (FEK A’134/19.7.2004), ha recepito la direttiva 1999/70/CE nella legislazione ellenica applicabile al personale statale e del settore pubblico in senso lato. È entrato in vigore il 19 luglio 2004. Il lavoro nella giurisprudenza 11/2010 Giurisprudenza Lavoro a tempo determinato costituzionale che, nel caso di specie, non aveva alcuna valenza, mentre i giudici greci si sono rivolti direttamente alla Corte di Giustizia, superando addirittura il precetto costituzionale interno. L’imbarazzo della Corte di Giustizia trapela nelle conclusioni dell’Avvocato generale Poiares Maduro, che da un lato appare rispettoso della esigenza della Corte Costituzionale di far osservare il precetto costituzionale del concorso per l’accesso al pubblico impiego, dall’altro sottolinea la necessità di adeguare il diverso trattamento riservato ai pubblici dipendenti, rispetto ai lavoratori privati, al rispetto del principio di uguaglianza, che è un principio generale di diritto comunitario (14). L’Avvocato generale Poiares Maduro, profondo conoscitore della realtà italiana, tocca ai punti 43-45 delle sue conclusioni (15) il punto nodale del problema della tutela dei contratti a tempo determinato “abusivi” stipulati dalla pubblica amministrazione: la misura della riqualificazione in rapporto a tempo indeterminato può essere esclusa solo nel caso in cui l’obiettivo da tutelare sia quello dell’accesso attraverso il concorso. Se l’accesso non avviene attraverso il concorso, ma ricorrendo a procedure selettive e regimi di reclutamento diversi dal concorso, conformemente all’art. 97, comma 3, della Costituzione, la discriminazione tra lavoratori privati e pubblici per quanto riguarda il sistema sanzionatorio non avrebbe nessun senso. A fronte della questione sollevata dal Trib. Genova, la Corte di Giustizia, in sintesi, trova la soluzione che salva i rapporti istituzionali e precisa che: la conversione certamente non è l’unica sanzione possibile; cosicché l’Accordo quadro, in quanto tale, non osta a che uno Stato membro preveda, in materia di ricorso abusivo ai contratti a termine, una tutela differente a seconda che i contratti siano stati conclusi con un datore di lavoro privato o pubblico; tuttavia, l’ordinamento interno deve necessariamente prevedere una sanzione alternativa nel settore nel quale la conversione è inibita; tale tutela alternativa deve essere proporzionata al bene (in questo caso il posto di lavoro) che si intende tutelare; deve essere equivalente, cioè deve essere una forma di tutela non meno favorevole rispetto ad altre forme di tutela che lo stesso legislatore nazionale ha adottato in situazioni analoghe; deve essere effettiva, cioè una forma di tutela che deve essere, per così dire, a portata di mano del lavoratore, non così difficile da essere, di fatto, irrealizzabile. Prima facie, poiché il Giudice interno rimittente Il lavoro nella giurisprudenza 11/2010 non ha precisato che la sanzione del risarcimento dei danni prevista dall’art. 36, comma 2, D.Lgs. n. 165/2001 non è stata mai applicata neanche per errore, la Corte di Giustizia ritiene che la norma sbarramento possa essere utilizzata come misura sanzionatoria degli abusi, a condizione però che detta sanzione sia riempita di contenuti, si tratti cioè di una misura equivalente, proporzionata, adeguata, dissuasiva. Con la conseguenza, dunque, di affidarne la concreta applicazione ai Giudici interni, cui sostanzialmente rimanda, alla luce dei parametri di compatibilità comunitaria innanzi indicati, la idoneità della norma (assolutamente inidonea) rispetto ai precetti comunitari. Chiarissimo e ineludibile, però, il rapporto istituzionale delineato: la nomofilachia autentica delle norme dell’Unione europea la esercita la Corte di Giustizia e la verifica di compatibilità (di legittimità “comunitaria”) delle norme interne con il diritto comunitario la può effettuare solo il Giudice interno, non la Corte Costituzionale. Si prepara, così, la strada ad una soluzione ragionevole del precariato pubblico, attraverso la stabilizzazione legislativa dei rapporti a termine (come in Grecia) con le leggi finanziarie 296/1996 e 244/2007 (16), con la minaccia, come vedremo, di altre forme di tutela risarcitorie inventate da quella stessa giurisprudenza che aveva sollevato i problemi a livello comunitario e, dopo la decisione della Corte di Giustizia, è costretta a trovare soluzioni nuove. L’ordinanza di pregiudizialità comunitaria del Trib. Rossano Con la complessa ordinanza del 14 dicembre 2009 (17) nella causa C-3/10 Affatato il Trib. Rossano ha Note: (14) V. S. Sciarra, Il lavoro a tempo determinato nella giurisprudenza della Corte di giustizia europea. Un tassello nella ‘modernizzazione’ del diritto del lavoro, relazione su Il giudice del lavoro e le fonti comunitarie ed internazionali, Roma, 17 gennaio 2008, Incontro di studio CSM, p.12. (15) Depositate il 20 settembre 2005. (16) Sostiene condivisibilmente che la “stabilizzazione” delle leggi finanziarie sia una sanatoria, «ed in quanto tale una disposizione straordinaria ed eccezionale, finalizzata non a sanzionare comportamenti illegittimi, ma a sanarne gli effetti», L. Olivieri, Dal blocco delle assunzioni a tempo indeterminato, al blocco delle assunzioni a tempo determinato, tra stabilizzazioni, sanatorie e schizofrenie legislative, in Lexitalia.it, 2007, 5. In realtà è la legge finanziaria nel suo complesso ad esprimere chiaramente il messaggio politico del nuovo esecutivo: «rafforzare la stabilità dei posti di lavoro mediante il ritorno al contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato quale modello contrattuale standard di regolazione dei rapporti di lavoro». In tal senso, A. Pizzoferrato, La stabilizzazione dei posti di lavoro nella Finanziaria 2007, in questa Rivista, 2007, 221. (17) In Foro it., 2010, I, pp.1656-1675, con nota di A.M. Perrino. 1113 Giurisprudenza Lavoro a tempo determinato posto (e, in parte, riproposto) alla Corte di Giustizia una serie di questioni di pregiudizialità che riguardano l’intero apparato sanzionatorio in materia di contratti a termine da parte delle pubbliche amministrazioni, partendo da una fattispecie contrattuale di ricorso “abusivo” di rapporti a tempo determinato nati da una assunzione “legittima” ex art. 16 della L. n. 56/1987 da parte di una azienda sanitaria, identica, sostanzialmente, alle due situazioni già delibate dalla CGUE nei giudizi incidentali sollevati dal Trib. Genova. Le questioni pregiudiziali sono di particolare interesse, perché pongono in luce le difficoltà strutturali del sistema interno di tutele quando parte del processo sia lo Stato, inteso come pubblica amministrazione che opera con i poteri del datore di lavoro. Partendo dalle pronunce del 7 settembre 2006 della Corte di Giustizia nella cause C-53/04 Marrosu-Sardino e C-180/04 Vassallo, il Trib. Rossano delinea il percorso fatto dalla giurisprudenza nazionale, e dallo stesso Giudice rimettente, dopo le due sentenze della CGUE, per arrivare a rendere effettiva l’unica norma che lo Stato italiano, nel costituirsi davanti alla Corte, aveva individuato - art. 36, comma 2, D.Lgs. n. 165/2001 - come idonea a prevenire e sanzionare gli abusi in caso di successione di contratti o rapporti a tempo determinato stipulati dalle pubbliche amministrazioni (si trattava, come nel caso del giudizio principale, di Aziende sanitarie), nei limiti del “principio di diritto” enunciato dalla stessa Corte di Giustizia: «spetta al giudice del rinvio valutare in quale misura le condizioni di applicazione nonché l’attuazione effettiva dell’art. 36, secondo comma, prima frase, del d. lgs. 165/2001 ne fanno uno strumento adeguato a prevenire e, se del caso, a sanzionare l’utilizzo abusivo da parte della pubblica amministrazione di una successione di contratti o di rapporti di lavoro a tempo determinato» (sentenza Marrosu-Sardino, punto 56). Il Trib. Rossano nella sua lunga ordinanza argomenta, sostanzialmente, che la sanzione del risarcimento dei danni non ha alcuna possibilità di pratica e condivisa (18) applicazione nell’ordinamento interno, perché la norma-sanzione manca di effettività per essere priva di parametri di computo del danno, in un sistema giudiziale di liquidazione del risarcimento che, diversamente dagli ordinamenti di common law, non prevede la determinazione in via equitativa (cioè il potere del Giudice di decidere secondo aequitas e non secundum ius) se non nei (pochi) casi espressamente previsti dalla legge. E non è certamente il caso dell’art. 36, comma 2 (ora comma 5, come ricordato dal Trib. Rossano), D.Lgs. n. 1114 65/2001, che è sempre stato applicato come normasbarramento (cioè, vietando la riqualificazione in rapporto a tempo indeterminato), non come normasanzione. Il Giudice del lavoro calabrese, inoltre, nel prendere in esame altri settori della pubblica amministrazione in cui si fa un uso elevatissimo di contratti o rapporti a tempo determinato (Scuola, lavoratori socialmente utili o di pubblica utilità LSU/LPU, Poste italiane s.p.a.), rileva da un lato che l’art. 36, comma 5, D.Lgs. n. 165/2001 non è una norma-sanzione generale (sul piano, meramente teorico, del risarcimento dei danni), dall’altro che, per i settori con il maggior numero di contratti o rapporti a tempo determinato nella pubblica amministrazione, si applicano discipline autonome o speciali diverse dal D.Lgs. n. 368/2001 (e successive modifiche ed integrazioni), presunta disciplina generale sul contratto a tempo determinato sia per le imprese private sia nel pubblico impiego (19); siffatte discipline speciali legittimerebbero ex se i contratti a tempo determinato senza prevedere alcuna sanzione né preventiva né repressiva in caso di abusi. In definitiva, dalle argomentazioni complessive del Trib. Rossano l’interprete nazionale arriva alla conclusione che, con il pretesto del pubblico concorso come modalità (che di fatto diventa) unica di reclutamento a tempo indeterminato nelle pubbliche amministrazioni e con l’avallo delle numerose (citate) sentenze della Corte costituzionale, i contratti o rapporti a tempo determinato nel pubblico impiego, Note: (18) V., tra le differenti “applicazioni” dell’art. 36, comma 2, D.Lgs. n. 165/2001, Trib. Foggia (Est. Quitadamo), 6 novembre 2006, in Lav. prev.oggi, 2007, 2, 344 e ss., con nota di M. N. Bettini; Trib. Genova (Est. Basilico), 14 maggio 2007, in Guid. Lav., 2007, 39, 37, commentata da R. Garofalo, Quale risarcimento al dipendente pubblico per contratti a termine illegittimi, in questa Rivista, 2007, 1097 ss., e da A. Miscione, Conseguenze sul contratto a termine illegittimo nel pubblico impiego, in Mass. giur. lav., 2008; Trib. Rossano (Est. Coppola), sentenza 4 giugno 2007, su Riv. it. dir. lav., 2007, II, 906; App. Firenze, (Pres. est. Amato), sentenza 27 maggio 2008, inedita; Trib. Foggia (Est. Buonvino), sentenza del 17 ottobre 2008, inedita; App. Bari (Pres. Lucafò, Est. Nettis), sentenza 23 ottobre 2008, inedita; Trib. Reggio Emilia (Est. Strozzi), sentenza 18 aprile 2007, che, unico precedente prima della sentenza in commento del Tribunale di Siena, addirittura disapplica la norma interna - art. 36, comma 2, D.Lgs. n. 165/2001 - per contrasto insanabile con la normativa comunitaria e dichiara la conversione dei contratti illegittimamente prorogati con l’ente pubblico (Inail). (19) L’applicazione al settore pubblico italiano, in realtà, è stata imposta sul piano interpretativo dalla Corte di Giustizia nella sentenza Marrosu-Sardino, punti 41-42, sulla base delle clausole 2 e 3 dell’accordo quadro comunitario. Lo Stato italiano si era difeso sostenendo che la Direttiva 1999/70/CE non si applicava ai contratti o rapporti a tempo determinato stipulati dalle pubbliche amministrazioni. Il lavoro nella giurisprudenza 11/2010 Giurisprudenza Lavoro a tempo determinato anche - e soprattutto - per soddisfare di fatto esigenze permanenti e durature del datore di lavoro pubblico, sono sempre possibili e “legittimi”, addirittura escludendo l’esistenza di un rapporto di lavoro (LSU/LPU). L’abuso è privo di conseguenze sanzionatorie e, comunque, non vi sono misure preventive antiabusive perché la Direttiva 1999/70/CE di fatto non viene applicata. Precisa il Trib. Rossano che anche le procedure di «stabilizzazione», cioè di trasformazione dei rapporti flessibili in contratti a tempo indeterminato alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, che sono disciplinate dalle due leggi finanziarie 296/2006 (per il 2007) e 244/2007 (per il 2008), non si applicano a determinate categorie di lavoratori, come nel Comparto Scuola, ad esempio. Il quadro normativo sconfortante e caotico delle discipline interne che regolamentano, o fingono di regolamentare, i rapporti a tempo determinato alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, che il Giudice rimettente ha opportunamente delineato nella sua complessità, nelle sue stravaganze e nella sua fondamentale ispirazione di impedire la tutela antiabusiva nei confronti delle pubbliche amministrazioni, manifesta, purtroppo, il vero problema strutturale dell’ordinamento nazionale italiano. Il Giudice del rinvio pregiudiziale, infatti, si chiede, amaramente, se questo quadro di mancanza o di inadeguatezza assoluta di tutele preventive e sanzionatorie sia necessario per non violare “principi fondamentali dell’ordinamento interno”, quale potrebbe essere, ad esempio, il principio del pubblico concorso. In realtà, lo stesso problema, come evidenziato dal Trib. Rossano, la stessa “impossibilità” di riqualificare sul piano giuridico i contratti a tempo determinato stipulati dalle pubbliche amministrazioni sulla base di procedure selettive previste dalla legislazione speciale è presente sia nel settore Scuola (dove si assume anche a tempo indeterminato sulla base delle stesse graduatorie permanenti), sia nel caso degli LSU/LPU. Il problema giuridico ha risvolti kafkiani ed è un riflesso proprio della giurisprudenza della Corte costituzionale nella citata sentenza 89/2003, che chi scrive non ha mai condiviso, perché ha coinvolto nel divieto di conversione per rispetto al principio del pubblico concorso anche quei contratti o rapporti a tempo determinato, per i quali la stessa legge nazionale non prevedeva il concorso ma l’accesso attraverso graduatorie sulle base di selezione fondata su criteri oggettivi (periodi di servizio, titolo professionale di accesso, ecc.). Il lavoro nella giurisprudenza 11/2010 Sembrerà assurdo, ma, nel ragionamento proposto nell’ordinanza di rinvio, è la stessa norma legittimante l’assunzione a tempo determinato - per determinate tipologie di lavoratori - che impedisce la conversione dei rapporti e la sanzione in caso di abusi. In che modo? Consideriamo il caso “Affatato” nella causa C-3/10: è stato assunto “legittimamente” attraverso gli uffici di collocamento (art. 16 della L. n. 56/1987) con diversi contratti a tempo determinato, per sopperire però a carenze strutturali di personale. Quindi, come sottolineato dal Trib. Rossano, se il lavoratore (20) chiede in giudizio la riqualificazione del rapporto perché è stato violato l’art. 1, commi 1 e 2, (ma anche gli artt. 4 e 5) D.Lgs. n. 368/2001, le “legittime” assunzioni a tempo determinato (21) diventano, in conseguenza innaturale della stessa azione giudiziaria, “illegittime”, cioè in violazione di norme imperative di legge (nel caso di specie, l’art. 1, commi 1 e 2, sulle ragioni obiettive “temporanee”, l’art. 4 sulle ragioni obiettive temporanee della proroga, l’art. 5 sui contratti successivi, tutti articoli contenuti nella disciplina “generale” del D.Lgs. n. 368/2001). A questo punto, interviene come norma-sbarramento il divieto di conversione - per la “tautologica” violazione di norma imperativa di legge - previsto dall’art. 36, comma 2 o 5 o 6, D.Lgs. n. 165/2001, e scompare la sanzione, che non può essere quella della riqualificazione del rapporto, prevista “solo” per i lavoratori a tempo determinato nell’impiego privato. O meglio, rimane la fantomatica sanzione del risarcimento dei danni. Le “legittime” finalità di politica sociale che alimentano il precariato pubblico Non vi è alcuna finalità di politica sociale o alcun principio fondamentale dell’ordinamento interno da rispettare (come, ad esempio, il pubblico concorso), che possa giustificare la precarizzazione della situazione lavorativa della gran parte dei dipendenti pubblici assunti con rapporti flessibili. Vi sono, anzi, due precisi - e connessi - obiettivi, entrambi contrari alla normativa dell’Unione e in contrasto con la giurisprudenza della Corte di Giustizia: negare effettività di tutela contro gli abusi in Note: (20) In quanto assunto a tempo determinato non per esigenze eccezionali e transitorie, ma per soddisfare un fabbisogno permanente di personale. (21) Avvenute attraverso l’unica procedura selettiva ammessa per la stessa figura professionale, che avrebbe consentito anche l’accesso all’assunzione a tempo indeterminato, senza concorso. 1115 Giurisprudenza Lavoro a tempo determinato caso di successione di contratti; disconoscere i diritti economici e normativi (anzianità di servizio e connessi miglioramenti retributivi, ricostruzione previdenziale dei servizi prestati) per un risparmio di spesa pubblica, che la CGUE (22) ha già ritenuto in contrasto con la clausola 4 dell’accordo quadro comunitario recepito dalla Direttiva 1999/70/CE e con il principio di non discriminazione, in guisa tale da consentire al Giudice interno la diretta disapplicazione delle norme illegittime, come poi è avvenuto nel caso della sentenza del Trib. Siena. Tutte le assunzioni a tempo determinato, anche dopo anni di lavoro pubblico, sono effettuate sulla base dei minimi retributivi contrattuali della posizione economica iniziale, senza alcun riconoscimento dell’anzianità di servizio maturata (e senza l’accredito contributivo). Questa prassi di tutte le Amministrazioni pubbliche, basata su precise disposizioni di leggi interne e della contrattazione collettiva di comparto, realizza un evidente risparmio nella spesa pubblica in riferimento alle decine di migliaia di lavoratori precari impegnati. È questo il vero motivo della mancata stabilizzazione dei rapporti di lavoro flessibili c.d. del precariato storico nella pubblica amministrazione, soprattutto quando, come nel caso del Comparto Scuola, vi sia continuità di utilizzo del personale precario. Lo stipendio è inferiore rispetto a quanto riconosciuto ai lavoratori a tempo indeterminato “comparabili”, non vi è accredito della contribuzione “figurativa” perché non vi è una posizione previdenziale “aperta” presso l’Inpdap, l’Istituto previdenziale dei lavoratori del pubblico impiego, anche se dal 1° gennaio 1996 (L. n. 335/1995) le pubbliche amministrazioni dovrebbero tutte versare all’Ente previdenziale una contribuzione mensile (23), che è anche in parte (1/5) a carico del lavoratore pubblico, anche precario. Se il datore di lavoro privato non versa la contribuzione a carico, l’Inps agisce immediatamente in via esecutiva per il recupero dei contributi omessi, con pesanti sanzioni conseguenti all’attività di riscossione. Se l’Amministrazione pubblica non versa i contributi dei lavoratori precari all’Inpdap, non sono previste sanzioni o modalità di riscossione forzosa, trattandosi semplicemente di un’operazione finanziaria. Questa prassi è compatibile con la normativa dell’Unione? Assolutamente no, come la Corte di Giustizia ha avuto modo di affermare nei confronti dello Stato italiano e dell’Inpdap nella sentenza del 13 novembre 2008 nella causa C-46/07 sul regime pensionistico italiano, considerato a “retribuzione diffe- 1116 rita” proprio perché lo Stato non ha mai versato a se stesso (cioè all’Inpdap), almeno fino al 31 dicembre 1995, i contributi per i lavoratori pubblici. A titolo di esempio della volontà “indefessa” dello Stato italiano di “adempiere” agli obblighi dell’Unione europea in materia di disciplina dei rapporti flessibili e, in particolare, di dare attuazione alle sentenze della Corte di Giustizia (nel caso di specie, la sentenza Del Cerro Alonso in materia di aumenti retributivi al personale non di ruolo della Scuola, per l’anzianità maturata), va trascritta una parte della lettera circolare del Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca datata 25 settembre 2008, che rappresenta perfettamente il punto di vista interpretativo sin qui esposto sulla insussistenza di una tutela effettiva, almeno sul piano amministrativo nazionale, dei rapporti precari nel pubblico impiego: «Il rapporto che si instaura tra il docente supplente e l’amministrazione scolastica ha caratteristiche del tutto peculiari, caratterizzato dalla necessità di garantire, attraverso la continuità didattica la costante erogazione del servizio scolastico ed educativo. Su tale principio l’art. 4 della L. 3 maggio 1999, n. 131, all’art. 4 ha disciplinato le supplenze per le scuole statali, prevedendo, in materia, l’assunzione di apposito regolamento, adottato con D.M. 13 giugno 2001, n. 131. Il rapporto di lavoro del personale scolastico supplente è regolamentato da distinti contratti di lavoro, che possono riferirsi anche a supplenze annuali o fino al termine delle lezioni, che, se anche conferite allo stesso docente nell’immediato anno scolastico successivo, non traggono origine dalla precedente nomina e non costituiscono una prosecuzione senza continuità del rapporto di lavoro, ma traggono origine da diversi provvedimenti, determinati da distinte procedure di nomina discendenti da apposite graduatorie di aspiranti. È da ritenere quindi che le caratteristiche particolari del rapporto di lavoro del supplente con l’amministrazione scolastica giustificano la mancata previsione di una progressione di stipendio legata alla prestazione del servizio, caratterizzata dalla precarietà e discontinuità della prestazione stessa. Ciò tenuto inoltre conto che la particolare disciplina vigente per il personale scolastico di ruolo consente invece il riconoNote: (22) V. sentenze 13 settembre 2007 (II Sezione), Del Cerro Alonso in causa C-307/05; 15 aprile 2008 (Grande Sezione), Impact in causa C-268/06; 22 aprile 2010 (I Sezione), Zentralbetriebsrat der Landeskrankenhäuser Tirols in causa C-486/08. (23) Che è inferiore di oltre 10 punti a quella che versano all’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale Inps i datori di lavoro privati. Il lavoro nella giurisprudenza 11/2010 Giurisprudenza Lavoro a tempo determinato scimento, ai fini economici e della carriera, di tutti i servizi non di ruolo prestati prima dell’immissione in ruolo». Dunque secondo lo Stato italiano, poiché i rapporti a tempo determinato sono tutti legittimi e senza soluzione di continuità (cioè sono successivi), la precarietà a tempo indeterminato è legittima e non consente né la riqualificazione dei rapporti né il riconoscimento dell’anzianità di servizio. Infatti, per fare maggiore chiarezza e al dichiarato scopo di “adempiere” alle statuizioni della sentenza “Del Cerro Alonso” della CGUE (che va in opposta direzione, come detto) il legislatore italiano sul precariato scolastico è intervenuto con il c.d. “decreto salva-precari” (24), con una norma di interpretazione autentica “antiprecari” della Scuola. Infatti, l’art. 1, comma 1, D.L. n. 134/2009 reca una disposizione generale, con incidenza su tutto il personale a tempo determinato della scuola, che aggiunge all’art. 4 della L. n. 124/1999, in materia di supplenze, il comma 14 bis, che sancisce l’impossibilità di trasformare i contratti a tempo determinato stipulati per il conferimento delle supplenze in contratti a tempo indeterminato e, al contempo, esclude che i contratti a tempo determinato consentano di maturare scatti di anzianità. Opportunamente e nel sarcastico rispetto della dichiarata “volontà” del legislatore del D.L. n. 134/2009 di dare seguito alla sentenza del “Del Cerro Alonso” della Corte di Giustizia, espressamente richiamata nella relazione illustrativa del decreto legge, il Trib. Trani (25) ha disapplicato la norma aggiunta nel decreto salva-anti-precari per contrasto con la clausola 4 antidiscriminatoria dell’accordo quadro comunitario sulla disciplina del contratto a tempo determinato, come interpretata dalla CGUE, e ha riconosciuto così il diritto dei lavoratori a tempo determinato nel Comparto Scuola agli scatti di anzianità ed alla ricostruzione di carriera anche prima della (eventuale) immissione in ruolo. La sentenza 9555/2010 della Corte di Cassazione Su questo confusissimo e problematico quadro normativo ed interpretativo della disciplina dei rapporti a tempo determinato nel lavoro pubblico interviene a fare devastante chiarezza (per le finanze pubbliche), senza congruo preavviso per i poveri interpreti nazionali, la decisione della Suprema Corte 9555/2010. La Cassazione si occupa di una fattispecie molto particolare di rapporti precari, i contratti a tempo determinato “successivi” stipulati dall’Inail, Ente pubblico non economico, con un addetto alla custodia e Il lavoro nella giurisprudenza 11/2010 alla vigilanza degli immobili di proprietà dell’Istituto, cui, evidentemente, è stato applicato il Ccnl di categoria dei datori di lavoro privati e non quello del Comparto Enti pubblici non economici. Tuttavia, i principi di diritto enunciati dalla Corte di legittimità sono di portata generale tale da incidere significativamente sulla ricostruzione interpretativa dell’intera materia del sistema sanzionatorio, in caso di abusi nella successione dei contratti di lavoro a tempo determinato nel pubblico impiego, cassando così la decisione della Corte territoriale, che aveva negato il diritto del lavoratore alla riqualificazione dei contratti a termine successivi, prorogati per anni in violazione delle disposizioni di legge (ante D.Lgs. n. 368/2001). La prima importantissima precisazione del Giudice della nomofilachia autentica delle leggi nazionali è sulla portata e sugli effetti della sentenza 89/2003 della Corte costituzionale, che viene “interpretata” nel senso di limitare il divieto assoluto di conversione dei contratti a termine solo ai casi in cui è in discussione la violazione della regola del pubblico concorso di cui all’art. 97, comma 3, 1a parte della Costituzione. Quando, invece, ci si occupa di modalità di accesso stabile alla pubblica amministrazione diverse dal concorso e, comunque, disciplinate da norme di legge, come nel caso dell’art. 16 della L. n. 56/1987 dell’usciere a tempo determinato assunto dall’Inail, evidentemente non si può porre il limite costituzionale del divieto di conversione enunciato dalla Consulta. Il principio è sacrosanto e ricalca esattamente le citate argomentazioni dell’Avvocato generale Poiares Maduro nelle cause “Marrosu-Sardino” e “Vassallo”, ma è la prima volta che viene così efficacemente esplicitato dalla Cassazione. La Suprema Corte, peraltro, corregge implicitamente il grave errore interpretativo commesso dalla Corte costituzionale, che si era occupata proprio di una fattispecie, quella del personale Ata della Scuola, in relazione alla quale non si poneva e non si pone alcun problema di pubblico concorso, ma di accesso al lavoro a tempo indeterminato o a tempo determinato attraverso graduatorie e con modalità selettive, che mutuano quelle dell’art. 16 della L. n. 56/1987 per professionalità lavorative medio-basse. Né il principio dell’inapplicabilità del divieto di conversione dei lavoratori precari nel pubblico imNote: (24) D.L. 25 settembre 2009, n. 134. (25) Trib. Trani, Est. La Notte Chirone, sentenza 19 aprile 2010, n. 2832/10, su www.ipsoa.it/illavoronella giurisprudenza/. 1117 Giurisprudenza Lavoro a tempo determinato piego assunti non per il tramite del concorso pubblico viene attenuato dall’applicazione, nel caso di specie, di un Ccnl del settore “privato”, cioè diverso dal contratto collettivo del Comparto. Il richiamo alla contrattazione collettiva dei lavoratori e dei datori di lavoro privati è in continuità con altri precedenti specifici della Suprema Corte su fattispecie analoghe (non solo uscieri Inail, ma anche e soprattutto operai forestali della Regione Puglia) per le quali si era posto e risolto in favore della Magistratura specializzata del lavoro (proprio in relazione all’applicazione di un Ccnl, prima della contrattualizzazione del pubblico impiego) il problema della giurisdizione. Infatti, la Cassazione sottolinea, più volte e anche nel principio di diritto enunciato nella decisione di rinvio ad altra Corte territoriale, che il rapporto di lavoro rimane di pubblico impiego per la natura pubblica del datore di lavoro, a prescindere dalla contrattazione collettiva applicata. Ad ogni buon conto, il ridimensionamento del divieto di conversione per violazione dell’art. 97, comma 3, Costituzione e della regola del pubblico concorso apre un percorso di forte legittimazione della Corte di Cassazione alle soluzioni interpretative, in molti aspetti coincidenti, che la sentenza del Trib. Siena propone in relazione all’applicazione dei principi e della normativa del diritto dell’Unione europea, come interpretati dalla Corte di Giustizia. La sentenza del Trib. Siena sulla riqualificazione dei contratti a termine nella Scuola La sentenza del Trib. Siena in commento, dunque, non costituisce l’unica esplosiva novità tra le decisioni che si sforzano di dare effettività di tutela ai lavoratori dell’amplissimo bacino del precariato pubblico, particolarmente a quelli che non rientrano né nella categoria costituzionale dei “raccomandati” né in quella degli “eletti”, o a) perché hanno partecipato ad una modalità di reclutamento esclusiva non concorsuale per il reclutamento anche stabile nella p.a. (art. 16 della L. n. 56/1987; personale Ata della Scuola); o b) perché hanno superato come idonei un pubblico concorso e sono stati inseriti in una graduatoria permanente (docenti) o a termine per il reclutamento sia a tempo indeterminato che a tempo determinato, e vengono utilizzati dalla pubblica utilizzazione con rapporti precari ma per carenza stabile di personale; c) o perché hanno superato una procedura selettiva pubblica o concorsuale per l’assunzione a tempo determinato nella pubblica amministrazione, per supplire a esigenze strutturali e non eccezionali e provvisorie di personale. 1118 Indubbiamente, però, la decisione del Trib. Siena acquista particolare valore e significato per la utilizzazione sistematica dello strumento della disapplicazione di norma interna in “deliberato” contrasto con la disciplina del diritto dell’Unione europea di diretta applicazione, con particolare riferimento ai principi di parità di trattamento e di non discriminazione e di effettività della tutela, che trovano fonte normativa diretta non soltanto nel Trattato di Lisbona e nella Carta di Nizza (artt. 20, 21, 30 e 47) ma anche nella disciplina comunitaria “derivata” della clausola 4 dell’accordo quadro allegato alla Direttiva 1999/70/CE, come interpretata dalla Corte di Giustizia. Il potere del Giudice interno di disapplicazione o non applicazione della disciplina nazionale è stato già utilizzato efficacemente dallo stesso Trib. Siena (26) in riferimento alla causale “finanziaria” Poste dell’art. 2, comma 1 bis, D.Lgs. n. 368/2001, nonché, come precisato, dal Trib. Trani in subiecta materia (art. 4, comma 14 bis, D.L. n. 124/1999) in riferimento al mancato riconoscimento degli scatti di anzianità e della progressione di carriera del personale a tempo determinato nel settore della Scuola. Senza dubbio, se lo strumento della disapplicazione di regole nazionali - per lo più indegne sul piano della tecnica, ingiuste sul piano della disciplina dei diritti sociali, immorali e ipocrite sul piano degli obiettivi dichiarati rispetto a quelli opposti taciuti, complessivamente e partitamente indecenti e indecorose per l’ordinamento interno - dovesse trovare massiva utilizzazione e favore da parte della giurisprudenza di merito, il nostro sistema giudiziario potrebbe correre il serio rischio di rendere effettiva la tutela dei diritti dei soggetti più deboli. Si ridurrebbe, così, considerevolmente il ricorso da parte del legislatore a norme dirette o di interpretazione in favore degli abusi di Stato, con incremento significativo della spesa pubblica per obiettivi legittimi e, però, con una corrispondente se non superiore riduzione dei costi erariali per migliaia, decine di migliaia, centinaia di migliaia di controversie di lavoro che non verrebbero più proposte, perché oggettivamente “antieconomiche”: la pubblica amministrazione, infatti, non avrebbe più strumenti efficaci, perché contra legem sovranazionale, per alimentare, governare e poi costringere i giudici a negare tutela sul contenzioso “seriale”. Note: (26) Trib. Siena (Est. Cammarosano), sentenza 23 novembre 2009, in questa Rivista, 2010, 369, con nota di V. De Michele, Il contratto a termine tra giurisprudenza, Collegato lavoro e Carta di Nizza. Il lavoro nella giurisprudenza 11/2010 Giurisprudenza Lavoro a tempo determinato Il pensiero soave, “dolce” e positivo sulla disapplicazione etica e giuridica (27) va, innanzitutto, alle disposizioni del c.d. Collegato lavoro, il D.D.L. 1441quater-F, approvato in via definitiva il 19 ottobre c.a. dalla Camera dei deputati, nonostante ricalchi quasi integralmente il testo già censurato dal Presidente della Repubblica. Vedremo. Nel frattempo, il Giudice senese nella sentenza in commento precisa, come il Trib. Rossano nell’ordinanza di pregiudizialità comunitaria, di aver tentato di seguire i suggerimenti della CGUE nelle due sentenze Marrosu-Sardino e Vassallo e di essersi sforzato, per parafrasare una felice espressione dell’Avvocato generale Jääskinen (conclusioni causa C-98/09 Sorge, punto 68), di «risuscitare fra i morti» una disposizione interna che non è mai stata applicata (come sanzione effettiva), cioè l’art. 36, comma 2 (o 5 o 6), D.Lgs. n. 165/2001. Le condizioni che soddisfano l’idoneità della normasanzione come tecnica antiabusiva sono state individuate nella sentenza “Marrosu-Sardino” nel principio di equivalenza (punto 37: non devono essere meno favorevoli di quelle che disciplinano situazioni analoghe di natura interna), nel principio di effettività (punto 37: non devono rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico comunitario), nel principio dell’efficacia (punto 36: si deve trattare di misure che devono rivestire un carattere non soltanto proporzionato, ma altresì sufficientemente effettivo e dissuasivo per garantire la piena efficacia delle norme adottate in attuazione dell’accordo quadro). In realtà, il Trib. Siena prende atto che l’art. 36, comma 2 (o 5 o 6), D.Lgs. n. 165/2001 (così come la corrispondente norma del precedente D.Lgs. 29/1993) non ha funzionato mai come norma-sanzione, ma come norma-sbarramento, impedendo qualsiasi forma di tutela effettiva al lavoratore precario nel pubblico impiego. La Corte di Giustizia ha sostanzialmente imposto allo Stato italiano (invitando in tal senso i giudici interni) di dare contenuto effettivo ad una norma che solo sulla carta prevedeva il risarcimento del danno, ma che in concreto non è stata mai utilizzata in tal senso. Come si può dare contenuto ad una norma che non è mai stata utilizzata, perché inutilizzabile? Le tecniche interpretative della giurisprudenza di merito, prese in considerazione dal Trib. Siena, sono due: quella del Trib. Genova (stesso Giudice che ha sollevato la questione pregiudiziale nella causa C53/04) con sentenza del 14 dicembre 2006, che individua in via analogica la possibilità di applicare Il lavoro nella giurisprudenza 11/2010 l’art. 18, commi 4 e 5, L. n. 300/1970, una sorta di norma-sanzione per equivalente per complessive venti mensilità di retribuzione globale di fatto; quella del Trib. Rossano con sentenza del 4 giugno 2007, che invece propone la tesi della responsabilità contrattuale. Rileva il Giudice del lavoro che la incertezza interpretativa è massima sul punto e si rende conto, in conseguenza, che la sanzione del risarcimento del danno prevista nella normativa speciale non è idonea a prevenire gli abusi, perché priva di effettività, di proporzionalità, di dissuasività, di equivalenza. E, allora, se non c’è sanzione effettivamente applicabile nell’art. 36, comma 2 (o 5 o 6), D.Lgs. n. 165/2001, come può essere punito l’abuso dello Stato nell’utilizzo di contratti a termini successivi, se permane il divieto di conversione previsto dalla stessa norma per violazione di norma imperativa? Innanzitutto, come la Cassazione nella sentenza 9555/2010, anche il Trib. Siena smonta l’argomento che il divieto di conversione si possa fondare sulla violazione dell’art. 97, comma 3, 1a parte della Costituzione in relazione al pubblico concorso, utilizzando, però, l’argomento opposto rispetto a quello prospettato dalla Suprema Corte. Infatti, la fattispecie delibata dal Giudice di merito è quella di una successione di supplenze di personale docente nella Scuola pubblica, tutte “legittimamente” conferite in base alle graduatorie permanenti istituite con la L. n. 124/1999, con accesso privilegiato nello scorrimento delle graduatorie in favore di chi ha superato come idoneo il corrispondente concorso “abilitante”. Quindi, sostiene il Trib. Siena, il pubblico concorso non costituisce condizione “ostativa” alla riqualificazione del rapporto di lavoro, anche perché per questa tipologia di contratti a termine del personale docente è comunque previsto dall’art. 35, D.Lgs. n. 165/2001 il pubblico concorso che, nel caso di specie, è stato espletato ed ha portato alla formazioNota: (27) Sulla ormai maturata possibilità del Giudice nazionale di disapplicare norme interne in contrasto con la disciplina del diritto dell’Unione europea, anche “in orizzontale” in controversie tra privati, per violazione del principio di parità di trattamento e di non discriminazione nel campo di applicazione di normativa comunitaria “derivata”, v. la sentenza della Corte di Giustizia, Grande Sezione, del 19 gennaio 2010 nella causa C-555/07, su questa Rivista, stesso numero2010, 11, p., con commento di R. Cosio, La sentenza Kükükdeveci: le nuove frontiere del diritto dell’Unione europea. Contesta, invece, l’effettività del riconoscimento dei poteri del Giudice nazionale di intervenire al di fuori del giudizio incidentale di costituzionalità delle leggi nazionali, N. Di Leo, Il Trattato di Lisbona, la disapplicazione e un ordine sistemico delle fonti nel sistema multilevel, su questa Rivista, 2010, 759. 1119 Giurisprudenza Lavoro a tempo determinato ne di una graduatoria cui attingere anche per le assunzioni a tempo indeterminato, oltre che per le supplenze. Peraltro, si trattava di utilizzazione del personale docente con supplenze annuali per fabbisogno permanente di personale, su cui addirittura - con l’art. 1, comma 1, del D.L. n. 134/2009 - il legislatore d’urgenza del decreto salva-anti-precari è intervenuto integrando con il comma 14 bis l’art. 4 della L. n. 124/1999, nel ribadire il divieto di conversione di personale pure dichiaratamente assunto per carenze strutturali di lavoro. Anzi, nello stigmatizzare l’utilizzazione disinvolta da parte del legislatore di norme che finiscono per essere il doppione di quelle già esistenti, il Trib. Siena argomenta dall’introduzione dell’art. 4, comma 14 bis, L. n. 56/1999 la ultrattività del divieto di conversione previsto dall’art. 36, comma 2 (ora comma 5), D.Lgs. n. 165/2001, di cui aveva sospettato l’abrogazione implicita in riferimento alla normativa sopravvenuta del D.Lgs. n. 368/2001 e agli effetti abrogativi delle norme incompatibili con la disciplina di recepimento della Direttiva 1999/70/Ce, previsti dall’art. 11 dello stesso Decreto. D’altra parte, riprendendo sotto altro aspetto il riferimento alla contrattazione collettiva che troviamo nella sentenza 9555/2010 della Cassazione, il Trib. Siena rileva che neanche la normativa contrattuale di comparto risulta ostativa alla conversione dei rapporti a termini successivi, anzi consente espressamente la riqualificazione in rapporto a tempo indeterminato (art. 40, comma 4, Ccnl Comparto Scuola del 20 dicembre 2007 per il quadriennio 2006/2010) del personale docente «per effetto di specifiche disposizioni normative», tra le quali rientrano senza dubbio le conseguenze “sanzionatorie” previste dagli artt.1, comma 2, e 5, commi 3 e 4, D.Lgs. n. 368/2001. E allora, se non è possibile applicare ai precari pubblici una tutela risarcitoria per equivalente, va verificata la possibilità di estendere la stessa tutela “specifica” che opera per i lavoratori dipendenti da datori di lavoro privati, cioè la riqualificazione in contratto a tempo indeterminato del rapporto di lavoro a termine sin dal primo contratto, in caso di violazione dell’art. 1, comma 2, D.Lgs. n. 368/2001 per mancata specificazione o mancanza delle ragioni oggettive, eccezionali e transitorie soprattutto nel pubblico impiego, idonee a legittimare l’apposizione del termine, secondo l’orientamento ormai consolidato della Suprema Corte nella sentenza 12985/2008, che boccia la tesi del rapporto a termine radicalmente nullo e improduttivo di effetti. 1120 La tutela specifica della riqualificazione del rapporto non solo è possibile, perché non vi sono condizioni ostative diverse dal mero divieto di conversione previsto dall’art. 36, D.Lgs. n. 165/2001, ma rappresenta anche la tutela ordinaria rispetto a quella eccezionale per equivalente, sul cui rapporto regola/eccezione il Trib. Siena richiama integralmente l’insegnamento delle Sezioni Unite nella sentenza 145/2006, in riferimento alla disciplina del risarcimento in forma specifica dell’art. 2058 c.c., applicata anche e soprattutto in materia di diritto del lavoro. Non ha dubbi, allora, il Trib. Siena, Giudice comune del diritto dell’Unione europea, a riqualificare in un unico contratto a tempo indeterminato i rapporti a termine successivi del docente supplente, in applicazione del principio di parità di trattamento e di non discriminazione, che trova espresso fondamento non solo nella Carta di Nizza (artt. 20 e 21, in relazione all’art. 30 sull’obbligo di giustificatezza dei licenziamenti, cui la cessazione del rapporto a termine è equiparabile secondo il Giudice nazionale) ma, anche, nella Direttiva 1999/70/Ce e, in particolare, nelle clausole 4 e 5, n. 1, lettera a) dell’accordo quadro comunitario, come interpretate dalla Corte di Giustizia. Conclusioni La soluzione del Giudice del lavoro appare assolutamente condivisibile e niente affatto straordinaria o di diritto giurisprudenziale “creativo”, perché risponde all’applicazione di precise disposizioni di legge e, soprattutto, alla ormai consolidata giurisprudenza della nomofilachia comunitaria. Infatti nell’ordinanza “Vassilakis” (ma già sentenza “Adeneler”, richiamata dal Trib. Trani) della Corte di Giustizia del 12 giugno 2008 nella causa C364/07 si legge testualmente: «In circostanze come quelle di cui alla causa principale, l’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato deve essere interpretato nel senso che, nei limiti in cui l’ordinamento giuridico interno dello Stato membro interessato non comporta, nel settore di cui trattasi, altre misure effettive per evitare e, se del caso, sanzionare l’utilizzazione abusiva di contratti a tempo determinato successivi, esso osta all’applicazione di una norma di diritto nazionale che vieta in maniera assoluta, nel solo settore pubblico, di trasformare in un contratto di lavoro a tempo indeterminato una successione di contratti a tempo determinato che, avendo avuto il fine di soddisfare «fabbisogni permanenti e durevoli» del datore di lavoro, devono essere considerati abusivi». Il lavoro nella giurisprudenza 11/2010 Giurisprudenza Lavoro a tempo determinato Inoltre, la sanzione della riqualificazione in contratto a tempo indeterminato nel pubblico impiego è esplicitamente riconosciuta nella sentenza “Angelidaki” (28) del 23 aprile 2009 nelle cause riunite da C-378/07 a C-380/07: «Quanto alla circostanza fatta valere dalle ricorrenti nel procedimento principale secondo cui, stanti le condizioni cumulative poste dall’art. 11 del decreto presidenziale 164/2004, determinati contratti di lavoro a tempo determinato stipulati o rinnovati abusivamente nel settore pubblico prima dell’entrata in vigore di detto decreto eluderebbero ogni sanzione, occorre ricordare che, in una siffatta situazione, si deve poter applicare una misura che presenti garanzie effettive ed equivalenti di tutela dei lavoratori al fine di sanzionare debitamente tali abusi e di eliminare le conseguenze della violazione del diritto comunitario. Di conseguenza, qualora l’ordinamento giuridico dello Stato membro in questione non comporti, per il periodo considerato, altre misure efficaci a tale scopo, ad esempio perché le sanzioni previste all’art. 7 di detto decreto non sono applicabili ratione temporis, la conversione dei contratti di lavoro a tempo determinato in contratti di lavoro a tempo indeterminato ai sensi dell’art. 8, n. 3, della L. n. 2112/1920 potrebbe rappresentare una misura in tal senso, come sostenuto dalla ricorrente nel procedimento principale nella causa C-379/07 (v., in tal senso, sentenza Adeneler e a., cit., punti 98-105, nonché ordinanza Vassilakis e a., cit., punti 129-137).». Infine, la Corte di Giustizia con sentenza del 22 aprile 2010 nella causa C-486/08 (cit.) al punto 2 delle conclusioni sottolinea il collegamento “strutturale” tra la clausola 5 e la nozione di “ragioni oggettive” e la clausola 4 di non discriminazione, come correttamente ha fatto il Trib. Siena, e precisa in motivazione ai punti 43-46 che «la gestione rigorosa del personale rientra in considerazioni di bilancio che non potrebbero giustificare una discriminazione» tra lavoratori a tempo determinato “tutelati” (nel lavoro privato) e lavoratori a termine privi di tutele o con tutele attenuate (nel lavoro pubblico). È indubbio che l’applicazione all’ordinamento interno italiano dei principi costituzionali e del diritto dell’Unione europea, che sembra così lineare (lo è) e quasi banale (29) nella sentenza del Trib. Siena costituiranno un costo molto elevato, almeno nella fase iniziale, per le finanze pubbliche. Chi scrive, però, è convinto che i benefici che queste soluzioni giurisprudenziali di apparente frattura nel sistema delle fonti arrecheranno allo stato disastroso dell’ordinamento giuridico nazionale saranno così signifi- Il lavoro nella giurisprudenza 11/2010 cative, non solo in termini di effettività delle tutele, ma anche di risparmi fiscali ed economici per uno Stato costretto, suo malgrado, a diventare virtuoso nella spesa pubblica, da compensare ampiamente le maggiori uscite di danaro pubblico, speso per legittime ragioni obiettive di utilità sociale. Note: (28) V. M. Miscione, La Corte di Giustizia sul contratto a termine e la clausola di non regresso, in questa Rivista, 2009, 437; A.M. Perrino, I principi di diritto comunitario e le piroette del legislatore italiano, in Foro it., 2009, IV, 496 ss.; M. Delfino e P. Saracini, Lavoro a termine e clausola di non regresso tra incertezze, conferme e passi avanti, in Dir. Lav. Merc., 2009, 2, 404 ss.; R. Foglia - R. Conti, Contratti a termine nel lavoro pubblico e privato e “clausola di non regresso”, in Corr. giur., 2010, 6, 842. (29) Non lo è, perché il ricchissimo e condivisibile percorso argomentativo del Giudice nazionale sconta sicuramente il travaglio dell’interprete, che non applica una norma di legge ingiusta per applicare regole e principi di tutela effettiva. 1121